Storia della rivoluzione di Roma (vol. III)/Capitolo IX

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Capitolo IX

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CAPITOLO IX.


[Anno 1849]


Cose occorse nella prima quindicina di marzo 1849. — Incuria dei repubblicani per la guerra d’Italia, in odio del governo piemontese. — Gioberti esecrato e maledetto dal circolo popolare, ed il suo nome ignominiosamente cancellato dall’albo del circolo. — Decreti numerosi. — Il Guiccioli ministro delle finanze accusato di negligenza. — Accusato pur anco quel del commercio, Sterbini. — Rinunziano entrambi. — Nuovo ministero. — La unificazione di Roma con Toscana andata a vuoto. — I giardini Quirinale e Vaticano aperti al popolo sovrano. — Esso abusatone, si chiudono di nuovo. — Disordini alla chiesa di san Filippo Neri per le campane. — Lettera del Farini contro la legge di adesione alla repubblica. — Vignetta del Don Pirlone preludente alla guerra di Turchia, Francia e Inghilterra contro la Russia, in epoca posteriore. — Inconvenienti in Roma. — Pubblicazione dell’indirizzo dei montagnardi francesi in lode dei Romani. — Caricature del Don Pirlone contro Carlo Alberto. — Sangiorgi e Galanti imputati nella pretesa congiura del luglio 1847, vengono assoluti dai repubblicani. — Protesta del Galanti. — Morte del Cardinal Mezzofante, e cenni biografici sul medesimo.


La romana repubblica che ad onta della riprovazione di tutto il mondo civile proseguiva animosa nell’intrapreso cammino, entrava nel mese di marzo, mese per lei infausto: perocchè fu in esso che la seconda guerra si ruppe fra Piemontesi ed Austriaci, e la vittoria di questi ultimi, collo avere ingelosito i Francesi, determinò la spedizione di Roma la quale oltre l’interesse cattolico ebbe pur quello di paralizzare l’influenza austriaca in Italia. Almeno così si disse, e buon nerbo di ragioni si associa per farci credere che così fosse. [p. 264 modifica]Non vi sarà chi nieghi che la proclamazione della repubblica in Roma nocque possentemente al movimento incominciato. E’ parve che i repubblicani più desiderosi di solidare e stabilire il loro governo, e più infatuati di promuoverne negli altri popoli il desiderio, tralasciassero la grande opera intrapresa della redenzione italiana, che caratterizzò lo spirito, l’entusiasmo, le mosse tutte dell’anno decorso. Ci sembrò pertanto che abbandonati i Piemontesi a loro stessi, la lotta venisse circoscritta fra l’Austria e il Piemonte, e che non fosse più la riscossa de’ popoli italiani contro l’austriaca dominazione.

Che fece difatti la romana repubblica per l’Italia? Quali soccorsi dette o preparò per chi voleva difenderla? Ove furono le armi o gii armati?

Si ebbero è vero discorsi enfatici molti, promesse magnifiche, e in tanto violenze infinite, e decreti oltre misura.

Nei 1848 volavano sulle pianure di Lombardia e ad affrontare le così dette orde croate accorrevan le schiere romane; ma nel 1849 parve che difender Roma fosse difendere l’Italia, e con cieco consiglio a ciò parve che unicamente si rivolgessero gli sforzi. E se più tardi l’agglomerazione cosmopolitica, cui diedero il nome di armata romana, combattè contro i Francesi, dovette farlo forzatamente, perchè eran venuti per isnidarla dal luogo che aveva scelto per sua sede. E se non fossero stati i Francesi che avesser posto fine a quell’illegale governo, i repubblicani starebbero ancora a far leggi, decreti e regolamenti, e scombuiare sempre più lo stato nostro in guisa, da rendere obliterate e distrutte, se possibile fosse, perfin le vestigia della sua secolare esistenza.

In comprova poi che i repubblicani pensavano a loro soltanto ed al lor vagheggiato governo (il quale servir doveva di campione agli altri per invogliarsene), erasi negoziato non sappiam nè da chi, nè con chi direttamente, per avere quattromila Greci in sostegno della repubblica romana. Ne parla l’Epoca, e ne parla il Torre che era [p. 265 modifica]sostituto al ministero della guerra, nelle sue Memorie.1 Questi Greci si dissero armati di tutto punto, e dovevan venire dall’Epiro.

Riassumendo ora la filatessa delle disposizioni governative durante la prima quindicina di marzo, diremo che il 2 emetteva il governo repubblicano un manifesto a tutti i popoli, che così diceva: «Un popolo novello vi si presenta a dimandare e ad offrire benevolenza, rispetto, fratellanza.» Vi si accusava al solito il papato di essersi frapposto per mille anni fra l’antica sua grandezza, e la presente sua resurrezione, e si concludeva con queste parole: «La Repubblica romana si accinge a tradurre le leggi di moralità e carità universale nella condotta che si propone, e nello svolgimento della sua vita politica.»2

Ma sotto il detto giorno altro e più interessante episodio ci si presenta, il quale ci è forza di narrare con qualche particolarità.

Riportammo nel capitolo VI la lettera del Gioberti a monsignor Muzzarelli, colla quale offeriva l’intervento armato, e narrammo lo sdegno ch’eccitò ne’ partigiani di repubblica in Roma al punto, che contribuì in gran parte ad accelerare l’impianto di quel governo. Ora narreremo le ire dei repubblicani tradotte in atto contro il Gioberti.3

La rivoluzione, non può negarsi, è simile a Saturno che, secondo la favola, distruggeva i propri figli. Gioberti eccitò la rivoluzione, e fu dalla medesima più tardi schiacciato. Ciò che andiamo a narrare proverà che quel Gioberti che aveva fatto girare la testa agl’italiani, che giunto in Roma, ebbe guardie d’onore all’alloggio, visite di personaggi illustri, elogio dall’abate Rezzi nella romana università, ovazioni dal pubblico; quel Gioberti cui inchinavano riverenti tutti coloro ai quali sembrava attuabile il connubio fra rivoluzione e monarchia, fra libertà e [p. 266 modifica]religione, fra papato e nazionalità italiana; quel Gioberti che venne dichiarato cittadino romano, nel cui nome si converti quella via che chiamavasi Borgognona, e che venne eletto presidente onorario del circolo popolare; quello stesso Gioberti fu il 2 marzo dell’anno seguente dallo stesso circolo popolare esecrato e maledetto, ebbe radiato ignominiosamente il suo nome dall’albo del circolo, ed infine intriso di fango il medesimo suo nome nella strada che lo assunse, restituendo a questa l’antica denominazione di via Borgognona.

Ecco il decreto del circolo:

«Il circolo popolare nazionale, componente una delle più democratiche associazioni del popolo sovrano, e’è radunato in piena assemblea la sera del 1 corrente marzo per dichiarare alla presenza di Dio e degli uomini. — Che esso ripugna alla politica vile e liberticida dell’abate Vincenzo Gioberti. — Che cancella eternamente il suo nome dal grado di presidente e di socio onorario, a cui lo assunse un sentimento tradito di buona fede italiana — E sopra il capo dell’empio che armava le braccia alla guerra fraterna scaglia col cuore fremente la maledizione e la infamia.»4

Anche il circolo de’ commercianti, secondo l’Epoca, aveva decretato alla unanimità di suffragi fin dalla sera del 28 febbraio che il nome dell’abate Gioberti venisse radiato dall’albo de’ suoi soci onorari.5

Il decreto del circolo popolare ci sembra un capo lavoro d’esagerazione e di fanatismo. Lo tramandiamo ai posteri affinchè leggendolo se ne giovino per inferirne, che senza la unione che tanto si predica, non vi è forza che valga, e che esempi di tal fatta provano incontrastabilmente che gl’italiani, se fossero abbandonati alla fervida loro immaginazione, finirebbero col dilaniarsi [p. 267 modifica]barbaramente fra loro, rinnovando in grande i tristi e tremendi esempi delle famiglie di Atreo e Tieste.

Altro esempio poi del fanatismo repubblicano venne somministrato dalla festa fatta in Velletri il giorno 4 per prestare il giuramento alla repubblica.

La riunione fu convocata dal colonnello Galletti con ordine del giorno 3.

Si eresse un altare sulla piazza pubblica. Il clero invitato non v’intervenne, meno il sacerdote Meda, ed il cappellano della legione romana Scodalzini.

Dopo la messa fu dal Checchetelli arringata la guardia nazionale, il secondo battaglione della prima legione romana, e i dragoni; e si ripeterono le solite cose sulle usurpazioni dei papi e sui diritti del popolo. Quindi il Galletti snudò la spada, il preside Borgia lesse la formula del giuramento, e tutti gridarono: viva la repubblica.6

In coerenza poi di quanto abbiam detto, che i repubblicani cioè non pensavano che alla loro cara repubblica, quasi che essa soltanto fosse il baluardo e la salvezza d’Italia, citeremo il fatto che quattro estranei a Roma, un Francesco Fossati lombardo, un Sebastiano Fabbri lombardo, un Alessandro Baggio veneto, un Ferdinando Vitagliani napolitano, pubblicarono, il 3 un indirizzo agli Italiani emigrati per indurli ad entrare nella legione, onde combattere per la repubblica. Dell’Italia non facevasi più motto.7

Tanto poi era l’attaccamento per tutto ciò che portava il nome di repubblica, o per quegli stati che in repubblica eransi costituiti, che quantunque i repubblicani versassero in estreme strettezze, fu votato dall’assemblea il giorno 3, un sussidio di scudi cento mila a favore di Venezia, 8 e si confermava con decreto del 5.9

[p. 268 modifica]Circa poi agli atti o disposizioni governative in merito a cose di finanza o di amministrazione, ne citeremo parecchi, e certo potrem dire che se la stabilità e prosperità degli stati stesse in ragione della quantità dei decreti, niuno stato avrebbe potuto essere più solido nè più prospero del romano.

Il Monitore del 3 pubblicò un decreto del 1° sulle nuove monete della repubblica.10

E con altro decreto del 3, si prescriveva che i boni della legazione di Bologna per scudi duecento mila fossero ricevuti dalle casse erariali.11

E con ordine del comitato esecutivo in data del 2 si prefiggeva al ministro delle finanze di provvedere all’amministrazione dei beni dei Gesuiti e del sant’Offizio.12

E con altro decreto in data del 2 eleggevasi una commissione composta di dieci fra Romani e statisti per definire l’ammontare della rendita netta dei possidenti, commercianti, e corpi morali.13

Pubblicavasi il 5 un decreto in data del 3, relativo alla coniazione della moneta erosa.14

Con decreto del 4 pubblicato il 5 statuivasi che per regolare le spese della repubblica si dovesse andare sulla base del preventivo dell’anno 1848.15

Abolivasi poi l’officio di censura alle dogane o altro luogo, per qualunque genere di stampe, incisioni e figure.16

Accadeva poi il 16 una scena assai dispiacente pel marchese Guiccioli ricco ed onorato signore di Ravenna il quale ricopriva il carico di ministro delle finanze della repubblica.

[p. 269 modifica]Dicemmo nel capitolo precedente siccome con decreto del 21 febbraio venisse autorizzata la banca romana ad emettere boni per la somma di un milione e trecento mila scudi, dei quali, novecento mila pel governo, e quattrocento mila pel commercio di Roma, Bologna ed Ancona.

Giunsero il giorno 4 dei reclami perchè la misura non aveva avuto il suo compimento, e nella riunione dell’assemblea di detto giorno, che fu animatissima, il Guiccioli venne accusato di trascuranza nel sorvegliare la banca per l’adempimento del carico assunto a sollievo massimamente del commercio languente non solo, ma in istato di ruina. Disse il Guiccioli alcune poche parole per giustificarsi, si ritirò dall’assemblea, e dette quindi la sua dimissione.

Nella seduta però del giorno 6 gli attacchi furono assai più violenti, ed in ispecie per parte del deputato Politi il quale invitò il Guiccioli, che era intervenuto alla Camera, di salire alla tribuna per rispondere.

Salito in ringhiera, disse queste parole: «L’essere stato l’altro giorno da’ miei onorevoli compagni accusato....;» ma appena pronunciata la parola accusato, fu assalito da tal commozione e da sì forte stringimento, che le sue labbra non poterono più proferir verbo. Pressochè tutti i deputati gridarono: accusato no.... coraggio coraggio, l’assemblea e le tribune applaudirono a quell’uomo di coscienza integerrima, ma egli non potè continuare e discese dalla tribuna. Il Galletti si slanciò alla tribuna e ne prese le difese con molto calore.17

Amando il Guiccioli di allontanarsi da Roma, si trovò un mezzo termine e per esso onorevole, e fu quello di eleggerlo inviato straordinario della repubblica romana presso il governo provvisorio di Venezia.18

La Pallade del 7 parlando di questo dispiacevole incidente, diceva così:

[p. 270 modifica]«Il ministro delle finanze Guiccioli veniva chiamato alla tribuna per rispondere del suo operato. È già noto che ingiuste accuse gravavano sul capo di questo integerrimno cittadino. Salito alla tribuna, il dolore, l’emozione, gli soffocaron sul labbro la parola. L’altro giorno, accusato... egli proferiva, ma più non potè aggiungere, perchè troppa era la piena dell’affanno che esacerbava quell’anima.19»

Il popolo manifestava il desiderio che restasse a quel posto da cui si era dimesso. Ma avendo osservato che l’obbligarlo a riprenderlo sarebbe stata indiscretezza, venne rispettata la sua dimissione.

Rimandiamo i nostri lettori per più ampi ragguagli sul detto episodio al Sommario storico (pubblicato in Roma nel 1850) dalla pagina 24 alla pagina 49.

Riusci poi tanto più notevole questo dispiacente episodio, in quanto che accadde il primo giorno in cui Mazzini fece la sua comparsa nell’assemblea. Non occorre che noi ripetiamo ciò ch’è ben naturale lo immaginare, cioè che al suo apparire fu accolto da fragorosissimi applausi.20 Recitò un discorso, che riportiamo nel nostro Sommario.21 La sera poi se gli fece una dimostrazione alla locanda Cesari ove alloggiava.22

In seguito però dell’accaduto col Guiccioli per la banca romana, l’assemblea deliberò lo stesso giorno 6, ed il governo promulgò il relativo decreto nel giorno seguente, col quale si adottavano alcune disposizioni per tenere in rispetto la banca stessa;23 e più tardi si creò una commissione per sorvegliarla.24

[p. 271 modifica]Lo stesso giorno 6 l’assemblea romana vedendo che la Toscana non risolvevasi alla unificazione con Roma, ad onta delle simpatie scambievoli (almeno in apparenza) fra i due governi, risolvette di spedire in Firenze come negoziatori per la tanto desiderata unificazione i cittadini:


Ai medesimi poi si aggiunse pure dai circoli il Ciceruacchio ed altri popolani, ma di questi non parlò il giornale officiale. Fu un farmaco di opportunità che si credette d’inserire nella ricetta, per renderla più operativa e sollecita.26

La unificazione di Roma colla Toscana era, e doveva essere senza dubbio, a cuore del Mazzini il quale aveva detto nella sua lettera da Firenze, che riportammo nel capitolo precedente, queste precise parole: «Tacqui finora, perchè io sperava rispondere coll’annunzio dell’unificazione della provincia italiana, ov’io sono, con Roma. La precederò or di poco tra voi.»

Or dunque il Mazzini o chi per esso aggiunse al dottore Pietro Maestri, che già fin dal 23 febbraio era stato eletto all’officio di rappresentante in Firenze della repubblica romana e di negoziatore per la unificazione,27 i tre che vediamo scelti dall’assemblea per detto oggetto, dopo un discorso che il Mazzini stesso e l’Audinot pronunziarono in favore di siffatta unificazione.28

Sembra che molti fra i caldi liberali di quel ducato la volessero. I deputati per far parte della Costituente [p. 272 modifica]liana erano eletti, ma il Guerrazzi col suo petto di bronzo la respingeva, e non era solo a non volerla. Ove fosse riuscita questa unificazione, ch’era nei voti dei repubblicani, era da ritenersi che la Venezia e la Sicilia vi si sarebbero aggiunte, e che in Roma sarebbesi formato il nucleo di quella Costituente italiana ch’erasi decretata, e che senza la compartecipazione degli stati sunnominati diveniva, come divenne, una parola vuota di senso.

Ma nè gli sforzi del Maestri, ch’era pur ritenuto per abile, nè quelli del Guiccioli, dei Camerata e del Gabussi, non che la eloquenza popolana del Ciceruacchio, valsero a svolgere il ministero toscano o meglio il Guerrazzi, che ne era l’anima e il corpo, dal suo proposito.

«Ma i commissari dell’assemblea, dice il Farini,29 non fecero frutto a Palazzo vecchio; il Ciceruacchio fece ridere in piazza; Guiccioli se ne andò a Venezia legato della repubblica romana; gli altri se ne tornarono a Roma; e Toscana restò Toscana, terra molle, su cui il turbine della rivoluzione sollevava appena un polverio alla superficie.»

Lo stesso Miraglia caldissimo patriota napoletano, viene ad avvalorare il discorso del Farini colle parole seguenti:

«L’unione di Firenze e di Roma, fondando fra Napoli e il Piemonte un regno potente, sarebbe stata un fatto capitale per la penisola; ma per le ragioni anzidette (una di queste ragioni era che Firenze era saltata bruscamente dal governo del mite Leopoldo al governo tempestoso del popolo), almeno per allora, non era attuabile. L’amore smodato del municipio, più di quel che si crede, vive ancora nella patria nostra, e sradicarlo in un istante dalle anime non è possibile a forza umana. I fatti che raccontiamo ne sono una prova evidentissima.»30 Riportammo queste parole del Miraglia nella [p. 273 modifica]nostra digressione sulla unità italiana, in principio del Capitolo VI.

La unificazione pertanto di Toscana con Roma non essendo riuscita, Roma rimase Roma, e Firenze restò Firenze. Le città sorelle si scambiarono i saluti cordiali in distanza, ma recalcitrarono a congiungere le loro destre. Altro argomento della unione che prevale in Italia anche fra gli uomini dello stesso colore politico.

Proseguendo ora nella nostra narrazione, diremo che il giorno stesso 6 di marzo si proponevano con un decreto alcune riforme nel dicastero di polizia, e istituivasi una direzione di pubblica sicurezza.31

E promulgavasi il 7 un decreto in data del 5, col quale ponevansi in vendita i beni ipotecati a garanzia dei boni del tesoro.32

Le interpellanze del 6, al ministro del commercio e dei lavori pubblici Sterbini, e quelle al ministro delle finanze Guiccioli produr dovevano il loro effetto.

L’Epoca difatti del giorno 8 dice quanto appresso: «La seduta dell’assemblea di ieri fu assai tempestosa. Le opposizioni e interpellazioni dirette al ministro dei lavori pubblici furono così ripetute che si vedeva essere imminente ormai la sua caduta. Questa mattina abbiamo saputo che egli è dimissionario. — Già fin da ieri era stata accettata la rinuncia del ministro di finanza.»33

In seguito di ciò il giorno 8 marzo si venne a conoscere il nuovo ministero che componevasi come appresso:

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Aurelio Saffi ministro dell' interno.
Carlo Rusconi » degli affari esteri.
Giovita Lazzarini » di grazia e giustizia.
Giacomo Manzoni » delle finanze.
Alessandro Calandrelli » di guerra e marina, interinalmente.
Mattia Montecchi » dei lavori pubblici e commercio, interinalmente.
Avv. Francesco Sturbinetti » dell'istruzione pubblica.34


Con decreto dello stesso giorno 8 del ministro dell’interno, aprivansi al pubblico nelle domeniche (incominciando dalla domenica 18) i giardini del Quirinale e del Vaticano.35

Giudicò il ministero che al popolo sovrano fosse pur tempo di far gustare qualche cosa di quelle che gustano i regnanti durante l’esercizio della loro sovranità. I due detti giardini servivano per sollazzo del sovrano di Roma, il papa. Lui assente non solo, ma decaduto e rimpiazzato dal popolo, era un atto di logica e di giustizia che questo popolo v’intervenisse, e vi passeggiasse liberamente.

Se non che fu di breve durata questo esercizio microscopico di sovranità popolare, perchè il popolo intervenuto in folla a passeggiare ne’ suoi propri giardini, volle incominciare a farla da re carpendo e agrumi e fiori ed erbaggi, e danneggiando i giardini; cosicchè dopo due o tre domeniche fu ritirato il permesso, e il popolo sovrano fu posto fuor de’ cancelli, lasciandogli per libero spasso le vie di Roma.36

Il comitato esecutivo concesse il 9 una proroga di 24 ore per la spontanea dichiarazione delle rendite.37 E ciò in seguito dello avere molti individui pretermesso di darne l’assegna, a forma del decreto 25 febbraio e della successiva notificazione del 3 corrente marzo.

[p. 275 modifica]In adempimento poi al decreto del 3, il comitato esecutivo ordinò il 9 la emissione di trecentomila scudi di moneta erosa da quattro e da otto baiocchi per la circolazione specialmente degli spezzati.38

Il Monitore del pubblicò un ordine del 1° del ministro Saffi per la distribuzione di una medaglia a tutti i rappresentanti del popolo onde dar loro libero accesso presso il comitato esecutivo, i ministeri, ed in tutti i pubblici stabilimenti.39

Sotto il giorno 10 di marzo un tale Stefano Messi pubblicava d’ordine del governo un opuscolo sulla Incompatibilità del dominio temporale dei papi. Esso servir doveva essendo breve, tascabile e a forma di catechismo, per istruzione del popolo, affine di staccarlo ragionatamente dal suo attaccamento al papato.40

Un canonico Ceccarelli di Savignano però confutò in epoca posteriore l’opuscolo del Messi con un libro sotto il titolo: La Demagogia confutata in ordine alla sovranità temporale della Santa Sede. Rimini, 1850, in 12.41 — In detta opera ci dice positivamente il Ceccarelli che il libro del Messi venne in luce per opera del Triumvirato, e da esso ufficialmente spedito a tutti i presidi delle provincie con calde premure di diffonderlo nel popolo.

Il giorno 10 leggevasi nel Monitore alla pagina 169, che Leopoldo Spini era stato eletto segretario del comitato esecutivo, e Biagio Placidi secondo segretario, e segretario del Consiglio de’ ministri. Vi si leggeva inoltre che Pietro Sterbini era stato nominato conservatore generale delle belle arti e de’ monumenti nazionali, e Carlo Emmanuele Muzzarelli presidente della commissione surrogata in via provvisoria al già Consiglio di stato.

[p. 276 modifica]Ora narreremo l’accaduto alla chiesa nuova il giorno 10 di marzo.

In coerenza del decreto del 24 febbraio sulla requisizione delle campane, alcuni agenti del governo portaronsi nella mattina alla chiesa di san Filippo Neri detta dei padri Filippini, od anche chiesa nuova, e richieser le campane in conformità del decreto summenzionato.

Ricusarono i padri Filippini di consegnarle; nacque una discussione animata, e formossi all’istante un attruppamento numeroso di vero popolo romano il quale professa verso il detto santo una divozione ferventissima, in guisa che esso è considerato come l’apostolo di Roma. Erasi atteggiato il popolo decisamente ad impedire che le campane fosser tolte. Gli agenti a tal tista ritiraronsi prudentemente. Se non che verso sera, e cogliendo il momento in cui la popolazione erasi da quei luogo allontanata, tanto gli agenti stessi quanto i loro satelliti irruppero violentemente nella casa religiosa dei Filippini, ove, trovate chiuse le porte, fra le imprecazioni della moltitudine fremente, osarono di appiccare il fuoco con acqua di ragia alla porta laterale.

Giunse l’autorità governativa con buona mano di carabinieri e truppa di linea. Sopracchiamati i vigili, accorsero cd estinser l’incendio. Atterrate quindi a viva forza le porte, un numero di plebaglia feroce e proterva, aizzata e guidata da’ più protervi agitatori, inondò il convento; e fra le grida e bestemmie da forsennati, furon calate le campane, meno quella di san Filippo.

I due reverendi padri Cesarini e Conca, rispettabilissimi per senno, per virtù e per le cariche che in quell’istituto ricoprivano, istituto ch’è uno dei più simpatici e popolari di Roma, vennero arrestati, minacciati, ed esposti a villanie ed insulti selvaggi.

E si ebbe dall’autorità la sfrontata impudenza di encomiare un sì vergognoso attentato, e di qualificare da buoni cittadini di Roma quegli sciagurati (che se vi furon [p. 277 modifica]fra essi alcuni Romani, furono figli degeneri di tanta madre) che a simili eccessi vituperevoli con lieta fronte associavansi. 42 Ecco come si conchiudeva il proclama che il ministro dell’interno Saffi dirigeva l’11 di marzo ai Romani relativamente a quel triste fatto:43

«Proseguite, o magnanimi, in questo altissimo ufficio di patria tutela; ammonite, ammaestrate gl’illusi. Il governo saprà far rispettare nelle vostre leggi la vostra sovrana dignità. Voi innalzatevi ognora più a quella santa missione, che è tutta vostra, di popolo educatore, di popolo iniziatore di un’Italia nuova, di un’Italia più morale, più civile e più grande delle passate.»

La direzione di sicurezza pubblica informò con apposita grida i Romani dell’accaduto, travisando però le cose a suo modo.44 Ed il ministro Saffi, penetrato della gravità del caso e desideroso di tranquillare le coscienze dei cittadini, in quel proclama dell’11 tra le altre cose diceva: «La legge vuole convertite in istrumenti di difesa contro i barbari le sole campane superflue; ed eccettua quelle delle parrocchie, delle basiliche patriarcali, delle chiese nazionali, e quelle che hanno pregio di antichità o di maestrevole lavoro.45»

Se azioni così scellerate e ladre riscotevan gli encomi e gl’incoraggiamenti della stampa officiale, quale moralità era mai da attendersi da un cosiffatto governo?

Nè a questo limitaronsi le irregolarità di quel tempo che volevasi magnificare. Sentano i nostri lettori che cosa scriveva il Positivo dell’8 marzo:

«Per la sicurezza interna lodiam tutti l’attuale governo, per ciò che tocca furti, rapine, e omicidi in città, non così in campagna. Si lagnano anzi le romagnole provincie di bande numerose che infestano a mano armata [p. 278 modifica]le strade, e danno a temere lo scoppio di una reazione, se tardasi niente ad apporvi riparo.

» Sono poi comunemente le arti che sotto la polizia del sempre desiderato Galletti erano abolite, e paiono oggi riprese; arti di reo dispotismo, arti indegnissime di popoli e di tempi non dirò liberi, ma civili, e sono le spie, che rendono ancor dubbiosa la parola sul labbro dei cittadini; sono le accuse e calunnie di traditori e reazionari dispensate a piene mani a chiunque non crede poter consentire nella politica di alcun governante; sono l’esclusioni sistematiche dagl’impieghi di tutti coloro che negano di ammettere come verità di vangelo, i sistemi, o i progetti, o i pensieri de’ governanti.

» In breve. Un governo che ricorre alle arti del dispotismo antico, o ne continua l’uso, non vive la vita dei governi liberi e non è meritevole che la maggiorità de’ rappresentanti il sostenga.

» Non sono questi i mezzi onorevoli di mantenere la tranquillità del paese. Lo spionaggio può giovare all’ordine, finchè si tratti di assassini e di ladri, ma dove sia questione di politica, o non serve, o fa danno.

» Circa poi il dissuggellare e sequestrare le corrispondenze alla posta, noi non abbiamo parole che bastino a maledire, se pure esiste, così abominevole abuso della fiducia pubblica.46»

Lo stesso Positivo poi ci annunziava che con dispiacere di tutti i liberali della città, erasi venuto a conoscere che i bravi religiosi Cistercensi di santa Croce in Gerusalemme avevano subito una perquisizione politica.47

Ma abbiamo ancor di più. Il Cardinal De Angelis veniva arrestato e trasportato il 12 dalla sua sede di Fermo, nella fortezza di Ancona. I ragguagli dell’arresto possono leggersi nella Speranza italiana.48

[p. 279 modifica]In Roma poi giungevano il 13 carcerati monsignor Vespignani vescovo di Orvieto ed il suo segretario.49

Continuando, diremo che la sera del 10 si rappresentò nel teatro Argentina la cacciata dei Tedeschi da Bologna, dramma di occasione, scritto da un Bellegambi fiorentino. La prima attrice Luigia de Ricci, terminato il dramma, declamò una poesia del giovane Bordiga diretta alle donne della repubblica romana. Possono immaginarsi gli applausi all’uno e all’altra.50 E al teatro Metastasio la sera del 15 altra poesia si recitò dall’attrice Orsola Panichi dello stesso Bordiga intitolata: Morte ai tiranni.51

Quanto al prestito forzoso, di cui abbiam varie volte parlato, sembra che ad onta degli eccitamenti, delle proroghe, e delle raccomandazioni, pochi obbedissero all’invito, perchè il Monitore dell’11 in un articolo di fondo emetteva lamenti su questo proposito.

Ecco un brano di quell’articolo:

«Siam presso al termine della dilazione accordata dal governo della repubblica a’ tassati del prestito. Posta nella necessità, e quindi nel dovere di provvedere alla salute pubblica, l’assemblea votò questo prestito, e lo qualificò per forzoso. Nella urgenza che la premeva, la patria ricorse a’ più ricchi ed agiati, agli uomini di più elevate fortune; ma per rispettare anche nell’attuale gravità delle circostanze la nuova libertà che bandiva, volle porre in certo modo alla prova, non dirò la generosità, ma la carità de’ suoi figli, sperando che sarebbero venuti spontanei all’offerta, senz’aspettare le misure che il pericolo comune renderà necessarie.

» Pochi, forza è dirlo, risposero a questa nobile fiducia. Gli uomini, dopo tanti secoli di despotismo si sono fatti ritrosi a questi slanci di carità patriottica: egoisti e indolenti, aspettano il comando, e non curano la [p. 280 modifica]preghiera. Radetzky ed Haynau trovarono in un giorno nella sola Ferrara la somma che noi non abbiamo potuto raccorre in un mese in tutto lo stato.52

Trista confessione per verità faceva il Monitore, perchè metteva all’aperto che i figli non sentivan carità per la madre che era la repubblica. Dunque erano figli snaturati se non amavan la madre, ed il Monitore ci sembra avrebbe dovuto non rivelarci questo fatto.

Con ordine poi del comitato esecutivo del giorno 12 venne tolta agli ecclesiastici ogni e qualunque ingerenza circa all’amministrazione dei beni degli ospedali, e orfanotrofi.53

Provvedeva il comitato esecutivo con un ordine affinchè dentro lo spazio di due mesi fossero presentati gli estratti di tutte le mappe catastali dei beni posseduti dalle così dette mani morte;54 istituiva una direzione per l’amministrazione de’ beni demaniali;55 decretava il 12 l’abbreviazione della procedura per alcuni delitti;56 ed aboliva il detto giorno la tassa barriera.57

Nella prima quindicina di marzo trovavasi spesso fatta menzione di alcuni impiegati che non avevan dato adesione alla repubblica, e di alcuni pure che quantunque non avessero aderito, essendo persone di capacità e di fedele disimpegno dei loro impieghi, si eran lasciati al loro posto, non ostante i minacciati rigori dell’autorità. Richiameremo ora alla memoria alcune circostanze le quali daranno una spiegazione dei rallentati rigori governativi.

Con ordine del comitato esecutivo del 5 prescrivevasi che tutti gl’impiegati civili e militari dar dovessero la [p. 281 modifica]loro adesione alla repubblica, sotto pena di perdita dell’ impiego.58

Quest’ordine vessatorio, compromettente, direm pure tirannico, perchè metteva alle strette tanti padri di famiglia obbligandoli a mostrarsi spergiuri ed ingrati verso il sovrano, o perturbandone per lo meno le coscienze per timore d’incorrere nella scomunica, o non avere più il pane per isfamare le lor famiglie, non era una tirannia dichiarata?

Contro quest’ordine però insorse coraggiosamente il cittadino Luigi Farini con la lettera seguente data alle stampe:


«Lettera del professore cittadino Luigi Farini direttore della pubblica sanità, ospitali e carceri, sull’atto di dichiarazione di aderire alla repubblica romana.


» Ogni uomo, e principalmente ogni cristiano amar deve le libertà civili e politiche de’ popoli, siccome il mezzo ch’esse sono del progressivo miglioramento delle condizioni dell’umana famiglia. Ogni uomo amar deve la patria sua, e se egli abbia l’onore di avere a patria l’Italia ha dovere di amarla con fuoco di passione, più che di affetto, e di essere parato sempre a confessarne lo amore col sacrificio proprio.

» Cosi pensando, e sentendo io, ed avendo avuta la fortuna non il merito di provare con uniforme, e costante maniera di vita, che così penso, e sento, non ho mestieri di allargare il discorso per dichiarare come in mia sentenza sieno buoni quei governi soli, i quali a legge di ragione, e di giustizia assicurano la libertà de’ popoli, e la indipendenza delle nazioni, e come questi sieno degni che ogni onesto cittadino li ami, li favoreggi ed aiuti. Ma se tutta la mia vita non rende testimonianza sufficente dell’animo, e delle opinioni mie, sicchè sia reputato degno di continuare a servire la patria nell’officio di [p. 282 modifica]torc della pubblica sanità, non mi lascerò andare oggi all’atto umiliante di una comandata, e formulata dichiarazione. L’uomo il quale si pone su questo sdrucciolo delle così dette adesioni e dei giuramenti politici rischia di seguire quel brutto vezzo delle restrizioni mentali, e di dare la coscienza in balla degli uomini, e del caso; nè io sarò mai quel desso che correre voglia rischio simigliante, perchè a costo di qualsivoglia danno voglio mantenere inviolato il santuario della coscienza, liberi i pensieri, liberi gli affetti, indipendente l’opinione. Spero d’altronde, che non mi mancheranno occasioni per addimostrare co’ fatti e non colle frasi formulate quanto sia l’amore che porto alla libertà del popolo, ed all’Italia nostra, e con questa speranza mi protesto distintamente a voi cittadino ministro

» 5 marzo 1849.

» (firmato) Luigi-Carlo Farini.

» Tipografia Paternò59


Tornando al giorno 12 marzo, che lasciammo interrotto per parlare del decreto sull’adesione alla repubblica, diremo di una singolare vignetta che il detto giorno fu pubblicata dal Don Pirlone, giornale di caricature politiche.

Quella vignetta rappresentava la caccia che davan tre guerrieri ad un orso. I tre guerrieri, uno col turbante turco, l’altro colla testa di gallo, il terzo col capo di cavallo, rappresentavano la Turchia, la Francia e l’Inghilterra. L’orso era la Russia, e per renderla riconoscibile se gli era apposta in petto la decorazione di sant’Alessandro Newskj.

Niuno ignora che se la rivoluzione era nemica dell’Austria, non era men nemica della Russia, la quale erasi mostrata avversa chiarissimamente alla rivoluzione dell’occidente di Europa. E questa rammentava assai bene il famoso proclama dell’autocrate russo del 29 marzo 1848, [p. 283 modifica]le cui minaccie trovarono un facile esplicamento nella recente spedizione di un’armata russa contro gli Ungheresi, ed in sostegno dell’Austria.

La detta vignetta pertanto era assai significativa, perchè rivelava un voto o desiderio della rivoluzione, voto o desiderio che si avverò completamente pochi anni dopo.

La guerra alla Russia pertanto fu stabilita fin dal 1849 ne 1 segreti conciliaboli della rivoluzione. Il Don Pirlone ne espresse il voto, e questo voto fu sciolto, come tutti sanno, nell’anno 1855. Preghiamo i nostri lettori di non lasciare inosservato questo episodio della nostra storia, poiché esso ci rivela un mistero assai importante.60

L’assemblea romana del 13 decretò la liberazione immediata del barone Sabariani di Benevento, e di trentaquattro suoi compagni di prigionia.

Il Monitore romano nel darne l’annunzio aggiungeva queste parole: «Noi notiamo nell’anarchia, nel sangue: gridano i giornali ufficiali dell’Austria, quelli di Napoli e non pochi del Piemonte. E intanto nella Roma repubblicana, nella Roma dei popolo, le tornate dell’assemblea non furono finora turbate da un grido, il carnevale non fu men brillante del solito, vescovi e monsignori passeggiano imperturbati sul Pincio e nelle vie più frequenti, nessun domicilio, nessuna persona, nessuna libertà fu violata. E pure la Nazione, il Risorgimento, il Dèbats, la Presse, per non nominare gli organi e sott’organi di Napoli e d’Austria, trovano il regno del terrore e dell’anarchia a Roma e non a Milano, a Roma e non a Napoli, a Roma e non altrove.61

Non sapremmo conciliare per verità queste vantate beatitudini col linguaggio che lo stesso ministro Saffi teneva il giorno 5, quando pubblicava un proclama ai cittadini nel quale diceva fra le altre cose:

«I delitti di sangue che, in alcuni punti (per [p. 284 modifica]avventura radissimi) dello stato, vanno accadendo, e che turbano miseramente questo generale e maraviglioso concorso di un intero popolo nell’opera della sua redenzione, sono un’atroce ingiuria alla purezza de’ principi repubblicani. Per essi l’idea vergine e maestosa che oggi si eleva sul Campidoglio è gittata nel fango; per essi il nuovo patto di amore e di perdono, giurato in Roma dai veri credenti nell’avvenire dell’umanità è profanato; per essi l’opera della vita e l’armonia della libertà sono orribilmente infrante e calpeste.»62

Due settimane dopo, come racconteremo nel capitolo seguente, vituperava lo stesso Saffi le arbitrarie requisizioni e le violazioni della libertà individuale, alle quali abbandonavansi alcuni militi della guardia nazionale. Ed egli, che giustamente biasimava cosiffatte turpitudini quando parlava ai cittadini dello stato romano, teneva ben diverso linguaggio quando informava le potenze estere, siccome fece il giorno 3 con una nota, ove encomiava i procedimenti dei repubblicani, e sosteneva che collo avere abbattuto il dominio temporale dei papi erasi compiuta un’opera gloriosa.63

Amanti noi come siamo della verità e della giusta libertà che è compatibile fra uomini civili, domanderemo se fosse un bel vivere sotto un regime ove, per confessione dello stesso governo, i delitti di sangue funestavano i cittadini, ed ove tante altre cose irregolari commettevansi; fra queste citeremo:

1.° Le commissioni militari ed i giudizi statari.

2.° Le giunte temporarie di pubblica sicurezza, che erano una vera parodia dei comitati di salute pubblica sotto la francese rivoluzione.

3.° Il corso forzoso dei biglietti della banca.

4.° Il prestito forzoso, e tutte le vessazioni che ne conseguivano.

[p. 285 modifica]5.° l’ordine forzoso di aderire alla repubblica. Diciamo forzoso, perchè poneva i poveri padri di famiglia nell’alternativa o di aderire, o di morirsi di fame.

6.° Le requisizioni di cavalli.

7.° Le requisizioni delle campane, iniziate col dar fuoco alla porta di una casa religiosa.

8.° Le vessazioni investigatone della polizia, spinte al punto di violare il segreto sacrosanto delle lettere.

9.° Le visite domiciliari, gl’insulti, e le minaccie, come ne dieron saggio contro il parroco di san Giovanni in Laterano, ed i padri Cistercensi di santa Croce in Gerusalemme.

10.° Gli arresti di vescovi e cardinali, fra i quali monsignor Vespignani ed il Cardinal De Angelis ce ne somministrano subito un esempio.

Nè crediamo che fosse un saggio di patriottismo o di attaccamento al governo il vedere che non si riusciva di rinvenire quasi in un mese ed in tutto lo stato quella somma che per confessione del governo stesso fu in un sol giorno riunita in Ferrara.

Che se a tutto questo vogliasi aggiungere l’allontanamento della corte e dei grandi, lo scarsissimo numero dei forestieri rimasti, l’essersi ridotti i cittadini di Roma a non ispendere che il puro necessario per vivere, si riconoscerà in quale stato miserevole Roma fosse ridotta.

Tutte queste cose però conoscevansi più o meno esattamente dagli esteri governi, ed appunto per sollevare Roma dall’incubo che l’opprimeva, venivansi maturando le pratiche per l’intervento cumulativo di varie potenze cattoliche.

Non era peraltro sì agevole il combinarlo, perchè alia fin fine i principi rivoluzionari eran dappertutto. Erano stati compressi è vero, ma la lor compressione era troppo recente.

La rivoluzione socialistica di Parigi era stata affogata nel sangue il giugno decorso; due volte fu nel sangue [p. 286 modifica]soffocata in Vienna. La insurrezione ungarese non era ancor doma, e senza le falangi del russo imperatore non si sarebbe venuti a capo di spegnerla. Sangue si era sparso a Berlino, a Dresda, nelle provincie renane. Sangue a Napoli e perfino nella stessa Madrid, e questo sangue fumava ancora.

Un intervento pertanto onde soffocare la rivoluzione romana poteva sembrare attuabile in massima, ma non lasciava di avere grandi spine per la sua esecuzione.

La Sicilia non era ancor debellata, ed una solidarietà esisteva tuttora fra i democratici di tutti i paesi, ed era appunto questa solidarietà che confortava e sosteneva i repubblicani romani, e n’ebbero un incoraggiamento con un atto elaborato in sul finire di febbraio dalla democrazia francese.

Consiste questo atto in un indirizzo che la così detta Montagna di Parigi pubblicò, che il Monitore del 12 marzo riportò nelle sue colonne voltato in italiano, e che qualche giorno dopo l’assemblea costituente divulgò nel testo originale.64 Eccolo:

«La democrazia francese saluta, con entusiasmo, in voi la repubblica gloriosamente fondata sulle rive del Tevere. Onore al popolo romano! La storia ammirerà la grandezza dell’opera sua.

» Questa solenne proclamazione del nuovo diritto nell’antica Roma sarà senza dubbio fra i memorabili avvenimenti dei tempi moderni. Gli amici della libertà se ne rallegrano tanto più quanto maggiore magnanimità ha mostrato il popolo romano nell’uso della propria forza. Padrone di se stesso, calmo e fermo, riconquistando i suoi diritti imprescrittibili, egli ha rispettata la libertà religiosa, ha distinto il pontefice dal principe.

» Roma emancipata è il segnale di emancipazione di tutta intera l’Italia, è il primo passo verso la ricostruzione [p. 287 modifica]della nazionalità italiana sotto l’unica forma che ormai la renda possibile, la repubblica.

» Coraggio, fratelli! Già la Toscana è libera, Venezia combatte, la Lombardia freme, il Piemonte si agita, il sangue versato a Napoli sarà vendicato; quanto prima da tutti questi stati emancipati balzerà fuori in tutto il suo splendore l’unità italiana.

» Fino allora, o Romani, vegliate sulla vostra vittoria; non lasciatevene rapire i frutti da nessuna fazione retrograda. Vedete quanto ora succede in Francia: questa lezione non sia perduta per  voi. Coll’energia rivoluzionaria soltanto si salvano le rivoluzioni. Tenete il popolo in armi, pronto sempre a difendere la sua conquista e a fulminare i suoi nemici.

» La Spagna, Napoli e l’Austria si dice che formino un’alleanza sagrilega per soffocare il potere popolare a Roma. Queste voci non possono turbarvi, o cittadini, nell’opera austera della vostra costituzione: i vecchi tiranni esiteranno prima di attaccare i Romani che fondano la propria indipendenza. Se mai l’osassero.... cittadini d’Italia, le simpatie della democrazia francese sono per voi: i suoi volontari, alla vostra chiamata, verrebbero ad aiutarvi per cacciare i barbari. Viva la Repubblica romana! Viva la Repubblica italiana!

I rappresentanti del popolo.

(Seguono le firme dei rappresentanti della Montagna.)65

Lo stesso giorno poi in cui le simpatie dei democratici francesi venivano a confortare i repubblicani romani, il ministero piemontese denunziava la cessazione dell’armistizio al generale Radetzky. 66 Di ciò per altro terremo [p. 288 modifica]proposito più estesamente nel capitolo seguente. Ma intanto, affinchè i nostri lettori possano convincersi delFanimosità dei repubblicani verso Carlo Alberto e Gioberti, e quindi della niuna participazione dei medesimi alla nuova riscossa piemontese che meditavasi e che il 12 marzo venne annunciata solennemente, vogliamo ricordare alcune caricature che fino dalla metà del febbraio furon pubblicate nel Don Pirlone, giornale che quanto era esecrabile pei principi politici e religiosi, altrettanto poi era graziosamente mordace ne’ frizzi e spiritoso nelle caricature.

Esso in somma rappresentava meglio che qualunque altro giornale lo spirito della rivoluzione, ed era di tutti il più ricercato e divulgato.

Nel numero 132 del 13 febbraio vedevasi la repubblica romana sonante una campana in forma di berretto repubblicano. Pio IX fugge pregando colle mani giunte. Il re di Napoli, Carlo Alberto, ed il granduca di Toscana turansi le orecchie. Sotto si legge:

«Pari al fragor del tuono
» Nella città dei Cesari
» Tremenda echeggierà.»

Nel numero 133 del 14 si rappresentava l’Italia, giardiniera che inaffia le quattro repubbliche di Roma, Venezia, Toscana e Sicilia. Quelle di Napoli e Torino stan per fiorire; ma Carlo Alberto nascosto fra le piante cerca di distruggerle, uccidendo proditoriamente col pugnale la giardiniera.

Il numero 134 del 15 ci dava Carlo Alberto che scanna l’Italia per la quarta volta, affine di assicurarsi la corona.

Nel numero 135 del 16 vedevi Carlo Alberto che porta una lanterna. Entro avvi Gioberti che cerca di abbagliar l’Italia, la quale però si copre il volto e non si fa vincere da quella luce.

[p. 289 modifica]Nel numero 142 del 24 febbraio si ha una vignetta rappresentante un teatro ove si canta da Radetzky, Carlo Alberto, e dal re di Napoli, un terzetto nell’opera L’indipendenza italiana:


» Sui campi dell’infamia
» Noi pugneremo.»

Il numero 148 del 3 marzo ci dava le quattro repubbliche summenzionate. Carlo Alberto copre col cappello il viso al suo popolo affinchè non le vegga. Il re di Napoli ferma il suo che vuol raggiungerle e lo minaccia col bastone; sotto vi era la seguente iscrizione:

«Eh lasciatele andare (cioè le due repubbliche piemontese e napolitana) chè tanto o presto o tardi arrivano.»

Queste caricature le abbiam rammentate perchè denotano fino all’ultima evidenza che i repubblicani romani odiavano cordialmente Carlo Alberto, perchè lo riguardavano come un loro acerrimo nemico.

Il giorno 13 di marzo use) un decreto che ordinava che il giorno 15 si sarebbero riprese le udienze ordinarie dei giudici e tribunali.67

E il 14 l’assemblea nominò una commissione di rappresentanti per compilare la statistica di tutti gl’impiegati della repubblica.68

In quel giorno fu pubblicato un decreto del comitato esecutivo, ove si diceva che la legge del 21 febbraio, la quale dichiarava proprietà della repubblica i beni ecclesiastici, non si applica ai beni ecclesiastici esistenti nel territorio della repubblica, ma appartenenti alle chiese e corporazioni straniere, o ad altri stati d’Italia.69

Il comitato esecutivo con decreto del 14 dichiarava le chiese, le corporazioni religiose, ed in genere le mani [p. 290 modifica]morte, incapaci di acquistar beni. 70 Ora passeremo ad altro.

Non è chi non rammenti la famosa congiura che nel luglio 1847 si finse essersi ordita contro i liberali, ed i disordini che produsse, fra’ quali l’arresto arbitrario a furia di popolo di molti fatti segno alla pubblica esecrazione.

Eran fra i medesimi il sotto tenente Andrea Sangiorgi, ed il capitano Paolo Galanti. Rammenteranno pure che dicevasi comunemente essere fra i compromessi taluni personaggi di molto rilievo appartenenti all’alto clero, che era nell’interesse del governo pontificio di salvare ad ogni costo.

Caduto però il governo nelle mani dei repubblicani, e con esso tutti i processi e le carte delle cancellerie criminali , è chiaro che se vi fossero state cosiffatte occultate colpabilità, era quello il momento per farle venire in chiaro. Nulla fuvvi di tutto ciò; ed anzi i sopradescritti due imputati (ad onore del governo repubblicano) furono sotto quel regime a forma di giustizia assoluti colla formola seguente il giorno 8 marzo:

«Il tribunale, ritenute queste conclusioni, in applicazione degli articoli 125 e 126 del regolamento di procedura, ha deciso che si sospendano gli atti per ambidue li ridetti prevenuti Andrea Sangiorgi e Paolo Galanti, e che siano dimessi per risultati dimostrativi d’innocenza.»

Contro questo giudicato insorse però lo stesso Paolo Galanti con una protesta diretta al generale Galletti capo del corpo cui apparteneva, protesta che sotto lo stesso governo repubblicano fu pubblicata. Eccola:


«Cittadino generale,

» Il giorno 8 del corrente mese di marzo il tribunale del governo della repubblica romana compì il mio [p. 291 modifica]assassinio civile che principiò nel luglio 1847 dal sempre detestabile obbrobrioso infame Giuseppe Morandi.

» Il tribunale mi giudicò, è vero, quale innocente, ma raunato in camera di consiglio e non a pubblico dibattimento, siccome anelavo io e tutti gli altri come me calunniati, e siccome era mestieri si giudicasse una causa che tanto rumore ha menato per tutto il mondo. È questo il progresso della nuova rigenerazione? È questa la millantata giustizia che si promette ai popoli riscattati dal barbarismo?.... Si può commettere maggiore assolutismo, e maggior tirannia di quella che si è usata a me, e agli altri miei innocentissimi colleghi? No e no per Dio! Solo in Roma e nei tempi del risorgimento poteva consumarsi un reato di tal fatta, tremendo, e ributtante insieme.

» È vero che oggi a chiunque ha fior di senno è sparito dannanti il fantasma della tanto predicata congiura, perchè la esperienza ha imparato a persuadersi come quella diabolica invenzione fosse un necessario preliminare di gran fatti politici avvenuti dappoi; ma il pubblico, quel pubblico che tanto si dice amare e stimare, si vuol tenere al buio del risultato del nequizioso gran-processo (memoria incancellabile dell’iniquo Morandi) onde in consimili altre circostanze non sappia mettersi in guardia per ripararsi da’ colpi dell’inganno, che tanto giova alle rivoluzioni.

» Dunque il gran-processo perchè appalesa dimostrativamente la plenaria innocenza dei calunniati: dove, il perchè, e da chi furono immaginate le liste di proscrizione, in quale casa furono scritte e da chi (chi le dettò è morto a Vicenza e Dio dia pace all’anima sua), chi le ricevè e le affisse in numero di 24, non si deve per tutto questo aver seduta pubblica?. Eppure nei primi moti popolari questa parola si gridava a gola piena da tutti e specialmente dai giornalisti!!!.. ed ora? Niun più ne parla perchè l’ombra del silenzio deve coprir la [p. 292 modifica]colpa dei malfattori. Cittadino generale! io a voi ricorro perchè da voi dipendo.

» Il privato giudizio del tribunale, sebbene mi pone in piena libertà come riconosciuto innocente, non è adatto alla causa clamorosissima cui per schifosa malignità altrui, sono andato soggetto. Ho sofferto 21 mesi di prigionia, 7 dei quali in separata e tetra segreta, ma sempre tranquillo, e posso pur dire giulivo, alla idea che il popolo sarebbe stato un giorno spettatore oculare del dibattimento ed avrebbe imparato com’egli fosse stato ingannato.»

Si omette il resto per brevità.

Concludeva così:

«Sicuro che sarete per farmi giustizia vi rassegno gli atti della mia riconoscenza nel contestarvi pienissima stima e subordinazione.

» Frascati, 13 marzo 1849.


» Il subordinato capitano
» Paolo Galanti.


» Al cittadino general Galletti

» Comandante il corpo dei carabinieri

» Roma71


Questa protesta pubblicata sotto il governo repubblicano, e contenente l’accusa la più esplicita delle iniquità che costituirono la finta congiura del luglio 1847, ci sembra un tale atto da non andare pretermesso, ed è perciò che abbiam creduto di riportarlo quasi per intero.

Pubblicossi il giorno 15 di marzo un ordine del comitato esecutivo, nel quale si stabiliva con chi dovessero corrispondere i ministri per i bisogni delle loro amministrazioni. 72

[p. 293 modifica]Vedevasi la sera del 15 marzo uscire dal palazzo Valentini quasi di soppiatto una bara, bara poco men che da spedale, senza pompa di ceri, coll’accompagnamento di pochi ecclesiastici che recitavan sommessamente le preci de’ morti, e di pochi famigliari lacrimanti e preganti ancor essi. Avviavasi l’umile corteo alla chiesa di sant’Onofrio sul Gianicolo, ove deponeva il defunto.

E chi era mai codest’uomo? Era il Cardinal Mezzofanti già bibliotecario della Vaticana, prefetto della congregazione degli studi e ministro nel marzo 1848 dell’istruzione pubblica; nato in Bologna il 17 settembre 1774, moriva in Roma il 14 marzo 1849.

Cercato fra i giornali del movimento di quel tempo, che pure eran tanti, alcun ragguaglio sopra quest ’ avvenimento, o qualche notizia biografica sopra un tal personaggio che avea fatto parlare tanto di se, non ci riuscì di rinvenirne.

L’Indicatore del 15 diceva semplicemente: Il cardinale Mezzofanti è morto stanotte circa le 12.73

La Speranza Italiana si limitò a dire: Ieri mori in Roma il cardinale Mezzofanti.74

Il Costituzionale del 16 e del 21 ne parlò più a lungo, ma il Costituzionale non apparteneva al movimento.75

Ci rivolgemmo dipoi alla Civiltà cattolica, ove attingemmo sufficienti notizie sull’oggetto delle nostre investigazioni, ed è sulla scorta di quelle, che darem qualche cenno sul Cardinal Mezzofanti.76

Quest’essere raro (direm favoloso), de’ più singolari che abbiano vissuto al mondo nel giro di tanti secoli, ci ha presentato lo strano, unico, inesplicabile fenomeno di un uomo che conosceva nientemeno che settantotto lingue con tutti gli svariatissimi dialetti. Esso fu per questo lato [p. 294 modifica]il più meraviglioso Italiano, anzi l’uomo più straordinario che mai nascesse in terra.

Egli conosceva di quelle lingue tutta l’indole, il tessuto, le proprietà speciali, i trapassi, i nodi, gli sviluppi, il color vivo e le sfumature, i sensi propri e i traslati, il parlar famigliare ed il pubblico.

Dettava poesie in peruano, chilese e californio, ma con concetti arditi e colorite immagini, sicché ti ritraevano al vivo il naturale di quelle tribù selvagge.

Con pari naturalezza poi con la quale sapeva imitare le dizioni e i concetti dei selvaggi americani, sapeva esprimere i pensieri e le idee dei negri del deserto di Sennar e del Rio azzurro nell’Africa. Esso faceva recitare agli alunni negri di propaganda fide le sue poesie nelle lingue d’Angola, della Cafreria, del Congo, degli Ambezes e del Zanguebar, ed agli alunni peguani e della Cocincina quelle nella lor lingua birmana e talapuina o sacra. Ei componeva versi eziandio nelle lingue della Polinesia indiana e cinese.

Con pari garbo ed eleganza facea gustare i canti finici dei Samoiedi, dei Laponi, e di molte brigate erranti della Siberia da Tobolsk sino all’ultimo sprone orientale del Kamciatska. Lo stesso faceva delle poesie dei Tartari Mandciuri, dei Mongoli, dei Panduri, dei Cosacchi, dei Turcomanni, degli Usbeki, e di altri popoli intorno al Caspio e all’Urall.

Nè la lingua soltanto conosceva di ciascun popolo, ma era dotato di una facilità maravigliosa nello esprimere i suoni svariati, gli accenti, le asprezze, le dolcezze, le rotondità, le acutezze, gli addoppiamenti, gli sdruccioli e le pause. Sapeva anche esprimere i suoni palatini, i labiali, i dentali, i gutturali, i profondi, gli squillanti, gli spiccati e i gorgogliati, secondo l’uso indigeno. E tutto ciò senza che in lui s’ingerisse confusione veruna, passando da una lingua all’altra con rapidità maravigliosa.

Era un prodigio; una maraviglia il sentirlo la sera esercitarsi cogli alunni di quel collegio, e intertenersi con loro [p. 295 modifica]o in lingua cinese, o in armena, o in bulgara, o in greca.

E chi salutava in arabo, e chi in etiopico, in ghezzo, e in abissino. Là ragionava in russo, qua in albanese, in persiano, in inglese, in cofto, in lituano, in peguano, in tedesco, in danese, in georgiano, in curdo, in norvegio, in isvedese.

Giunti in propaganda nel 1837 alcuni Albanesi di Scutari, di Antivari e di Sapia, trattavasi di confessarli, ma niuno conosceva la lor lingua. Il cardinale avuta fra mani qualche grammatica, disse: fra quindici dì sarò a confessarli.

Egli conosceva le pronunzie, e i volgari delle lingue slave che parlansi nelle diverse regioni de’ Russi, Polacchi, Boemi, Moravi, Schiavoni, Bosnii, Banati, Erzegovini. Che più? I dialetti di Francia dal bearnese dei Pirenei insino al piccardo di fronte alla Brettagna conosceva. Di più gli fiorivan sulle labbra il bordellese, il borgognone, il limosino, il normanno, il provenzale, il guascone, e perfino il celtico della bassa Brettagna, quello del paese di Galles e quello dei montanari di Scozia.

Conosceva perfettamente la letteratura della Grecia, del Lazio, d’Italia, non che la letteratura francese, alemanna, spagnola, portoghese, inglese, polacca, unghera e russa.

Che cosa erano a fronte del Mezzofanti Mitridate re del Ponto, ed il famoso Pico della Mirandola? Egli tutti lasciò dietro di se, antichi e moderni, ad una distanza incommensurabile.

Tutti i principi, i re, gl’imperatori, tutti gli stranieri di conto che in Bologna o in Roma giungevano, quando vi era il Cardinal Mezzofanti desideravano di conoscerlo ed ammirarlo.

Umile, modesto, disinvolto, caritatevole, riuniva in se i pregi del ramante del suo simile, e del vero filosofo cristiano.

Abbiamo accennato chi fu il cardinale Mezzofanti, e abbiam detto in qual modo fu trasportato il suo cadavere al tempio.

[p. 296 modifica]Se un uomo ch’era grande, non già perchè cardinale di santa Chiesa, ma perchè dotato di un intelletto così straordinariamente organizzato, che niuno al mondo vi fu, nè forse vi sarà più mai, che al medesimo possa parificarsi; se tale uomo, diciamo, non ricevette onore; e distinzione veruna, neppure di quel genere che alle stesse nullità facilmente tributansi; se il trasporto, le preci che a questo uomo insigne accordaronsi, ebber luogo a mezza voce e clandestinamente, quasi che fosse uno scandalo e una vergogna quello che era un segnalatissimo onore; se cose simili vedevansi in Roma alla metà del marzo del 1849, il fatto è troppo eloquente per attestare a qual misera condizione, a quale abbietto scadimento morale Roma fosse piombata in quei tempo infelice!

Il restante del mese di marzo nel capitolo seguente.









Note

  1. Vedi l’Epoca del 1 marzo. — Vedi Torre, vol. I, pag. 249.
  2. Vedi Monitore del 3, pag. 133. — Vedi Documenti, vol. VIII, n. 85.
  3. Vedi il Positivo di monsignor Gazola, pag. 90 e 91.
  4. Vedi la Pallade, n. 486. — Vedi l’Epoca del 3 marzo, pag, 1136.
  5. Vedi l'Epoca, pag. 1132.
  6. Vedi la Pallade, n. 486.
  7. Vedi la Pallade, n. 485. — Vedi Monitore, pag. 153.
  8. Vedi Monitore del 4, pag. 140.
  9. Vedi detto del 5, pag. 143 e 144.
  10. Vedi il Monitore, del 3, pag. 133.
  11. Vedi detto del 3, pag. 135.
  12. Vedi detto del 3, pag. 136.
  13. Vedi detto del 4, pag. 139 e 140.
  14. Vedi detto del 5.
  15. Vedi detto del 5, pag. 143.
  16. Vedi detto del 5, pag. 143.
  17. Vedi gli atti dell’Assemblea, ec., pag. 144.
  18. Vedi la Pallade, n. 486.
  19. Vedi la Pallade, n. 488.
  20. Vedi Monitore del 6, pag. 150.
  21. Vedi Sommario, n. 72. - Vedi l'Epoca dell’8 marzo, n. 290.
  22. Vedi la Pallade, n. 488. - Vedi il Monitore del 7.
  23. Vedi Monitore dell’8, pag. 159.
  24. Vedi detto, pag. 169.
  25. Vedi Monitore del 7, pag. 157.
  26. Vedi Farini, vol. III, pag. 277.
  27. Vedi Rusconi, La repubblica romana del 1849. Torino, 1850, vol. I, pag. 128.
  28. Vedi Sommario storico, ec., vol. II, pag. 44.
  29. Vedi Farini, vol. III, pag. 277.
  30. Vedi Miraglia da Strangoli, Storia della rivoluzione romana. Genova e Prato, 1850, pag. 121.
  31. Vedi Monitore del 7 marzo.
  32. Vedi detto del 7, pag. 153.
  33. Vedi l’Epoca dell’8, n. 290. — Vedi il Sommario storico ec., vol. II, pag. 49.
  34. Vedi Monitore dell’8, pag. 162.
  35. Vedi detto del 9, pag. 163.
  36. Vedi Sommario storico, ec., vol. II, pag, 63.
  37. Vedi il Monitore del 9, pag, 167.
  38. Vedi Monitore del 9, pag, 167.
  39. Vedi detto del 9, pag, 167,
  40. Vedilo nello Miscellanee, vol, V, n, 9.
  41. Vedilo fra le nostre opere diverse.
  42. Vedi Sommario storico, ec., vol. II, pag. 68. — Vedi la Pallade, n, 492.
  43. Vedi Monitore del 12, pag. 177.
  44. Vedi Monitore del 12 marzo.
  45. Vedi detto del 12.
  46. Vedi Positivo, dell’8 marzo 1819, n, 25.
  47. Vedi detto, pag, 95, n, 24.
  48. Vedi Speranza italiana del 17, pag, 3, — Vedi pure il Costituz. dei 14.
  49. Vedi la Pallade, n. 494.
  50. Vedi detta, n. 492.
  51. Vedi detta, n. 493 e 497.
  52. Vedi il Monitore dell’11 marzo 1849.
  53. Vedi detto del 12, pag. 177.
  54. Vedi detto del 13, pag. 183.
  55. Vedi detto del 13, pag. 183.
  56. Vedi detto del 13, pag. 183.
  57. Vedi detto del 13, pag. 184.
  58. Vedi il Monitore del 5, pag. 141.
  59. Vedi Documenti, vol. VIII, n, 88 A.
  60. Vedi il Don Pirlone del 12 marzo 1819, n. 155.
  61. Vedi Monitore del 14.
  62. Vedi Monitore del 5, pag. 144.
  63. Vedi detto del 6, pag. 149.
  64. Vedi Monitore del 12. — Vedi gli atti dell’Assemblea ec. del 17 marzo.
  65. Vedi Monitore del 12 marzo, pag. 181. — Vedi la Révolution démocratique et sociale.
  66. Vedi il Contemporaneo del 18, n. 63. — Vedi Miraglia, Storia della rivoluzione romana, pag. 124. — Vedi Monitore del 18 marzo, pagina 206.
  67. Vedi Monitore del 15.
  68. Vedi detto del 14.
  69. Vedi Monitore del 15.
  70. Vedi il Monitore del 16.
  71. Vedi il Costituzionale del 21 marzo, n. 35. — Vedi Documenti, vol. VIII, n. 90.
  72. Vedi Monitore del 16.
  73. Vedi l’Indicatore, anno II, n. 7.
  74. Vedi la Speranza italiana, n. 48,
  75. Vedi il Costituzionale alla pag. 132 e 140.
  76. Vedi la Civiltà cattolica, anno secondo, Vol. VII, pag. 568 e seguenti.