Signorine povere/Seconda parte/VI

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VI.

L’anno scolastico finiva; le scuole si chiudevano. Maria pensava con gioia alla prossima villeggiatura nell’antica casa sul lago di Lecco.

Approfittando del buon momento e per iniziativa di Riccardo, la bella casa era stata rimessa a nuovo e aspettava i signori che da vari anni non la visitavano. Anche la casa di città aveva bisogno di alcuni restauri; e per cominciare i lavori si attendeva appunto il periodo delle villeggiature. Di giorno in giorno Riccardo prendeva un atteggiamento più fermo nella famiglia: senza mancarle di rispetto, egli metteva un freno alle costose fantasie di sua madre.

Così egli era riuscito a estinguere molti vecchi debiti, e a ridurre i più grossi. Sperava di estinguerli tutti col prossimo pagamento della seconda rata, che il tedesco doveva fare in quei giorni, non avendo versato fino allora che una metà della somma totale. Ma Augusto Klein chiese invece un respiro di tre anni. Egli offriva un rogito in piena regola e l’interesse del sei per cento; alla fine dei tre anni, pagamento completo. [p. 233 modifica]

Riccardo rimase sbigottito, comprendendo subito che era un tranello. E non voleva assolutamente che suo padre accettasse quella proposta. Egli aveva venduto per contanti a un prezzo derisorio. La merce era stata consegnata a tal patto. Il signor Klein doveva mantenere la sua parola. Fu tutto inutile. Eugenia piangeva come una Maddalena alle ginocchia di suo padre; la signora Elisa tempestava specialmente contro Riccardo, che ella chiamava addirittura un uomo senza pietà, un cuore di bronzo. Augusto Klein, invece, si atteggiava a vittima; e sospirando confessava che se lo forzavano a pagare doveva dichiarare il fallimento e si sarebbe ucciso. Non era sua colpa. Un suo rappresentante lo aveva tradito. Bisognò cedere.

L’atto notarile fu rogato e registrato con tutte le formalità della legge; e Augusto Klein sborsò l’interesse anticipato del primo semestre. Con tutto questo Riccardo non era tranquillo. Le ironie dell’avvocato Pagliardi, che esortava i Valmeroni a recitare il deprofundis su quelle sessantamila lire, lo ferivano crudelmente.

Intanto Augusto Klein aveva aperto in Milano una succursale ai suoi negozi di Vienna. Era una garanzia; e, nel medesimo tempo, una fonte di continui fastidi per Riccardo, poichè, tanto sua sorella che suo cognato lo [p. 234 modifica]trattavano con grande freddezza. Trovandosi sola con lui, Eugenia fingeva di non vederlo, o gli voltava le spalle.

Durante tutto questo tempo Faustino Belli non si era fatto vedere. Viaggiava all’estero. E Riccardo pensava nel suo segreto che quel viaggio non fosse casuale. Conveniva troppo all’intimo amico di casa Valmeroni di essere lontano durante quei dibattiti. Non era egli stesso che aveva combinato la vendita della loro collezione?... Non era opera sua il matrimonio di Eugenia con Augusto Klein? La sua presenza in quel momento di crisi poteva giovare ai Valmeroni; conoscendo bene Augusto Klein, avrebbe potuto e dovuto dire francamente cosa ne pensava. Ed egli preferiva starsene lontano. Leonardo diceva qualche volta:

— Se fosse qui Faustino!

Faustino non pensava al ritorno; e le lettere che Leonardo gli scriveva, non lo raggiungevano. Quando gli scriveva a Parigi, era a Londra; se lo credeva ancora a Londra, era a Berlino. Telegrafava semplicemente: „Inutile scrivere: non sono fermo nessun luogo.“

Da Berlino egli scrisse una breve lettera a Maria. Breve e misteriosa era la lettera, ma tenerissima. L’amava sempre; non pensava che a lei, e attendeva il giorno in cui l’avrebbe costretta a credergli.

La fanciulla nascose la lettera e restò [p. 235 modifica]pensosa. Un mutamento era avvenuto in lei; non aveva più entusiasmo nè ardore per quel suo sogno. E ne soffriva orribilmente perchè le pareva di non riconoscersi più; le mancava quel punto di luce e di calore che è come il centro della vita, intorno al quale la nostra coscienza si raccoglie e sente la propria unità. La luce oscillava, il calore diminuiva tutti i giorni.

Da bambina ella era stata molto devota con l’ingenuità dell’anima ignara, innamorata del meraviglioso. Più tardi, studiando, leggendo, conversando con la sua prozia che era un’anima fervente, ma senza religione formale, un’anima sacrata all’idealità, divinatrice di mondi migliori, sciolta da ogni vincolo dogmatico, ella aveva riconosciuto che la religione della sua infanzia non rispondeva più alle sue nuove aspirazioni, come non poteva essere accettata dal suo intelletto.

Allora ella aveva rivolta tutta l’anima alla ricerca di una luce, di una guida che la sostenesse nella vita, come quella santa vecchia che si era fatta un culto del suo unico amore, trasportandolo poi nel figlio, nei nipoti, e nei pronipoti; così ella sognava di amare un uomo che sovrastasse alla folla per intelligenza e bontà, e amandola di pari amore la innalzasse fino a lui, iniziandola alla pura religione d’amore, alla vera religione umana. Faustino Belli le era [p. 236 modifica]parso quell’uomo. Ed egli le aveva giurato amore. Ma subito il dubbio si era seduto al suo capezzale, quasi che Faustino con le sue prime parole d’amore avesse spezzato il dolce incanto del sogno. Nel medesimo tempo erano venute le maldicenze, gli avvertimenti, circostanze inestricabili, parole oscure, e tutto aveva contribuito a renderla incerta, vacillante, e sempre più infelice. In fine, come se non bastasse, Riccardo, in un impeto di passione, l’aveva stretta al cuore e l’aveva baciata e ribaciata sulla fronte, sugli occhi, sulle labbra. Invano ella lo aveva respinto, soggiogato. Quei baci erano rimasti sulle sue labbra ed ella non poteva cancellarne l’impronta.

Eppure, si teneva sicura di non amare Riccardo. A momenti le pareva di odiarlo per quella violenza che le aveva fatta. Per quella violenza, senza propria colpa, ella era stata baciata da un uomo che non era quello da lei prescelto; e non poteva dimenticare quei baci. Il fuoco di quelle labbra giovanili era penetrato nel suo sangue; ella lo sentiva. Così mentre il suo pensiero e la sua volontà si lanciavano verso il lontano ideale, il suo cuore rimaneva muto, freddo, incerto. La divina unità del suo essere era perduta: la sua vita era scissa: la religione d’amore le cadeva ai piedi infranta come quell’altra; tutto cadeva; tutto periva. Questo pensiero l’accasciava; la [p. 237 modifica]seguiva nella scuola, le rendeva penoso e triste il lavoro. Lo scopo di tanta fatica?... Il perchè?...

Vivere... soffrire.

Ora ella sperava nel riposo, nella campagna. Forse quella sofferenza veniva in parte dalla stanchezza; era forse la malattia di nervi, il male di moda.

La campagna poteva guarirla.

— Quando si parte?

— Presto, presto — rispondeva la signora Elisa, che stava mettendo degli abiti in una cassa. — Tra due o tre giorni. Avrai tutto il tempo di annoiarti, non temere.

— Annoiarmi? Perchè?

— Perchè la nostra è una campagna noiosa; vedrai.

— Mi pareva invece che ci siamo tanto divertiti otto o dieci anni fa, quando ci siamo stati tutto un autunno con la nonnina.

— Allora avevi dodici o tredici anni e ti divertivi a fare il chiasso. Giorgetto e Erminia si divertiranno moltissimo, vedrai; ma tu no. A meno che non vengano molti amici a trovarci. Io ho fatto qualche invito, ma il signore che comanda adesso in questa casa non vuole che se ne facciano molti, e quei pochi forse non verranno.

— E’ Riccardo il signore di cui ti lagni?

— Chi altri dunque? Non credevo mai che dopo essere stata signora e padrona per tanti anni, mi toccasse ora obbedire ad un ragazzo. [p. 238 modifica]

— E tu l’obbedisci veramente?

La signora si lasciò scappare una risata.

— Oh! il meno che posso, come ho sempre fatto con chi ha preteso di comandarmi! Ma, insomma, è lui che comanda.

Maria la guardava sorridendo. Che donna beata! Non s’era inquietata, neppure nei momenti più gravi, purchè ella potesse vestirsi bene, aver molte persone intorno a sè, essere ammirata e corteggiata. Essere bella e divertirsi: la vita non aveva altro significato per lei.

E avrebbe sacrificato un mondo pur di soddisfare quel suo prepotente bisogno. Senza la sorveglianza di Riccardo ella avrebbe dilapidato in un paio d’anni tutti i denari che erano riesciti a riscuotere da queirusuraio di Augusto Klein. Nonostante la vigilanza di Riccardo era certo che ella trovava il modo di spendere allegramente il più che poteva. E suo marito l’adorava; e lei stessa protestava di amarlo con tutto il cuore; le stesse proteste le faceva ai figliuoli; e forse era sincera, purchè non le impedissero di essere bella e divertirsi. Ora Maria provava quasi un senso d’invidia per quella bella bambola così serena nel suo egoismo. E si diceva tristamente:

„Lei almeno ha avuto un obbiettivo sicuro nella vita: essere bella e divertirsi. Cosa chiara e semplice. Io non saprei appagarmi di così poco. Valgo più di lei? Chissà. Sogno tante cose! [p. 239 modifica]Vorrei l’infinito. Quando mi affaccio da un’altura e guardo l’abisso.... Non vorrei buttarmi giù a capo fitto come dice Tolstoi di quelli che hanno il male russo... no! a capo fitto, no; ma sento in tutto il mio essere il desiderio, quasi il bisogno di lanciarmi nello spazio, e sempre — malgrado la mia ragione — provo un indicibile stupore di non poterlo fare. Non mi sono mai affacciata ad una finestra senza provare, più o meno intensamente, queste sensazioni di slancio, di delusione e di stupore. E un ricordo o una malattia? Sono forse vissuta, prima di nascere sulla terra, in una stella ove gli esseri organici pesano meno delfaria che possono muovere?...“

— A cosa pensi? — domandò la signora Elisa, voltandosi improvvisamente.

Maria si riscosse tutta a quel richiamo inaspettato.

— Dormivi?

— Sognavo.

— Amore?

— No, zia.

Angelica entrò nella camera vestita di tutto punto per uscire. Indossava un vestito di batista velata rosa pallido con ricami e trine. Le spalle ed il petto trasparivano in un latteo candore dalle trine e dai ricami. In capo aveva un cappellino di paglia ornato da un mazzo di rose finissime. Non pareva più la monella di alcuni [p. 240 modifica]mesi addietro: pareva tutta rammorbidita, ingentilita: la sua delicata bellezza era sbocciata meravigliosamente.

I gesti incomposti, le risate eccessive, gli scoppi di voce sguaiatamente volgari, che erano stati la sua prerogativa, non le appartenevano più: camminava con grazia dignitosa, si moveva con flessuosa eleganza, parlava con dolcezza modulando la voce; un po’ affettata, ma carina. Somigliava prodigiosamente a sua madre. Vedendola, la signora Elisa esclamò:

— Oh! sei già pronta. E i ragazzi?

— Sono pronti: li ha vestiti la Giuditta: sa fare.

La Giuditta — la figliuola dei portinai — era entrata al servizio dei padroni, tra cameriera e bambinaia, dopo il matrimonio di Eugenia, dacchè Angelica, salita al grado di signorina da marito, non poteva più uscire sola con i ragazzi, nè sbrigare altre troppo volgari faccende.

— Ora mi vesto — disse la signora Elisa. E chiuse la cassa. — Son già mezzo vestita; non mi manca che l’abito e il cappello.

Di fatti quando si tolse l’accappatoio di mussola azzurra, ella apparve in sottogonna di seta. Dal copribusto scollato e senza maniche le uscivano le spalle e le braccia nude di forma perfetta, candide, compatte.

— Che belle braccia ha la mamma!

— E l’ultima bellezza che si acquista, figliuole mie, e l’ultima che si perde. [p. 241 modifica]

— Tu non vieni alla passeggiata?

Maria scrollò il capo.

Dacchè era in vacanza non aveva più voglia di uscire. Stava così bene in casa!

La giovane cameriera condusse Giorgetto ed Erminia, benissimo vestiti, ma niente trasformati; gli abiti eleganti non li mettevano in soggezione; anzi, gridavano, bisticciavano, piagnucolavano peggio di prima.

Angelica disse sottovoce a Maria:

— Che noia doversi trascinare dietro questi bambocci! Se mettessero Giorgetto in collegio, Erminia diventerebbe subito più buona.

— Maria, vuoi farmi il favore di appuntarmi la veletta?

— Sì, zia.

— Andiamo.

Si salutarono; e Maria andò alla finestra per vederle passare.

Esse avevano appena svoltato l’angolo, quando una carrozza si fermò davanti al portone. Ne uscì una signora nella quale Maria riconobbe Antonietta. Le corse incontro con un grido di gioia.

— O cara, cara!... Come hai fatto bene a venire, ora non ho più la scuola e posso stare tutto il giorno con te. Hai qualche valigia?

— Sì. Le ho consegnate al portinaio. Eccolo. Falle mettere in camera tua. Dormirò nell’ottomana... Sei contenta? [p. 242 modifica]

— Contentissima.

Le valigie furono collocate. Le clue amiche restarono sole e Antonietta si buttò singhiozzando nelle braccia di Maria.

— O Antonietta, povera cara, cosa ti è accaduto?... Parla, sfogati... Oh, tu che sei tanto forte, piangere così!

— Ho sofferto... Ora non voglio più soffrire. Tutto è finito.

E si rimetteva a piangere. Maria la baciava teneramente in silenzio. Sentiva che quelle lagrime erano necessarie al cuore oppresso della sua amica, e bisognava lasciarle scorrere. Intanto pensava di quale natura potesse essere il dispiacere che aveva così penosamente colpita quella sua diletta.

E il cuore le suggeriva il nome d’Isidoro. I più atroci dolori non ci vengono forse dalie persone più care? Non osava interrogarla temendo di pronunciare una di quelle parole malcapitate che esasperano un’anima ferita.

A poco a poco Antonietta si calmò.

— Io non ritornerò più con gli zii — disse.

— Non ritornerai più?! Cosa è avvenuto?

— Ti racconterò.

— E Isidoro? Non ti ama più?...

Antonietta alzò le spalle.

— So io se mi ama? Anche se mi ama è un amore inutile. Non potremo mai essere uniti. Due donne si oppongono alla nostra unione: [p. 243 modifica]sua madre e un’antica amante. Ti pare poco orribile? Oh!... bisogna finirla. Devo, sì, devo strapparmelo dal cuore.

E i singhiozzi tornavano a soffocarla.

Qualche ora dopo ella potè raccontare albamica gli avvenimenti che l’avevano spinta a uscire dalla casa dei Pagliardi. Isidoro insisteva da qualche tempo perchè ella andasse con lui a Torino, promettendole di fare subito il matrimonio religioso, il quale però doveva restar segreto, non solo per non offendere sua madre, com’egli diceva, ma anche per quell’altra donna che era capace di fare un chiasso e d’insultarlo pubblicamente. Antonietta sapeva tutto ciò, sebbene Isidoro non gliel’avesse detto; e una grande tristezza l’opprimeva al solo pensarvi.

Nel frattempo, quell’anima generosa che era Paolo Venturi aveva giurato di appianare ogni difficoltà. Tutti i giorni egli andava a trovare sua zia, la signora Arquati, e un po’ con le belle, un po’ con le brusche, un po’ scherzando, un po’ ragionando, cercava di convincerla del gran bene che avrebbe fatto acconsentendo al matrimonio d’Isidoro con Antonietta, sborsando anche i denari necessari per il deposito. E anche l’altra avversaria cercava egli di pacificare con lunghe lettere e la promessa di una somma in denaro che si proponeva di pagare del proprio. Credeva quasi d’aver vinto e pensava di proclamare la vittoria, allorchè impensatamente la vecchia, [p. 244 modifica]assediata, non sapendo come difendersi, si ribellò con violenza, colmando il nipote d’ogni vituperio: accusandolo d’insidie immaginarie, facendogli insomma una di quelle scenate di donna vecchia e rabbiosa, contro le quali un gentiluomo non sa come reagire.

La vipera aveva rimesso fuori il capo; altro che amor materno, altro che tenerezze! L’amor materno era per lei ciò che è per molte altre donne: un bel manto nel quale si avvolgeva con compiacenza perchè vi poteva nascondere il suo egoismo. Ambiziosa, avida di dominio, e naturalmente innamorata del suo bel figliuolo come tutte le vecchie che hanno un figlio unico, ella avrebbe voluto clic egli non si sposasse mai ed era pronta a detestare la sua futura nuora. Trattandosi di Antonietta la detestava doppiamente, perchè era povera, perchè era nipote di sua cognata, perchè la sentiva intelligente e senza confronto superiore a lei.

Le insistenze di Paolo prima la sorpresero, poi la inasprirono. Ma taceva per paura di compromettersi con un cattivo ragionamento; ed egli interpretava quel silenzio nel senso più favorevole. Allora, come certi ragazzi spavaldi, ella ebbe paura d’essere caduta in un tranello, e si mise a gridare con quanto fiato aveva. Andò poi da suo fratello e si scagliò contro di lui, contro l’Ersilia, contro Antonietta, chiamando questa l’origine d’ogni suo male; maledicendo il [p. 245 modifica]momento che suo fratello l’aveva presa in casa per sollevare di una bocca quei pezzenti Valmeroni.

— Dopo tali fatti — concludeva Antonietta — io non potevo rimanere neppur un giorno in casa dei miei zii, dove non ero più che una causa di dissidi e di querele. L’avvocato mi comprese e mi approvò. Non poteva fare diversamente. Devo però riconoscere che la mia partenza lo ha addolorato. Mia zia, poveretta, piangeva come una bambina. Così è che io son qui oggi. Loro andranno a Aix-les-Bains con la signora Arquati; e questo sarà per il momento il motivo palese della mia venuta.

— Povera Antonietta! Hai fatto bene. Qui sei in casa tua; e io sono felice di passare tutta una vacanza con te dopo tanti anni. Intanto le cose si metteranno a posto e tu ritornerai a Pavia e sposerai Isidoro.

Un triste sorriso errava sulle labbra di Antonietta. Non voleva saperne più di Pavia. Quanto a Isidoro, aveva preso le parti di sua madre, accusando lei e Paolo di averle fatto violenza. No, no, non voleva più saperne. Voleva restare a Milano e lavorare.

— Cosa farai?

— Non so ancora. Ci penserò. Parliamo ora di ciò che succede qui. Si spende mi pare a rotta di collo. Ho visto Angelica vestita come una contessina. Si tratta di trovarle marito, vero? [p. 246 modifica]

— Naturalmente: ed è tanto graziosa che certo lo troverà. Non so peraltro se lo troverà bello, giovine e ricco, come dice lei che lo vuole.

— Difatti, non è facile. E Riccardo?

— Riccardo fa quanto può per frenare la dilapidazione e ritardare la rovina.

— E un bravo figliuolo. E Klein ha minacciato il fallimento?

— Sì: fallimento e suicidio, se lo forzavano a sborsare le sessantamila lire che deve ancora. Vi furono scene dell’altro mondo, comiche e disgustose. Ora si sono accomodati; Klein paga il sei per cento per tre anni. Se fosse sicuro che pagherà, sarebbe meglio così: avrebbero una rendita assicurata per tre anni. Ma chi sa come l’anderà.

— E il babbo cosa dice?...

— Oh, è molto triste. Certi giorni temo che impazzisca. Va lassù, nell’antica galleria, in quelle stanze malinconiche, dove non c’è più che la vecchia spinetta, alcune medaglie e un mucchio di quei ferravecchi, comperati per meraviglie; e passeggia in su e in giù delle ore. Forse piange o sogna. La spinetta non la tocca più. Un giorno si era rimesso intorno al suo organo, pareva che volesse terminarlo. Ma tua madre dichiarò che non voleva avere la casa ingombrata con quelle sciocchezze, e lui smise. Ella non pensa che a spillargli denaro. E Riccardo vi si oppone per quanto può. È una lotta penosa tra madre e figlio. [p. 247 modifica]

— Povera casa!... Andiamo a salutare il babbo. È di sopra?

— Credo.

Si alzarono. Antonietta si rinfrescò la faccia e si ravviò i capelli. I suoi occhi neri splendevano nel dolore; e dal suo atteggiamento traspariva una coscienza nuova.