Storia di Milano/Capitolo XIX

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Capitolo XIX

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[p. 87 modifica]Di Lodovico il Moro, settimo duca di Milano, e della venuta del re di Francia Lodovico XII

Lodovico aveva il diploma imperiale che lo dichiarava duca di Milano; ma lo teneva nascosto. Già vedemmo che l’imperator Federigo non concesse mai il ducato di Milano nè a Francesco Sforza nè a Galeazzo Maria. Giunto alla suprema dignità dell’impero Massimiliano I, ei ne conferì il ducato, non già al primogenito dell’ucciso Galeazzo, ma al tutore di esso, Lodovico il Moro. Il diploma venne spedito in Anversa il giorno 5 settembre 1494. In esso diploma dichiara quell’angusto che preferiva Lodovico, perchè esso fu generato da Francesco Sforza mentre possedeva il ducato; il che non poteva dirsi di Galeazzo. Pare che avrebbe dovuto l’estensore del diploma omettere questa cavillazione, superflua presso l’imperatore, che non riconosceva altri duchi di Milano, se non i nominati ne’ cesarei diplomi. Con altro diploma 8 ottobre 1494, dato pure in Anversa, l’imperatore dichiara che Lodovico gli facesse istanza per ottenere l’investitura del ducato in favore di Giovanni Galeazzo; ma che l’imperatore Federigo, suo padre, ed egli lo aveano ricusato, perchè praefatus Joannes Galeaz ipsum ducatum et comitatum a populo Mediolanensi recognovit, quod quidem fuit in maximum Imperii praejudicium; et quia est de consuetudine Sacri Romani Imperii neminem unquam investire de aliquo statu sibi subjecto, si eum de facto sibi usurpavit, vel ab alio recognoverit. Lodovico, mentre [p. 88 modifica]in segreto possedeva questi diplomi imperiali, convocò nel castello i primari dello Stato; e notificando la morte seguìta del duca Giovanni Galeazzo, propose loro d’acclamare per duca Francesco, bambino primogenito del defunto. Il presidente della camera Antonio Landriano vi si oppose, attesa l’età del fanciullo: e ricordando le inquietudini della minorità passata; lo stato d’Italia col re Carlo alla testa d’un armata; i pericoli imminenti, propose che Lodovico medesimo fosse da riconoscersi duca, come quel solo che nelle procelle attuali poteva difendere lo Stato. Nessuno ardì di uniformarsi alla proposta di Lodovico; e il voto del Landriano venne secondato da tutti. Ben tosto, uscendo dal consiglio, lo proclamarono duca nel mentre appunto che nel Duomo, allo spettacolo dell’estinto Giovanni Galeazzo, esposto colla pompa funebre allo sguardo di ognuno, si versavano lagrime di compassione sul misero di lui fato. La vedova duchessa Isabella, coi poveri bambini suoi, stavasene in Pavia, rinchiusa entro una stanza, ricusando la luce del giorno, giacendo per tristezza sulla nuda terra, in mezzo a lugubri abbigliamenti. Ivi intese una tale proclamazione, che toglieva la sovranità anche ai meschini avanzi del giovine suo sposo, e poneva il colmo al trionfo della rivale duchessa Beatrice. (1495) Quando il popolo invidia la condizione de’ signori grandi, ha egli sempre ragione? Due ministri imperiali vennero a Milano per conferire la dignità ducale a Lodovico; ed era appunto allora che si compieva il secolo in cui la stessa cerimonia erasi fatta per il primo duca. Il giorno 26 maggio del 1495, alla porta del Duomo, con stupende cerimonie, dice il Corio, ornarono Lodovico del manto, berretta e scettro ducale, sopra un eminente trono. Giasone del Maino, celebre legista, [p. tav modifica]

Casa de’ Signori Conti Marliani d’Architettura del tempo di Lodovico il Moro, venne distrutta nel 1782 per adattarvi il Monte Camerale di S. Teresa [p. 89 modifica]pronunziò l’orazione; poscia si andò a Sant’Ambrogio; d’unde in castello, dove furono celebrati li stupendi triumphi quanto a nostro secolo fussino d’altri; così il Corio.

Stacchiamo lo sguardo, almen per poco, dai tristi avvenimenti della politica, rimiriamo oggetti più ameni, cioè i progressi che la coltura fece presso di noi sotto il governo di Lodovico il Moro. Lodovico dapprincipio fabbricò il vastissimo claustro del Lazzaretto secondo l’uso di que’ tempi; ma in appresso egli pose all’architettura per maestro il Bramante da Urbino, alla pittura, Leonardo da Vinci. Questi grandi uomini erano cari a Lodovico. Sotto la scuola di quest’ultimo si formarono Polidoro da Caravaggio, Cesare da Sesto, Bernardo Luino, Paolo Lomazzi, Antonio Boltrasio ed altri, dai quali ebbe vita ed onore la scuola milanese. L’architettura era ne’ primi anni sotto Lodovico resa elegante bensì, ma conservava capricciosi ornamenti, siccome scorgevasi nella facciata della casa de’ signori conti Marliani. Poi s’innalzò il magnifico tempio della madonna di San Celso; si eresse la facciata del palazzo arcivescovile; si fabbricò il chiostro, veramente nobile e grandioso, dell’imperial monastero di Sant’Ambrogio; e così si esposero allo sguardo pubblico modelli di bella architettura. Lodovico [p. 90 modifica]grandiosamente stipendiava gli abili artisti e gli uomini d’ingegno; accordava loro piena immunità da ogni carico; animava i progressi della coltura. Demetrio Calcondila, Giorgio Merula, Alessandro Minuziano, Giulio Emilio erano fra noi gl’illustri letterati protetti e beneficati dal Moro. Bartolomeo Calco, segretario di Stato ed uomo colto, per secondare il genio del suo principe, instituì le scuole pubbliche, le quali sino a’ giorni nostri ne portano il nome. Tommaso Grossi eresse e dotò altre pubbliche scuole per gratuita istituzione della gioventù; e queste pure conservano il nome del loro fondatore. Tommaso Piatti, che sommamente era in favore presso Lodovico, instituì pubbliche cattedre di astronomia, geometria, logica, lingua greca ed aritmetica. Con tali beneficenze pubbliche si otteneva l’amicizia di Lodovico; il che certamente fa sommo onore alla memoria di lui. Non è dunque da meravigliarsi se di que’ tempi le belle lettere venissero in fiore, e se da quella scuola uscissero poi Girolamo Morone, di cui accaderà in breve ch’io parli, Andrea Alciato e Girolamo Cardano. Scrivevano allora la storia patria Tristano Calco, memorabile per l’elegante stile latino, e per la molta accuratezza; Bernardino Corio, inelegante scrittore bensì, e credulo compilatore delle antiche favole, ma accurato e fedele espositore delle cose de’ tempi più vicini. Allora la poesia, la musica, tutte le [p. 91 modifica]belle arti ebbero vita e onore. Il cavaliere Gaspare Visconti in quella età scriveva rime degne di leggersi. Ecco quasi per saggio tre sonetti di lui fra i molti che ho esaminati. Il primo, singolarmente nei due quaderni, mi pare assai robusto e poetico.

Rotta è l’aspra catena e il fiero nodo

Che l’alma iniquamente già mi avvinse;

Rotto è il gruppo crudel che il cor mi strinse,

Onde mia sorte ne ringrazio e lodo.

Fuor del pensiero ho l’amoroso chiodo,

Che poco meno a morir mi sospinse;

E il volto che nel petto amor mi pinse,

Lì dentro è casso, e senza affanni or godo.

Ringrazio il cielo, il qual m’ha liberato

Dalla cieca prigion, piena d’orrore,

Dove gran tempo vissi disperato.

E quando a sè pur mi rivogli amore,

Me leghi a un cuor che sia fedele e grato,

Ch’io servirò per fino all’ultim’ore.

L’altro sonetto seguente parmi assai leggiadro, e ci fa vedere che l’allegria e la sociabilità erano conosciute da que’ nostri antenati. Anco un’altra osservazione sul costume ci si presenta; ed è che, usando allora le gentildonne abiti pesantissimi di broccato, non potevano altrimenti ballare e vivacemente, come ora si costuma; ma unicamente potevano moversi con graziosa lentezza, modice et venuste, siccome nel capitolo precedente vedemmo: perciò Gaspare Visconti, nel seguente sonetto, fra i [p. 92 modifica]pregi delle ballerine, annovera il mover lenti lenti i piedi. Ecco il sonetto:

Io vidi belle, adorne e gentil dame

Al suon di soavissimi concenti

Co’ loro amanti mover lenti lenti

I piedi snelli, accese in dolci brame.

E vidi mormorar sotto velame

Alcun degli amorosi suoi tormenti,

Dividersi, e tornare al suono intenti,

E cibar d’occhi l’avida sua fame;

Vidi stinger le mani, e lasciar l’orme

Dolcemente stampate in lor non poco,

E trovarsi in due cor desio conforme.

Nè mirar posso così lieto giuoco,

Ch’a pensier lieto alcun possa disporme

Senza colei che notte e giorno invoco.

D’un altro genere, men elevato sì, ma pregevole per la facilità, è il sonetto seguente ch’ei scrisse a messer Antoniotto Fregoso, da cui veniva avvisato che una indiscreta vecchia non cessava d’infamarlo. Così rispose:

Omai, Fregoso, io son come il cavallo

Che porta il tuon delle pannonie schiere,

O come quel qual usa il schioppettere,

Che al bombo del schioppetto ho fatto il callo

Riprenda pur la plebe ogni mio fallo,

Che tanto fa il suo dir quanto il tacere,

Qual son l’opere mie, quale il volere,

Chi il vero intende, apertamente sallo.

Che diavol sarà poi con questa femmina,

La qual non altra cosa che zizania

Nel steril orto del rio volgo semina!

Sola sè stessa infin, non altri lania;

E quanto più suo pazzo error s’ingemina,

Tanto a chi sa, dimostra più sua insania. [p. 93 modifica]

Dal fine d’un sonetto ch’egli scrisse alla Beatrice d’Este si conosce qual ascendente quella principessa avesse sull’animo di Lodovico:

Donna Beata, e spirito pudico,

Deh, fa benigna a questa mia richiesta

La voglia del tuo sposo Lodovico.

Io so ben quel che dico:

Tanta è la tua virtù, che ciò che vuoi

Dello invitto suo cor disponer puoi.

Di questo magnifico e generoso cavaliere aurato, Gaspare Visconti, consigliere ducale, evvi pure un poema stampato per magistro Philippo Mantegatio, dicto el Cassano, in la excellentissima cittade de Milano, nell’anno Mcccclxxxxv, a dì primo de aprile. Questo poema ha per titolo: Paulo e Daria amanti. Non v’è traccia che meriti di seguirne la lettura. Vi sono però alcune ottave passabili, come:

Messer Luchino in segno di letizia

Fece ordinar un bel torneamento,

E de’ compagni della sua milizia

Ne scelse appunto al numero ducento;

Ciascun de’ quali ha forza e gran divizia;

Milanese ciascun, pien d’ardimento;

Che allor Milano al marzial negozio

Molto era intento e non marciava in ozio

Giunto era il giorno al tornear proposto

Da Luchin di Milan, signor e padre,

Qual credo fosse a’ quindici d’agosto.

Quando vennero in campo ambe le squadre [p. 94 modifica]

Ognun quanto più può, fa del disposto,

Con sopraveste e fogge alte e leggiadre,

All’uso pur di quel buon tempo prisco,

Ch’ogni ornamento suo pagava el fisco.

La compagnia d’Èstor tutta ross’era;

L’altra di Dario candida si vede,

Che de’ Visconti la divisa vera

Bianca e rossa è, se al ver si presta fede, ecc.

Canto II.

Il Corio ci descrive l’urbanità, l’opulenza, il raffinamento e il lusso della corte di Lodovico, prima che sventuratamente promuovesse l’invasione dei Francesi. Spettacoli, giostre, tornei occupavano l’ozio felice di que’ tempi, ne’ quali quel signore compariva il più rispettato principe d’Italia. L’ambasciator veneto Ermolao Barbaro, spettatore di quei’ tornei, compose i seguenti versi conservatici dal Corio:

Cum modo constratos armato milite campos

Cerneret, expavit pax, Ludovice, tua.

Et mihi: surge inquit; circum sonat undique ferrum,

Me meus ejectâ Conditor arma parat.

Te rogo per Veneti sanctissima jura Senatûs,

Occurre ingenti, si potes, exitio.

Tunc ego: pone metum, Dea; te Lodovicus adorat,

Numine plus gaudet, quam Jovis, ille tuo.

Nec tu bella time, simulacra et ludrica sunt haec;

Misceri hoc tantum convenit arma loco.

I nunc, et coelo terras cole, Diva, relicto;

Sin minus, hic pro te sufficit, alta pete,

Sforciadasque tuos terrâ defende marique,

Et belli et pacis artibus egregios.

Frutto di questa universale coltura promossa dal duca e dalla giudiziosa scelta ch’egli sapeva fare degli uomini di merito, fu la riunione del canale [p. 95 modifica]della Martesana con l’altro antico, cavato del Tesino. Lionardo da Vinci, siccome ho accennato al capitolo decimosettimo, con sei sostegni superò la differenza del livello di circa tredici braccia, e rese la navigazione comunicante dal Tesino all’Adda. L’invenzione dei sostegni a gradino era appunto di quel tempo; e i primi modelli in questo genere si sono veduti nei navigli di Bologna e di Milano. Così dice il sullodato Paolo Frisi.

Il sistema del governo allora era questo. Lodovico aveva quattro segretari. Bartolomeo Calco era alla testa degli affari di Stato; egli apriva le lettere dei principi esteri; disponeva le risposte; dirigeva il carteggio co’ ministri alle corti estere; trattava coi ministri forestieri residenti in Milano. Aveva sotto di sè varii cancellieri, uno per Francia, uno per Germania, uno per Venezia, e così dicendo. Il reverendo Jacopo Antiquario era segretario per le cose ecclesiastiche, per le spedizioni de’ benefizi e cause dipendenti. Giovanni da Bellinzona era segretario per gli affari di giustizia e singolarmente criminali. Giovanni Jacopo Terufio aveva gli affari della camera, e fissava la lista delle spese de’ salariati ed altre costanti, spedendole ai Magistri delle entrate, ossia a quel corpo che oggidì chiamasi Magistrato, acciochè ne facesse seguire alle scadenze i pagamenti. Questi quattro segretari avevano i loro dipartimenti nel castello, ordinaria residenza del duca. Le entrate del duca [p. 96 modifica]ascendevano, tutto compreso, a seicentomila annui zecchini. Delle gioie da monarca che Lodovico il Moro possedeva, le quali diede in pegno per averne danari, quattro pezzi sol bastano per darcene idea. Da un manoscritto antico conservato nella grandiosa collezione del signor principe di Belgioioso d’Este, ciò ho rilevato. La carta si intitola: Zoye impegnate che erino dell’illustrissimo signor Lodovico Sforza - El balasso chiamato el Spino, estimato ducati venticinquemille. El rubino grosso con la insegna del Caduceo, de carati 22. Con una perla de carati 29, estimati ducati venticinquemille. La punta grossa di diamante, estimata ducati venticinquemille. La perla grossa pesa con l’oro den. 6, gra. 9, vale ducati diecimille. Il Corio ci descrive Lodovico Sforza come uomo di molto ingegno, d’aspetto veramente maestoso, di contegno nobile [p. 97 modifica]e singolarmente pacato mai sempre, anche nelle occasioni nelle quali è più difficile il conservarsi tale. Le immagini che ci rimangono di lui, ci rappresentano appunto una fisionomia corrispondente, ed anche nel conio delle monete di allora si conosce la eleganza e maestrìa d’ogni bell’arte.

Ripigliamo il filo della storia. I Francesi, entrati nell’Italia sotto il loro re Carlo VIII, la trascorsero come un fulmine dalle Alpi sino al regno di Napoli, di cui quasi senza contrasto s’impadronirono. Nessun riguardo usarono sulle terre del duca; anzi a Pontremoli uccisero varii del paese, ed alcuni degli stipendiati del duca. Cominciò allora, ma tardi, ad accorgersi Lodovico del vortice pericoloso in cui si era voluto immergere. Il duca d’Orleans in Asti non dissimulava punto d’essere quella l’occasione opportuna per far valere le ragioni della principessa Valentina, di lui ava, sul ducato di Milano. Il re Carlo si presenta a Firenze, e senza ostacolo se gli aprono le porte. Passa a Roma; indi, in tredici giorni, scaccia da Napoli e dal regno gli Aragonesi, ai quali appena erano rimaste alcune città marittime. Questo fatto veramente memorando e romanzesco, benchè verissimo, sbigottì tutti gli Stati d’Italia. Ma il tempo lasciò loro ripigliar animo. L’armata francese insolentita per tanta fortuna, disprezzava troppo gli abitatori del paese. Non avevano limite alcuno le violenze di ogni genere. La rapina era senza nemmeno un velo di pudore. La virtù e la bellezza si credevano un prezzo giusto della conquista. Nessun asilo era sicuro contro della scostumatezza del vincitore. Il nome francese in pochi giorni divenne odioso a tutto il regno; ed il re Carlo trovossi [p. 98 modifica]mal sicuro e incerto di avere la comunicazione libera colla Francia. Il duca di Orleans mosse le sue genti dalla città di Asti verso Novara, e inaspettatamente la occupò; spiegandosi senza mistero di prendere egli per sè il Milanese, come discendente dalla Valentina. Lodovico Sforza, costernato per tal rovescio, mal sicuro dei sudditi (presso i quali la morte dell’innocente duca Giovanni Galeazzo, la depressione della misera duchessa Isabella, il supplizio del Simonetta, l’usurpato dominio e la comperata investitura erano argomenti di avversione, malgrado le altre molte sue eccellenti qualità), Lodovico Sforza adunque in tal condizione si abbandonò d’animo a segno, che divisò di ricoverarsi in Aragona, ed ivi privatamente finire i giorni suoi, di che tenne discorso col ministro di Spagna residente in Milano. Ma Beatrice d’Este lo rianimò, s’intromise e lo costrinse a pensar da sovrano. Si formò una nuova lega fra il papa, i Veneziani e il duca di Milano. Sollecitamente riunirono le loro milizie per la comune salvezza dell’Italia. Le forze si postarono verso gli Appennini, attraverso dei quali dovevano passare i Francesi. Il re immediatamente partì da Napoli, lasciando in quel regno varii presidii nelle fortezze, e conducendo seco circa quindicimila uomini. Il papa si ricoverò in Ancona. Passò il re dalla Romagna e dalla Toscana, e giunto fra le angustie de’ monti a Val di Taro, ivi ritrovò circa dodicimila soldati della nuova lega. Per un araldo il re fece significare ai collegati di maravigliarsi, trovando impedito il passaggio, non cercando egli se non di ritornarsene in Francia, pagando col suo denaro i viveri. Risposero i collegati che non lo avrebbero permesso, se prima non si restituiva Novara, indebitamente sorpresa. Ritornò [p. 99 modifica]l’araldo dicendo, che il re intendeva di passare senza condizione veruna; e che in caso di rifiuto ei si sarebbe fatta la strada sopra i cadaveri degl’Italiani. Questi risposero al re Carlo, che non si sarebbe egli spianata la via così facilmente, come gli era accaduto a Napoli, che lo aspettavano alla prova. Seguì poscia un’azione sanguinosa da ambe le parti, in cui però nessuna ebbe compiuta vittoria. Il re non si aprì l’uscita, nè rimase oppresso. Conobbe però il re Carlo che l’impresa non era sì facile, quanto se l’era immaginato. Spedì un araldo chiedendo tregua per tre giorni, onde seppellire i cadaveri, e i collegati l’accordarono per un giorno e mezzo. In sì fatto labirinto trovavasi il re cristianissimo, donde ne uscì il giorno 8 di luglio 1495, fingendo di attaccare l’armata della lega, e frattanto ponendosi in marcia per uno stretto mal custodito dalla parte della Trebbia, e così ritornossene nel suo regno con poca gloria: poichè il re aragonese di Napoli, il quale erasi ricoverato nell’isola d’Ischia, ben tosto ricomparve nella sua capitale, dove fu con applauso e festa ricevuto; ed i presidii francesi, mancando di soccorso, attorniati da un popolo nemico, dovettero un dopo l’altro abbassare le armi e rendersi. Lo storico Voltaire si è lasciato sedurre dall’amor nazionale a segno di essere ingiusto cogl’Italiani in raccontando questa spedizione del suo re; quasi che effeminati, molli, degradati, non vi fosse più fra di noi nè coraggio nè valor militare. Gli storici contemporanei d’Italia sono una manifesta prova dei traviamenti dell’autore francese nella decantata sua opera sulla storia generale; traviamenti che io appunto ho notati, perchè in moltissimi altri luoghi, riscontrandolo, hollo trovato tanto vero ed esatto, quanto elegante pensatore. [p. 100 modifica]

(1496) Il duca Lodovico, quantunque liberato dall’imminente pericolo, non avea peranco riacquistato quel robusto vigor d’animo, senza di cui non si preserva lo Stato negli eventi contrari. Fortunatamente la duchessa Beatrice potè far le sue veci. Si raccolsero i confederati a scacciare il duca d’Orleans da Novara. Ivi Beatrice d’Este vedeva schierarsi gli armati al suo conspecto, dice il Corio. Novara ritornò al duca. I Francesi abbandonarono il paese. La pace venne sottoscritta. Così in un anno cominciò e finì la rapidissima spedizione di Carlo VIII, senza verun frutto pei Francesi, anzi con loro danno e con danno dell’Italia. Cessato appena il pericolo dei Francesi, nacquero le solite rivalità fra gli Stati d’Italia. I Fiorentini volevano assoggettar Pisa. I Pisani si offersero al duca Lodovico, il quale, per non offendere i Fiorentini, non volle accettarli. I Pisani si esibirono ai Veneziani; e questi, sebbene formalmente non gli accettassero, destramente posero in Pisa un presidio. Lodovico, signore di Genova e dell’isola di Corsica, da Genova dipendente, non mirò con indifferenza tal fatto, per cui le forze marittime venete potevano acquistare nuovi appoggi nel mar Tirreno. Pisa era considerata città imperiale. Il duca spedì all’imperatore Massimiliano Marchesino Stanga, animandolo a passare nell’Italia e soccorrere Pisa. Poi, nell’anno medesimo 1496, egli e la duchessa Beatrice sua moglie per Bormio si portarono incontro a quell’augusto a Malsio, e seco lungamente concertarono la spedizione. Per lo che l’imperatore per la Valtellina sen venne a Como; indi a Meda venne accolto dal duca e dalla duchessa Beatrice con pompa conveniente. Ivi concorsero gli oratori di quasi tutt’i principi d’Italia. Perchè l’imperatore non volesse veder Milano non [p. 101 modifica]lo so. Egli per Abbiategrasso, Vigevano e Tortona passò a Genova, d’onde per mare passò a Pisa, e festosamente vi fu accolto. Nessun altro frutto nacque da tale comparsa. L’imperatore ritornossene in Germania. Così il duca Lodovico fece comparire inutilmente nell’Italia il re di Francia prima, poi l’imperatore. (1497) Al cominciar dell’anno 1497 accadde al duca Lodovico Sforza la maggiore disgrazia; e fu che il 2 di gennaio la duchessa Beatrice d’Este morì di parto, lasciandogli due figli, Massimiliano di cinque anni, e Francesco di quattro. La duchessa morì nell’età di ventitrè anni. Donna di animo virile; l’ascendente di cui reggeva la volontà del marito. Lodovico, dopo un caso sì funesto, non visse che in mezzo alle disgrazie, siccome vedremo, e non ne dimenticò mai la memoria. Vennero celebrate le solenni pompe funebri alla duchessa nella chiesa delle Grazie, dove fu tumulata: et quivi fine al septimo giorno con la nocte, senza interposizione pur de uno quarto d’hora, si celebrarono messe e divini officii, il che veramente fu cosa di non puocha admiratione, dice il Corio. Il mausoleo di marmo colla statua di lei costò più di quindicimila ducati d’oro. Quella statua giacente scorgesi oggidì nella chiesa della Certosa presso Pavia, a canto ad una simile del di lei marito Lodovico, come si è accennato più sopra. L’anno del lutto fu tristissimo per l’infelice vedovo duca, privato della cara amica, unica confidente e reggitrice de’ suoi pensieri. L’uso sin d’allora era di stendere i parati neri su tutti gli addobbi di corte. Terminato appena l’anno, l’inaspettata morte del re di Francia Carlo VIII, che non lasciava figli maschi, fe’ passar la corona sul capo del duca d’Orleans Lodovico XII, primo principe del sangue, discendente [p. 102 modifica]dal re Carlo V. L’ava di Lodovico XII fu appunto la Valentina Visconti, figlia del primo duca di Milano Giovanni Galeazzo. Il re nuovo di Francia pretendeva que’ diritti che non poteva allegare Carlo VIII, che da lei non discendeva; ed il nuovo re aveva chiaramente già palesata co’ fatti la volontà di farli valere. Il re aveva trentasei anni; e come duca d’Orleans assumeva il titolo di duca di Milano.

I Veneziani, il papa Alessandro VI e il nuovo re di Francia Lodovico XII si collegarono. I Veneziani pretendevano il Cremonese e la Gera d’Adda; per modo che i confini loro si stabilissero quaranta braccia lontani dalla sponda sinistra dell’Adda, rimanendo il fiume colle due sponde al ducato di Milano. Il papa pretendeva Imola, Forlì, Pesaro e Faenza, per formarne uno Stato al duca di Valentinois Cesare Borgia, suo figlio. Il re di Francia pretendeva il regno di Napoli e il Milanese. (1498) Si collegarono promettendosi vicendevole assistenza; ed il trattato si sottoscrisse in Blois il giorno 25 di marzo dell’anno 1498. Il re di Francia aveva ottenuto dal papa Alessandro VI di ripudiare Giovanna, duchessa di Berrì, figlia di Luigi XI, re di Francia, che da ventitre anni eragli moglie; e così potè sposare la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna, che gli recava la Bretagna in dote. Per tal benemerenza Cesare Borgia fu creato duca di Valentinois, e furongli promesse la città della Romagna, che possedevansi dai signori della Rovere. Soprastava un tal nembo sul capo del già abbattuto duca Lodovico, quando, per parte del re di Francia, [p. 103 modifica]gli venne fatta proposizione di lasciargli godere il ducato sin ch’ei fosse vissuto, e per due anni ancora lo godessero dopo sua morte i di lui figli, a condizione che frattanto egli sborsasse ducentomila ducati d’oro al re di Francia. V’era di più la condizione che qualora Lodovico XII non avesse figli, non si turbasse il dominio dei successori dello Sforza. L’affare venne proposto nel consiglio del duca. Il tesoriere ducale Landriano altamente opinò, che mai non si dovesse accettare un tale progetto, poichè con ducentomila ducati ve n’era abbastanza, a parer suo, per far la guerra per ducent’anni al re di Francia. La bravata era senza fondamento; pure il duca vi si uniformò. Quando poscia ne venne in seguito la eversione totale dello Stato, un gentiluomo milanese, che nominavasi Simone Rigoni, affrontò l’adulatore Landriano, per cui lo Stato e la patria erano in rovina, e lo uccise. (1451) I Francesi avevano un punto di appoggio di qua dalle Alpi nella città di Asti; ed ivi il re Lodovico XII fece passare un grosso esercito, e ne diede il comando a Gian Giacomo Trivulzio, valoroso soldato, illustre Milanese, nemico personale del duca Lodovico Sforza, da cui gli erano stati confiscati i beni. Questo comandante aveva la cognizione del paese, un partito, una passione sua propria per abbattere il duca; avea servito già nella spedizione di Carlo VIII; era in somma il più opportuno generale che il re [p. 104 modifica]di Francia potesse scegliere a questa impresa. Il duca non poteva fidarsi nè delle forze proprie, nè della volontà dei sudditi, per le ragioni già accennate. I soccorsi da Napoli o da Firenze erano incerti e rimoti. L’imperatore Massimiliano, nipote del duca, era di buona fede impegnato per lui; ma il pericolo sovrastava a giorni. Il duca scelse il partito di abbandonare lo Stato e seco condurre nel Tirolo i figli, ricorrendo a quell’augusto. I Veneziani s’avanzavano dalla parte d’Oriente; dall’opposta s’innoltravano i Francesi sotto del Trivulzio: non v’era tempo a consigli. In quel punto venne presentata al duca una lista di quindici primari signori del paese che tramavano contro di lui, e tenevano segreta corrispondenza col nemico.

I fatti erano avverati. Il duca non volle far male alcuno a coloro che avea beneficati ed amava. Prima di abbandonar Milano egli portossi dalla duchessa Isabella, le cedette il ducato di Bari, le chiese il di lei figlio Francesco per salvarlo e condurlo seco nella Germania; ma la duchessa nol consentì. Pensò Lodovico il Moro di confidare il castello di Milano ad un uomo di provata fede, giacchè dalla difesa di esso dipendeva la sovranità. Nel castello era riposto l’archivio ducale, vi erano tutte le preziose suppellettili della duchessa Beatrice e degli antecessori, valutate centocinquantamila ducati. V’era un presidio di duemila ottocento fanti, milleottocento pezzi d’artiglieria, e abbondantissime vittovaglie e munizioni di guerra. Lodovico divisò di affidarne il comando a Bernardino da Corte. Il cardinale Ascanio Sforza, fratello, e il Sanseverino l’avvertirono di non fidarsi di colui. (1499) Ma il duca non badò loro, e fattolo a sè chiamare, lo dichiarò castellano; indi, umanissimamente abbracciandolo, gli disse: io vi confido [p. 105 modifica]la più preziosa fortezza del mio Stato, difendetela per soli tre mesi, e se dentro questo spazio non vi manderò soccorso, disponetene come giudicherete a proposito; il che accadde nel giorno memorabile 2 settembre 1499. Ciò fatto, il duca verso sera uscissene dal castello, e diè congedo a’ molti signori ch’erano disposti ad accompagnarlo. Altra cura aveva nell’animo, suggerita dall’intimo del cuore, la quale non poteva essere che frastornata dai vani omaggi de’ sudditi. Non poteva allontanarsi da Milano senza sentire che si allontanava dall’amata spoglia della Beatrice, a cui destinò l’ultima visita. Cavalcò alle Grazie; volle rivedere la tomba e l’effigie della perduta sposa. I sentimenti di natura si rinvigoriscono a proporzione che dileguansi le larve della fortuna. Non poteva staccarsene e costretto pure a partirsene, più volte si rivolse a mirare il monumento della sua tenerezza e del dolor suo. Immediatamente di là s’incamminò a Como; d’onde pel lago passò nella Valtellina. Indi per Morbegno, Sondrio, Tirano, Bormio, Bolzano e Brixen passò ad Inspruck, residenza dell’imperatore Massimiliano. Prima però d’imbarcarsi sul lago di Como, il duca, da una loggia in Como, si presentò al popolo, e fece da quel luogo pubblicamente noti i sentimenti suoi, dicendo: "Che la fortuna avversa l’aveva ridotto a quel duro passo di abbandonare lo Stato, senza ch’egli avesse luogo a rimproverarsi imprudenza o spensieratezza alcuna. Che l’unico motivo di tale ingrato destino egli doveva riconoscerlo dalla perfidia di coloro ne’ quali sventuratamente aveva riposta la più sincera fidanza. Egli confessava di essersi ingannato nella scelta, e di essersi con troppo buona fede lasciato sedurre da que’ visi mascherati i quali attorniano i sovrani. [p. 106 modifica]Il male era fatto. In quel punto egli andava co’ suoi figli a ricoverarsi presso dell’augusto Massimiliano; giacchè s’egli avesse preteso in quel punto di opporsi alla prepotente armata de’ Francesi invasori, avrebbe fatto versare il sangue umano senza probabilità veruna di preservare lo Stato dalla inevitabile occupazione. Ch’egli dall’imperatore si prometteva ogni soccorso, e pei stretti vincoli di sangue che lo univano a quel monarca, e per la giustizia della sua causa, che interessava l’Impero in favore di sè, come feudatario del medesimo. Che gli onori già concessigli dalla cesarea maestà erano una caparra del buon successo; sicchè sperava fra poco di rivedere la patria con una armata bastante a liberarla dall’usurpazione del re di Francia. Raccomandò ai sudditi di accomodarsi ai tempi, di non eccitare con intempestivo zelo la vendetta de’ Francesi, onde al suo ritorno potessero accoglierlo come loro padre, giacchè egli li considerava tutti come suoi figli". La presenza di spirito di parlare in pubblico, e di parlarvi in tanto angustiosa occasione, e sì acconciamente, fanno conoscere che l’amore di Lodovico per le lettere e le belle arti non era una principesca vanità, ma sentimento di un uomo colto e d’ingegno. Mentre ancora stava il duca parlando dalla loggia ai Comaschi, erano già penetrati i Francesi ne’ sobborghi di Como, con animo di farlo prigioniero; ma per buona sorte avvisato, appena ebbe tempo di balzare in una barca e recarsi a Bellagio.

Gian Giacomo Trivulzi, che da alcuni anni era esule dalla patria, entrò in Milano come generalissimo dell’armata francese il giorno 6 di settembre, quattro giorni dopo che il duca l’aveva abbandonata. Egli si portò solennemente al Duomo a [p. 107 modifica]ringraziare l’Arbitro delle cose, di un avvenimento gloriosissimo per esso lui. Tre giorni dopo l’armata francese venne in Milano; e furono collocate le truppe a San Francesco, a Sant’Ambrogio, all’Incoronata. La licenza militare de’ giovani soldati francesi era somma in ogni genere; e il Trivulzio pensò di contenerla con fermo rigore nella disciplina. Il Corio ci racconta che per un pane violentemente rapito, due soldati guasconi vennero tosto appiccati a due piante fuori della porta Ticinese; che un altro Francese, per aver rubata una gallina, venne immediatamente appeso; che al Pontevetro sul momento venne appeso un Francese che aveva rubato un mantello; e che ivi pure, senza riguardo nè indugio, fu fatto appiccare un cavalier francese, monsieur di Valgis, che aveva poste le mani violentemente sopra di una zitella. Ciò serviva ad impedire quei disordini che avevan reso odioso il nome francese nel regno di Napoli quattr’anni prima; e serviva pure a conciliare la benevolenza de’ nazionali verso del comandante. Ma il posseder Milano, mentre una fortezza, quale era il castello, era presidiata validamente dagli Sforzeschi, era un pericolo anzi che un vantaggio. Una vigorosa uscita degli Sforzeschi poteva essere funesta ai Francesi sparsi ne’ conventi. Pensò dunque il Trivulzio di corrompere Bernardino da Corte castellano, giacchè la strada di un formale assedio doveva esser lunga, di evento dubbioso, di molto dispendio e diminuzione delle forze francesi. Il vilissimo Bernardino da Corte, senza nemmeno aspettare un apparente assedio cominciato, pattuì il prezzo del suo tradimento, e si divisero le ricchezze depositate nel castello fra il Trivulzio, il Corte e varii altri complici. Il Corio ci racconta che tal novella arrivasse all’orecchio dell’ [p. 108 modifica]infelice duca mentre egli cavalcava fra i Grigioni prima di giungere nel Tirolo; ma siccome il tradimento si eseguì e manifestò il giorno diecisette di settembre del 1499, cioè quattordici giorni dopo che Lodovico era già partito da Como, mi pare più verosimile la cronaca del Grumello, che dice: et ritrovandosi epso Ludovico in la cita di Insprucho in sua camera, assentato sopra il suo lecto, parlando co’ suoi gentilhomini di riacquistar el stato suo di Milano, hebe nuova del perduto castello suo di porta Giobia. Leggendo le lettere recepute, intendendo nuova pessima, stando sopra di sè, non parlando come fusse muto, alciando gli occhi al cielo, disse queste poche parole; da Juda in qua non fu mai il maggior traditore di Bernardino Curzio; et per quello giorno non mosse altre parole.

Resasi per tal modo l’armata francese padrona in un baleno del ducato di Milano, il re Lodovico XII immediatamente scese dalle Alpi; il 21 settembre fu a Vercelli, il 23 a Novara, il 26 a Vigevano, che egli eresse in marchesato e lo conferì al Trivulzio, che assunse il titolo di marchese di Vigevano e vi battè monete. Questo marchesato gli fu dal re dato in compenso dell’artiglieria del castello di Milano, che doveva essere per metà del Trivulzio. Lodovico XII entrò solennemente in Pavia il giorno 2 di ottobre, e il giorno 6 dello stesso mese fece il suo pomposo ingresso in Milano, per Porta Ticinese. Gli ambasciatori dei Veneziani, Fiorentini, Bolognesi, di Siena, di Pisa e di Genova conducevano seco loro un seguito di seicento cavalli, e andarono incontro [p. 109 modifica]al re. Il re aveva seco il duca di Savoia, il marchese di Monferrato, il cardinale di San Pietro in Vincola. Tutto il clero in abiti pontificali precedeva. Poi venivano i carriaggi, riccamente coperti, trenta del duca di Savoia, quarantadue del cardinale anzidetto, sessantaquattro del re. Moltissimi altri carriaggi, coperti d’oro e di seta, di altri distinti personaggi. Poi cento suonatori di trombe con altri musici. Quindi venivano i paggi, otto di Savoia, quattro del duca di Valentinois, dodici del re, magnificamente corredati, con arnesi d’argento anche sotto i piedi de’ cavalli. Poi quattrocento fanti reali, in uniforme giallo e rosso, armati di picche. Poscia il capitano della guardia a cavallo, alla testa di mille e venti cavalieri, che avevano tutti uniforme verde e rosso, e sul petto ricamato l’Istrice, divisa che Lodovico aveva assunta. Questi mille e venti uomini a cavallo erano tutti di statura stragrande. Appresso venivano ducento gentiluomini a cavallo, armati e vestiti superbissimamente. Da ultimo veniva il re sopra di un bellissimo destriero. Il re era vestito di bianco, coi contorni di pelliccia, e portava in capo la berretta ducale di Milano. Egli marciava sotto di un baldacchino di broccato d’oro e bianco, preceduto dal generale Gian Giacomo Trivulzio col bastone dorato in mano. Il baldacchino era portato da otto dottori e fisici di collegio, vestiti di scarlatto, col bavero di pelli di vaio. Giunto il re al ponte vicino alle colonne di San Lorenzo, dove era in allora la porta della città, ricevette le chiavi che gli presentò il contestabile di quella porta. Il contestabile s’inginocchiò; ed il re, toccandolo sopra le spalle collo scettro che avea nella destra, lo creò cavaliere. Il contestabile baciò lo scettro, e continuò il re il suo cammino processionalmente [p. 110 modifica]sino al Duomo. Seguivano il re i cardinali di Burges, San Pietro in Vincula e di Rohan, e gli ambasciatori di Napoli, Savoia, Estensi, Mantovani, e i disopra nominati. Il giorno seguente, cioè il 7 di ottobre, il re volle assistere ad una solenne messa dello Spirito Santo in Sant’Ambrogio; indi si pose a conversare co’ nobili milanesi più da gentile signor forestiere, che da monarca. Lodovico XII allora viveva come farebbe un buon sovrano ai tempi nostri. Egli fu a godere di balli e pranzi presso molti de’ nostri. Il giorno 15 ottobre fu ad una magnifica festa di ballo e cena da messer Francesco Bernardino Visconte in Porta Romana. Il giorno 18, messer Francesco Trivulzio, commendatore di Sant’Antonio, gli diede un pranzo. Il giorno 20, a nome della città di Milano, fugli imbandito un pranzo nella corte vicina al Duomo. Le pareti della gran sala erano coperte di drappo celeste, ricamato a gigli d’oro; vi si trovarono convitate quaranta damigelle; v’intervennero motti ambasciatori, illustri personaggi e principi, fra i quali il duca di Valentinois e il duca di Savoia, i marchesi di Monferrato e di Saluzzo, il cardinale Orsini. Una festa di ballo terminò quella giornata. Il re, sempre cortese e affabile, accettò di levare al sacro fonte un bambino del conte Lodovico Borromeo; andò a visitare la contessa Bona Borromeo, partoriente, al di lei giardino fuori di porta Tosa; volle darle in dono una collana d’oro del prezzo di cinquecento ducati, e volle cenare da lei. Lodovico XII alloggiò nel castello, e si trattenne per tal modo in Milano [p. 111 modifica]ventisette giorni, essendone partito il 3 di novembre del 1499.

Giunto a Vigevano, il re Lodovico, prima di ripassar le Alpi e rivedere il suo regno, volle piantare un nuovo sistema politico nel Milanese. Quindi, in data del giorno 11 novembre 1499, in Vigevano, volle pubblicare un editto perpetuo. Primieramente stabilisce che nella città di Milano risieda un governatore suo luogotenente, nobile, cospicuo e militare, da cui dipenda tutto ciò che concerne la guerra, e che abbia la plenaria podestà sulle città, borghi e terre, per la loro conservazione, come se fosse il re. Secondariamente stabilì che vi fosse un gran cancelliere forastiero e custode del sigillo, e nel tempo stesso presidente del senato. In terzo luogo che non vi fossero più due consigli, uno di Stato, l’altro di giustizia; ma un solo supremo consiglio col nome di Senato, sotto la presidenza dell’anzidetto gran cancelliere. Volle che i senatori fossero di professioni diverse, cioè due prelati, quattro militari, e il rimanente dottori, de’ quali alcuni volle che fossero forastieri. Queste cariche furono dichiarate perpetue e indipendenti dal governatore; anzi stabilì il re che il solo senato dovesse giudicare de’ casi ne’ quali un senatore avesse meritato il congedo. Concesse al senato la facoltà di confermare o infirmare i decreti del re, di accordare ogni dispensa; e che tutte le grazie, donativi, privilegi [p. 112 modifica]o editti di giustizia o di polizia emanati dal trono, fossero di nessun valore, se non venivano interinati dal senato. Comandò che qualunque sentenza del senato si eseguisse, e che gli atti fossero in nome del re. Al senato medesimo affidò la scelta de’ professori dell’università di Pavia. Finalmente creò due nuove cariche, un avvocato fiscale e un procurator fiscale. Nominò poi governatore e suo luogotenente Gian Giacomo Trivulzio, marchese di Vigevano e maresciallo di Francia; gran cancelliere il vescovo di Luçon, Pietro di Saverges; senatori, Antonio Trivulzio, vescovo di Como, Girolamo Pallavicino, vescovo di Novara; i militi Pietro Gallarate, Francesco Bernardino Visconte, conte Gilberto Borromeo ed Erasmo Trivulzio; i dottori Claudio Leistel, consigliere del parlamento di Tolosa, Gian Francesco Marliano, Michele Riccio, Gian Francesco Corte, Gioffredo Caroli, consigliere del parlamento del Delfinato, Giovanni Stefano Castiglione, Girolamo Cusano, Antonio Caccia. L’avvocato fiscale fu Girolamo Morone, uomo di cui più volte avrò in seguito a far menzione; ed il procurator fiscale fu Giovanni Birago. Ciò fatto, il re ripassò le Alpi conducendo seco il conte Francesco Sforza, figlio dell’estinto duca, fanciullo di otto anni, il quale dappoi sempre visse in Francia tranquillamente ed agiatamente come un ricco gentiluomo, godendo [p. 113 modifica]l’abbazia di Marmoutiers. La duchessa Isabella si staccò in tal guisa per sempre dal figlio; ed ella pure partissene da Milano, e visse a Bari nel regno di Napoli, seco conducendo le due figlie Bona ed Ippolita; la prima delle quali fu sposata da Sigismondo re di Polonia, l’anno 1518. Così terminò la discendenza dell’infelice sesto duca Giovanni Galeazzo Sforza.

La condotta del re Lodovico XII non poteva essere più giudiziosa per rendersi affezionati i nuovi sudditi. Egli affidò la suprema autorità alle mani di un nazionale. Visse colla maggiore affabilità, quasi da privato conversando. Stabilì un senato colle facoltà da me ricordate. Con tal sistema la forza militare rimase unicamente in potere del luogotenente, e così sciolta e pronta senza alcuna formalità alla difesa dello Stato. La vita e la libertà e le sostanze dei sudditi rimasero all’ombra di una moderata monarchia, dipendenti da quel senato, composto di molti senatori, di stato differente; per modo che non era da temersi che la violenza entrasse a prendere giammai il nome della giustizia. La pietà degli ecclesiastici, l’onore de’ militari, l’accurata ponderatezza dei dottori, vicendevolmente doveano contenere i privati affetti. Il gran cancelliere, senza il sigillo del quale non valeva alcun decreto, poteva riferire nel senato, indipendentemente dal governatore, que’ tentativi che per avventura il governatore proponesse a danno della civile libertà di alcuno, e così eluderli. Il governatore, non potendo da sè punire i senatori, dovea però vegliare sopra di essi, e col diretto carteggio alla corte dovea prevenire l’abuso che mai o il senato o gli individui di esso facessero della autorità. Per una provincia rimota, alla testa [p. 114 modifica]di cui si voglia porre un suddito, non pare possibile l’architettare un sistema più ragionevole di questo, e convien dire che tale ei fosse, se malgrado le variazioni che vi si fecero guastandolo, pure, anche sotto diverse dominazioni, si sostenne poi per secoli.