Sino al confine/Parte II/Capitolo III

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Capitolo III

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III.


L’autunno indorava di nuovo le vigne, e le macchie della brughiera riflettevano il colore rugginoso delle nuvolette immobili sull’orizzonte.

Seduta sotto la quercia Gavina guardava lontano e anche l’azzurro dei suoi occhi come quello del cielo era velato di tristezza. Invano ella cercava di scacciare i ricordi; essi [p. 125 modifica]l’assalivano come il vento assaliva la quercia, piovevano su lei con le foglie che la vecchia pianta le buttava sulle mani e sul capo.

Come in «un giorno lontano» ella aspettava un uomo; ma non sentiva più e mai più avrebbe sentito quel senso di mistero e d’attesa provato mentre Priamo saliva l’erta. Ella lo sapeva: e guardava innanzi a sè vigile e melanconica, e le pareva che il suo avvenire rassomigliasse all’orizzonte autunnale, ancora azzurro ma già velato e qua e là come macchiato di ruggine.

Quando Francesco arrivò, a piedi, coperto di polvere, e dalla strada la salutò militarmente per dimostrarle che non era stanco, ella ricordò «l’altro» e s’irrigidì. Francesco non era per nulla mutato; conservava persino le stesse vesti tutt’altro che eleganti dell’anno passato; gli stessi calzoni turchini, gonfi sulle ginocchia, la stessa cravatta nera svolazzante che accresceva il fosco pallore del suo viso.

Senza alzarsi Gavina gli porse la mano e domandò:

— Ha veduto Luca? Le ha detto come è stato male?

Francesco la guardava fisso, cercando invano di vincere la sua commozione, e sorrideva, mostrando tutti i suoi bei denti, ma ansava un poco.

— Sì, mi disse che è stato un mese in [p. 126 modifica]montagna, e adesso mi pare che stia bene. E lei, piuttosto, lei come sta?

— Bene. Sto in villeggiatura anch’io, adesso! Le chiedo scusa se l’ho fatto venire fin qui. È stanco? È venuto a piedi? Mi scuserà....

— Ma perchè parla così? E la signora Zoseppa?

Ella mise una mano sul muricciuolo, accennandogli di sedersi accanto a lei.

— È giù nella casetta. Se non le dispiace, prima di andare dalla mamma parleremo un po’. Bisogna che parliamo di Luca e.... di altre cose....

— Soprattutto di altre cose, — egli disse, sedendosele accanto e volgendosi tutto a lei, senza mai staccarle dal viso lo sguardo luminoso.

Ma gli occhi di lei sfuggivano quello sguardo, e il suo viso restava serio. Anche Francesco s’oscurò in viso.

— Parli, parli, — disse quasi umilmente, — non mi lasci in pena.

— Senta, — ella cominciò, ripiegandosi su sè stessa in atteggiamento stanco e appoggiando i gomiti alle ginocchia e il viso alle mani, — lei mi ha scritto che è venuto per me, per domandarmi se finalmente le voglio bene. Lei spera questo, perchè in questi ultimi tempi le ho mandato qualche saluto affettuoso. Ora devo dirle tutto.... sì, ho pensato [p. 127 modifica]sempre a lei, ma.... non con molta passione. Le voglio bene, sì, ma non come forse lei desidera.... le voglio bene, ma....

— Non con molta passione! Lo so, lo so!

— Io non sono capace di una passione, — ella aggiunse tosto, come per rassicurarlo e confortarlo. — Però.... mia madre dice che questo non è necessario per un buon matrimonio! Io le vorrò bene, Francesco; ho piena fiducia in lei ed in me stessa: cercherò di renderla felice, come meglio saprò, con tutte le mie forze. Bisogna però che c’intendiamo prima su parecchie cose.... Parliamo di Luca....

Egli fece un gesto come per dire: «parliamone pure, sebbene io non ci tenga affatto», ma subito parve pentirsi e ascoltò con attenzione.

— Luca è completamente alcoolizzato: lei lo sa. La sua manìa di persecuzione aumenta. Io non gli feci mai alcun male; certo, sono stata sempre severa con lui; credevo di far bene, forse ho fatto male, ma involontariamente. Egli è stato sempre il nostro tormento; e forse un giorno potrà dare molestia a me e molestia a lei. Ci pensi, Francesco. Non si sposa allegramente una donna che ha parenti simili!

— Io mi sposerò con lei, non con Luca, — disse Francesco, quasi ironico. — Che molestia potrà darci? È un infelice, un malato; messo in un altro ambiente potrebbe migliorare: ricorda? io proposi di mandarlo in una casa [p. 128 modifica]di salute. Noi potremo anche farlo venire da noi....

Gavina sollevò il capo spaventata.

— Oh, questo poi no! no.... questo no! La miglior cosa che io possa fare, anzi, è di allontanarmi da lui. Egli ha paura di me, una paura pazza.... ma quel che è peggio è che anch’io comincio ad aver paura di lui!

— Non si preoccupi oltre! Farò quello che lei vorrà: glielo prometto.

— Me lo promette davvero? — ella insistè, guardandolo; ed i suoi occhi, velati da una sofferenza quasi fisica, erano così tristi e supplichevoli che Francesco si turbò.

— Vuole che glielo prometta per iscritto? — domandò, scherzando per nascondere la sua inquietudine. — Tutto quello che vuole! Parliamo ora delle altre cose.

Gavina parve ricordarsi; guardò ancora davanti a sè e riprese la posizione di prima.

— Aspetti!... Avevo tante cose da dirle.... e adesso non le ricordo più. Un’altra cosa che mi preme assai, che anzi mi preme più di tutte, è questa. Lei lo sa.... io sono credente. Un tempo lo ero di più: ero quasi bigotta.... So che lei non è credente, ed io non l’annoierò pretendendo che lei si converta, ma anche lei mi lascerà libera di praticare la mia fede.

— Lei sarà padrona di fare quello che vorrà; ormai io la conosco, Gavina, e non ci sarà del merito, da parte mia, di concederle piena [p. 129 modifica]libertà.... perchè so che ella non è capace di fare cattive azioni. Vede.... io.... sono ben disposto!...

Ella lo vedeva, sì, egli era disposto ad accettare tutti i patti che a lei piaceva imporgli; ma le parole di lui continuavano a sembrarle ironiche. Egli pretendeva di conoscerla: oh, no, no; se l’avesse conosciuta bene non avrebbe parlato così!

— ....Vede, io l’apprezzo forse più di quante lei stessa si apprezza. Io ho sempre avuto per lei una viva ammirazione. Ella era ed è diversa da tutte le altre donne che io conosco; ed io mi sono innamorato di lei da ragazzetto, prima ancora che lei fosse donna, perchè leggevo l’intelligenza e la saviezza nei suoi occhi. Ricorda? Lei veniva a chiamare Michela: io stavo alla finestra e mi ritraevo perchè avevo soggezione di lei!

— Sì, ma una sera della settimana santa....

— Sì, ricordo benissimo! Sì, sì, ero come ebbro quella sera.... poi ricordo la notte in cui il padre di Michela venne qui in cerca di Luca. Ricordo sempre quella sera, l’orto, l’elce, il razzo! Lei rideva di me; io ero egualmente felice. E lei, poi, non badò mai a me; forse io l’amavo ancora più per questo: lei era per me la vetta scintillante che ci attira senza chiamarci! E noi camminiamo, camminiamo, inebriati dalla nostra stanchezza, dalla nostra sete, dal nostro dolore... [p. 130 modifica]

— E lassù c’è soltanto neve!

— Neve per la nostra sete; ma anche sole e poesia d’immensi orizzonti.

— Poesia! Ah, è vero, lei è anche poeta, anzi poeta più che scienziato! — ella disse riprendendo il suo accento ironico. — Ed io!... Lei dice di conoscermi: ma ecco, volevo dirle anche questo.... io sono cattiva. Un tempo credevo di essere buona, adesso.... credo il contrario. Sono fredda, incapace di passione, e nello stesso tempo gelosa e vendicativa, severa con me stessa e con gli altri. Ho già tanto sofferto; son quasi stanca della vita!

Francesco s’irritò:

— Non parli così, Gavina! Oh, se sapesse, se sapesse! Lei non ha conosciuto il dolore, no: ed è stanca, non della vita, ma della sua vita; lei è come una pianta rigogliosa chiusa in un vaso troppo stretto. Mi lasci dire.... lei non ha ancora vissuto.... che cosa ha veduto lei?

— Non occorre andare negli ospedali per vedere il dolore!

— Stia zitta, per carità! Chi parla di ospedali? Mi guarderò bene dal condurla a veder gli ospedali: è là appunto che il cuore si atrofizza: il dolore non si sente più. Non tema....

Ella ebbe timore di averlo offeso, tuttavia non gli domandò scusa.

— Ma di che parla, allora?

— Parlo della gioia, non del dolore. Non [p. 131 modifica]cerchiamolo, questo qui.... lasciamolo in pace, come il leone che dorme! Se lei sapesse come Roma è bella e grande: vedrà, le parrà di rinascere. Ho pensato sempre a lei, a Roma. Pensavo: «ella vive fra quattro pareti, in un mondo meschino, mentre qui sarà padrona di sè stessa, e conoscerà finalmente la vita....»

Gavina palpitava, ricordando le parole di Priamo quasi identiche a quelle.

— Io, poi, spero di renderla felice. Lei, a questo non ci pensa.... perchè non mi ama! Ecco perchè è stanca della vita; non ama. Ma forse mi amerà.... forse mi ama già un pochino.... me lo dica: mi guardi! Su, stia dritta, guardi in alto, non in basso.... e non pensi alle cose inutili che finora le hanno ingombrato il pensiero! Poco fa le ho espresso un paragone; ora gliene dico un altro. Lei non ha mai veduto una barca ingombra di zavorra.... Già, lei non ha neanche mai veduto una barca: si vergogni! e poi dice che ha vissuto.... lei è appunto come una barca ingombra di zavorra; e non può quasi muoversi: buttiamo via la zavorra: veleggeremo....

— Io non amo veleggiare....

— E lei non ama niente! Ecco perchè tutto le sembra triste e brutto. La vita è bella quando noi sappiamo amarla; ma bisogna uscire dal cerchio del nostro io, per essere felici. Basta vivere un pochino accanto agli [p. 132 modifica]altri, paragonare la nostra felicità all’altrui dolore, il nostro dolore all’altrui felicità, e cercar di sapere, di lottare, di vivere in comunione con la natura, di ammirarla quando è bella, combatterla quando è cattiva, e sentirci orgogliosi di essere uomini, felici di esser sani, soddisfatti di esser utili a noi ed agli altri. Lei comprende queste cose. Bisogna anche praticarle; si sforzi un poco, Gavina: io sarei infelice accorgendomi non di essermi ingannato ritenendola capace di amarmi, ma d’essermi ingannato ritenendola capace di amare la vita. Gavina?

Parlando egli si animava, diventava quasi bello. Le prese una mano, gliela baciò più volte, ripetendo in tono interrogativo: Gavina? Gavina?

Ella non era abituata a questi modi, a questo linguaggio, e suo malgrado l’immagine della vita che egli le faceva balenare davanti agli occhi stanchi di contemplare un orizzonte vuoto la turbava. Ma fu un attimo. Ella aveva troppo imparato a disamare la vita ed a considerarla un semplice diritto di passaggio in terra straniera, per rallegrarsi all’idea di possederla intera, esclusivamente sua.

— Ma io, per me, sono felice! — disse sollevando la testa col suo fiero gesto. — Oh, per me!... mi basta così poco! Ma gli altri.... gli altri....

— Ma appunto perchè non ha mai pensato [p. 133 modifica]a lei, al suo diritto di vivere, è stanca della vita.... — egli replicò, facendosi sempre più ardito e cercando di abbracciarla. — Il nostro primo dovere è di pensare a noi, per essere forti e sereni con gli altri. Tante volte l’altruismo è un eccesso di egoismo! Non le sarà mai capitato di far male per voler fare troppo bene?

Ella pensò nuovamente a Priamo.

— D’altronde, Gavina, io sono convinto che le discussioni son vane. Si chiacchiera, così, per chiacchierare; mentre solo i fatti, anche i più minimi, portano modificazioni profonde al nostro modo di pensare e di vivere. Mille volte ho pensato di scriverle; ma a che pro? Ella avrebbe letto e non approvato e forse frainteso le mie idee. Se invece avrà confidenza in me e mi seguirà son certo cambierà completamente carattere. Sarà felice.... vedrà.... le chiederò poco e le darò tutto ciò che potrò darle...

E per dimostrarle coi fatti, come diceva lui, la verità di quanto affermava, le baciò ancora le mani, e la strinse forte a sè, senza chiederle altro.

Gavina si turbava sempre più. Il contatto dell’uomo giovane e ardente le accendeva il sangue; ma invece di rallegrarsi per questo divino soffio di vita, ella provava un malessere strano, quasi un impeto di collera contro la sua debolezza; e siccome l’altro [p. 134 modifica]insisteva, e dalle mani le sue labbra salivano ai polsi e poi al viso, e infine cercarono arditamente le labbra di lei, ella si staccò da lui tremando e disse:

— Andiamo da mia madre.

La signora Zoseppa e il guardiano, intenti a ripulire un mucchio di grossi grappoli d’uva da tavola, non si erano accorti dell’arrivo di Francesco; e mentre toglievano gli acini guasti discutevano pacatamente sul miglior mezzo per impedire alle volpi e alle lepri di penetrare nella vigna

— Per me, — diceva il guardiano, convinto, — non c’è che l’alloro colto nella notte di San Giovanni. Una foglia qui, una lì, sul muro, e la volpe non passa neanche se a forza di saltare le viene l’ernia! Io ne avevo colto un fascio, quest’anno, ebbene, e non me l’ha rubato, il figlio della madre? Non so ancora chi sia, ma non dispero di trovarlo; e se ciò mi riesce gli fracasso la nuca. Ma chi viene, padrona? Guardi! La signora Gavina con un signore.

La signora Zoseppa capì perchè Francesco veniva, e il suo volto sereno si coprì di un rossore giovanile, e il suo cuore battè con violenza quasi affannosa; oramai era tanto abituata al dolore che la gioia la spaventava.

Gavina e Francesco si avanzavano e parevano tranquilli: entrambi della medesima statura, modesti e vestiti senza ricercatezza, [p. 135 modifica]formavano una coppia quasi fraterna; e questo dava da sperare in bene alla signora Zoseppa. Mentre ella si alzava e col grembiale si asciugava le mani umide di succo d’uva, Francesco passò in mezzo ai grappoli che parevano mucchi di grosse perle dorate, e l’abbracciò. Ella fece come Paska: si mise a piangere. E il servo, che aveva compreso tutto, volle uscire, ma nello scostarsi urtò il tavolo e rovesciò una bottiglia di vino.

— Allegria! allegria! — egli annunziò, come un araldo della buona fortuna; e uscì, ma gli parve che Gavina, ritta ancora sulla porta, non fosse allegra come avrebbe dovuto esserlo in quell’occasione.



Durante le due settimane che stette nella piccola città Francesco ottenne il permesso di visitare tutti i giorni la sua fidanzata. Le visite più liete, per lui, furono le prime. Si sentiva felice come un bambino e tutto gli piaceva e lo esaltava; il paesaggio, la stagione, il luogo dove lui e Gavina stavano lungamente seduti, la quercia, che di tanto in tanto mormorava come prendendo parte alla loro conversazione: ma soprattutto lo eccitava Gavina, pur così eguale a sè stessa, sempre [p. 136 modifica]fredda, sprezzante d’ogni civetteria. Egli credeva di conoscerla profondamente, e insisteva nell’idea di farle in qualche modo cambiar carattere, di riuscire a innamorarla, a scuoterla, a «vivificarla».

In fondo egli era un primitivo, non si affannava in vane domande e amava con gioia la vita solo perchè era la vita: forse per questa sua passione aveva scelto la carriera di medico, la lotta contro le insidie della morte; forse Gavina lo interessava perchè egli vedeva in lei un essere moralmente malato, un’anima morta da ridestare. Orgoglioso, di un orgoglio che pareva volontà tenace e paziente, voleva però far innamorare di sè Gavina anche per farle dimenticare ch’essa era ricca e lui povero; quindi cominciò a corteggiarla con ardore; ma ella capiva, e più egli si mostrava appassionato, diventandolo davvero, più ella si ritraeva disgustata e turbata.



Fra le condizioni imposte da lei vi era quella di non partecipare a nessuno il loro fidanzamento, fino alla vigilia del matrimonio.

— Non occorre far sapere agli altri la nostra felicità.

Seduta sotto la quercia, col viso fieramente [p. 137 modifica]sollevato, ella pareva sdegnasse davvero ogni contatto col mondo lontano; eppure, quando era sola, ogni foglia che cadeva la turbava. Le sembrava che il vecchio albero le rinfacciasse il passato, e nelle notti limpide quel mormorio le diceva cose strane e lamentose. Allora, nel dormiveglia, ella confondeva l’immagine di Francesco con quella di Priamo; ed entrambe le figure, ardenti e tenaci, la seguivano nei suoi sogni, la tentavano, le destavano confusi desideri: ma anche sognando ella le scacciava con terrore, sembrandole di peccare doppiamente!

Il giorno della vendemmia Francesco arrivò presto, con Luca e col canonico Sulis; ma per non dar sospetto ai vendemmiatori, i due fidanzati evitavano di avvicinarsi. Francesco aiutava le vendemmiatrici e scherzava con loro, e ad un tratto sparve, e ritornò nella vigna vestito con gli abiti del canonico Sulis: le donne risero tanto che dovettero sedersi per terra.

All’ombra della quercia il canonico Sulis in maniche di camicia e con due lunghe e larghe borse di tela turchina pendenti sui fianchi, leggeva il breviario; e quando Gavina andò a chiedergli se avesse bisogno di qualche cosa la fece sedere accanto a sè e le scompigliò i capelli, ridendo goffamente perchè lei si stizziva.

— Voi, — le annunziò (le dava dei voi [p. 138 modifica]nelle grandi circostanze) — voi sarete una buona moglie.

— Speriamo!

— Certamente! — egli ripetè, ficcando il breviario in una dello borse, entro la quale cominciò a frugare cercandovi qualche cosa. — Avete a chi rassomigliare. Però, non vi nascondo che qualche timore mi agita, riguardo alla vostra residenza nella capitale, perchè le capitali moderne, oramai sono diventate il campo dove il diavolo miete più vittime. Io sono stato a Roma: mi ricordo bene; là, tutto risplende; vi sono vetrine di oggetti di lusso, inutili e pericolosi, davanti alle quali voi stareste tutto il giorno, commettendo peccati di desiderio. E i luoghi di divertimento? I caffè, i teatri, le «vedute?» Non si contano. Quelle sono le tane vere e proprie del diavolo. Mi raccomando! Attenzione, figlia mia, non lasciatevi abbagliare: la grande città è come un fiume; risplende e dove più risplende nasconde i gorghi peggiori. Abbiamo veduto persino dei santi corrompersi in questi luoghi. Attenzione! attenzione! Chi poi ci va mezzo diavolo ci riparte diavolo del tutto! A proposito, vi dirò un’altra cosa, poi....

Ella si accomodava i capelli e un sorriso che poteva essere di disprezzo per lo tentazioni di cui parlava suo zio, ma poteva anche essere di compatimento per la semplicità del buon canonico, le increspava le labbra. [p. 139 modifica]capiva chi era il «mezzo diavolo» a cui egli accennava.

— Non sono una scema, zio! — disse con superbia.

Ma lo zio la sgridò. Fidarsi delle proprie forze, dire «io non peccherò», è uno dei più gravi peccati di presunzione. Anche San Pietro peccò e non era uno scemo.

— Un’altra cosa, poi! C’è il brutto vezzo, ora, di permettere qualsiasi lettura alle donne maritate. E che forse una donna maritata è diversa da una ragazza? In che cosa è diversa? domando io....

Gavina non glielo seppe dire.

— Ebbene, — egli riprese, frugando sempre nelle sue grandi tasche turchine — specialmente nelle grandi città le donne leggono tutto; e questo finisce di compiere l’opera del diavolo. Ti guarderai bene dal seguire l’esempio delle altre donne.

Gavina non era mai stata un’appassionata lettrice di romanzi, e tanto meno desiderava leggerli adesso che credeva di conoscere le emozioni e le passioni colpevoli in essi descritte.

— Ma zio! Che vi salta in mente? Io sarò sempre quella che sono stata finora.

— Lo so! lo so! — egli disse, trionfante. Poi subito s’oscurò in viso. — Ho da dirti una brutta cosa, ma brutta!

Colta da un presentimento Gavina s’alzò e [p. 140 modifica]s’appoggiò al tronco della quercia, mentre il vecchio diventava cupo quasi come il canonico Bellìa.

— Ebbene, Priamo partirà fra giorni: andrà vice-parroco al suo paese. Il vescovo è stanco, oramai. Si dice una brutta cosa.... (egli esitò un momento). Sì, è meglio che te la dica, poiché tutti lo sanno: la tua bell’amica s’era fidanzata con un contadino, ma continuava a ricevere Priamo.... e adesso pare che sia gravida e sebbene ella affermi che il padre del suo futuro figlio sia il fidanzato, costui l’ha abbandonata.... Che ne dici?

Gavina non rispose, assalita dalla stessa emozione paurosa che un giorno, nella cucina di Michela, le aveva avvolto l’anima di tenebre.

— Oh, ecco, prendi, — le disse lo zio, che finalmente aveva trovato nella sua tasca quello che cercava — E così ti dico, Gavina, non bisogna mai dire «io non berrò di quest’acqua».

Ella prese il piccolo dolce rotondo che egli le porgeva, ma lo guardò fisso, come un oggetto straordinario, e non lo mangiò; le pareva di affogare, attirata da un gorgo nero e putrido, mentre il mormorio della quercia echeggiava sul suo capo come una voce minacciosa.

Ma ad un tratto si scosse; si domandò perchè Francesco, che pure abitava in casa di Michela, [p. 141 modifica]non le avesse ancora parlato della «brutta cosa». Che egli dubitasse? Che egli credesse di recarle dolore? Bastò questo per ridonarle almeno l’apparenza della sua calma superba.

Dopo il pasto, mentre i vendemmiatori tornavano al lavoro, Francesco e il canonico andarono a sedersi sotto la quercia, e cominciarono a parlare animatamente. Spinta dalla sua inquietudine Gavina li raggiunse, ma all’avvicinarsi di lei entrambi tacquero, e il canonico si alzò e si sdraiò dietro il muricciuolo.

— Vado a prendervi un cuscino — disse Gavina.

— Questo è il miglior cuscino del mondo! — egli gridò, battendo la mano al suolo; e chiuse gli occhi, e subito dopo cominciò a russare.

Ella sedette sui muricciuolo, e Francesco le afferrò subito una mano e se la portò alle labbra. Nessuno li vedeva; i vendemmiatori lavoravano all’altra estremità della vigna, e il vento lieve del meriggio portava a tratti qualche grido, qualche risata di donna. Il cielo era d’un azzurro intenso, e l’aria trasparente come nei meriggi di primavera; il profumo della brughiera aveva un odore salmastro e il mormorio continuo e monotono della quercia imitava il rumore delle onde. Chiudendo gli occhi i due fidanzati potevano credersi in riva al mare o avrebbero potuto trascorrere un’ora soave, anche senza dirsi una parola: bastava [p. 142 modifica]stringersi l’uno all’altro e intrecciare le mani palpitanti; ma Gavina pensava ad altro, e ritirò la mano che egli baciava.

— Sarà vero ciò che si dice di Michela? — domandò sottovoce.

— Povera Michela, che disgrazia!

Ella alzò la voce:

— Ah, tu la chiami una disgrazia?

— Che vuoi che sia? Tutti gli errori umani son disgrazie!

Ella non protestò per non sembrargli animata da un sentimento di gelosia.

— Tu lo sapevi già? Perchè non me lo dicevi?

— Non sapevo nulla; me lo disse poco fa tuo zio. Del resto, tu ti meravigli di una cosa tanto naturale?

— Naturale? — ella disse con acredine; — tu chiami naturale una simile enormità?

— Tutto è naturale nella vita!... — egli rispose, volgendosi a guardare il canonico Sulis, che russava e soffiava tanto forte che pareva lo facesse apposta. — Che non mi senta tuo zio!

Ma ella gridava:

— Naturale? Ah, no, no, no.

— Tutto sta nel modo di considerare gli avvenimenti.

— Ah, no, no, caro mio! È questione di senso morale, anche! Io posso aver pietà di «quei due» ma non considero naturale il loro errore. [p. 143 modifica]

— Sai qual è l’errore in questo caso? È l’ostinazione di Priamo a non voler buttare la sua maschera odiosa. Questo errore io non lo scuso, no.... perchè egli non è un incosciente, no! Egli è intelligente, sano, forte; ma vada dunque a lavorare la terra, se non è capace di far altro!

Gavina s’irritava: non seppe per qual ragione, forse per far dispetto a Francesco, difese Priamo, e pronunziò una parola che fece ridere il fidanzato.

— La fatalità....

— Come, come? La fatalità? Ah, ti ho colta. E il libero arbitrio?

— Ah, in certe cose il libero arbitrio non c’entra! — ella disse, di nuovo fissando gli occhi in lontananza. — Noi crediamo di far del bene e invece facciamo del male....

— Non cade foglia che Dio non voglia....

Ma il viso di lei diventava così scuro che egli giudicò prudente di non scherzare oltre.

Ella pensava: «forse farei bene a raccontargli tutto» ma egli si stringeva nuovamente a lei, accarezzandole la mano, e diceva sottovoce:

— Guardami.... guardami.... a che pensi, Gavina?

Come sempre quando Francesco si accorgeva che ella era lontana da lui e la chiamava così, ella si scosse dai suoi sogni melanconici; sollevò gli occhi e pensò: [p. 144 modifica]

— Ma che devo raccontargli? Io non ho nulla da rimproverarmi, dopo tutto, e non devo far soffrire anche lui.

— Dimmi che mi vuoi bene, Gavina....

Ella non rispose, ma per la prima volta, nonostante la presenza dello zio, le sue labbra non sfuggirono le labbra di Francesco. Pareva volesse inebbriarsi per dimenticare.

— Tutto è finito: il passato non esiste più. Perchè tormentarmi? — pensava. E per giorni e giorni continuò a ripetere fra sè la stessa cosa; ma intanto si dava pensiero per il futuro figlio di Michela, domandandosi che cosa sarebbe accaduto della creatura innocente che ella s’immaginava destinata a tutti i dolori e le umiliazioni del mondo. Perchè Dio permetteva che questo essere infelice nascesse? Era la prima volta che ella domandava a Dio il perchè di un errore umano e il perchè delle conseguenze di questo errore, e invano dava a sè stessa confuse spiegazioni, ripetendosi che i voleri di Dio sono imperscrutabili: si accorgeva che entro di lei, quasi come nelle viscere di Michela, si destava qualche cosa di mostruoso e di sublime nello stesso tempo: la ribellione a Dio. Una sera, mentre stava seduta sotto la quercia, pensò: — e se anch’io perdessi la fede? — e provò un senso di buio, di vuoto, come se all’improvviso la roccia franasse sotto di lei.

Poi si creò dei rimorsi, e per non accusare [p. 145 modifica]Dio cominciò ad accusare sè stessa, chiamandosi la causa della disgrazia di Michela e del traviamento di Priamo.

Alla vigilia del ritorno in città vagò per la vigna spoglia, e mentre aspettava Francesco pensava ancora all’altro. Nulla le pareva mutato; fra le macchie della brughiera vagavano le pecore giallastre e il pastore cantava una canzone d’amore, monotona e nostalgica; all’orizzonte salivano piccole nuvole nere, simili a grandi uccelli messaggieri del freddo; pareva che la stagione calda fosse scomparsa coi grappoli, e che il sole impallidisse ora che le vigne non avevano più bisogno del suo calore. La terra si velava di melanconia, e quando giunse Francesco parve che il suo grido di saluto e le sue risate stonassero nel silenzio del luogo.

— Stanotte c’è la luna, — egli disse, prima di andarsene, — io ritornerò.... aspettami qui, sotto la quercia. Noi non ci rivedremo più, in queste condizioni: sarà uno dei nostri più dolci e poetici ricordi.

Ella arrossì, ma non accettò il convegno, anzi finse di offendersi perchè Francesco insisteva. Eppure quando fu sera andò a sedersi sotto la quercia. La notte era dolce, piena di mistero o di melanconia; le distese dei pampini spogli, grigi alla luna nuova che calava sotto la quercia, si confondevano con le macchie della brughiera; torme di piccole [p. 146 modifica]nuvole bianche salivano sull’orizzonte sopra le ultime linee argentee dei monti, e parevano greggie spinte da un pastore nascosto tra i vapori lunari. Ed ella, che avrebbe potuto, come diceva Francesco, serbare un ricordo poetico di quell’ora, uno di quei ricordi che si serbano come i gioielli preziosi, cari nei giorni lieti, utili nei giorni della miseria, s’immerse invece in un sogno di tristezza.



Le nozze erano fissate per la prima quindicina di gennaio, e il giorno dell’Epifania arrivò la madre di Francesco.

— Pare che tu arrivi dal paese dei Magi, — le disse Paska, non senza ironia.

La donnina infatti, seduta a cavalcioni su una giumenta grigia carica di bisacce, pareva una di quelle figurine che si vedono nei presepi, recanti doni al Messia.

Gavina, che un tempo aveva tanto disprezzato la piccola vedova, l’aiutò a smontare, la baciò, le dette il caffè, mentre la donnina, sbalordita, non si offendeva se Paska le rivolgeva parole ironiche, e non poteva ancora persuadersi che gente come i Sulis la trattassero da pari a pari.

Nel pomeriggio Gavina le fece vedere i suoi vestiti e il suo corredo, e per significare la sua ammirazione la donnina si batteva il [p. 147 modifica]petto e si faceva il segno della croce come se gli oggetti che vedeva fossero sacri.

— Qualche volta verrete anche voi a Roma! — disse Gavina.

— Bella figura farei accanto a voi due! Tutti si volterebbero a guardarci e direbbero: ma che miserabile suocera ha Gavina Sulis!

Gavina si mise a ridere: pareva molto allegra. Ma rimasta sola cominciò a preparare le sue cose per il viaggio che doveva segnare nella sua vita come un solco di divisione, e qualche sua lagrima cadde entro la cassa della biancheria come dentro una bara. Le pareva di seppellire il suo passato; ma quando la cassa fu riempita ella si sollevò e riprese il suo solito aspetto fiero: trasse dal fondo del suo cassetto le lettere e le cartoline firmate «P» le avvolse nel suo grembiale, scese nella cucina, in quel momento deserta, sedette davanti al camino e gettò il pacchetto sul fuoco. Addio! Tutto era finito da un pezzo: non rimaneva che il ricordo, e questo ora si riduceva ad un po’ di cenere. Immobile, cogli occhi fissi sul pacchetto che si carbonizzava avvolto dalle fiamme violacee, ella credeva di sentire alle sue spalle, per l’ultima volta, il suo canto monotono di fanciulla accompagnato dal rumore del macinino da caffè.


Torrat su corpus meu,
Pustis chi est sepultau,
A sett’unzas de terra...

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La vocina dolce della piccola vedova la svegliò dal suo sogno.

— È tardi, anima mia: non vai a vestirti?

Francesco doveva arrivare alle cinque. Gavina risalì nella sua camera e indossò un vestito di panno violaceo, il suo primo vestito elegante; e guardandosi nello specchio, al chiarore del tramonto fresco e limpido che ancora illuminava la camera, le parve di essere «un’altra». Quasi felice di questa prima trasformazione scese correndo le scale, ma mentre attraversava l’andito si fermò turbata.

Il postino batteva furiosamente alla porta, e i suoi colpi rimbombavano per tutta la casa. Ella non aspettava lettere, ma capì subito che quella che arrivava era di Priamo; e quando aprì la porta e il postino le diede un plico sigillato, ella non battè palpebra, ma s’irrigidì tutta. Rientrò nella saletta per firmare; guardò la busta coperta di sigilli, e uno sguardo selvaggio brillò nei suoi occhi. La lettera voluminosa non era certo un semplice augurio: era tutto il passato ch’ella credeva di aver distrutto; il passato che rinasceva dalle sue ceneri come un fuoco fatuo nei cimiteri.

Ma ella provò l’impeto di crudeltà dell’assassino che vuol finirla con la vittima riluttante; senza aprire la lettera vi scrisse due parole sopra, poi così intatta la chiuse entro un’altra busta. E la sua mano non tremò nello scrivere un’ultima volta il nome di Priamo. [p. 149 modifica]

Alla stazione, mentre Luca e il canonico Sulis chiacchieravano con la vedova, ella riuscì ad impostare il plico senza esser veduta; e solo dopo essersi liberata da quel peso parve abbandonarsi ad un’inquietudine sempre più crescente. Ma gli altri scusavano il suo turbamento che sembrava naturale in quel momento di attesa.



Dopo il pranzo, al quale erano stati invitati solo pochi parenti, i fidanzati andarono a sedersi accanto al fuoco, in cucina. Paska li lasciò soli, e Francesco si curvò subito a baciare Gavina come ancora non aveva potuto baciarla.

— Devo parlargli della lettera? — ella si domandò.

Ma nonostante la stanchezza del viaggio Francesco era allegro e felice: perchè scegliere quel momento, il primo in cui si trovavano soli, per offuscare la gioia di lui con una confidenza dolorosa?

— Domani... domani... forse... — ella pensò, e riprese a raccontare gli avvenimenti di quegli ultimi giorni.

— Fino a questi ultimi giorni nessuno sapeva del nostro matrimonio. Siccome per le pubblicazioni ci han visto andare al Municipio [p. 150 modifica]col tuo vecohio procuratore, tutti dicevano che io dovevo sposarmi con lui! Figurati i commenti, le risate, le maldicenze!

— Sono contento perchè il tempo è bello, — egli disse, senza troppo badare alle parole di lei. — Faremo una buona traversata. Ieri a Roma sembrava proprio un giorno d’aprile. Vedrai com’è bello; davanti alla casa ove noi andremo ad abitare c’è un villino con un giardino tutto fiorito di rose.

— Rose? — ella ripetè meravigliata; e mentre Francesco descriveva ancora una volta l’appartamentino della casa in via Piemonte, che egli aveva «prelevato» da una signorina francese, acquistandone anche l’elegante mobilio, ella osservò sottovoce:

— Tua madre dice che ieri, invece, sulle montagne ha nevicato.... dev’esser brutto in quei villaggi lassù. Ci dev’esser freddo....

Dopo un momento, seguendo il filo dei suoi pensieri domandò:

— Tu.... ti confesserai? Me lo hai promesso.

— Ma sì! Gliel’ho già detto a tuo zio; voglio anzi confessargli cose orribili, per spaventarlo.

— Non scherzare! — ella disse corrugando le sopracciglia; poi si alzò e volle uscire nell’orto.

La notte era così chiara che si distinguevano le ombre delle macchie sulle chine della montagna. S’udiva il torrente, e nell’orto nudo l’ [p. 151 modifica]elce solo con la sua chioma intatta descriveva un’ombra rotonda. Ella s’appoggiò al muro, guardò la luna, guardò le montagne lontane, marmoree sul cielo azzurro, e di nuovo pianse.

Soltanto allora Francesco parve accorgersi del turbamento di lei: pensò all’addio che ella in quel momento dava alle poetiche notti della sua fanciullezza, e si commosse.

— Andiamo!... non piangere, — pregò attirandola a sè.

Ma Gavina pianse più forte, nascondendo il viso sul petto di lui.

— Adesso.... adesso.... — pensò. — Adesso devo dirgli tutto....

— Andiamo, finiscila! Perdonami, cara; vedi.... mi fai piangere come un bambino. Rientriamo..

La condusse come una cieca, ed ella non ebbe il coraggio di parlare, di rattristarlo oltre. Rientrarono piangendo assieme come due amanti infelici.

L’indomani mattina il canonico Sulis, a cui Francesco aveva fatto sapere che gliene avrebbe dette «delle belle» annunziò che non voleva e non poteva confessare il suo futuro nipote: non voleva saper nulla, lui; nè belle nè brutte; voleva conservare l’illusione che Francesco fosse un «ottimo giovane».

Allora Gavina condusse il fidanzato dal canonico Bellìa, che accolse la confessione dei due giovani sposi con la stessa tragica severità [p. 152 modifica]con cui riceveva la confessione dei moribondi. Per lui nella vita non v’era gioia, e il matrimonio era semplicemente un «passo» qualche volta più triste e difficile di quello della morte.

Gavina gli parlò della lettera ricevuta e respinta: non perchè la sua azione le sembrasse un peccato, ma perchè aveva bisogno di liberarsi della sua inquietudine e in qualche modo avvertire il canonico Bellìa che tenesse d’occhio Priamo. Ma il confessore non parve capire tutta l’importanza del fatto. Ancora una volta ella parlava di un peccato non suo; e tante volte egli l’aveva severamente avvertita di non occuparsi dei peccati degli altri.

Nel pomeriggio Francesco andò a trovar Michela, che non usciva più di casa perchè la sua gravidanza era inoltrata; indi, per incarico della zia Itria, visitò l’ex-frate malato di polmonite, e in ultimo entrò dalla vecchia obesa. Alcuni dei soliti frequentatori della «piazzetta» sedevano assieme con lei intorno ad un braciere ardente, e appena Francesco disse che l’ex-frate stava molto male, il nano si mise a piangere e a gridare:

— E se egli muore con chi partirò?

— Malanno che ti colga, — disse la vecchia — tu piangi per interesse, non per dolore! Ah, siete così tutti; tutti così!

Poi domandò a Francesco notizie di Michela: e i suoi visitatori cominciarono a ridere, [p. 153 modifica]burlandosi del contadino che invece di cacciar via di casa sua figlia la costringeva a nutrirsi bene ed a vivere tranquilla.

— Egli è più misericordioso di Dio!

— E anche del prossimo! — rimbeccò la zia Itria.

— È un filosofo, — aggiunse Francesco.

— Malanno che vi colga, — disse la vecchia a quei maldicenti, — voi non sapete che maneggiar la lingua. Io farò da madrina al nascituro, e se sarà una bambina le farò un bel regalo.

Francesco riferì a Gavina e alle altre donne affaccendate in cucina i discorsi della zia Itria, e la signora Zoseppa corrugò le sopracciglia e disse che veramente il contadino non dava un buon esempio alla popolazione.



Gavina andava e veniva, preoccupata, perchè il tempo minacciava di guastarsi.

— Ho paura del mare.... — diceva a Francesco che le andava continuamente appresso canticchiando con voce stonata i motivi delle opere più celebri adatte alla circostanza.

Avrai di effluvi arabici
Il crine imbalsamato....
Il talamo beato
Ti coprirò di fior....

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Sebbene la voce fosse sgradevole, ed egli canticchiasse scherzando, Gavina si turbava e cercava di allontanare da sè i pensieri che le sembravano impuri.

Verso sera, com’ella temeva, cominciò a nevicare; ma il giorno delle nozze il cielo si rasserenò e la montagna e la valle apparvero come coperte anch’esse da una veste nuziale. Francesco non sembrava molto preoccupato per l’imminente solennità e uscì nell’orto e arrotolò molte palle di neve che sbattè contro l’elce, facendone cadere i merletti scintillanti.

Gavina guardava dalla finestra.

— Ecco, — gridò Francesco asciugandosi il sudore dalla fronte, — così tu rivedi le foglie del tuo albero!

Ella fissò l’elce e parve cadere in un sogno profondo. Ma l’ora fatale si avvicinava.

La cerimonia, per volere di Gavina, doveva svolgersi semplicemente: non erano state fatte partecipazioni, e Paska nel ricevere i pochi regali che i parenti sebbene non invitati mandavano, piangeva pensando che la sua padroncina avrebbe potuto sposare un sotto-prefetto e celebrare nozze di lusso, e invece si sposava con un mediconzolo, e in modo così modesto.

— Zia Pa’, che avete? — le domandò il servo, — avete male agli occhi? Li avete rossi come due fichi acerbi.

— È il freddo, il freddo.... Franziscantò! E [p. 155 modifica]non metterti in mente ch’io pianga: sono, allegra, molto allegra. Ma tu, perchè stai lì, sfaccendato? Va e almeno spazza la neve nella strada davanti alla casa.

Egli obbedì, ma Luca lo rincorse e cominciò a sgridarlo.

— Sempre bilioso, signor Luca! — gridò una voce dalla piazzetta, ove già s’era adunata molta gente per veder passare gli sposi.

Luca guardò e vide un vecchio che pareva un frate, avvolto in un lungo gabbano stretto alla vita da una cordicella di pelo.

— Come, siete vivo ancora, zio Sorighe?

— Più vivo di vossignoria! — rispose il vecchio avanzandosi; e senza chiedere permesso entrò nel cortile e poi in cucina, dove Paska, sebbene affaccendata, lo accolse benevolmente.

— Dov’è la sposa? Si potrebbe dirle una parolina? — egli domandò.

— Proprio adesso? Impossibile. Sta a vestirsi per andare alle nozze. Ritornate più tardi; prenderete un boccone.

Egli allora ritornò nella piazzetta. La gente accorreva da ogni parte e alle finestre apparivano i visi curiosi delle donne e dei bambini; anche Elia, con un soprabito foderato di pelliccia, s’affacciò al suo balcone. Gli sposi non tardarono a passare. Poche persone, fra cui i canonici Felix, Bellìa e Sulis, li accompagnavano; e il canonico Felix volgeva di qua [p. 156 modifica]e di là il suo placido viso di santo, e sorrideva, e fece ridere i curiosi riuniti nella piazzetta perchè con la mano accennò a farsi vento, quasi avesse molto caldo, mentre il canonico Bellìa, nero e triste, ad occhi bassi, pareva invece lo spettro del corteo. Questo d’altronde non era troppo gaio: tutti procedevano silenziosi, e la figurina della sposa, pallida e rigida nel suo vestito bianco, dava l’idea di una statua fatta della neve che biancheggiava intorno.

Ella non vide zio Sorighe che dopo il ritorno dalla cerimonia. Mancava un’ora alla partenza; e mentre gl’invitati chiacchieravano nella saletta, la sposa uscì nell’orto per dare un ultimo addio all’elce, al pergolato, all’orizzonte.

Zio Sorighe, decentemente vestito col giustacuore di velluto nero dei vedovi, sedeva in un angolo della cucina e teneva il gabbano piegato sulle ginocchia. Pareva aspettasse qualcuno.

— Sì, lassù sto come un papa, — raccontava a Paska e alla cuoca, parlando della chiesa dov’era guardiano. — Ma son troppo solo. Se mi verrà un accidente, solo i corvi se ne accorgeranno!

— Ma non ci sono ovili vicini? Non viene mai nessuno?

— Solo qualche sacerdote viene di tanto in tanto a celebrare la messa, seguito da qualche donnicciuola, ma va via subito. Anche [p. 157 modifica]stamattina è venuto un prete, all’alba; ma era solo.

— Con questo tempo?

— Eh! è un prete giovane, e non ha paura della neve, quello! — disse il vecchio maliziosamente. — È più forte di me. Io sono malandato, ora; non sto molto bene. Allegro sempre, però; venga pure la morte.... è una visita che dobbiamo ricevere.

In quel momento la sposa attraversò la cucina: il vecchio balzò in piedi e le tese la mano ripetendo l’antico ritornello:

Dami sa manu, bellita, bellita....

Ma invece del vestito di seta celeste egli le portava in dono un piccolo portafoglio di pelle gialla adorno di ricami primitivi. Ella capì subito che dentro c’era una lettera di Priamo; esitò quindi, quasi avesse ripugnanza a toccare il dono; infine lo prese e senza aprirlo lo fece vedere alle donne: poi uscì nel cortile, uscì nell’orto e si avanzò fino all’elce, calpestando la neve che si scioglieva. Il sole brillava sul cielo d’un azzurro intenso; dal pergolato cadeva la neve, le cime dei cespugli apparivano umide e brillanti, e il tetto della cucina si era ornato di una collana di stalattiti, quasi per gareggiare di bellezza col paesaggio fantasticamente decorato. L’elce s’era già tutto spogliato della sua veste di gala; e pareva che anche le altre cose intorno si [p. 158 modifica]sforzassero a liberarsi dalla loro candida coperta per mostrarsi un’ultima volta a colei che se ne andava. Ma ella stringeva nella mano il dono di zio Sorighe, intuiva la triste verità e non capiva altro. Quando fu sotto l’elce apri il portafogli e vi trovò dentro un piccolo cartoncino chiuso in una busta senza indirizzo. Per un attimo fu tentata di restituire ogni cosa al vecchio; ma il pensiero che Francesco potesse accorgersene la trattenne. Francesco! Ella sentiva di ingannarlo, eppure si ostinava a credere di compiere un dovere tenendo tutto per sè il suo penoso segreto.

— Bisogna finirla, bisogna finirla....

E aprì la busta.

Da una parte del cartoncino bianco lesse il nome di Priamo, stampato a grossi caratteri neri; dall’altra poche righe scritte da lui. «Lasciami tranquilla — hai scritto, respingendo la mia lettera senza aprirla. Così hai sempre respinto me, ciecamente. Sì, ti lascio tranquilla; tu non hai saputo tenere la tua parola, ma io tengo la mia. Tu vai verso la vita, io vado verso la morte. Me ne vado per provarti che vivevo solo perchè credevo ancora in te. Addio».

Ella rilesse il biglietto, fermandosi alle parole «credevo ancora in te» poi lo volse e stette per qualche attimo con gli occhi spalancati, pieni di terrore.

Quel nome nero sul candore del cartoncino [p. 159 modifica]le dava la visione del cadavere di Priamo steso sulla neve. E prima che si facesse un’idea esatta del come si era svolto il dramma fu assalita da una paura infantile, dall’istinto di fuggire per non essere accusata della responsabilità del fatto. Fuggire, tacere: non ebbe altra idea precisa, come il delinquente appena commesso il delitto.