Signorine povere/Seconda parte/VII

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VII

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VII.

Leonardo fu lieto di rivedere la sua Antonietta, e pianse di tenerezza nell’abbracciarla. Il suo nuovo stato d’animo depresso e irritato lo disponeva ad intenerirsi, a piangere senza motivo apparente.

— Esaurimento nervoso, vecchiaia precoce — diceva il dottor Monti scrollando il capo.

Antonietta tacque, naturalmente, con tutti gli altri ciò che aveva confidato a Maria. I Pagliardi andavano alle acque di Aix-les-bains con la vedova Arquati, poi avevano in mente di fare un giro per la Svizzera: un’assenza di un paio di mesi.

— Ed io ho pensato — ella concludeva — di passare questo tempo con la mia famiglia.

— Hai avuto un bellissimo pensiero — affermò il padre.

Gli altri manifestarono la stessa soddisfazione, meno l’Angelica, il cui volto si oscurò. Antonietta era maggiore di lei e ad essa spettava il posto d’onore, lasciato vacante da Eugenia. Ciò le dava ombra. Meno male che quei due mesi dovevano passarli in campagna. [p. 249 modifica]

— Quanto ci fermeremo a Malgrate? — domandò Antonietta a suo padre.

— Un paio di mesi. S’intende, voi altre e i ragazzi; io e Riccardo andremo innanzi e indietro, perchè egli ha il suo impiego ed io devo sorvegliare questi lavori di riparazione.

— Io potrò, dunque, stare un po’ a Milano con voi due.

— Ci hai degli affari? — domandò Angelica sempre curiosa.

— Perchè no?... Ho delle commissioni.

La sera andarono a salutare Eugenia nella sua bella casa, in via Dante. La trovarono anch’essa a far le valigie. Andava a Venezia ai bagni di mare. Suo marito l’accompagnava per lasciarla in casa di una parente; mentre egli proseguiva il viaggio per Vienna e Berlino, chiamatovi dai suoi affari.

La camera, dove le visitatrici avevano trovata la sposa di Augusto Klein, era vasta, con tre finestre c messa con molto buon gusto; anche la roba che Eugenia riponeva nelle valigie, biancheria, abiti, oggetti diversi, era tutta elegante e ricca. Ella indossava un accappatoio di mussolina bianca ornato di trine e nastri, con lungo strascico. Aveva il collo nudo, le spalle semivelate, e le sue belle braccia uscivano superbamente dalle maniche alla greca. Parlava in fretta, sorrideva tempre c mostrava con grande compiacenza il lusso che l’attorniava. Con [p. 250 modifica]tutto ciò il suo viso aveva un’impronta di stanchezza assai visibile. L’Antonietta, che la vedeva per la prima volta dopo le nozze, ne fu impressionata.

— Sei contenta? — le domandò prendendola a parte un momento. — Sei felice?

— Son contenta, sì. Ho la mia casa, tutte le comodità; mio marito spende volonticri per me. Mi pare che non mi posso lamentare della mia condizione, pensando che ero una povera figliuola, senza un soldo di dote. Riguardo alla felicità... sono illusioni di ragazze... una volta maritate non ci si pensa più. Te ne convincerai anche tu quando avrai preso marito.

Antonietta sorrise. Preferiva rimanere zitella e conservare le sue illusioni. Ma non insistette; capiva che Eugenia era imbarazzata e voleva nascondere il proprio imbarazzo sotto a quell’aria di superiorità.

Arrivò Klein e si mostrò gentilissimo con le signore. Leonardo e Riccardo erano rimasti a casa. Klein non chiese di loro. Non furono neppure nominati.

Antonietta, non ancora abituata, soffriva di quel contegno. Pazienza il genero, ma lei, Eugenia, non chiedere di suo padre!... Tutto per il denaro, tutto per l’interesse. Era dunque soltanto il denaro che faceva e disfaceva le famiglie?

Alle dieci la signora Elisa disse che era un po’ stanca e s’alzò per andarsene. [p. 251 modifica]

Le ragazze si disposero a seguirla.

— Noi vi accompagneremo — propose Eugenia, che nel frattempo si era rivestita.

— Perchè disturbarvi?

— Oh! E’ un piacere andar fuori a quest’ora.

Uscirono tutti.

Klein, imbroglione, ma galante e complimentoso, volle assolutamente che le signore si fermassero da Casanova, in piazza del Duomo, a prendere il gelato.

Sedettero a un tavolino fuori della bottega. C’era folla alla birreria e folla in piazza.

La gente che transitava sul marciapiede formava due correnti non interrotte, che s’incontravano, si toccavano, si confondevano.

E al di là di queste due schiere fluttuanti, erano le carrozze e i trams in perenne movimento, formanti un intreccio vertiginoso nella vasta piazza vivamente illuminata.

Lo sguardo di Antonietta, passando sopra a quel vortice, andò diritto al Duomo, che l’attirava nell’ombra, e disse sorridendo:

— Mi commuove sempre, quando lo rivedo, questo colosso!

Un giovine alto, dalle spalle larghe, dai lineamenti marcati, molto espressivi, passò in quel momento vicino a loro e le salutò. Era Luciano Monti. Poco dopo Antonietta lo vide ripassare in mezzo alla folla senza salutarle. Andava verso la Galleria Vittorio Emanuele. [p. 252 modifica]Prima di sparire sotto i portici, egli si voltò dalla loro parte e rimase fermo alcuni minuti come in contemplazione.

La sua figura scultoria di lottatore, spiccava nella viva luce delle lampade elettriche. Una fila di carrozze e di carrozzoni lo nascose improvvisamente. Quando lo spazio tornò libero, egli era scomparso. Lungo il cammino dalla piazza alla via Monforte, apparve una terza volta; discorreva con un altro giovinolo presso l’entrata del Teatro Milanese. Al loro passaggio parve all’Antonietta che egli si celasse.

Era un caso quel terzo incontro? Non pareva. Chi corteggiava egli? Eugenia? Ed ella che ne pensava? Eugenia peraltro era un po’ miope e non poteva averlo veduto altro che la prima volta in piazza; ed egli sapeva che ella non poteva distinguerlo da lontano e nell’ombra. Che l’amasse tanto da girarle intorno solo per bearsi della sua vista?

Sulla porta di casa Valmeroni, Augusto Klein e la sua sposa si congedarono.

— Addio. Fate buona campagna.

— Si divertano: stiano bene.

— Addio. Buon viaggio.

Le donne si abbracciarono.

— Saluta il babbo; saluta Riccardo — mormorò Eugenia all’orecchio di Antonietta.

Tornate sole nella loro camera, Antonietta e Maria ripresero il filo delle loro confidenze. [p. 253 modifica]

— Cosa ti pare di Eugenia?

— Mi fa pietà; pare una creatura che sprofonda in un pantano.

— Si dice che Augusto sia molto geloso.

— Di Luciano?

— Di Luciano e d’altri. L’hai visto stasera Luciano?

— Sì; tre volte: gira intorno a lei, è vero?

— Chissà. Io dubito che faccia la corte all’Angelica per vendicarsi di Eugenia.

— Egli non ha diritto di vendicarsi; ma tutto è possibile. Potrebbe anche corteggiare Angelica senza alcuna idea di vendetta. E bella la birichina.

— Bellissima; non par più quella bislungona che era ancora sei mesi fa; si è trasformata. E lei non si lascierà canzonare come Eugenia: è più avveduta.

Parlarono di Pavia; dei Pagliardi e d’Isidoro. Antonietta poi troncò quel discorso con una interrogazione improvvisa:

— E tu, Maria, cos’hai? Mi sembri abbattuta, malinconica. Ami sempre Faustino Belli?

Maria arrossì e impallidì.

Non sapeva: non poteva dire se l’amasse o no. Per molto tempo aveva creduto di amarlo: ora non leggeva più bene nel proprio cuore. Vi era un’ombra che la turbava: avrebbe voluto non pensare all’amore: allontanare da sè quel sogno tormentoso. Invece quel sogno la [p. 254 modifica]assediava. Non poteva sentire una musica, leggere una poesia, senza che tutto il suo essere vibrasse. In realtà, le pareva di non amare nessuno.. oppure...

Antonietta la guardò curiosamente.

— Approfitta di codesto stato d’animo per distogliere il tuo pensiero da quell’uomo. Egli non è mai completamente sincero e non può renderti felice.

— Quando il dubbio m’incalza e non trovo in me stessa la forza di respingerlo, penso anch’io così, ma soffro. Fosti tu la prima a mettermi in diffidenza contro di lui. Varie circostanze vi hanno poi contribuito. Così il mio ideale si è offuscato, senza che io riescissi a strapparmelo dal cuore. La mia infelicità è cominciata così.

Antonietta si mostrò commossa. Le doleva di essere stata causa di tormento alla sua Maria; ma si confessava pronta ad affliggerla ancora e ad attirarsi anche la sua collera, piuttosto che lasciarla cadere in balia di quell’uomo.

— Sì, sì, lo so! Tu pensi di salvarmi chissà da quali sventure.. E non sai che intanto io vado incontro forse a mali peggiori. Già la mia fede ingenua nella bontà umana vacilla, e la mia bella unità di sentimenti, l’interezza dell’animo, che è da sè sola il fondamento di una grande felicità, non mi sostiene più. Il mio corpo è [p. 255 modifica]puro, il mio onore è intatto: eppure, io non sono più quella di prima. Tutto è diviso in me: il cuore, il pensiero: a volte mi pare perfino che la mia ragione oscilli e si smarrisca. Due immagini si sono impadronite del mio pensiero: mi assediano, mi torturano. Due uomini fanno battere il mio cuore... Oh! se tu sapessi!...

— Due uomini? Tu ami due uomini? Sei pazza?...

Maria arrossì fino ai capelli.

— Lo so io se li amo?... Uno era il sogno della mia fantasia: l’eletto della mia giovinezza. L’ho amato con venerazione, siccome il più nobile, il più bello, il più seducente cavaliere che io potessi immaginare. Egli era per me il gentiluomo perfetto. E a poco a poco la diletta immagine si offuscò: il nume traballò sull’altare che io gli avevo innalzato: ma non gli tolsi il mio culto: quell’adorazione era diventata un bisogno della mia anima. Intanto avvenne un fatto crudele: un altro, un giovine, mi strinse un giorno riluttante fra le sue braccia tenaci e mi baciò lungamente, disperatamente.... E io... io non posso dimenticare quei baci, e spesso risento quelle labbra calde e quel petto che palpitava contro il mio petto... Oh! è troppo orribile!...

Uno scoppio di pianto le spezzò la voce. Con affettuose parole Antonietta cercò di calmarla, di consolarla. [p. 256 modifica]

— Chi è colui che ti ha baciata così? Dillo a me, dillo. Ti ama egli almeno? Sì?... Dimmi, chi è?

— Riccardo, tuo fratello — mormorò Maria coprendosi la faccia.

— Riccardo ha osato?... Deve amarti come un pazzo per avere avuto un tale ardire, lui, così timido e riservato.

— Chissà! Può avermi soltanto desiderata. Ora non credo più che i baci ardenti siano una prova di vero amore. Non lo crederò mai più. Sono diventata maliziosa: sento in me stessa il fatale dualismo della vita. Ma anche se mi ama davvero, fece male Riccardo, molto male. Non è lecito turbare così la sensibilità di una creatura che non si è conquistata prima con l’amore. Ora io non credo più in me stessa. E se Faustino Belli mi chiedesse in moglie, dovrei rifiutarlo, pur amandolo ancora.

Il viso di Antonietta si rischiarò; per quanto dolorosa le paresse la situazione psichica di sua cugina, si consolava sentendola dire che, in ogni caso, avrebbe rifiutato Faustino Belli. Ella disse:

— Tutto si dimentica quando non si ama: e tu non ami veramente nè Faustino nè Riccardo.

— E se la mia natura fosse tale che io non potessi amare esclusivamente nessuno, pure sentendo nelle mie vene il fuoco dell’amore? Che vita miserabile sarebbe la mia? [p. 257 modifica]

— Non è possibile. Non tu sei di quelle. Faustino ha innamorato la tua fantasia, il tuo intelletto: Riccardo ha risvegliato un momento la tua squisita sensibilità; l’uomo che tu devi amare, forse non lo conosci ancora.

— Un terzo? Oh!... E a quali segni lo riconoscerò? Come farò a sapere che è il grande, il vero, l’eterno amore? No, cara, io non crederò più all’amore eterno: e non mi sposerò. Se il mio cuore è debole, la mia volontà è forte e io voglio essere onesta e leale: non giurerò mai, dacchè non ho la sicurezza di mantenere completamente il mio giuramento.

Antonietta le accarezzò i capelli e la baciò in fronte con un sentimento quasi materno.

— Io spero invece che un giorno disprezzerai il Belli come se lo merita; mentre Riccardo riescirà a convincerti del suo grande amore e a farsi amare da te.

Maria non rispose e cominciò a spogliarsi. Antonietta seguì il suo esempio. Quando furono in busto e gonnella bianca, si sciolsero i capelli.

Antonietta, che aveva capelli nerissimi e ricciuti, un po’ corti, disfece il ciuffo capriccioso che portava sul vertice del capo e serrò quella ribelle matassa di riccioli in una cuffietta di tulle bianco che la rese ancora più graziosa. Era di quelle creature che sono tanto più belle quanto meno si coprono. Il più ricco abito, non [p. 258 modifica]poteva dar maggior risalto alle sue forme di quella fascetta di seta rossa che le cingeva appena la vita sulla camicia di tela fine, scollata e senza maniche. Aveva le braccia rotondette, le spalle piene e spioventi come le belle donne, che noi ammiriamo nelle celebri miniature del Direttorio e dell’Empire. Da tutta la sua figura, non alta ma perfetta nelle proporzioni, spirava una grazia ineffabile. Soprattutto la rendevano seducente i suoi occhi neri, vellutati, e il loro sguardo di una profondità misteriosa.

Alta, sottile, non magra, flessuosa come un giunco, Maria aveva qualche cosa del tipo nordico ravvivato da sangue latino.

Gli abiti moderni sembravano inventati a posta per lei; e anche discinta era bella per l’eleganza delle lince, la finezza delle attaccature e la trasparente candidezza della carnagione. I suoi atteggiamenti come la sua andatura rivelavano la scioltezza delle membra, l’abitudine della ginnastica. Ella aveva divisi i suoi folti e lunghi capelli in due treccie massiccie che le scendevano lungo la persona. Questa semplice acconciatura armonizzava meravigliosamente con la sua bellezza fresca e fragrante come un fiore.

— Come sei bella così! — esclamò Antonietta guardandola. — Un poeta ti paragonerebbe a un giglio appena sbocciato, pura e trasparente come il ghiaccio delle Alpi.

— Se fosse vero! Se fossi fredda e [p. 259 modifica]insensibile come il ghiaccio! — sospirò Maria con un lampo negli occhi, ora chiari e limpidi come un cielo di primavera, ora cupi e profondi come la notte.

Anche dopo coricate, le due fanciulle continuarono a discorrere. I letti essendo vicini potevano parlare a bassa voce in una dolce intimità. La camera era elegante e gaia anche di sera; il mobilio di noce intagliato e la stoffa delle lunghe tende, dei sedili e delle coperte, di un azzurro vivo e lucente, le davano una nota ricca, artistica. A proposito di quei mobili, Maria parlò della sua povera mamma alla quale erano appartenuti.

— ... Ella fu veramente una vittima dell’amore. Ingannata, tradita, abbandonata, povera mamma! Io non potrò mai perdonare a mio padre. Del resto, egli non si cura del mio perdono. Sai che è molto ricco adesso?... Ah! tu lo sapevi. Io lo seppi solo il mese scorso. Fu tua madre a dirmelo. Ha una Banca a Berlino e guadagna molto, pare.

— E non ti ha mai mandato un regalo?

— Mai. Ha moglie e tre figli, due dei quali sono maggiori di me. Quando ingannò mia madre aveva famiglia da alcuni anni, e si spacciava per celibe. Inorridisco pensando che il suo sangue di traditore circola nelle mie vene. O Aleardo Cantelli, se ti potessi dire quello che penso!

Tacque concentrandosi nelle sue tetre riflessioni. [p. 260 modifica]

Antonietta le consigliava indulgenza. Era sempre suo padre Aleardo Cantelli; e la sua colpa non era senza attenuanti. Aveva sposato giovanissimo per volontà della famiglia, una donna che non gli piaceva. La passione l’aveva trascinato verso Teresa Clementi.

Maria replicò con impeto:

— Credi che io gli rimproveri la sua colpa d’amore? No, no. Ciò che io non gli perdono è di avere mentito con mia madre: di averle promesso cosa che non poteva mantenere, e di averla poi abbandonata, così; e di non essersi mai ricordato di me. Son queste le sue imperdonabili colpe.

Col busto eretto sopra le coltri, le braccia nude, le lunghe treccie diffuse su i candidi lini, il volto acceso e gli occhi scintillanti d’indignazione, Maria si rivelava indubbiamente, nelle parole c negli atti, una tempra energica e una creatura di passione. Certo ella aveva ereditato con la bontà e la tenerezza materna, gl’impeti e i trasporti del padre.

Intanto quei ricordi l’avevano fatta piangere; e le lagrime la sollevarono.

A poco a poco si calmò. Dopo altri discorsi, in seguito a certe osservazioni sulla famiglia di suo padre che viveva nell’agiatezza, mentre i Valmeroni si trascinavano sempre fra nuove difficoltà finanziarie, e a lei toccava fare la maestra, una quistione nuova si affacciò allo spirito aperto e vivace delle due giovani. [p. 261 modifica]

— Credi tu che le signorine ricche siano più felici di noi? — domandò Antonietta.

— Più felici di noi, certo.

— Chissà. Io le credo soltanto più illuse. Se io fossi stata ricca, per esempio, Isidoro mi avrebbe sposata col consenso di sua madre; e io mi stimerei felice. Ma non lo conoscerei; non sospetterei neppure quanto egli possa essere debole e prepotente insieme. Sarei, dunque, assai più felice, è vero; ma anche assai più ignorante. E meglio sapere e soffrire o ignorare e godere?

— Ciò che il cuore ignora non esiste.

— Se non esistesse il dubbio avresti ragione. Tu peraltro non puoi dimenticare che il dubbio è inevitabile per chi possiede una intelligenza che pensa, che osserva, che raffronta. E allora non c’è illusione che resista, non ricchezza che protegga; il dubbio fa inesorabilmente il suo cammino e distrugge l’illusione. Meglio sapere dunque alla bella prima: meglio affrontare la realtà, e avere poche gioie vere, o non averne punto, che vivere in un mondo falso, tra i sogni nostri e le menzogne altrui.

— Chissà — sospirò Maria. — Chissà. Forse non esistono gioie vere nella nostra vita circoscritta. Forse la poca felicità nostra non è che illusione. Ma nell’illusione si gode. Gli illusi, anche se poi discoprono il loro inganno, qualche cosa hanno goduto. Invece, se non sappiamo o [p. 262 modifica]non vogliamo illuderci: se non possiamo o non vogliamo accettare l’inganno come cosa vera, perdiamo inutilmente la giovinezza c ci condanniamo alla solitudine, al nulla.

— Meglio il nulla che l’inganno; e meglio di tutto morire.

Maria non replicò lì per lì. Restò pensosa. Poi guardò la candela a metà consumata.

— Dev’essere tardi — disse.

Antonietta guardò il suo orologio: erano le due.

Tacquero, assorte. Si erano buttate giù come per dormire. Un bioccolo di cera si staccò dalla candela e cadde nella padellina, con un lieve rumore. Maria tornò a sollevarsi sulle coltri e fissò la compagna col suo sguardo più limpido e sfolgorante.

— Morire?... Io voglio vivere. Io amo la vita. Qualunque debba essere il mio destino, io voglio che si compia: sono curiosa di vedere cosa succederà. Ho ventidue anni. Chi sa quante cose potrò vedere, imparare, in altri trenta o quarantanni. Tu hai detto che è meglio sapere, pure soffrendo, che vivere nell’inganno. Ebbene, io applico questa sentenza a tutto, non solo all’amore, che non può essere tutto, sebbene sia forse la cosa più importante della nostra vita. Se morissi adesso, chissà quanti errori porterei con me. L’esperienza, lo studio, le scoperte che gli scienziati vanno facendo sempre più grandi e numerose, il movimento sociale, chissà quante [p. 263 modifica]cose mi apprenderanno! Non vorrei rinunciarvi. Dovessi soffrire tutta la mia vita, vorrei vivere fino alla vecchiaia.

— Pensi così perchè hai il presentimento di raggiungere la felicità.

— Non so: non credo. Mi pare soltanto che vivendo dovrò raggiungere un punto elevato dove troverò la pace e l’equilibrio del mio spirito, anche nel dolore. E così. Per ciò voglio vivere.

L’alba imbiancava i vetri allorchè finalmente le due fanciulle si addormentarono.