Roveto ardente/Parte prima/II

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II

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II.

L'indomani Flora scrisse a sua madre una lettera appassionata, e la risposta giunse, a volta di corriere, chiusa entro una busta di grande formato abbondantemente listata a lutto e scritta sopra un foglio di cui i neri margini contrasta vano col colore azzurro dell'inchiostro e col pro fumo acuto di verbena.

«Io avevo sedici anni — così la lettera esordiva — allorché tuo padre, il mio compagno di letto, alla cui memoria tributo oggi lacrime e fiori, mi udì cantare la parte di paggio nel Faust di Gounod. Tuo padre mi amò, io lo amai; egli m'offerse la sua mano e io scesi dal mio piedestallo di artista e giurai fede all'uomo prescelto dal mio cuore. Tu nascesti dal nostro amore, tu fosti il sorriso e l'orgoglio della nostra unione, tu, mia Flora adorata, che porti nel nome il pro fumo della tua giovinezza».

Flora, leggendo quelle righe con occhi bagnati di pianto non pensava certo a domandarsi come [p. 31 modifica] mai sua madre fosse già artista provetta a sedici anni e perchè mai avesse abbandonato il marito, al quale offriva adesso, con tanta lirica munificenza, il postumo e metaforico tributo di lacrime e fiori.

D'altronde la lettera proseguiva dicendo che la felicità non può èssere eterna, che il destino spietato si era frapposto fra lei e la sua pace, che là miseria era sopraggiunta, che il vecchio conte non aveva saputo misurare quanta fiera delicatezza potesse albergare nell'anima di un'artista e che ella aveva deciso di calcare nuova mente le scene per ricostruire il patrimonio devastato della famiglia Vianello.

Dove e quando Adriana avesse cantato, come e perchè il patrimonio della famiglia avesse subito viceversa l'ultimo crollo, mercè le sue frequenti domande di danaro, la scrittrice evitava di precisare, ammantandosi di mistero dietro il velo di molte perifrasi lasciate a mezzo.

«Tuo padre, che mi teneva in giusto conto, non cedette alle pressioni di chi mi odia (il chi era sottolineato e si riferiva evidentemente al vecchio suocero) e m'ha lasciato in retaggio il sacro diritto di portare il suo nome. Il nome dei Via nello e il titolo di contessa mi appartengono e nessuno, te lo giuro, riuscirà a spogliarmene.»

E, forse, per mostrare con quale accanimento si sentisse affezionata al titolo nobiliare del de funto, ella si firmava:

«Tua madre, contessa Adriana vedova Via nello».

Nelle lettere successive Adriana parlava a più riprese dell'onorevole Riccardo di Montefalco, commendatore, deputato, uomo superiore e di [p. 32 modifica] largo censo, persona oltre ogni credere stimabile e ragguardevole, intelligente, istruita e affezionata, amico zelante e devoto, pronto in ogni emergenza a spendere il proprio danaro e la propria autorità a vantaggio di una signora, rispettabile anch’essa e ragguardevole, ma sprovvista di mezzi di fortuna e bisognosa di protezione disinteressata.

Non c’era lettera di Adriana, in cui l’onore vole di Montefalco non facesse la sua pomposa apparizione, preceduto da parecchi aggettivi, fiancheggiato dai titoli di commendatore e deputato, seguito dalle più iperboliche frasi d’imperitura riconoscenza.

Si sarebbe potuto supporre che certe lettere di Adriana fossero state scritte di preferenza per essere lette dall’amico presente, anziché dalla figliuola lontana, la quale provò uno strano senso di malessere allorché la madre le accluse la minuta di un bigliettino eccessivamente espansivo, che Flora dovette copiare a malincuore e a malincuore spedire all’onorevole. Ma del sacrificio Flora venne compensata ad usura quando, tre giorni dopo, ricevette la fotografia di Adriana vestita in gran lutto, con le bende vedovili formanti cornice intorno al viso paffuto ed audace. La posa della persona, ritratta in piedi col fianco lievemente appoggiato al dorso di una seggiola, era così molle, la gonna, a mezzo strascico, aderiva con tale sapienza sopra la curva delicata del fianco, il corpetto, a grandi risvolti di crespo, secondava con tale sagace compiacenza il volume del seno e il cerchio sottile della vita, i capelli si alzavano con ondulazioni tanto graziose e morbide intorno all’ovale del viso, la bocca s’inarcava nel riso con tanta procace giocondità, [p. 33 modifica] e dagli occhi, languidamente socchiusi, partiva un così insistente invito al piacere, che l’abito vedo vile sembrava essere stato indossato per celia in un momento di allegria.

Flora peraltro, nella sua completa ignoranza di cose mondane, non discusse, nè analizzò. Ella aveva di fronte a sè l’effigie della madre che adorava coll’impeto dell’anima irrequieta e fluida già precedentemente turbata da strane crisi sentimentali.

Verso i dodici anni era stata presa da un amore inconsapevolmente torbido per la figura del Nazareno, dipinta da un artista grossolano sullo sfondo dell’altar maggiore nella chiesa parrocchiale di Novillara, dov’ella si recava allora ogni giorno per assistere alla cerimonia del mese mariano.

Flora non riusciva a spiegarsi il proprio sentimento, ma talora avrebbe voluto trasformarsi nei ceri dell’altare per ardere e consumarsi ai piedi di quella dolce figura, protesa verso di lei in atto benigno; talora avrebbe voluto dileguarsi in alto, col fumo dell’incenso saliente dal turibolo, per lambire coll’aroma la tunica del Redentore, e, ascendendo lentamente a spire oltre la cornice del quadro, avrebbe voluto perdersi al di là dei balconi ogivali nell’azzurro del cielo, sopra il cui fondo opalino le rondini formavano larghi e volubili rabeschi neri; talvolta avrebbe voluto morire lentamente presso l’immagine adorata, a guisa delle rose che appassivano entro le snelle coppe e che, fra il tepore dei ceri, si sfogliavano con melanconica sommissione, esalando un profumo incerto, appena percettibile in mezzo all’eccitante aroma dell’incenso e all’onda di odori che la campagna mandava dall’ampia porta spalancata. [p. 34 modifica]

Oh! la gioia ansiosa di quei fragranti pomeriggi quando a lei pareva di volare, andando dalla casa bianca alla bianca chiesuola per la via maestra, fiancheggiata dai rami penduli del biancospino. E l’aria, maliziosamente giuliva, faceva oscillare in atto scherzoso le spighe ancora verdi, e le case della città di Pesaro, adagiate in lontananza presso l’Adriatico, somigliavano a cigni usciti dall’onda per offrire le ali aperte ed immote all’aurata blandizia del sole primaverile; e il mare brillava come uno specchio all’estremo limite dell’orizzonte, e in larghi sinuosi giri le collinette si allargavano coi declivi ammantati di verde, con le cime piamente incoronate di ulivi, mentre vicino, più vicino, le foglie dei gelsi rilucevano e coppie di farfalle volteggiavano in tenui danze, facendo rapida sosta or sui fili del l’erba presso il margine della via, ora sui petali di qualche fiore silvestre. Ed ella arrivava nella chiesuola, s’inginocchiava presso l’altare, balbettava parole confuse all’immagine e rimaneva palpitante, turbata, felice e timida, agitata dai so spiri, la pupilla natante nell’estasi, timorosa di venire sorpresa dall’altrui sguardo, provando nelle vene il fermento di tutte le tentazioni del maggio fecondatore.

Verso quell’epoca l’avevano chiusa in convento e Flora, per alcun tempo, aveva pianto secrete lacrime, pensando alla radiosa immagine che, tra i lumi seguitava, lei assente, a diffondere la soavità del mite occhio ceruleo sui fedeli proni lungo la navata disadorna della chiesa campestre; poscia la giovanetta era stata improvvisamente presa d’amore per la maestra di ricamo, una suora trentenne dal viso pallido e fine, sulla cui delicata [p. 35 modifica] melanconia i neri occhi tenebrosi spandevano una luce intensa, mentre la bocca dolente e stanca si apriva di rado, a parole brevi, sui piccoli denti aguzzi, incastonati nelle gengive esangui.

Flora, che leggeva allora avidamente e di soppiatto, i romanzi prestati a lei con mille astuzie da una compagna esterna, aveva architettato, a sua foggia, tutta una storia sul conto della maestra di ricamo; una storia bizzarra dove le in certe nozioni della vita reale si deformavano grottescamente nello sfondo chimerico creato dalla fantasia. La tenerezza di Flora per suor Maria Gesù raggiunse i confini patologici di una vera passione. La scolaretta spiava ogni gesto della maestra di ricamo, si metteva in agguato per in contrarla, piangeva di collera alla menoma preferenza accordata da Suor Maria Gesù a qualche altra alunna, arrossiva, tremava, socchiudeva gli occhi con espressione di beatitudine solo che la mano diafana di Suor Maria Gesù le sfiorasse i capelli. Ma un giorno, senza transazione, per il dono di una immagine sacra fatto dalla suora a un’altra fanciulla, ogni sentimento di affetto era caduto dall’anima di Flora e una freddezza sprezzante e muta aveva sostituito le recenti espansioni.

Tolta di collegio e trasportata nell’assoluto isolamento della casa bianca, ella trascorreva intiere giornate perduta nel sogno, a navigare per entro il caos di vapori luminosi, in mezzo a variopinte larve evanescenti che dileguevano con bagliori repentini e si trasformavano in nuove parvenze sempre più instabili e ingannevoli. Ma, da alcuni mesi, qualche cosa di reale si andava precisando in mezzo allo scompiglio dei fantasmi evocati dal suo pensiero. I vapori luminosi si dischiudevano, si [p. 36 modifica] allontanavano, e sullo sfondo di essi la figura di Germano Rosemberg appariva gigante in bagliori di apoteosi.

Il suicidio del padre, allontanandola un mo mento dal mondo delle chimere, le aveva fatto provare il bisogno di aggrapparsi ad affetti concreti, sinceramente sentiti, sinceramente manifestati; onde la corrispondenza epistolare con sua madre le riposava il pensiero e le trasfondeva il senso di benessere che si prova appoggiando il piede sopra la terra solida, dopo essere rimasti a lungo sulla tolda di un bastimento sballottato dai flutti.

Adriana intanto coglieva il destro per chiedere accortamente alla figliuola se l’argenteria di fa miglia ci fosse ancora e se il grosso brillante, che i Vianello da molte generazioni si erano tra mandato di padre in figlio, fosse custodito ancora gelosamente dal conte Innocenzo.

Anzi, a proposito del magnifico gioiello, Adriana aveva ornato di patetiche parole il desiderio di conservarlo presso di sè, quale emblema del suo crudele dolore per la fine tragica del marito; ma Flora, che, pur di soddisfare a un desiderio di sua madre, si sarebbe gettata nel fuoco, aveva frugato, aveva indagato ed era venuta a sapere che P argenteria di famiglia, i pizzi di Fiandra, il grosso brillante, tutto era stato sacrificato per dilazionare la vendita all’asta della casa bianca, coperta d’ipoteche.

Quando Adriana allora, in una lettera breve ed irosa, si era scagliata contro il vecchio imbe cille, che divorava abusivamente le ultime briciole del patrimonio per tenere lontani i creditori da quella sconquassata bicocca del malaugurio, [p. 37 modifica] Flora si era sentita pungere da meraviglia paurosa, come se, camminando placida in fida compagnia, si fosse accorta che la mano da cui traeva sostegno la sospingeva verso l’orlo di un precipizio. Ma altre lettere, tutte saviezza e soavità, erano sopraggiunte a dissipare ogni ombra.

Il vecchio conte rimaneva estraneo a tale carteggio, trascorrendo il tempo seduto e curvo sotto la enorme cappa del camino, dove grossi ceppi ardevano perennemente, sorretti dai rustici alari.

Il conte Vianello, già così vigile, di cui gli occhi grifagni giravano instabili sotto le ispide sopracciglia a scrutare i volti ed i cuori, e di cui la voce tuonava nella minaccia o suonava breve e recisa nel comando; egli, di cui la volontà era stata, per settantanove anni, lucida e tagliente come una falce, e di cui la memoria era come uno specchio, dove il lungo passato si rifletteva integro e distinto, ora non aveva più sguardo, non aveva più voce; tra la sua memoria ed il passato una densa cortina era discesa; una densa cortina al di là della quale le vicende trascorse si agitavano in modo confuso, segnando appena qualche ombra fugace o qualche rapido ondeggiamento.

Durante i quattro mesi trascorsi, dall’istante in cui egli era scoppiato in singhiozzi al cospetto del cadavere di suo figlio suicida, pareva che l’ombra della notte, di una notte senza palpito di stelle e senza promessa di alba, si fosse avanzata dietro le spalle del conte e stesse già per avvolgerlo entro il mistero delle sue pieghe impenetrabili.

Flora, la quale andava leggendo le vite dei Santi in quell’ultima serata di carnevale fredda [p. 38 modifica] e nevosa, ebbe forse il presentimento dell’oscurità che si addensava dietro le spalle del nonno, perchè lasciò cadersi sulle ginocchia il volume e guardò intorno a sè attentamente, quasi a scrutare ogni angolo. La vasta cucina era silenziosa: il fuoco nel cantino languiva e i due ceppi laterali si erano orlati circolarmente di cenere, serbando solo nel centro un’accesa chiazza.

La giovanetta si passò a più riprese la mano sugli occhi, poi s’immerse di nuovo nella lettura del libro, narrante le centomila astuzie del demonio per indurre alla perdizione ora un pio anacoreta macerato dai digiuni, ora un santo monaco, di cui la carne sanguinava per il cilicio. Le gherminelle dello spirito maligno erano inesauribili. Talvolta il demonio si trasformava, presso lo speco dell’anacoreta, in lussureggiante cespuglio di rose aulentissime e l’odore di esse infiltravasi per tutte le vene del penitente con sottile magìa; ma l’anacoreta spruzzava di acqua benedetta il cespuglio, e le rose putivano ed il cespuglio cadeva al suolo incenerito, e una be stia, dalle grandi corna, spariva, urlando di dolore, nello spazio. Talvolta il demonio si trasformava in vasello d’unguento aromatico, che il monaco si trovava sottomano nel punto che più le carni gli doloravano livide e sanguinanti. L’unguento era così tenue in vista, così bianco e odoroso, che il monaco mal resisteva alla tentazione di ungerne le piaghe del suo corpo; ma l’Angelo Custode scendeva in suo soccorso, il monaco faceva tre volte il segno della croce sul vasello e l’unguento ardeva subito di una fiammella azzurrognola, e dalla fiammella usciva un demonio dalle membra contorte che andava [p. 39 modifica] pazzando pei muri della cella, finché usciva dal l’angusta finestra con fragore di tuono.

Flora, leggendo le gesta del maledetto nella semioscurità del tetro stanzone, era scossa da brividi di paura.

Forse chissà che, all’improvviso, non balzasse dalle pagine del volume ingiallito, un essere piccolino e deforme, panciuto come otre, dalle gambe esili e bislenche, dai piedi biforcuti, dal corpo villoso, dalla barbetta di capra e dalle lunghe corna, mobili come fiamme, a sommo del muso orecchiuto? Chissà!

Lo sportello in legno della finestra, collocata quasi a livello del suolo, venne urtato da colpi violenti. Flora lasciò cadérsi di mano il volume e non trovò nemmeno la forza di alzarsi, tanto i ginocchi le tremavano.

— Flora, apri!

Era la voce di Balbina, e Flora corse ad aprire» liberata per incanto dalla sua stolta paura.

La famiglia Tebaldi, composta del padre, della madre e di Balbina, entrò, scuotendo la neve rimasta attaccata ai vestiti ed ai larghi ombrelloni verdi. Insieme ad essi entrò il dottore Giani con la persona solida e tozza avvolta nelle pieghe fluenti del mantello nero, che gli scendeva fino alle calcagna e gli dava uno strano aspetto di cospiratore.

Il Tebaldi aprì con furia il cappotto e si gettò verso la nuca il cappello di feltro scuro. Sentiva sempre caldo e bastava guardarlo per comprendere subito che egli, pure dedicandosi con alacre tenacia alle fatiche dei campi per rendere più vistosi i proventi del suo vasto podere, amava i [p. 40 modifica] grassi bocconi che ungono il palato e il vino generoso che riscalda il sangue.

— Una messa di meno per l’anima e una pietanza di più per il corpo — soleva egli dire, ed il suo corpo, infatti, aveva una capace forma tondeggiante, le gote erano lustre e gli occhi, azzurri, sporgenti come quelli della figlia, avevano sempre un certo luccichio di allegrezza ridanciana sotto le palpebre imbambolate.

Giovanni Tebaldi, senza curarsi di augurare al conte, mezzo addormentato, la buona sera, pro seguì col dottore Giani la disputa iniziata lungo la strada.

Appena quei due s’incontravano, cominciavano a lanciarsi di comune accordo insulti e vituperi, mettendosi a vicenda i pugni chiusi sotto la faccia, vociando, sbuffando, gesticolando, traendo dal gergo villereccio i più formidabili aggettivi per esalare la innocuità della loro rabbia.

— Già, precisamente, pare che la mia terra voglia allargarsi; pare che io ne comperi un altro pezzo — ricominciò il Tebaldi con aria di sfida, cacciandosi le mani nelle tasche degli ampi calzoni e righe e impostandosi sulle brevi gambe arcuate.

— La mia terra! — esclamò il dottore, gonfiando le gote e rifacendo il verso a Giovanni.

— La mia terra! Sua altezza il principe dei miei bottoni ingrandisce la sua terra! — poscia, cambiando tono e alzando sulla punta dei piedi la persona piccola, urlò sotto la faccia congestionata di Giovanni:

— Ma non vuoi capirlo, cretino, che la terra non è nè tua, nè mia?! La terra è di tutti e quel pezzo che tu chiami tuo te lo sei rubato; capisci bene, rubato! [p. 41 modifica]

— Come rubato? — gridò Tebaldi. — Mio padre lo ha pagato fior di quattrini quel pezzo di terra — e si batteva il pugno sul petto, a testimoniare con giuramento la provenienza legittima della sua proprietà.

— E tuo padre i quattrini dove li ha presi? Tuo padre se li è forse coniati da sè i quattrini?

Giovanni rimase un attimo sconcertato, perchè, veramente, la provenienza della fortuna di suo padre non era troppo limpida, ma si ricompose e vociò con foga:

— Li ha guadagnati in America. Tutti sanno che mio padre ha fatto fortuna in America!

— Oh! bravo! In America! — esclamò il dottore con sarcasmo. — Il paese dei galantuomini! Basta che uno si senta prudere le unghie e corre subito in America. Ma, dimmi un po’, perchè tanti poveri diavoli tornano dall’America più miserabili di quando sono partiti?

— Perchè sono imbecilli!

— No, perchè rispettano le tasche altrui! Giovanni allungò il Anso con espressione di completa indifferenza:

— Questo conta zero. La terra comperata da mio padre è mia e me la tengo.

— Fino al giorno che verranno a pigliartela.

— Chi? Quando? Se la metteranno forse sotto il braccio la mia terra, non è vero?

— Non se la metteranno sotto il braccio. Cacceranno via te a pedate.

— A me? Io, per tua regola, le pedate le do, non le piglio.

— Andiamo, non fare il gradasso. Vorrò vederti quando saranno in mille, diecimila ad al lungare il piede contro di te! [p. 42 modifica]

— E i gendarmi? — gridò Giovanni, trionfante per aver trovato l’argomento decisivo — Credi tu che i gendarmi lasceranno arrivare sino a casa mia i tuoi diecimila farabutti?

Il dottore sputò con impeto verso la finestra.

— Ecco per i tuoi gendarmi. Noi li inghiottiremo i gendarmi.

Un riso inestinguibile scosse la persona obesa di Giovanni.

— Ma i gendarmi sono duri di pelle, caro mio, e non si lasciano inghiottire, credi a me. Saranno essi a divorarsene cento per volta delle tue canaglie. —

A questo punto ciascuno dei due si dette a ripetere gli stessi argomenti con le parole medesime: il dottore avanzandosi alla testa di migliaia di terribili cenciosi, armati di piccone: Giovanni appiattandosi dietro una triplice fila di gendarmi dal pennacchio rosso e le carabine spianate.

Clelia, abituata a simili dispute, ascoltava tranquilla, limitandosi a sorridere silenziosamente di orgoglio e di compiacenza ogniqualvolta il ma rito scagliava al dottore la magica parola «gendarme».

Dal suo mite viso di pecora non traspariva nè stanchezza, nè impazienza, nè curiosità. Il marito avrebbe potuto seguitare a scalmanarsi fino al l’alba, che ella non avrebbe battuto ciglio.

Balbina intanto, appartata con Flora all’angolo estremo dello stanzone, si era tolto il pesante scialle e approfittava della disattenzione dei genitori per aprirsi di più la scollacciatura del corpetto.

— Io sarò vestita anche meglio della mae[p. 43 modifica]stra — ella diceva a Flora, mentre appuntava in fretta, cogli spilli, le ripiegature dello scollo. — La maestra avrà un vestito turchino, ma il mio è più turchino del suo, ed è stato cucito in città — e girava lentamente intorno a sè stessa perchè Flora avesse agio di ammirare la gonna di un azzurro greve, carica di falpalà, e il giacchetto a sbuffi, troppo tirato nel petto, troppo largo nella vita, reso anche più massiccio da una pellegrina bianca fatta all’uncinetto e guernita in fondo da una frangia a nappettine che, per l’amido, stavano isolate e rigide, simili ai piombini pendenti dal tombolo di un merletto.

— Ti pare che io stia bene vestita così?

— Sì, sì, benissimo — rispose Flora, la quale, d’altronde, aveva anch’essa un assai rudimentale concetto dell’eleganza femminile.

— Questa sera nella sala del Comune ci sarà folla e balleremo fino a giorno — Balbina disse, poscia, dopo avere sbirciato dalla parte del pa dre, proseguì con un lampo di cupidigia negli occhi chiari:

— Credo che ci sarà anche Germano Rosemberg —

— Ma Germano sarà andato a passare l’ultima sera di carnevale in città — rispose Flora, uscendo immediatamente dalla sua apatica condiscendenza.

— No, no, Germano è qui, nella sua villa. L’ho saputo dal giardiniere.

— Ah! sei in relazione col suo giardiniere? — chiese Flora, non riuscendo a vincere il dispetto e aggrottando l’arco sottile delle sopracciglia.

— Sicuramente — rispose Balbina, ridendo in aria di trionfo e mostrando nel riso i denti fe[p. 44 modifica]lini e le gengive accese. — Quando il giardiniere di Rosemberg passa davanti a casa nostra, io gli offro sempre un bicchier di vino. Il giardiniere, in compenso, mi porta spesso dei fiori. Vedi? Queste due camelie rosse vengono dalle serre di Germano; è come se me le avesse date lui. Le vuoi? — e lo scherno le brillava negli occhi sporgenti.

Flora, con rapido gesto irriflessivo, strappò le camelie dal petto di Balbina e le strinse irosa nelle piccole mani; poscia, dopo averne rotto il gambo e sgualciti i petali, le porse all’altra, dicendo:

— Riprendile adesso!

Balbina arrossì e impallidì, il viso le assunse una espressione di cattiveria concentrata, e, calpestate col piede le due camelie che Flora aveva lasciato cadere in terra, disse a bassa voce, mordendosi il labbro superiore.

— Mi ricorderò di tutto, non dubitare. Ricordati di tutto anche tu e saprai dirmi, un giorno o l’altro, se io pago bene i miei debiti — e, cambiando tono, soggiunse allegra:

— Del resto, con o senza Germano Rosemberg, i ballerini non mi mancheranno.

Era vero. Le quattro feste che, durante il carnevale, un impresario da strapazzo organizzava nel salone del Comune di Novillara, rappresentavano per Balbina quattro successi, diremo così, mondani. I bellimbusti del contado circostante facevano a gara per tenersi nelle braccia quella ragazzona bianca e tonda, che ballava dimenandosi tutta sui fianchi superbamente arcati.

— Dunque vogliamo andare? — chiese Giovanni, non trovando più epiteti ingiuriosi da opporre agli epiteti del dottore. [p. 45 modifica]

— Andiamo — disse Clelia; e, rivolgendosi a Flora, domandò:

— Ma suo nonno dorme sempre?

— Sì, quasi sempre — rispose Flora, senza annettere importanza alla sonnolenza continua del nonno.

— Non c’è niente da fare? — interrogò il Tebaldi, accennando al vecchio e rivolgendosi al dottore pacatamente, quasichè il Giani non fosse la persona medesima con la quale si era accapigliato finora.

— Sì — borbottò il dottore fra i denti — ci sarebbe da restituirgli suo figlio e da levargli di dosso mezzo secolo.

Flora accese la lanterna ed uscì unitamente ai Tebaldi e al Giani, per accompagnarli sulla strada maestra. I cinque camminarono uniti fino alla scorciatoia per cui si accede al castello di Novillara, e quivi Flora si staccò dai compagni, tornando sola sui proprii passi, com’è abitudine nella campagna marchigiana, dove anche un bambino può cimentarsi a piacer suo di giorno e di notte.

La neve, caduta a larghe falde durante il po meriggio, si ammucchiava adesso sul terreno in erto e molle strato, attutendo ogni rumore e dando l’impressione di un sonno algido, nel quale le cose si fossero adagiate sotto il peplo immacolato e freddo di una vergine, cui il sangue corresse fervido nelle vene per desiderio di amore, ma di cui le belle forme si fossero irrigidite nel marmo per la vendetta di qualche deità malvagia. I rami degli alberi, piegati verso il suolo perchè non atti a sostenere il peso della neve, sembravano spiare, intenti e vigili, se qual[p. 46 modifica]che fremito di vita serpeggiasse al dissotto del l’intatta coltre. Nell’aria dolce e quieta, alcuni tenui fiocchi volteggiavano ancora, sostenuti dalla stessa leggerezza loro imponderabile e vaganti a guisa di petali di gelsomino che lo zefiro avesse sottratti al davanzale di un chiuso balcone e che natassero, forse a messaggio di morto amore, verso un altro balcone deserto.

Il disco della luna, circonfuso di vapori, ora appariva nitido in mezzo a una larga chiazza di terso azzurro, or traluceva appena dietro il velo cinereo di nuvolette fuggitive.

Flora poneva cautamente il piede nella lista sottile tracciata dalle altrui orme, allorché, alzando gli occhi, scorse un piccolo lume, intermittente e mobile come il palpito di una lucciola, inoltrarsi verso di lei.

Capì subito che un uomo le camminava incontro e che quest’uomo teneva il sigaro acceso; dopo alcuni passi, l’odore squisito del tabacco, insolitamente aromatico, la fece accorta di chi si trattava.

Si arrestò e protese in avanti la lanterna. L’altro si arrestò a sua volta, il piccolo fuoco del sigaro disparve e una voce sonora domandò con tono imperioso:

— Chi va là?

Flora, tremando un pochino, rispose subito:

— Sono io. Flora Vianello.

— Bel modo di spaventare la gente — esclamò Germano, lietamente sorpreso, avanzandosi con passo affrettato verso la giovanetta.

— Buona sera — disse Flora, studiandosi di nascondere il suo turbamento e sollevando all’altezza del viso la lanterna, che segnò un cerchio aurato sopra il candore del suolo. [p. 47 modifica]— Dove va lei, a quest’ora, per la campagna?

— Sono andata ad accompagnare i Tebaldi tino alla scorciatoia. Ma lei si avvia alla festa e io non voglio trattenerla — disse Flora, facendo atto di rimettersi in cammino.

Germano le sbarrò il passo dello stretto sentiero tracciato nella neve.

— Che cosa vuole che me ne importi a me della festa?

— Eppure lassù c’è una persona vestita di turchino — disse Flora, abbassando in fretta la lanterna perchè egli non le vedesse il sorrisetto di malizia e di trionfo che le serpeggiava negli angoli della bocca.

Il giovane, togliendo distrattamente la lanterna dalle mani di Flora, rispose con aria di fastidio:

— Vestita di turchino, di rosso, di verde o di tutti i colori dell’arcobaleno per me fa lo stesso, creda. E lei perchè non si veste di bianco? Sembrerebbe una fata — soggiunse, traendo un lungo sospiro senza volerlo; e avvicinò il lume al viso della giovanetta, sospinto, suo malgrado, dal desiderio di veder nella luce gli occhi puri e ridenti, il contorno soave delle gote, la delicata curva delle labbra e, sopratutto, la fossetta del mento, quella cara fossetta, dove i suoi baci avrebbero voluto volare e raccogliersi per suggere dolcezza, come le api volano e si raccolgono a sugger miele nelle corolle di un fiore.

— Lei perchè non si veste di bianco? — egli ripetè.

Qualche cosa di tanto vivo e di tanto caldo vibrava nella domanda, pur così semplice e quasi scherzosa, di Germano che Flora indietreggiò [p. 48 modifica]

istintivamente di un passo, come se gli sportelli di una serra si fossero spalancati davanti a lei e l’effluvio di mille rose le salisse al cervello, dan dole un senso di vertigine.

— Io debbo vestire di nero — ella rispose, e le labbra tremarono, e Germano vide le palpebre di lei battere forte, quasi per sofferenza di luce troppo fulgida.

— Poverina — egli mormorò sinceramente commosso — scusi, sono stato sciocco — pro seguì, lottando per trattenere le parole impetuose di passione che gli salivano dal cuore, simili a onde di lava incandescente.

Flora senti, forse, il bruciore di quelle parole non pronunciate, perchè, giungendo le palme in atto supplice, disse con voce implorante grazia:

— Mi lasci andare; per carità mi lasci an dare.

Egli più tremante e smarrito di lei, travagliato dal desiderio e reso timido da un sentimento immacolato al pari della neve che serviva loro di piedestallo, avrebbe voluto addentarla come un frutto succoso e adorarla come una madonna, annichilirsi a’ suoi piedi e annichilirla nella stretta frenetica delle sue braccia.

— Mi lasci andare, oh! mi lasci andare — implorava Flora con senso d’ineffabile stanchezza nella voce e nel gesto.

— Perchè, Flora? Perchè? — egli domandava affannoso, avendo cura di non isfiorarle nemmeno il lembo della veste, poichè sentiva che al me nomo contatto la volontà sarebbe rimasta travolta.

Anche Flora, coll’istinto che porta ogni vergine alla difesa, sentì che il momento era supremo.

Strappò la lanterna dalle mani di Germano, [p. 49 modifica]allontanò col gomito la persona di lui, e si mise a correre verso la casa bianca.

Germano fu invaso, per un momento, dal brutale, selvaggio bisogno di predare quella giovanetta che si metteva in salvo; d’inseguirla, raggiungerla, afferrarla, sollevarla di peso, simile a trofeo guerresco, e farla sua, nella voluttà superba della conquista, sul grande talamo bianco apprestato dalla notte pronuba e consapevole; ma quella fanciulla che fuggiva pari a cerbiatta spaventata, era Flora, era la regina di tutt’i suoi pensieri, la fata di tutt’i suoi sogni; era la fiaccola del suo spirito e il terso cristallo dove si riflettevano le sue speranze, onde Germano immerse prima le mani nella neve, poscia rovesciò il capo all’indietro per respirare più liberamente e più a lungo l’aria refrigerante della campagna nevosa.