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Trattatelli estetici/Parte terza/VI. Dei giudizii di alcuni uomini illustri intorno sè stessi

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Parte terza - VI. Dei giudizii di alcuni uomini illustri intorno sè stessi.

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Parte terza - VI. Dei giudizii di alcuni uomini illustri intorno sè stessi.
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VI.

DEI GIUDIZII DI ALCUNI UOMINI ILLUSTRI
INTORNO SE’ STESSI.

La conoscenza di sè medesimo era data dagli antichi filosofi a soggetto, intorno al quale poter esercitare tutta quant’ella è mai la sapienza. E con ragione. Facciamo noi pure un poco di chiacchierio sopra questo; potrà forse riuscirci non infruttuoso del tutto. E per limitare i nostri pensieri entro confini di discrezione, vediamo, a cagion d’esempio, onde avvenga che alcuni uomini, eccellenti in una tal arte, desiderino ardentemente aver fama da tal altra, nella quale saranno assai poca cosa. Si narra di Antonio Canova (perchè vorremo sempre cercar gli esempi nell’antichità?) che non tanto delle lodi si compiacesse date ai proprii lavori nel marmo, quanto di quelle impartite all’opere sue di pittura.

Se non ci avesse negli uomini illustri fuorchè il desiderio di essere lodati in ciò appunto ove sono meno valenti, questo desiderio potrebbe essere attribuito alla regola universale dell’umana cupidità, per la quale non prima abbiamo fatto [p. 149 modifica]acquisto di un bene, che infrenabile insorge la brama di un altro, e così all’infinito, se infinite pur fossero le nostre vite. Ma a quel desiderio, che sarebbe, come s’è detto, giustificato per qualche modo dalla incontentabilità della nostra natura, si aggiugne una stravagante certezza del merito proprio, che somministra materia a non facile discussione. Niccolò Macchiavelli lasciò irrepugnabile testimonianza della propria miseria su questo conto, in una lettera a Lodovico Alamanni, nella quale egli, insigne scrittore di politica e di storia, si doleva di essere stato dimenticato dall’Ariosto nella rassegna che questi fece dei poeti allora viventi nell’ultimo canto del Furioso; ciò che io non farò, soggiugneva, rispetto a lui nel mio Asino. E mostrava con ciò di presumere che l’Asino e il Furioso fossero presso a poco tutt’uno, rispetto almeno all’onore che doveva venirne a chi fosse in quell’opere ricordato. Quanti non sono, i quali, mancando loro la franchezza del Macchiavelli, o l’opportunità della lettera scritta all’amico, movono nel secreto dell’animo sottosopra lo stesso lamento? Ora, posto il fatto, sono da vedere le ragioni.

Un amico, di cui mi rinnovo spessissimo la conversazione, benchè solo e lontano, tra me e me ruminando le cose che da esso mi vennero dette, udendomi un giorno discorrere su questo argomento, e interrogarnelo del suo parere, ricordomi che mi rispondeva essere il desiderio [p. 150 modifica]della lode e la persuasione di meritarla proporzionati al grado della fatica impiegata, per cui gli uomini sommi nominati poc’anzi, e quegli altri moltissimi de’ quali si potrebbe narrare lo stesso, essendosi travagliati più lungamente, e direm anche più duramente in quegli studii, pei quali meno erano dalla propria indole indirizzati, in quelli per ciò stesso si credono meritar più che negli altri. Questo discorso ha gran parte di vero, e quando nell’opere dell’umano ingegno si avesse a mirare soltanto all’intenzione e all’alacrità adoperata nell’attuarla, non ci saria che ridire; ma tutti sappiamo, e sanno senza dubbio meglio di noi gli uomini celebri per qualsivoglia guisa di cognizioni, che in questo fatto si bada agli effetti anziché alle intenzioni e alla intensità del lavoro. Le teologiche controversie, nelle quali logorò quel suo grande intelletto Isacco Newton, non gli avrebbero punto fruttato di fama, benchè vi si desse con tutta l’anima; e alle critiche mosse alla Gerusalemme dal Galileo si passerebbe sopra senza avvertirle, tuttochè al loro autore sembrassero molto aggiustate, se non potesse esser creduto capace di arrestare il corso alla fama di un uomo chi aveva saputo sospendere il cammino del sole.

E da considerare, cltre a ciò, che l’opinione dell’amico mio non potrebbe aver forza che in alcuni casi, quando cioè fosse discorso d’opere [p. 151 modifica]ove la fatica contribuisse a peggiorare il lavoro. Non accade egli talvolta all’incontro che ivi ove fu maggior pertinacia di studio e di diligenza l’eccellenza dell’opera fosse maggiore, e cosi del contrario? Anzi, se vogliamo credere alle parole dei savii maestri, non è senza lungo studio che si possa condurre a perfezione un lavoro, e non c’è povero scolaretto che non abbia udito ricordare almeno una volta il costume della tigre che lecca amorosamente i suoi parti. Sicché egli è ben lungi dall’essere dimostrato che l’opere di arte, nelle quali ci fosse conceduto di toccar l’eccellenza, minor fatica ci avessero a costare di quelle a cui il nostro ingegno si trovasse meno inclinato, come dovrebbe accadere perchè l’opinione dell’amico mio potesse restare immune da controversia.

Che dunque se ne deve conchiudere? Esporrò anch’io il mio gramo parere, e vi si acconci chi vuole; chi no, lo combatta. Parmi adunque di poter dire primieramente che la minor eccellenza in un’arte è dessa appunto la principale cagione a reputarsi in quella eccellenti. Quando diciamo che un tale ha tocco la perfezione in un’opera, si deve intendere esser egli andato un passo più là di quelli che lo avevano preceduto; ma quell’avanzare di un passo, rispetto al rimanerne pago il suo cuore, egli è nulla, meno che nulla, perchè tanto spazio gli sta innanzi da correre quanto ne vedeva [p. 152 modifica]quand’era ancora alle mosse. La condizione di lui è assai poco diversa da quella del viaggiatore, il quale, avviandosi su per altissimo monte, come ha speso molti passi e sudore, gli pare che la sommità se gli faccia più oguora discosta; e a voler consolarsi del fatto cammino, e pigliar lena e coraggio per quello che gli rimane, non ha che far meglio di riguardare alla valle che profonda e vaporosa si lasciò sotto ai piedi. E però quello fra gli uomini privilegiati di raro ingegno potrebbe di sè contentarsi, il quale guardasse all’università degli altri uomini; ma chi si affisa nell’arte propria, e con instancabile amore quella sola vagheggia, non altro può sentire in sè stesso per tutta la vita che l’angoscia del desiderio non soddisfatto. Chi tiene altra strada da quella ove la propria natura lo porta, come quegli che non ha buona voce interiore che lo consigli, non ha il vero tipo nell’intelletto, e, più ch’altro non è instigato dalla sete della perfezione ch’è tutt’una cosa con ciò che chiamiamo estro, genio, inspirazione, o altro tale, facilmente si contenta dell’opere proprie, e, per poco non dico, può mostrarsi superbo di buonissima fede.

Vorrei soggiugnere in secondo luogo che la bramosia della lode è più ardente in chi meno sente addentro nei misteri di un’arte o di una scienza, cercando la sola lode per premio delle propric fatiche; laddove la riproduzione del bello [p. 153 modifica]o il trovamento del vero compensano a dismisura artisti e scienziati dei loro ostinati travae gli. È sempre inferiore il gusto che si ha in giovinezza ad esser lodato, verso quello che si prova ad età più matura. Non può dirsi sicuramente che l’amor proprio si avvezzi ad essere lusingato, questo sarebbe disconoscere l’uomo; è l’amor proprio quella lupa che mai non è sazia, e dopo il pasto ha più fame che pria. E non può dirsi nemmeno che la più lunga vita ne faccia conoscere la fatuità della gloria; perchè, come disse taluno, l’amor della gloria è la febbre ultima ad esser vinta dal saggio. Quando pure una qualche parte potesse avere si l’abitudine, e sì l’esperienza del nulla terreno, a rendere meno sensibile all’uomo la lode che gli arriva a stagione un po’ tarda, chi voglia attentamente esaminar sé medesimo troverà una più potente ragione della sua non curanza. Già s’intende che io parlo sempre d’ingegni e di animi pellegrini. Questi adunque non restando cogli anni di sempre cercare una perfezione maggiore, come più inoltrano nel cammino, e più ognora diffidano di conseguirla; e ciò viene a rincalzo di quanto ho detto poc’anzi della facile contentabilità dei mediocri a petto degli eccellenti. Viene ancora di qua la minore bramosia ch’essi hanno della lode, giacchè la intensità delle brame è sempre proporzionata al diletto che ci promettiamo dal loro adempimento. E per al[p. 154 modifica]tra parte l’esercizio dell’arti è alimento e premio ad un tempo alla generosa sollecitudine di chi le coltiva per impeto di vocazione. Ma chi non ha questa vocazione nel cuore, chi non è simpaticamente congiunto colle forze della natura architettrice, per modo da iudovinarne le regole arcane, a costui che rimane ove gli manchi la lode?

Sarebbe ora luogo a molte distinzioni fra studio e studio, età ed età, nazione e nazione, e da queste distinzioni se ne caverebbero argomenti a spiegare e a rendere concordi fra loro alcuni sentimenti contradditorii, che sonosi veduti in uomini d’alta fama e di non meno alto intelletto. E vorrei che chi, giovandosi di alcun caso particolare, pensasse a confutare quel tanto che ho fin qui detto, badasse se ci avessero alcune particolari ragioni di quel caso particolare, con che potrebbe forse essere avvalorata la mia opinione da quelle ragioni stesse che a prima giunta sembrassero proprie ad indebolirla. Checchè se ne pensi, non ho fin qui esposto che un mio parere, e accennata brevemente la cosa, anziché discorrerla per intero. Tanto e non più concedevasi all’indole del mio scrit to, destinato ad essere letto rapidamente. Potendo arrestarmi più oltre su questo proposito, mi sarebbe piaciuto notare per via di appendice un altro bizzarro costume di alcuni uomini, per verità rispettabili sotto altri rispet[p. 155 modifica]rispetti, che fuori gli studii da essi praticati, o che hauno con quelli una qualche relazione, mostrano tenere per vana ogni prova d’ingegno. Quest’è, a mio credere, errore assai più deplarabile di quello che diede finora materia alle nostre ciance. Sarebbe questo ancor esso un inganno dell’amor proprio, che, cangiando tempera a seconda dell’animo al quale si apprende, ove si palesa per una risibile stima di sè, ove per un risibile disprezzo degli altri?