Saggi critici/Il «Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l'agosto del 1854», per Girolamo Bonamici

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Il «Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l'agosto del 1854», per Girolamo Bonamici

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Il «Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l'agosto del 1854», per Girolamo Bonamici
«Alla sua donna». Poesia di Giacomo Leopardi Saint-Marc Girardin, «Cours de littérature dramatique»
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IL «GIORNALE DI UN VIAGGIO NELLA SVIZZERA
DURANTE L’AGOSTO DEL 1854»

per Girolamo Bonamici.


È breve la storia di questo genere di letteratura, presso i moderni. Ciascuna volta che gli europei, sciogliendosi dalle loro gare intestine, si sono gettati, con concorde volontá, al di lá de’ mari, in regioni ignote, abbiamo avuto, in letteratura, i Viaggi. Nel tempo delle Crociate, ce ne ebbe parecchi, pieni di freschezza ed ingenuitá. La scoperta dell’America rimise in voga questo genere; né ci sono libri, che si leggano cosí volentieri, come per esempio, i Viaggi del capitano Cook. Non è un letterato che scriva quietamente, nel suo gabinetto, quello che altri fa: hai il viaggiatore e lo scrittore, ad un tempo; hai i comentarii di Giulio Cesare. È il tempo epico dei viaggi: passi di maraviglia in maraviglia; nuove terre, nuovi costumi, strani accidenti della natura. Vi sono due pungoli, che tengono, sempre, desta la tua attenzione: la curiositá e la varietá. Il narratore, poi, si guadagna la tua fede; e ti fa sentire molto, perché molto sente egli stesso: le sue impressioni sono vivaci ed immediate, soverchiato, com’egli è, dalla grandezza dello spettacolo che ha innanzi. Non trovi, fra la natura e lui, qualche altra cosa di mezzo, la vanitá pretenziosa della frase o del pensiero: opera e racconta, con la stessa semplicitá. [p. 245 modifica]

Raffreddata la prima impressione ed esausta la materia, i Viaggi diventano una mera forma letteraria: cioè a dire, un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto. Lo scopo non è piú il viaggio; ma l’espressione di certe idee e sentimenti, fatta piú agevole, con questo mezzo. In effetti, quando la scienza scende dalle sue altezze, e tende a volgarizzarsi, a farsi accessibile al maggior numero, ricorre a certe forme letterarie, per esempio, alla lettera, al dialogo, al viaggio. Nel qual caso, questi generi perdono la loro personalitá e diventano puri mezzi. I Viaggi possono condurre a questo scopo assai comodamente, poiché, non essendoci alcun legame che vincoli lo scrittore, può egli, a sbalzi ed alla libera, trovare occasione di esprimere i suoi pensieri. Il mutamento di scopo porta seco il mutamento di contenuto, raccogliendosi l’attenzione, non piú sulle cittá e luoghi visitati, ma sulle osservazioni e le idee dello scrittore. Di tal genere è il Viaggio di Anacarsi e il Viaggio di Platone in Italia. E, per parlare di quest’ultimo che, quantunque lavoro italiano, è meno noto, l’autore ha immaginato un viaggio di Platone per avere occasione di ragionare, in una forma piacevole e popolare, delle antichitá italiane.

Il Viaggio, come forma letteraria, può servire a qualunque scopo ed avere qualunque contenuto; è cera, che può ricevere ogni specie d’impressione; marmo che può configurarsi secondo il capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma piú libera, piú pieghevole al vostro volere. Passate da una cittá in un’altra: nessun limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace; immaginare ogni specie d’accidenti; saltare, dalla natura a’ costumi, da’ costumi all’anima; visitare, qua e colá, come vi torna meglio; rinchiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere, a vostro grado, sogni, ghiribizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloquii, visioni e racconti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v’impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un limite che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, [p. 246 modifica]ma dal fine che avete in mente. Tale è, ancora, il Viaggio di Childe Harold.

Ebbene! Vi sono stati degli scrittori moderni, che hanno preso per limite l’illimitato, cioè a dire, hanno scritto Viaggi, senza né uno scopo, né un contenuto. Non ci è gente, che viaggia alla spensierata, ora guardando, ora cicalando, ora spropositando, vuota di ogni pensiero serio, camminando per camminare? Fate conto, che ci sieno scrittori di questa risma, che descrivono, chiacchierano, cacciano fuori tutto ciò che loro frulla pel capo, a proposito ed a sproposito. Per giustificare questa maniera di scrivere, essi dicono che sono «umoristi»; e si valgono della parola «umore» come di un comodo passaporto alle loro insipidezze. Saltar di palo in frasca, fare a pugni colla logica e col buon senso, finire un racconto comico con un doloroso «ohimè!», fare il sentimentale, per riuscire in una grossa risata; cominciare colla filosofia e finire co’ poponi ed i cavoli: questo chiamano «umore»! Il buon Orazio osservava: «Se vedeste una donna, che andasse a finire in un pesce, ‘risum teneatis amici?’».

— Zitto lá, vi rispondono costoro; a’ tempi di Orazio, non si conosceva l’«umore».—

Ma Heine! Eh! mio Dio! Voi fate, come gli scolaretti, che credono d’imitare Cicerone, rubandogli le sue frasi e cucendole, in certi periodoni, che ti fanno venire l’asma; ed aggirandole in certe trasposizioni, che ti fanno perdere il bandolo. Quando la parola diventò, in Atene, mezzo potentissimo di fortuna, sorsero i sofisti e apersero scuole di eloquenza. Volete voi pensare come Pericle? Imparate i luoghi topici. Volete esprimervi come Pericle? Imparate i tropi e le figure. Volete commuovere come Pericle? Eccovi le fonti del patetico. Onde, nacque una retorica, che, con vergogna di questo secolo, s’insegna, ancora, in molte scuole. Vi è, in ogni scrittore, la parte esterna e meccanica, che si può imitare. Quando ero giovinetto, mi domandavo spesso: — Perché il Petrarca è si grande? Ho imparato a far versi: se io giungerò ad imparare tutt’i suoi piú belli modi dire, non potrò io scrivere come il Petrarca? [p. 247 modifica]— Era lo stesso ragionamento del padre Bresciani, quando, postesi in capo non so quante migliaia di frasi, tenevasi, oramai, pari al Bartoli: con questa differenza, che egli sei crede, ancora, a sessant’anni.

Heine è tra’ primi scrittori umoristi di questo secolo: e, forse, in nessuno spicca tanto questa parte esterna dell’«umore»: una specie di meccanismo, facilmente imitabile. Beffarsi di tutte le regole e di tutti i canoni della ragione; fare e disfare; dire e disdire; ridere e piangere, colla stessa leggerezza; prendere, a poca distanza, tutti i tuoni dell’uomo e del fanciullo, del maestro e dello scolaro; cangiare, in una sola pagina, cento abiti, ora in cappa magna, ora con lo spadino allato, ora col codino, ora con tanto di barba; fare, di un periodo, una babilonia o un laberinto, si che tu lo guardi con la bocca aperta e non sai se fa da senno o da scherzo, se è savio o matto, se è maligno o sciocco! — Guarda, gli è un gesuita! — Leggi un’altra riga! — oibò: gli è un repubblicano. Anzi, un socialista. Che dico? Costui è un conservatore bello e buono. Senti che linguaggio da cristiano! gli è un santo Antonio. — E, mentre ti par di stare in chiesa, e leggi, tutto raccolto, ti giunge all’orecchio una buona bestemmia e rimani con un palmo di naso. È deista o panteista? materialista o spiritualista? classico o romantico? Ora dici si, ora dici no.

Tale è il meccanismo. Voi potete riprodurlo, facilmente: il meccanismo è mestiere, non arte. Che facile via d’ire alle stelle! Senza regole, senza logica, senz’ordine, dire tutto ciò che ti piace, dire, in viso, con un piglio sprezzante, a quel critico, che ti citi una regola d’Aristotile o di Gravina: — Taci lá, pedante! Tu non comprendi l’«umore»: io sono uno scrittore umoristico, un Heine italiano! —

Tale è il meccanismo, la superficie: che cosa ci è al di sotto? Ma ci è l’anima, ci è la vita, ci è tutto quello che non si può imitare, che distingue il genio dalla volgar turba.

L’«umore» non vuol dire il capriccio, l’arbitrio, la licenza, il puro illimitato, senza determinazione di scopo o di contenuto. Esso ha per iscopo l’illimitato, e l’illimitato, quando [p. 248 modifica]diviene scopo di un lavoro, cessa di essere arbitrio o licenza, ed acquista un significato serio; acquista un limite, non è piú il puro illimitato.

L’«umore» è una forma artistica, che ha, per suo significato, la distruzione del limite, con la coscienza di essa distruzione.

La distruzione del limite. E, perciò, questa forma comparisce ne’ momenti di dissoluzione sociale; né, mai, ha avuto un’esplicazione si ricca e si seria, come ne’ nostri tempi. Che limite ci resta piú? Di religione? Il secolo decimottavo e Voltaire ci hanno passato al di sopra. Di filosofia? L’un sistema non attende l’altro. Di letteratura? Il romanticismo fa la baia al classicismo. Non vi è piú «si» senza il suo «no» dirimpetto; non affermazione, che non trovi, di rincontro, la sua negazione. In tanto disfacimento di principii, in tanto discredito di ogni regola, di ogni limite, che cosa è avvenuto?

Finché non abbiamo avuto una chiara coscienza di questa dissoluzione, io «sí» e tu «no» ci siamo accapigliati, ciascuno con piena fede, io, nel mio «sí», tu, nel tuo «no». È stato tempo di polemiche, di battaglie omeriche. Bel guadagno che ne abbiamo cavato! A forza di gridare è andato in dileguo il mio «sí» ed il tuo «no». Certo, accanto a questo, vi è un lavoro di rinnovamento e di trasformazione, che ha, anch’esso, la sua espressione letteraria. Ma, poiché il primo movimento negativo ha avuto luogo, è naturale che esso abbia avuto la sua manifestazione, nella scienza e nell’arte, per esempio, in Proudhon ed in Heine.

Il mio «sí» ed il tuo «no» è ito in dileguo: affermazione e negazione sonosi distrutte a vicenda; rimane il vuoto, l’illimitato; il sentimento che niente vi è di vero e di serio, che ciascuna opinione vale l’altra. Allora, non solo ci è la distruzione di ogni limite, ma la coscienza di essa distruzione.

Proudhon ed Heine, ultimi di questa serie, hanno con piú profonda coscienza rappresentato questo fatto, accettando l’illimitato, come la condizione del progresso e della vita sociale. [p. 249 modifica]

In letteratura, l’«umore» corrisponde a questo stato dello spirito. L’«umore» ha per sua essenza la contraddizione: onde quel fare e disfare, quel dire e disdire, quel distruggere con l’una mano ciò che s’edifica con l’altra. Tale è il senso profondo di questa forma; e, se gli angusti confini di un’appendice mel consentissero, mostrerei quanta intelligenza e ordine e misura è nell’apparente spensieratezza di Heine, e di che sangue gronda il suo riso. Ma il lettore può giá immaginare quante qualitá si richieggano per giungere a quest’altezza, spesso, opposte: l’ironia, il sarcasmo, la caricatura, congiunte con tutte le gradazioni del patetico, le piú strane bizzarrie di una inferma immaginazione, congiunte con le piú riposte profonditá dell’intelligenza.

In Italia, eccetto il Guerrazzi, che, qua e colá, vi tende, questa forma non ha trovato, ancora, la sua espressione. Il Leopardi è il poeta di questa situazione; ma questo grande infelice rimane, sempre, ne’ confini del patetico, e talora rasenta l’ironia, senza giungere, mai, fino all’«umore». Se fosse possibile che Leopardi avesse un successore, costui sarebbe il poeta umoristico dell’Italia.

Che cosa, dunque, è l’«umore» tra noi? Una pura forma, vuota di significato; una forma meramente letteraria; un va e vieni disordinato, con una intenzione umoristica, senza giungere ad afferrare che le parti esteriori, il superficiale meccanismo. Il signor Bonamici, autore del Giornale di un viaggio nella Svizzera, si è valuto del viaggio come di un mezzo a cacciar fuori tutte le sue impressioni e tutti i suoi ghiribizzi; e per la forma, che ha scelto, merita di essere allogato tra gli scrittori umoristici. È giunto, egli, a questa altezza? L’«umore» ha in lui, un significato serio? Ha egli tutte le qualitá richieste?

Non so chi si cefi sotto questo nome; ma basta leggere il suo libro per dire: — Gli è un uomo di non volgare ingegno. — Egli, dunque, deve saper estimare le sue forze, e rispondere egli medesimo: — No! Non mi sono levato a questo tipo di perfezione. — Quanto alla critica, nella presente mediocritá, il suo uffizio è di tenere, sempre, alto ed immacolato l’ideale [p. 250 modifica]dell’arte; perché, se non si può uscire dal mediocre, se ne abbia almeno coscienza; e se l’arte è fiacca, rimanga sano il giudizio; né ci avvenga che si confonda, per esempio, Felice Romani con Giacomo Leopardi, come un critico veneziano ha osato di fare, o che si corra, subito, a dire: — Ecco l’Heine italiano! — Talora, la buona critica prenunzia il rinnovamento dell’arte.

Quando parlo di un Heine italiano, non alludo a questo ed a quello; e tanto meno, al nostro autore. Ho letto il suo libro, e lo stimo. Non so s’egli abbia fatto degli altri lavori; ma questo è tale che si può sperar bene di lui. Quando si studia di far lo spiritoso, talora cade nello sforzato o nel freddo; ma, non di rado, gli escono tratti di spirito, tanto piú felici quanto meno cercati. Manca d’invenzione e di profonditá; ma vi supplisce in parte con un costante buon senso, cosí raro ai giorni nostri. Riesce, sovente, nel far la caricatura di sé stesso; massime quando la caricatura non è un ozioso passatempo, ma tende a colpire certi difetti. Cosi l’autore fa una lunga descrizione del S. Gottardo; quando, poco poi, come riscotendosi, aggiunge: «Rileggendo questo viluppo di frasi, mi sento gran voglia di ridere». — Qui, si ride a spese della retorica. E con la retorica, l’ha, proprio, di cuore. Nella descrizione del Lago Maggiore, paragona le isole Borromee a cigni, che si diguazzano nelle acque. E soggiunge: «Duoimi di aver, giá, messo in opera il classico paragone dei cigni, il quale mi verrebbe meglio in acconcio, parlando delle bianche vele». Qui, c’è un’intenzione umoristica; mentre tu stai, tutto serio, a sentire il suo paragone dei cigni, ecco una fragorosa risata; e, di sotto al serio, scoppiare un ridicolo, che vi è, veramente. Ed ha ragione di prendersela con la retorica, poiché il suo stile ne è affatto puro; e qui è il suo maggior pregio. Scrive rapido, spedito, facile, con perspicuitá, con naturalezza, piuttosto arido che gonfio, talora semplice; stile raro, in un tempo che gli scrittori tendono generalmente all’ampolloso ed all’esagerato.

Ma queste qualitá non bastano a nascondere la povertá del fondo. Non hai, innanzi, un’anima ricca che si espanda, [p. 251 modifica]tripudiando, al di fuori. Lascio stare che, qui, l’«umore» non ha niente di sostanziale, che è una mera esterioritá, una pura forma, talora, indifferente o ripugnante al fondo. Ma l’«umore» scisso anche dal suo significato, preso come pura forma, richiede grandi facoltá nello scrittore, perché non degeneri in una frivola fraseologia. Richiede, soprattutto, una certa eccentricitá, o singolaritá, che vogliamo dirla. L’umorista si fa un mondo tutto suo; si tiene discosto dal sentiero comune; si pone al di sopra di tutto ciò, che è fattizio e convenzionale; fanciulleggia e matteggia; dice cose, in apparenza, strane, e si dá, egli stesso, del matto e dello sciocco; e, nondimeno, è questa una profonda pazzia, piena di buon senso, che stracciando, senza pietá, ogni maschera, innanzi a cui s’inchina il volgo, tira diritto al fondo delle cose: nessuno ti fa tanto pensare quanto, spesso, un giullare di Shakespeare. Questo mondo, rinnovato o ringiovanito, manca all’autore, che lavora sopra una materia comune.

L’eroe di questo viaggio è lo stesso autore. Egli fa lo spensierato, lo stordito; sorvola, leggiermente, sopra tutti gli argomenti; folleggia. Questa è la superfície: che cosa ci è sotto? Una personalitá gretta e arida, vuota di entusiasmo, di sentimenti, di passioni, chiusa in piccolo giro d’idee, che non soffre, non medita, non ama, non può destare un vivo e durabile interesse.

In questa maniera di lavoro, mezzo principalissimo di riuscita è la potenza fantastica, la facoltá inventiva. L’autore satireggia per via di osservazioni, talora, spiritose; ma che, a lungo andare, stancano. Volete poi porre in rilievo un carattere, un costume, un difetto, richiamar, quivi, l’attenzione? Un fatterello, un accidente, un aneddoto, un paragone, un esempio, una citazione, vale piú che tutte le osservazioni, massime, quando non si ha una dose bastante di fiele, di malizia, di brio, per incalorirle. Si possono far mille considerazioni sulla esagerazione francese: ma il fatto del barbiere, nel Viaggio sentimentale di Sterne, vale piú che tutte esse: queste rimangono qualche cosa di vago, nella mente, che tosto va via; quel fatto [p. 252 modifica]non lo dimentichi piú. Quanti accidenti nel Viaggio sentimentale; Come son ben trovati! Quanto varii! Ciascuno ti dipinge un carattere, ti descrive un costume.

Ben l’autore ha fatto entrare, nel suo Viaggio, un racconto ed una visione, dove s’innalza a piú alta e seria intenzione artistica; ma l’esecuzione parmi inferiore al concetto. Nel racconto vi sono situazioni stupende, ma trattate con impaziente leggerezza. Certo, è meglio una naturalezza abbandonata, che una pretenziosa gonfiezza; è minor difetto, ma è difetto. E che l’autore sia capace di meglio, si può inferire da non pochi tratti, pieni di semplicitá e di veritá. Eccone uno. «Eravamo soli, pieni d’amore e nel rigoglio della gioventú. Arrigo allora mi avvinghiò, con ambedue le braccia, e mi baciò sulla bocca, e le sue labbra tremavano, e noi fummo vinti.» Questo ricorda Francesca da Rimini. Il Viaggio di Bonamici è uno de’ primi tentativi di questo genere, in Italia; e, per alcuni pregi, è degno della pubblica attenzione. L’autore non solo si è nascosto sotto un finto nome; ma sembra che abbia abbandonato il suo libro alla ventura, a giudicarne dal silenzio della stampa. La stampa è come la donna: vuol essere pregata e supplicata. Io l’ho letto, e mi è piaciuto. Vi manca quella serietá di fondo, quella vita interiore, che dá ad un lavoro il suggello della immortalitá; ma vi sono, come ho mostrato, alcune qualitá, ancorché secondarie, che rilevano, in lui, un’attitudine a qualche cosa di meglio. Meritava, dunque, che il suo libro si leggesse e si esaminasse. Veramente, ci è da gettar via la penna e dimenticarsi di leggere pensando alla fredda indifferenza con cui sono accolti oggi i lavori dell’ingegno: non dico rimunerati ch’è peggio.

Ma che farci? Bisogna darsene pace. Oggi, un incontro di otto zuavi con quindici cosacchi fa piú parlare che l’annunzio di un dramma o di un poema.

[Nel «Piemonte», a. II, n. 2, 2 gennaio i856.]