Roma italiana, 1870-1895/Il 1881

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Il 1881.



Guido Baccelli ministro — La partenza dei Sovrani per la Sicilia — «Avanti sempre, Savoia!» — Le accoglienze al ritorno — Prime scaramuccie contro il Baccelli — Le vicende del concorso governativo per Roma — La Camera lo approva, mercè la difesa del Sella — L’abolizione del corso forzoso — La complicazione tunisina — Le dichiarazioni del Presidente del Consiglio Burrasca e crise — Il ministero resta tale e quale — Il Comizio dei Comizii per il suffragio universale — Mazziniani ed evoluzionisti — Le divisioni cessano — La dimostrazione non può recarsi al Campidoglio — Il comizio allo Sferisterio — Balli e pettegolezzi — I granduchi di Russia a villa Sciarra — La carità per Casamicciola — Il sor Cencio Iacovacci muore — Lo scompiglio dell’Apollo — Ballerine e coristi al Campidoglio — Pantalone, cioè il Comune, paga — Elezione di don Augusto Ruspoli e rielezione di Guido Baccelli — Voto di fiducia al ministero — Il trattato del Bardo cagiona la crise — La Sinistra impedisce al Sella di formare il Gabinetto — Depretis presidente del Consiglio — La caccia agli italiani a Marsiglia e le interpellanze alla Camera — Si evita un voto — La legge elettorale divisa dallo scrutinio di lista è approvata — Il prestito per l’abolizione del corso forzoso — La medaglia d’oro a Magliani — Il trasporto della salma di Pio IX — I disordini — Agitazione contro le leggi delle guarentigie — Menotti Garibaldi e gli allievi volontari — La morte di Pietro Cossa — L’abiura di monsignor Enrico di Campello — La furia di costruire — Le disgrazie — Le illusioni sull’avvenire di Roma — I lavori — Il viaggio dei Sovrani a Vienna — L’isolamento dell’Italia — Le solennità vaticane — Morti dolorose — Il Baccelli conferisce solennità agli studi e ne cura l’incremento.



Col nuovo anno incominciò per un cittadino romano, per il professor Guido Baccelli, la sua carriera di uomo di governo. Difatti il 1° gennaio egli prestò giuramento nelle mani del Re come ministro della pubblica istruzione.

Di questo fatto Roma si occupò molto. Il primo romano andato al ministero, però soltanto come segretario generale dell’agricoltura, era stato l’on. Michele Amadei; il Baccelli al governo destava grandi speranze e grandi timori, perchè non era uno di quegli uomini che lasciano indifferente il pubblico. Egli aveva amici devotissimi e devotissimi ammiratori, ma anche acerbi nemici e la sua prima sosta al palazzo della Minerva, non fu davvero scevra di applausi nè di denigrazioni. La sera del 1° gennaio egli assisteva al pranzo di gala al Quirinale, e dopo alla magnifica rappresentazione dell’Aida all’«Apollo» ove erano intervenuti i Sovrani, il duca d’Aosta, tutto il corpo diplomatico e le vaghissime dame della Regina, ornate di ricchi gioielli. Gli occhi erano rivolti quella sera su Guido Baccelli, che sfoggiava la sua nuova uniforme con i ricami dorati e il giorno dopo subito incominciò nei giornali e nel pubblico la discussione sulle riforme che egli intendeva portare nell’insegnamento. Gli si attribuivano idee eminentemente romane e largamente liberali così per l’insegnamento elementare, come per quello secondario, e naturalmente anche queste riscotevano applausi e biasimi.

L’on. Baccelli era ministro appena da tre giorni e già i dimostranti andavano ad acclamarlo [p. 278 modifica]sotto le finestre della sua casa in via Monte della Farina. A Roma produceva un grande effetto che uno dei cittadini fosse al ministero, ma per quanto i dimostranti gridassero, il Baccelli non si fece vedere e alcuni suoi amici dissero alla folla che egli non era in casa.

Ma non erano tutte rose quelle che si spargevano sul cammino del nuovo ministro. I giornali gli rammentavano che come cittadino di Roma aveva tre quistioni da risolvere: quella dell’Orto Botanico a Panisperna col prolungamento delle vie Viminale e Milano, desiderio non mai esaudito; quella dell’isolamento del Pantheon, e quella dei restauri al portico di Veio. Vedremo in seguito come queste due ultime questioni si risolvessero sotto il suo ministero.

I Sovrani, dopo i ricevimenti del Capodanno, dopo aver accolto al Quirinale i granduchi di Russia, erano partiti per visitare la Sicilia. Le LL. MM., il duca d’Aosta, il principe di Napoli, il presidente del Consiglio, on. Cairoli, e il ministro della Marina, avevano lasciato Roma col cattivo tempo. A Napoli essi dovevano imbarcarsi sulla «Roma», che sarebbe stata scortata dal «Duilio», il quale navigava per la prima volta, dalla «Principe Amedeo», dalla «Maria Pia» e dalla «Staffetta», che doveva, dopo accompagnati i Sovrani a Palermo, andare a Tunisi a prendere il principe Hussein, nipote del Bey, e la deputazione italiana guidata dal console generale Macciò, che si recavano a far atto d’omaggio al Re.

Il ministro Acton, che era nel treno reale, riceveva alle diverse stazioni di fermata, dispacci da Napoli sullo stato del mare, e tutti quei telegrammi indicavano che il tempo era cattivo e non accennava a migliorare. Il ministro trasmetteva quei dispacci al Re. Uno ne lesse la Regina ed ella, come risposta, vi scrisse sotto col lapis a grandi caratteri: «Il motto della mia casa è: Avanti sempre, Savoia!».

Il mare non sgomentava l’Augusta Dama e i Sovrani s’imbarcarono senza indugio su quella «Roma» che teneva male il mare e aveva un forte rullio, mentre il maestoso «Duilio», che suscitava tante apprensioni, navigava magnificamente e le onde che battevano furiosamente contro i suoi fianchi poderosi, lo facevano appena oscillare.

Moltissime persone avevano seguito i Sovrani nel loro viaggio e fra quelle tutti i deputati e senatori siciliani, e diversi direttori di giornali. A Roma si leggevano avidamente i telegrammi recanti le notizie delle festosissime accoglienze che il Re e la Regina avevano ovunque.

I Sovrani, traversando lo stretto di Messina, andarono in Calabria, e di là si restituirono alla capitale il 28 gennaio alle 2 dopo la mezzanotte. Essi trovarono alla stazione una folla di dimostranti, non sgomentati dal freddo, né dall’ora tarda, e che li seguì con fiaccole fino al Quirinale. Il Principe ereditario, ammalatosi leggermente durante il faticoso viaggio, era rimasto a Napoli per rimettersi, ma pochi giorni dopo tornava a Roma guarito.

La Camera, che aveva preso il lutto per la morte dell’on. Eugenio Corbetta, non incominciò i suoi lavori altro che il 1° febbraio, e l’on. Massari prese subito di mira il nuovo ministro Baccelli accusandolo di ateismo per la nomina dell’Ardigò, e gli on. Giovagnoli e Trinchera lo interrogarono per sapere quali misure intendeva prendere contro il direttore del Museo Kirckeriano, il quale avendo mosso causa per diffamazione al Popolo Romano, che rivelava i gravi disordini avvenuti nel Museo, aveva avuto una sentenza contraria.

Alla prima interrogazione l’on. Baccelli rispose con una certa violenza sostenendo che della fede non doveva curarsi il Governo, al quale spettava soltanto l’affermare impavido l’umano sapere; alle seconde replicò evasivamente. Erano scaramucce quelle e il ministro dovè sostenere in seguito ben più violenti attacchi.

[p. 279 modifica]Ma vediamo quale sorte toccò al Concorso Governativo per Roma, dal quale dipende vano le sorti della capitale.

La Giunta parlamentare che aveva in esame la legge sul concorso governativo per Roma, stabilì di formulare un progetto di legge nel quale fossero distinte le opere governative da quelle municipali, lasciando le prime a intero carico dello Stato, e facendo che questo concorresse per la metà approssimativa della spesa ai lavori municipali.

Le prime e i secondi dovevano essere terminati in dieci anni. Per concretare il progetto nominò una sotto-commissione composta degli on. Nicotera, Sella e Ruspoli.

Dopo alcune sedute su nominato relatore del progetto concreto della sotto-commissione l’on. Sella, ma il Governo si affrettò a dichiarare per mezzo degli on. Depretis, Magliani e Baccelli che non lo accettava in massima, ma riserbavasi a prendere una deliberazione definitiva al ritorno dell’on. Cairoli.

Il presidente del Consiglio restituitosi a Roma ebbe subito un colloquio con il relatore, on. Sella, ma l’accordo fra le idee del Governo e quelle della sotto-commissione non potè conseguirsi.

Il 9 marzo fu aperta la discussione sul famoso progetto di legge e il presidente del Consiglio, che voleva ad ogni costo rispettata la convenzione conchiusa col Comune, tento di nuovo conciliare le proprie vedute con quelle della commissione; si tennero conferenze fra i membri di questa e i ministri, senza risultato. Intanto l’opposizione che faceva la Camera al progetto di legge ne metteva in forse l’approvazione e asserivasi che il Governo volesse sostenere le proprie idee fino al punto di porre la quistione di Gabinetto.

Invece gli on. Massari e Crispi rialzarono con i loro discorsi le sorti del progetto di legge e quando più le sorti di questo parevano minacciate, fu concluso l’accordo fra Ministero e Commissione e il frutto di quell’accordo fu che il Governo avrebbe pagato la somma di 50 milioni in 20 anni, cioè dal 1882 al 1901 a ragione di 2,500,000 lire annue, che nei lavori sarebbe stato compreso il prolungamento della via Nazionale, fino al ponte sul Tevere, e che ad alcuni lavori imposti al municipio se ne sarebbero potuti sostituire altri di egual natura. Ma un’altra difficoltà sorgeva. L’on. Ferdinando Martini, il quale in quistioni d’arte aveva alla Camera e nel paese molta autorità, dichiarò che non avrebbe votato il progetto di legge se da quello non si fosse staccata la costruzione del palazzo delle Belle Arti, perché riteneva dannoso ogni accentramento artistico e credeva che il genio delle diverse regioni italiane dovesse liberamente estrinsecarsi nel campo ove aveva fiorito. Il Sella sostenne efficacemente l’intero progetto, come relatore della Commissione, tessendo la storia delle diverse fasi per le quali era passato, e dimostrando la necessità che Roma soprattutto, perché sede della religione, fosse anche sede della scienza nelle sue possibili lotte con quella. Perciò chiedeva pure che il Parlamento non rifiutasse i tre milioni per il palazzo delle Scienze. Ribattendo le confutazioni dell’on. Martini, sul danno che poteva venire all’arte dall’accentramento in Roma, citava l’esempio delle altre nazioni che avevano qui pensionati artistici, e pure l’arte in quei paesi conservava l’impronta del genio proprio e le tradizioni proprie, e leggeva un brano del Winckelmann, che diceva non potersi avere buona educazione artistica altro che in Roma. L’onorevole Sella terminava ricordando quanti sacrifizi i vecchi parlamentari avevano fatto per aver Roma.

«Il lavoro del primo decennio», aggiungeva, «è stato molto, ma il programma del secondo deve essere di portare la capitale d’Italia a quel decoro che il nome di lei e il grande passato esigono».

[p. 280 modifica]Nuovi emendamenti, come quello dell’on. Crispi, che voleva il palazzo per il Parlamento invece di quello di Giustizia, alla quale sarebbe stato dato quello di Montecitorio, e che fu accettato dalla Commissione, ritardarono il voto. Il progetto di legge fu approvato finalmente il 18 marzo, e il Consiglio comunale votò un ringraziamento ai deputati.

Nella cronaca dell’anno precedente ho accennato alla trepidazione che si manifestò sul nostro mercato, appena si parlò dell’abolizione del corso forzoso. La legge, sulla fine di febbraio, fu votata dalla Camera e il 7 aprile dal Senato a grande maggioranza, cioè con soli 9 voti contrari.

Due importanti riforme: quella del macinato e della abolizione del corso forzoso erano state approvate, ma il ministero era poco o punto sicuro e sentiva addensarsi sul capo la burrasca della occupazione francese della Tunisia, resa possibile dalla sua politica delle «mani libere».

La Francia, che non ignorava la situazione dell’Italia di fronte alle potenze, noiata forse dalle ingerenze indirette che noi volevamo avere a Tunisi e credendo scorgere in esse i prodromi di una politica di protezione, volle affermare la sua supremazia sulla Reggenza, e con mezzi efficaci indurre il Bey a cedere alle sue pretese. Cosi il Governo della Repubblica seppe trovare un pretesto nelle sommosse delle tribù nomadi per occupare Biserta e marciare su Tunisi.

La notizia che i francesi avevano passato la frontiera dell’Algeria ed erano penetrati nel territorio tunisino, gettò l’allarme a Roma e mise in iscompiglio la Camera. Questo avveniva il 5 aprile e appena il presidente del Consiglio, tutto turbato, giunse a Montecitorio, si riunì a conferire con gli on. Rudinì, Massari e Damiani, che avevano presentate interpellanze, per indurli a differirne lo svolgimento al giorno seguente. Essi aderirono alla domanda, ma quel differimento non fu una soluzione per il Cairoli, che si sentiva perduto ed era tanto più afflitto, perchè egli aveva sempre avuto il debole di credersi un profondo diplomatico, e capiva troppo tardi di essere stato abilmente giocato dal marchese di Noailles, e capiva pure che il Cialdini era stato poco meno che menato per il naso a Parigi.

Il 6 l’on. Massari aprì il fuoco alla Camera, garbatamente, come soleva far sempre; scusandosi anzi col dimostrare che gli animi erano inquieti e dovevano essere rassicurati. Egli disse che il Governo francese aveva preparati tutti i mezzi per giungere allo scopo che si proponeva, usando anche di quelli religiosi. Infatti aveva tentato di sostituire al vecchio vescovo di Tunisi un monaco francese, sebbene le sue proposte non fossero state accolte favorevolmente dal Vaticano. «Il Governo italiano, disse l’on. Massari, ha egli adoperato tutti i mezzi che erano in suo potere per raggiungere gl’intenti della nostra politica?»

L’on. Rudinì, come già aveva fatto l’on. Massari, citò la dichiarazione fatta dal sotto segretario degli esteri d’Inghilterra, il quale aveva ammessa la possibilità che l’occupazione di Cipro per parte del suo Governo fosse l’equivalente della concessione accordata alla Francia di occupare Tunisi, e ponendo quella dichiarazione in rapporto con quelle ufficiali francesi, che accennavano ad urgenti provvedimenti da prendersi rispetto a Tunisi, chiedeva spiegazioni tali al Governo da assicurare la Camera che la dignità del paese non era stata e non sarebbe offesa. L’on. Damiani interrogò il Presidente del Consiglio nello stesso senso, e l’on. Cairoli con voce trepidante, e in mezzo al silenzio profondo della Camera affollata, rispose che gli accordi fra la Francia e l’Inghilterra per una eventuale occupazione di Tunisi non erano veri, poiché nel 1878, in via ufficiale chiese spiegazioni su di essi, e gli fu assicurato che non esistevano; eguale risposta aveva avuto recentemente dal Governo inglese.

In mezzo ai comenti più svariati, l’on. Cairoli continuò a parlare ed io riassumo il suo discorso:

[p. 281 modifica]L’ambasciatore italiano nuovamente interpellato in seguito alle voci che correvano nei giornali, rispose che Lord Salisbury negava assolutamente che alcun accordo fosse passato. Recentemente poi sono state fatte dalla Francia dichiarazioni che intendeva di mantenere in Tunisi lo statu quo. Ora siamo davanti a un avvenimento improvviso, impreveduto e che non si connette punto alle vertenze che esistevano in Tunisi. Ecco la versione ufficiale che si dà di quei fatti dal Governo francese: Le aggressioni delle tribù tunisine si erano fatte sempre più frequenti contro gl’indigeni algerini: aggressioni che generarono conflitti, nei quali trovarono la morte alcuni ufficiali e soldati francesi. Il Governo francese ha dichiarato di trovarsi nella necessità di dare un esemplare gastigo, perché non si rinnovassero questi fatti, facendo marciare truppe verso la frontiera. La versione tunisina porta pure che sono veri i conflitti sanguinosi al confine. Non si può dunque impedire alla Francia di togliere di mezzo la ragione di quelle aggressioni, tenendosi peraltro nei limiti di questo scopo. Una dichiarazione ufficiale è stata fatta dal ministro Barthélemy de Saint-Hilaire all’ambasciatore italiano. Con questa dichiarazione il ministro afferma che tutto si riduce alla repressione, nei modi soliti, delle tribù insorte ed alla protezione della ferrovia Bona-Guelma, tendente a Tunisi.

Il ministero italiano prende atto di queste dichiarazioni con la calma che porta la grave responsabilità che gli avvenimenti potrebbero portare in avvenire. È utile e salutare anche per i nostri rapporti con la Francia, che essa sappia tutto il valore di quelle dichiarazioni. Noi siamo nel diritto di credere che esse vogliano dire che difendendo essa i suoi interessi non cambierà la situazione politica della Reggenza, senza che l’Italia ed altri paesi se ne risentano. L’Italia e l’Inghilterra, come sono d’accordo nel modo di apprezzare molte altre questioni, lo sono anche nella questione di Tunisi. Per questa comunanza d’intendimenti il ministro esclude vivamente l’accusa d’imprevidenza. Si è parlato di equivoci; ma la condotta e la politica del Governo, prudente e dignitosa a Tunisi come dovunque, è stata approvata dai Governi stranieri.

Quasi ogni parola del discorso Cairoli, incominciato fra il silenzio della Camera, suscitò dinieghi, bisbigli, disapprovazioni. Nessuno degli interpellanti fu soddisfatto delle imprudenti e puerili dichiarazioni; l’on. Damiani presentò una nozione di sfiducia sulla politica del Governo, che fu stabilito sarebbe discussa il giorno seguente. Gli on. Zanardelli, Lovito e di Gaeta proposero di ritardare quella discussione per allontanare la burrasca, il ministro dell’interno fece un inutile sforzo nello stesso senso, ma troppi erano i nembi addensati sulla testa del Cairoli; egli cadde trascinando seco tutto il Ministero, e cadde per la coalizione di alcuni capi del suo partito. Si parlò allora di un Gabinetto Sella e il Re infatti chiamò il deputato di Biella e l’on. di Rudinì al Quirinale. Questo semplice fatto operò il miracolo di far cessare nel partito di Sinistra tutte le discordie, di ricondurre l’accordo fra i capi, tanto che il Sella in una visita successiva dovette consigliare al Sovrano di conservare l’on. Cairoli e tutto il Gabinetto. Il timore del ritorno della Destra al Governo produsse subito la più bella unione nel partito avverso.

L’on. Cairoli non voleva accettare quella soluzione ma il Depretis poté indurlo a piegare il capo con lo spauracchio del Sella al potere.

Prima che la legge elettorale giungesse alla Camera era cominciata l’agitazione per il suffragio universale e fu stabilito di tenere a Roma il Comizio dei Comizi al quale si voleva indurre Garibaldi ad assistere. L’on. Bovio inaugurò la riunione con una conferenza all’«Argentina». La questura impedì l’affissione dei manifesti e vi andò poca gente. Ma non erano le dotte e platoniche elucubrazioni del professore napoletano quelle che impensierivano il Governo, sibbene le manifestazioni per l’Irredenta che potevano avvenire nel comizio, le quali avrebbero peggiorate sempre più le nostre [p. 282 modifica]relazioni con l’Austria, già tanto tese. I deputati repubblicani Cavallotti, Bovio, Aporti, Arisi, Basetti, Saladini e Giovagnoli, avevano messo la firma sotto il manifesto del comizio, non così l’on. Agostino Bertani, al quale forse non parve prudente l’invito fatto al popolo, di scendere in piazza.

Il giorno 10 i delegati dei vari comizi venuti da diverse parti d’Italia, si riunivano alla Sala Dante. Ma Garibaldi non vi era. In quella prima seduta i delegati si divisero in due campi e avvennero fra di loro scene violente. Da un lato stavano i mazziniani, dall’altro gli evoluzionisti. Questi dicevano: domandiamo il suffragio universale; con questo mezzo otterremo tutto il resto, non spaventeremo nessuno e ci risparmieremo i fulmini della polizia. I primi invece affermavano il sacro e imprescindibile diritto del popolo alla rivoluzione. Per essi il suffragio universale era questione secondaria; la prima era quella di toglier di mezzo la Monarchia. Brusco Onnis, vecchio rivoluzionario, capitanava i mazziniani; Alberto Mario, garbato e cortese rivoluzionario, gli evoluzionisti, ed egli trionfò sull’avversario con una sessantina di voti.

Nella seconda seduta i due partiti si conciliarono e insieme formularono un ordine del giorno così concepito:

«Il Comizio dei Comizi adunato in Roma, presenti i delegati di cento comizi e di mille e duecento associazioni popolari, ritenuto che nella inalienabile sovranità del popolo riposa il nuovo diritto pubblico, e che è dovere della democrazia promuoverne la rivendicazione, invita il popolo a riconquistare il suffragio universale come uno dei diritti costitutivi di quella sovranità, da cui sorge la legge della nuova vita italiana»).

I promotori e firmatari di quest’ordine del giorno furono: Giovanni Bovio, Felice Cavallotti, Edoardo Pantano, Vincenzo Brusco Onnis, Lorenzo Costaguta, Antonio Fratti, Pietro Turco, Alberto Mario, cioè quattro mazziniani e quattro evoluzionisti. L’on. Cavallotti lesse una lettera di Garibaldi con la quale si dichiarava repubblicano e favorevole al suffragio universale. L’on. Bovio rammentò che Garibaldi rappresentava Trento e Trieste e propose un saluto all’Italia irredenta, che fu accolto con applausi.

Fu pure approvato un ordine del giorno della signora Anna Maria Mozzoni, sostenuto dai mazziniani e combattuto da Luzzatto e Colaianni, con il quale il comizio riconosceva «cosi nell’uomo come nella donna l’integrità del voto».

Nell’ultima seduta fu poi deliberato di recarsi il domani al Campidoglio per presentare al popolo il voto del comizio, invitandolo a un plebiscito che, cominciando da Roma, sarebbe stato promosso poi in tutte le città italiane.

Il questore Bacco fece subito affiggere un manifesto col quale proibiva la radunanza al Campidoglio. Appena il comitato del comizio ebbe avviso del divieto, invitò il popolo allo Sferisterio per votare in quel luogo l’ordine del giorno del comizio.

Il popolo andò allo Sferisterio, fu invitato a votare, alzò le mani e il Comizio dei Comizi si sciolse senza fare la dimostrazione al Quirinale, senza provocare disordini e neppure una interpellanza alla Camera sul divieto della riunione al Campidoglio.

Balli ve ne furono moltissimi in quell’anno a Corte, in case private, alle ambasciate d’Inghilterra, di Germania, d’Austria e anche alla Legazione Giapponese, nel palazzo in via della Mercede, addobbato dal ministro, principe Nabreshima, con sfarzo orientale, ma il numero dei balli fu inferiore a quello dei pettegolezzi che essi suscitarono. In casa Fiano, ove andarono i Sovrani, le ambasciatrici non furono invitate alla cena reale e quattro di esse se ne andarono prima che il Re e la Regina si ponessero a tavola. Allora ciarle e discussioni che fecero prendere alla Corte la [p. 283 modifica]determinazione di non cenar più in nessun luogo. Al ballo Pallavicini non erano stati invitati i ministri. Questi si recarono dal Re e lo indussero a non andarvi. Il principe Pallavicini saputo del ripicco mandò l’invito a cinque ministri e scrisse una lettera alla Libertà per difendersi. L’invito era giunto tardi e i Sovrani non intervennero al ballo. Allora si cominciò a dire che i Sovrani non dovessero andare altro che alle ambasciate, e alcuni giornali fecero una campagna per provare che la loro presenza in case private poteva esporli a noie. Ma la Corte continuò ad andare ov’era andata sempre, senza badare alle polemiche.

Quell’anno il Principe di Napoli fu iscritto al Collegio militare, ed il Re gli dette come governatore il colonnello Osio, serio e colto ufficiale, che ha diretto sempre l’educazione del Principe Reale finchè questi non ha raggiunto la sua maggiore età. Il Principe dismise allora il costume di torpediniere e incominciò a vestire la divisa degli alunni dei collegi militari e ad uscire in carrozza di corte con livree rosse, accompagnato dal suo governatore.

I Granduchi di Russia passavano l’inverno a Villa Sciarra facendo vita ritirata. Il granduca Paolo, venuto a Roma per salute, usciva meno del fratello Sergio, il quale talvolta faceva escursioni a cavallo accompagnato dai suoi aiutanti di campo. Il 13 marzo il granduca Sergio era appunto andato a visitare il campo delle corse, allorchè l’ambasciatore Uxkull recò a Villa Sciarra l’annunzio dell’attentato allo Czar e della morte di lui. Il granduca Paolo, già molto sofferente, fu dolorosamente colpito da quella notizia, e appena vide tornare il fratello gli si gettò nelle braccia piangendo. I granduchi partirono la sera stessa per Pietroburgo e il Re, mandò loro le sue condoglianze. Appena avuta comunicazione ufficiale della morte del Sovrano, la Corte spedì in Russia una missione straordinaria composta del vice-ammiraglio Martin-Franklin, del colonnello Leitnitz e del cerimoniere comm. Simone Peruzzi, Giunta a Pietroburgo la missione si pose agli ordini dell’ambasciatore Nigra, il quale aveva avuto incarico speciale di rappresentare il Re ai funerali di Alessandro II.

Una ventina di giorni dopo, il granduca Paolo, sempre più sofferente, tornava a Villa Sciarra ed era frequentemente visitato dal conte Schouwolow, inviato a Roma da Alessandro III, per notificare al Re la propria assunzione al trono. In maggio giungevano pure i granduchi Sergio e Costantino, ma la presenza dei tre Principi russi non si avvertiva quasi a Roma, tanto essi evitavano di farsi vedere osservando rigorosamente il lutto. Soltanto prima di partire per Napoli andarono al Quirinale a far visita di congedo al Re, il quale si recò dopo a Villa Sciarra a salutarli.

Il Papa, che cercava di riannodare le relazioni diplomatiche con la Russia, fu largo verso di loro di cortesie, fece illuminare i Musei Vaticani, affinchè potessero visitarli di sera, e concesse molte decorazioni al seguito dei Granduchi. Essi ne ottennero per i funzionari pubblici; anche il prefetto Gravina ebbe la croce di Sant’Anna. Lasciarono doni agli ispettori di pubblica sicurezza e fecero distribuire danari alle guardie e ai carabinieri che avevano fatto il servizio a Villa Sciarra. Era avvenuto, mentre i Granduchi erano qui, il primo terribile disastro di Casamicciola, che aveva destato con sì nobile slancio la carità cittadina, ed essi mandarono 500 lire all’Associazione della stampa, che si era fatta iniziatrice della magnifica festa al Costanzi.

Il teatro di via Torino aveva avuto la singolare ventura di riuscir simpatico al pubblico. I veglioni erano stati affollati, animatissimi ed eleganti, e la festa della stampa per Casamicciola vi richiamò per più giorni una quantità di persone.

Un’altra festa di beneficenza fu quella che dette il principe Torlonia per inaugurare l’asilo infantile di Sant’Onofrio, asilo veramente modello, che non è altro che una delle tante benefiche istituzioni che portano il nome del munifico patrizio romano.

[p. 284 modifica]Ai primi d’aprile morì l’Iacovacci, il noto impresario dell’Apollo conosciuto da tutti a Roma per il Sor Cencio. Egli morì così povero, dopo essere stato impresario per più di quarant’anni, che fu sepolto nella fossa comune e lasciò un debito col Comune di 95,000 lire. Peraltro ebbe un accompagnamento magnifico, degno di un principe, e dietro al suo carro funebre, coperto di ricche corone, si vedevano signori, consiglieri comunali, impresari, direttori d’orchestra, poveri coristi e uno stuolo di figuranti e ballerine. Il funerale fu fatto a San Salvadore in Lauro e la campana che suonò per la prima volta in quell’occasione era stata ordinata dall’Iacovacci per l’Apollo. Egli non aveva potuto pagarla e quando gli occorreva per uno spettacolo, prendevala a nolo. Poco prima che egli morisse, la campana fu comprata dal parroco, e sentendola suonare la prima volta, mentre il cadavere del Sor Cencio entrava in chiesa, il popolino ripetè con maggior insistenza che mai che il povero impresario era «jettatore e jettato».

L’Iacovacci era stato bene con i neri prima e con i bianchi poi. A tempo del Papa ogni momento faceva fare dimostrazioni in teatro con le bandierine bianche e gialle; venuto il 1870 ideò la marcia delle bersagliere nel Flik-Flok che gli fruttò immenso denaro. Vittorio Emanuele lo proteggeva e gli voleva bene e il «Sor Cencio» era tutto gongolante quando poteva mettersi la croce di cavaliere datagli dal Re. Tutti i maestri lo conoscevano e gli volevano bene perchè era intelligentissimo e bonario. Anche col Verdi era andato d’accordo e gli aveva messo in scena i Due Foscari, il Trovatore e il Ballo in Maschera.

Il Sor Cencio morì a tempo. Egli non ebbe il dolore di veder demolire l’Apollo in conseguenza dei lavori del Tevere, nè di veder l’Argentina assurgere a teatro comunale. Ma egli lasciò molte noie al Comune e dopo la sua morte le auguste gradinate del Campidoglio furono salite e scese di continuo da ballerine e da coristi che chiedevano di esser pagati ed erano irritati al massimo grado. Ma il Sindaco ebbe ben altre noie. Da una parte il vestiarista voleva mettere al sicuro la sua roba e gli eredi Iacovacci lo impedivano, vantando la proprietà di certi fiori e di certa tarlatana. Di qui proteste, intervento di guardie e reclami al Sindaco, e mentre questo accade, si presentano ballerine e ballerini a ritirare oggetti di loro proprietà e le guardie non lo permettono. Allora essi mostrarono di essere più agili di lingua che di gambe, e come se tutto ciò non bastasse, ecco i professori d’orchestra, che dovevan suonare la sera al Costanzi e volevano i loro strumenti.

Come ho detto, tutti questi litigi finivano nell’anticamera o nel gabinetto del Sindaco, al quale non mancavano neppure le lettere irritate della gente che aveva pagato e trovava il teatro chiuso.

Il Pianciani pagava un po’ il fio delle spensieratezze commesse nella precedente sua amministrazione, ma le pagava care. Egli propose di dare a ballerine e ballerini, che più strillavano, 80 lire. Alcuni dovevano averne 200 o 300 e furenti andarono al Campidoglio. Il buon Randanini, segretario del Sindaco, era assediato da mime e mimi, ballerine e ballerini, comparse e tramagnini. Gl’impiegati uscirono tutti fuori a goder della scena, e pareva che quella gente volesse anche scendere a vie di fatto contro il povero paciere, quando comparve l’assessore Luigioni. Su lui piovve una valanga di recriminazioni, tanto che dovette rifugiarsi nel suo ufficio e farlo difendere dagli uscieri. Il Sindaco chiamato di fretta, ricevè una deputazione, ma le cose non si accomodarono lì per lì. Il municipio pagò lesinando a chi l’intera paga, a chi metà, ma contentato alla peggio il corpo di ballo, ebbe alle costole pittori, fornitori di accessorii, vestiarista, coreografo, cantanti e anche la signora Lucca per il nolo della Regina di Saba. Il Comune fece transazioni, ma [p. 285 modifica]finì per fuori i quattrini e credo che sul debito delle 95,000 lire, ingrossate da tutti questi sborsi, abbia dovuto fare un crocione.

Per tre volte il Senato aveva bandito un concorso per le pitture a fresco della sala gialla e per le due prime nessuno dei bozzetti presentati era stato prescelto. La terza volta si presentarono al concorso i pittori Serra, Bruschi, d’Agostino, Mariani, Santi, Brugnoli e Cesare Maccari. Quest’ultimo raccolse i voti dei commissari giudicanti: Ussi, Bertini, Bompiani, Ratto, Barabino, Iacovacci, Masini, Monteverde, Costa, Perrini, e Tabarrivi, e al pittore senese fu affidato l’incarico di eseguire le pitture.

A deputato del 2" collegio, rimasto vacante per le dimissioni del Lorenzini, fu eletto don Augusto Ruspoli, nel 3" fu confermato con splendida votazione il ministro Guido Baccelli, che seppe meritarsi le lodi degli amici e degli avversari per la cura con cui seppe condurre i lavori d’isolamento del Pantheon.

Il Ministero si ripresentò alla Camera tal quale il 28 aprile e l’on. Cairoli espose come si era svolta la crise e aggiunse che ottenuto l’accordo della Sinistra, si volle evitare un cambiamento d’indirizzo nel Governo per non compromettere le riforme già in parte attuate.

Gli on. Zeppa e Odescalchi gli rammentarono che il 7 aveva avuto un voto di sfiducia, e in questo senso parlarono altri e proposero diversi ordini del giorno ostili. Il Governo accettò quello dell’on. Mancini che diceva: «La Camera, sollecita di compiere le iniziate riforme e prendendo atto della dichiarazione del ministero, passa all’ordine del giorno». La Camera era in quel giorno numerosissima. Infatti votarono per il ministero 262 deputati 146 si astennero dal votare.

Il giorno stesso i francesi occuparono Biserta. Questo fatto era un commento molto significativo alle parole pronunziate dal Cairoli, e poco dopo il Bey firmava il trattato del Bardo, funestissimo per l’Italia.

Il Ministero, senza condurre in porto la legge elettorale, dette le dimissioni, e al Sella fu affidato formale incarico di formare il Gabinetto, ed egli fece pratiche per mettere insieme un gabinetto di coalizione. Ma allora si vide lo stesso giochetto di un mese prima, le stesse trattative fra i cinque capi della Sinistra per concludere l’accordo, e diminuirono così per il Sella le probabilità di comporre il Gabinetto; tanto più che gli uomini di Sinistra che egli aveva scelti, volevano che fosse rispettata integralmente la legge elettorale con lo scrutinio di lista, cosicchè egli, il 20 maggio rassegnava nelle mani di Sua Maestà il mandato e questo era conferito all’on. Depretis, il quale prima della fine di maggio presentava al Re i nuovi ministri, che erano: l’on. Mancini agli esteri, l’on. Zanardelli alla grazia e giustizia, l’on. Berti all’agricoltura, l’on. Ferrero alla guerra. Ma il ministero era appena composto che il general Ferrero e l’on. Magliani davano le loro dimissioni perchè il Ferrero con una nota all’Italia Militare, aveva dimostrato la necessità di nuove spese. Questo dissidio fu composto e il Ministero presentavasi alla Camera il 2 giugno annunziando nuove spese straordinarie per l’esercito; in quel tempo fu ripresa la discussione della legge elettorale. Quando questa era quasi giunta in porto, ecco che avviene a Marsiglia la così detta «caccia agli italiani» e subito l’on. Massari presenta un’interpellanza al ministro degli esteri. Roma era turbata da quel fatto e tutti erano impazienti di conoscerne i particolari. Il Mancini rispose quello che già si sapeva, cioè che i soldati francesi reduci dalla Tunisia erano stati fischiati passando dinanzi al Circolo Italiano, il quale non aveva esposto la bandiera; che riteneva quei fischi rivolti al Circolo, ma la folla supponendo che di lì partissero, aveva inveito contro i nostri connazionali [p. 286 modifica]e aveva abbattuto lo stemma di esso Circolo, nonostante che le autorità italiane c le francesi si fossero adoperate per impedire quel fatto.

Nuove notizie giunsero da Marsiglia sulla contro dimostrazione francese, sull’insulto alla nostra bandiera e si parlava vagamente di un gran numero di morti e feriti. L’eccitamento crebbe e gli on. Billia e Nicotera presentarono due interrogazioni al ministro degli esteri, il quale rispose nella seduta del 21 giugno che le collisioni fra operai italiani e francesi erano state gravi e si avevano a deplorare quattro morti e diciassette feriti. Peraltro bisognava esser calmi perchè il Governo francese aveva intenzione d’impedire il rinnovarsi di quei fatti. Egli poteva affermare che i rapporti fra i due paesi erano benevoli e concilianti, e che il giorno prima il ministro degli esteri di Francia aveva avvertito esser pronto ad entrare in negoziati con l’Italia per la conclusione del trattato di commercio e navigazione.

Alla Camera non ci fu voto, per non aggravare la situazione, e non si discusse neppure una interrogazione presentata dall’on. Francica su alcuni arresti di dimostranti avvenuti la sera prima. Quei dimostranti, col pretesto di acclamare il conte Pianciani, che era riuscito eletto insieme con molti clericali, volevano terminare con una chiassata contro la Francia, che il ministro dell’interno seppe impedire. L’interrogazione Francica venne in discussione il giorno seguente, quando ormai la dolorosa impressione erasi calmata.

In quella stessa seduta fu votata la riforma elettorale. All’ultimo momento il ministro dell’interno aveva abbandonato lo scrutinio di lista e la Camera stabilì che se ne facesse oggetto di uno speciale progetto di legge. Con questo giochetto l’on. Depretis pareva volesse acquistar tempo senza rinunziare alla promessa fatta, e intanto evitare dalla Camera un voto negativo.

Abolito il corso forzoso, era necessario contrarre un prestito per far ritornare l’oro in Italia e imprudente sarebbe stato in quel momento aprir negoziati con la Francia. Il prestito fu assunto con la Banca Nazionale la quale poi trattò col Credito Mobiliare e con le case inglesi Baring, Hambro e Raphael e con altri gruppi finanziari. La quota d’oro era di 640 milioni; la parte del prestito riservata all’Italia di 2.44, quella per l’estero di 400. Il prezzo era di 88,23 con godimento della rendita 1° gennaio 1882. L’emissione doveva farsi i giorni 11, 12 e 18 luglio e tutta l’operazione esser terminata entro il settembre.

Già nel luglio una parte degli stipendi agli impiegati fu pagata in oro e un gruppo di ammiratori presentò all’on. Magliani una medaglia d’oro nella quale da un lato era inciso il ritratto del ministro con una dedica e dall’altro si leggevano queste parole: «Profondo economista, insigne finanziere, liberò l’Italia dalla tassa del macinato e dal corso forzoso».

La calma estiva fu turbata da un fatto doloroso. Come ho detto, la salma di Pio IX era stata provvisoriamente tumulata in San Pietro, ma per volontà testamentaria del Pontefice quella salma doveva essere sepolta definitivamente nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura. Per eseguire il trasporto fu scelta la notte dal 12 al 13 luglio, e il conte Vespignani, per incarico dei cardinali esecutori testamentari del defunto Pontefice chiedeva al Prefetto l’autorizzazione del trasloco della salma, dichiarando che il convoglio si sarebbe composto di un carro tirato da quattro cavalli e di poche carrozze. La sera a tarda ora, presente il Capitolo di San Pietro, il collegio dei Cardinali, il Rettore della chiesa di San Lorenzo ed alcuni dignitari della Corte pontificia, fu scalzata dai sampietrini la lapide della tomba provvisoria, da quella venne tolta la triplice cassa, che deposta su catafalco basso era aperta. Dopo di questa si apriva la seconda e quindi la terza, e riconosciuto il cadavere si rogava l’atto di consegna della salma, che veniva firmato dagli eminentissimi Mertel, [p. 287 modifica]Simeoni e Monaco La Valletta, esecutori testamentari di Pio IX, da quattro canonici di San Pietro, dal Rettore di San Lorenzo e da molte altre persone fra cui il conte Pecci, nipote di Leone XIII.

Terminato quest’atto, la salma venne coperta con la coltre rossa e posta che su dinanzi all’altare della cappella del Capitolo, monsignor Folicaldi la benedì. Quindi fu trasportata sul carro funebre, tirato da quattro cavalli, che aspettava all’uscita della sagrestia. Dietro a questo erano sette carrozze. Nella prima prese posto monsignor Folicaldi col parroco del Vaticano, nella seconda quattro canonici di San Pietro, cioè i monsignori Negrotto, della Volpe, Casali e di Bisogno, nella terza monsignor Ricci maggiordomo del Papa, nella quarta i protonotari apostolici, e nelle altre il Rettore di San Lorenzo e alcuni dignitari della Corte pontificia.

Quando il corteo sboccò in piazza San Pietro vi era radunata una folla enorme e riunita una processione di circa 2000 fedeli con fiaccole e ceri in mano, che si pose dietro alle carrozze per accompagnare la salma recitando preci fino a San Lorenzo.

Le cose andarono bene fino a piazza Rusticucci, ma qui si cominciò a sussurrare fra la folla contro la provocazione dei clericali; questi fecero udir gridi di viva il Papa-Re e allora i sussurri si convertirono in urli ostili e cominciò il parapiglia. Ma dove la cosa si fece seria fu a Ponte Sant’Angelo. Il carro rimase separato dal resto del corteo, e fu un miracolo se i gridi «a fiume! a fiume!» non furono seguiti dal tentativo di toglier la cassa di sul carro. La folla che stava spettatrice del passaggio del corteo, non capiva nulla di tutto quel parapiglia, che accadeva fra la gente in coda di rondine e il popolaccio, e correva via sgomenta, mentre la turba degli schiamazzatori ingrossava sempre e in più punti della città si azzuffava coi clericali. I selci volavano e intanto quel carro imponente, a tutta corsa, quando trovava la via sgombra, dirigevasi verso San Lorenzo. A piazza di Termini ci fu una vera zuffa e anche lì il carro quasi per miracolo potè continuare la via per il Campo Verano.

Molti curiosi si trovavano sulla piazza quando vi giunse, trattenuti a distanza dai carabinieri e dalle guardie, che avevano chiesto rinforzi. L’apparire del carro fu salutato da fischi e urli, e nacque un nuovo tumulto. Si udirono gli squilli di tromba; le guardie fecero spenger le torce e, ottenuta un po’ di calma, la pesantissima cassa potè esser tolta di sul carro, posta su un carretto e spinta nella chiesa con grande precipitazione. In San Lorenzo la salma fu ricevuta da molti signori clericali, dai soci della confraternita della Morte, da quelli dell’Immacolata Concezione, dai cappuccini e dal capitolo, nonché da molte signore.

Fu rogato l’atto di consegna, e appena spinta la cassa nella cripta, s’incominciarono i lavori di muratura. Sulla lapide era stata incisa una semplice epigrafe come avevala dettata il Papa nel suo testamento,

La cerimonia terminava alle 3 e mezza di mattina, ma si può asserire che nessuno in quella notte andasse a riposare a Roma, tanto la città era stata turbata da quelle scene indecorose.

I giornali clericali, benchè la provocazione fosse partita dai loro e fosse stato appurato che molti fra quelli che seguivano il corteo erano ex-gendarmi e portavano armi, non ebbero più freno nel biasimare i fatti avvenuti, e il Governo aveva una grandissima paura delle complicazioni che essi potevano suscitare, e con un comunicato cercò di attenuarli. Il ministro Mancini inoltre inviava subito un dispaccio ai nostri ambasciatori e ministri all’estero. Furono arrestati sei schiamazzatori, c subito si pronunziarono contro di essi condanne esorbitanti, che suscitarono non poche proteste e altre dimostrazioni impedite. Al Senato mossero interpellanze al ministro dell’interno gli on. Alfieri [p. 288 modifica]e Cambray-Digny, e il Depretis assicurò che il Governo non era stato avvertito che il trasporto si volesse fare con pompa, e che non poteva dire di dove fossero partite le provocazioni; aggiunse di avere ordinata una inchiesta per sapere se la responsabilità dei disordini spettava all’autorità politica o a quella di pubblica sicurezza.

Naturalmente dopo quei fatti, nei giornali avanzati venne in ballo la discussione della legge delle guarentigie, e la Lega della Democrazia domandò che fosse abolita, e invocò un’agitazione popolare in quel senso. I clericali risposero invitando i loro amici a un pellegrinaggio di protesta alla tomba di Pio IX, che fu impedito dalla questura, e il cardinale Jacobini mandò una circolare ai nunzi per richiamare l’attenzione dei Governi sui fatti accaduti la notte del 13.

Frattanto i radicali si riunivano per chiedere l’abolizione della legge sulle guarentigie, e a Roma si formò un comitato, il quale tenne un’assemblea sotto la presidenza di Alberto Mario. In quell’assemblea fu stabilito di promuovere un’agitazione in tutta l’Italia e di tenere numerosi comizi popolari, come si era fatto per la riforma elettorale.

Ai primi di agosto il Papa pronunziava una allocuzione di protesta contro i fatti del 13 luglio. L’allocuzione era stata pubblicata dai giornali clericali. La sera del 7 agosto adunavasi il comizio.

Quella pubblicazione parve una nuova sfida. Nel comizio al Politeama Romano si tennero discorsi violenti e tutti i giornali che li riprodussero furono sequestrati, specialmente per le parole pronunziate da Alberto Mario e per la votazione dell’ordine del giorno da lui proposto. La sera la questura impedì a piazza Colonna una piccola dimostrazione come coda del comizio, e represse anche pochi gridi monarchici. Il ministro dell’interno non voleva assolutamente dimostrazioni in piazza; nei luoghi chiusi discutessero pure, ma non all’aria aperta.

Però, per opera di Alberto Mario, l’agitazione contro le leggi delle guarentigie si estese a molte parti d’Italia, e finalmente il Governo vi pose rimedio pubblicando una nota nella Gazzetta Ufficiale con la quale esprimeva la ferma risoluzione «di concordare con tutti i legittimi mezzi di piena ed efficace tutela, la sicurezza e l’indipendenza del Sommo Pontefice e l’indipendenza della sua sovranità spirituale, reprimendo ad un tempo le offese alla unità ed alla sovranità nazionale».

Questo era parlar chiaro e l’agitazione si calmò, ma prima ancora che il Governo avesse espresso la sua opinione, un’altra se n’era manifestata. Menotti Garibaldi aveva fatta efficace propaganda per la istituzione degli allievi-volontari, che mirava ad armare la gioventù. A Roma il battaglione si era costituito e aveva chiesto un ufficiale e i fucili al ministero della guerra.

Menotti Garibaldi andò più oltre, e chiese per gli allievi volontari una divisa. Il ministero rispose che «pure apprezzando i motivi patriottici ai quali si erano ispirati gli iniziatori, era dolente di non potere accordare la richiesta autorizzazione, sia perchè le leggi non permettono la costituzione di corpi armati non dipendenti direttamente dal Governo, sia perchè esso Governo aveva provveduto ad una larghissima educazione militare con le leggi sul reclutamento, sul tiro a segno, e con altre che intendeva presto presentare al Parlamento».

Nonostante che il ministero della guerra parlasse cosi, l’on. Baccelli tollerava che gli allievi-volontari continuassero a far gli esercizi nel cortile del Collegio Romano, e il 18 settembre Menotti Garibaldi vi andò e rivolse ai giovani un discorso poco conforme alle disposizioni governative, e fece distribuire loro una medaglia, che doveva servire di distintivo.

Il 25 gli allievi-volontari dovevano riunirsi fuori Porta Maggiore, quando il Prefetto fece sapere al Vice-Presidente dei Reduci che la riunione non sarebbe stata tollerata. La Gazzetta Ufficiale già aveva riprovato l’agitazione ed espresse le opinioni del Governo ostili alla nuova istituzione.

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Da una fotografia dei fratelli Alinari
VIA NAZIONALE COL TEATRO DRAMMATICO
[p. 291 modifica]Alla fine d’agosto una dolorosissima notizia si sparse per la città. Pietro Cossa, il più popolare fra i poeti romani, anzi l’incarnazione vera della rediviva romanità, era morto a Livorno, ov’era andato per assistere alla rappresentazione dei suoi Napoletani nel 1793. Egli nasceva da modesta famiglia, ma aveva avuto la ventura di possedere uno zio abate, dotto latinista, il quale gli dette l’amore per gli studi, e non gli fece leggere altro che autori classici. Era stato educato al Seminario romano. Ardentissimo liberale com’era, Pietro non potè alla lunga andar d’accordo con lo zio. Una volta fu arrestato all’uscir da una predica alla Chiesa Nuova per aver interrotto un predicatore con un solenne: «non è vero», e partì con una compagnia di cantanti per l’America, ove invece di allori raccolse fischi. Lasciò il canto per darsi alla commedia, ma anche recitando la fortuna non gli sorrise; la compagnia fallì, ed egli dovė tornare a Roma, ove conobbe i due Gnoli, il Ciampi e altri letterati liberali. A Roma era noto per il Mario e i Cimbri, ma nel resto d’Italia non acquistò fama altro che dopo il 1870 col suo Nerone, che fece il giro di tutti i teatri, ovunque applaudito, e che aprì il varco agli altri suoi drammi. Pietro Cossa era adorato dagli artisti, dai letterati, da tutti quelli con i quali poteva parlare spontaneamente, come dettavagli la sua anima d’artista, e tutti vollero rendergli un ultimo tributo d’affetto accorrendo ai suoi funerali. Si parlo subito di erigergli un monumento, di dare il suo nome al Valle, ma il Baracchini, che voleva comprarlo con l’intendimento di dargli il proprio, non lo permise. Vi è una strada che è denominata Pietro Cossa e vi è un’arena. L’oblio non ha steso il suo velo sulla nobile e geniale figura del poeta romano, ma il tempo ha attenuato gli entusiasmi che le sue opere suscitarono, e mitigato il rimpianto della sua perdita. Nonostante se vien fatto di nominare Pietro Cossa in un circolo di Romani, tutti gli occhi si animano e dalle bocche, per solito poco loquaci, escono lodi spontanee per l’uomo, per l’amico e per l’artista.

Alla metà di settembre un fatto insolito dette luogo a vivi comenti, soprattutto nel campo clericale. La sera del 15, monsignor conte Enrico di Campello, canonico della Basilica Vaticana, abiurò il cattolicismo nella chiesa evangelica metodista di piazza Poli. Una quantità di gente assistè alla cerimonia ed ascoltò il lungo ed eloquente discorso col quale l’ex-monsignore motivò la sua renunzia. Questa renunzia fu preceduta da una lettera al cardinal Borromeo, arciprete della Basilica, nella quale esponeva i fatti, che dopo dieci anni di matura riflessione, d’interne irrequietezze e di di speranze deluse, lo avevano indotto a quell’atto per quiete della propria coscienza.

I giornali clericali parlarono poco e cautamente dell’abiura, però pubblicarono una lettera violenta del conte Paolo di Campello, cugino del conte Enrico, estranea al fatto, nella quale sciorinava al pubblico molte faccende dolorose di famiglia. Il conte Enrico rispose per le rime, ma non si lasciò intimorire dalla guerra che gli fecero; fondò insieme col Savarese una chiesa a Roma e credo segua la sua vocazione in una città dell’Umbria.

Approvato che fu il Concorso Governativo, la febbre dei lavori incominciò ad invadere il pubblico. Tutti sognavano che Roma dovesse diventare popolata come Parigi, che dovesse rapidamente svilupparsi come fece Berlino dopo il 1870, e che Ponte Milvio, San Paolo, Sant’Agnese, Monte Mario, il Gianicolo, San Lorenzo, e anche Frascati non fossero punti tanto eccentrici per essere compresi nella città. Vigne lontane, orti, terreni da pascolo erano acquistati al prezzo di terreni fabbricativi, rivenduti per somme maggiori, spogliati di alberi per coprirli di case o di opifici. Non soltanto s’impegnavano in audaci imprese le ditte costruttrici che già avevano condotto a termine lavori importanti a Firenze o qui, ma ogni accollatario, ogni capomastro si faceva costruttore, acquistava il terreno e spesso, facendo a meno della direzione di un architetto, gettava le [p. 292 modifica]fondamenta di case immense, e le tirava su alla peggio, con grave pericolo degli operai e con danno dell’arte.

Per questo erano frequenti lo disgrazie. In via Volturno rovinò una volta e vi rimasero morti sette lavoranti, e uno gravemente ferito. La disgrazia commosse i muratori, tutti si lagnarono, ma non per questo si pose un rimedio alle affrettate costruzioni, perché la sete del pronto guadagno padroneggiava la gente. Chi arricchiva allora davvero erano i Romani, proprietari delle vigne, degli orti e dei terreni da pascolo; i costruttori che già speculavano sulle case e le rivendevano spesso con lauti guadagni, facevano anch’essi i signori e maneggiavano molto danaro, ma contraevano nello stesso tempo impegni fortissimi con le banche, che li aiutavano con grande facilità. Ma nessuno ammetteva la possibilità di un disastro finanziario. L’oro tornava in Italia dopo l’abolizione del corso forzoso, il Governo concludeva un vantaggioso trattato di commercio con la Francia fino al 1887, si credeva che tutta l’Italia fosse sulla via della prosperità e che di quella prosperità soprattutto dovesse risentirne Roma ampliandosi, abbellendosi, facendo affluire qui industriali e capitali.

In quel tempo non pareva neppure un’utopia l’esposizione mondiale e la gente più assennata prestava il suo appoggio al signor Cesare Orsini.

Per dare una idea dei sogni cui tutti si abbandonavano riassumerò un progetto del quartiere del Testaccio, presentato dalla seria ditta costruttrice Marotti e Frontini al municipio. Essa aveva costruito già la linea del tramway da San Paolo e ideava di prolungare quella fino alle Tre Fontane. I Marotti e Frontini, subentrati nei diritti e negli obblighi del contratto fra la ditta Picard e il municipio e dopo aver comprato molti terreni di proprietà Torlonia, presentava un progetto che comprendeva una stazione ferroviaria, i magazzini generali per la conservazione delle merci e delle derrate, il quartiere per le abitazioni operaie, le aeree per gli stabilimenti industriali privati, per i depositi dei legnami e del petrolio, e il progetto per la costruzione del Campo Boario e del Mattatoio.

Con questi grandiosi criteri si procedeva dovunque; pareva che ai Romani d’oggigiorno fossero saliti al cervello i fumi dell’antica grandezza e che essi volessero la Roma moderna rivaleggiasse per ardite imprese con l’antica.

Anche il vecchio Sferisterio, teatro di lotte incruente, di scommesse fra giocatori di pallone e di assemblee popolari, fu demolito. Il principe Barberini lo vendè al signor De Dominicis, il quale vi edificò i palazzi che fronteggiano il ministero della guerra, che era in costruzione in quel tempo. Si costruivano pure le case che vanno fino a quello delle Finanze, quelle di molte strade del Macao, di piazza dell’Indipendenza; quelle di Prati più prossime al Ponte di Ripetta e quelle di via della Polveriera.

La via Nazionale era stata selciata con grave spesa; si lavorava ai grandi collettori per lo scolo delle acque, si riallacciava Roma con Albano e con Anzio, si costruiva il tramway per San Giovanni, ferveva la discussione sul piano regolatore, sul punto ove doveva sorgere il Palazzo di Giustizia, e il Genio militare stabiliva l’area che doveva occupare la piazza d’armi. Facevasi strada anche nel pubblico l’idea di avere un teatro drammatico stabile, e alcuni signori fra i quali il marchese Theodoli e don Giovanni Borghese riunivano a quello scopo un capitale ingente.

L’on. Ruspoli dal canto suo faceva una questione d’amor proprio che Roma avesse nel 1882-83 la promessa esposizione artistica e per conseguenza il palazzo delle Belle Arti; l’on. Baccelli metteva mano ai restauri del Portico di Veio e prima che l’anno terminasse si apriva nei locali del Museo Agrario la mostra dei bozzetti per il monumento a Vittorio Emanuele, che dette un risultato negativo.

[p. 293 modifica]Le relazioni con l’Austria si facevano sempre più tese e il ministero sperò che una visita del Re e della Regina alla corte di Vienna potesse migliorarle. I Sovrani partirono da Monza alla fine di ottobre accompagnati dai ministri Mancini e Depretis e furono entusiasticamente accolti, ma pochi giorni dopo che erano tornati il ministro degli esteri, Kallay, fece nel seno delle delegazioni a Vienna un discorso, che dimostrò che il viaggio era stato inutile, e che i ministri italiani non avevano concluso nessuno accordo. Poco dopo, il principe di Bismarck tenne pure un linguaggio acerbo contro l’Italia. Inoltre Gambetta prese la difesa del trattato del Bardo e l’Inghilterra dimostrò chiaramente che delle faccende del nostro paese si disinterassava del tutto. Quando si riaprì la Camera e venne in discussione il bilancio degli esteri si capì, dalle dichiarazioni dell’on. Mancini, che eravamo più isolati che mai, nonostante l’amicizia con tutti, anzi appunto per questa, e il paese s’impensierì della mancanza d’indirizzo nella politica estera.

In Vaticano vi furono grandi solennità per la canonizzazione di quattro santi, fra cui il Labre; il Papa scese in San Pietro per ricevere i pellegrini italiani, ma non vi furono disordini. In poco volger di tempo erano morti i cardinali Caterini, Morelli, Giannelli e Borromeo; al posto di quest’ultimo, che era arciprete della Basilica Vaticana, fu nominato il cardinal Howard, per deferenza verso il Governo inglese, col quale la Santa Sede aveva riannodate relazioni ufficiose.

Anche la corte aveva fatto una perdita dolorosa, con la morte del conte Castellengo, e il patriziato romano una pure con la morte immatura di don Bosio Sforza-Cesarini, conte di Santa Fiora, uomo di nobile carattere e amato da tutti. Vecchissimo morì anche quell’anno un altro patrizio, che aveva abbracciato le idee radicali. Intendo parlare del generale Filippo conte della Rovere.

Sul finire del 1881 fu nominato sindaco il conte Pianciani, che destava in molti giusti timori per il poco ordine che aveva lasciato altra volta in Campidoglio, ma al quale si riconosceva una grande attività adatta per portare a termine i tanti lavori iniziati. Dalla Giunta fu accolta male la sua nomina ed essa si dimise in massa.

In quell’autunno fu tenuto in Roma il VII congresso dei medici comunali; notevolissima in quel congresso fu la lettura della memoria del professore Scalzi sulla salubrità delle grandi città, e specialmente di Roma.

Il Baccelli al ministero faceva di tutto per dare importanza e maestà agli studi. Egli condusse il Re ad assistere a una lezione dell’Università; condusselo alla distribuzione delle medaglie per la gara d’onore al Collegio Romano; fece inaugurare dai Sovrani l’esposizione dei bozzetti per il monumento a Vittorio Emanuele. Egli non perdeva di vista le riforme vagheggiate e intanto riordinava su nuove basi la Giunta Superiore di Belle Arti, si occupava di rintracciare le costruzioni intorno al Pantheon e dava incremento alla Biblioteca Vittorio Emanuele, istituendo la sala di lettura per i periodici, costruendo l’aula terrena nell’antico refettorio dei Gesuiti, e nominando bibliotecario Domenico Gnoli; il ministro creava pure la scuola tecnica Giulio Romano. Egli era sicuro per un certo tempo di rimanere al suo posto, perché il Governo erasi molto rafforzato sul finire dell’anno e quella sicurezza gli faceva spiegare una grande attività.