Trattatelli estetici/Parte seconda/XI. Poesie popolari

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Parte seconda - XI. Poesie popolari.

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XI.

POESIE POPOLARI.

La popolarità della letteratura sembra il voto più ardente degli scrittori del nostro tempo. [p. 69 modifica]Come può dunque accadere che tra i vizii rimproverati alla moderna poesia siano l’astrusità, l’ ambiguità, l’oscurità, ed altri tali? Ben è vero che ci ha una volgarità astrusa, un’ambigua precisione, un’oscura chiarezza; ma questi sono difetti degl’infimi, e noi nè degli infimi, nè dei mediocri intendiamo parlare. Parliamo de’ sommi parliamo di que’ difetti che per non andar disgiunti da alcune eminenti virtù possono dirsi costituire il tutto della maniera di comporre seguita da una data scuola, in un dato tempo.

Ma, a voler parlar schiettamente, la nostra poesia fu ella mai popolare? Non sarebbe un curioso problema a proporre il seguente: come l’Italia, riverita da tutte le nazioni qual contrada eminentemente poetica, e in cui si parla una lingua tutta armonia, non abbia a citare troppe poesie veramente popolari? V’è nulla di men popolare degl’improvvisatori? Eppure son questi che rappresentano, da volere a non volere, la tendenza naturale della nostra nazione alla poesia. Ma quali temi sono ad essi proposti? Con qual entusiasmo ne vengono ai loro esperimenti? Che lingua vi adoprano? Quali dei loro versi ottengono di preferenza i battimani? E severo, anzi ingiusto, il modo onde sono da taluno giudicati; ma chi non vorrà dire per altra parte avvilito, e falsato da essi medesimi il nobile lor ministero? Forse alle nazioni inverniciate la poesia sdrucciola sopra troppo leggermente ma dav[p. 70 modifica]vero che nè manco la poesia del nostro tempo è senza vernice.

È un caro ripensare al trecento! la nostra letteratura, se vuolsi, era letteratura di cronache e di leggendarii; ma in quelle cronache e in que’ leggendarii quanto ribollimento di passioni gagliarde, quanta nobile semplicità di costumi E lo stile? Altro ci vuole a sconcettarlo che notare il prusor ed il chente! Fatene un poco riscontro colla rettorica lambiccata del cinquecento! Era ben dessa la nostra letteratura in quel primo secolo l’Ercole della favola che strozza in culla i serpenti; o, come altri disse, la Minerva che balza armata di tutto punto dal capo di Giove. Un poema, ed un uomo solo ci aveano tolti alla barbarie e sollevati a maestri d’ogui nazione. Quel poema comprendeva le più importanti storie patrie, s’infiammava al fuoco di una religione vivente, era sacro e politico ad un tempo, e l’uomo che lo cantava, esule dalla patria, mangiava alla mensa de’ principotti del bel paese il pane che sa di sale a ogni anima generosa.

Ma non mentiva; nè caparrava riuomanza al suo nome piaggiando chi lo sfamasse. E quando fu morto, ben poterono le sue ceneri essere minacciate di rimanere bagnate dalla pioggia e mosse dal vento, per opera di chi non sa leggere nel libro della giustizia divina più che una faccia; ma le sue parole durarono per ogni ge[p. 71 modifica]nerazione quanto il moto lontane. Le tenebre addensate sull’originario significato delle frasi e delle immagini dalla ignoranza e dalla vigliaccheria, resero necessario l’ufficio de’ comentatori; e ciò che si cantava dapprima per la strada dal condottiere di muli, come espressione dei bisogni di tutto un popolo, fu rispinto a corrompersi fra le cattedre, e ad esser venduto come balsamo di sapienza recondita dai cerretani, che dettavano in un barbaro latino le loro ricette chiamate chiose ed illustrazioni.

Eppure quella divina Commedia era tale, che a simiglianza del fuoco sacro, quantunque seppellita fra le tenebre e il lezzo della cisterna, poteva esser tratta di là e venir collocata di nuovo sull’altare. Ciò quanto alla bellezza artistica del lavoro; ma quanto a popolarità? Quell’altissimo carme era fatto eco di passioni incognite o solitarie; a somiglianza delle incisioni nelle quali ritraggonsi i quadri, la bontà del disegno era conservata, ma perduta affatto l’efficacia del colorito. Sarebbe toccare con crudele compiacimento la principal piaga della nostra letteratura insistendo di vantaggio sulle cagioni onde la divina Commedia rimase unico monumento di poesia nazionale, e non temeremo di dir popolare. Non mancherà forse chi cominci dal negare il fatto, ciò che ne condurrebbe ad una controversia inutile e lunga. Veniamo a qualche cosa di più particolare, e meglio conosciuta universalmente. [p. 72 modifica]

Che che si voglia sentenziare intorno alla nostra poesia, certo è che non scorse mai come rivo benefico ad inaffiare le fantasie popolari. Citisi una ballata, una leggenda, una romanza, insigne per invenzione, o per ritmo, di cui fatta fosse depositaria la memoria del volgo, e che passasse pel veicolo della tradizione di padre in figliuolo? E mentre la Spagna ha le romanze del Cid, e celebri sono le ballate tedesche, e le scozzesi, e la Grecia moderna ha fornito materia al Fauriel di due grossi volumi da presentarne la lingua francese, nulla di somigliante che possa venir contrapposto possiede la nostra nazione.

Furono alcuni i quali si diedero in questi ultimi tempi a disotterrare antiche reliquie di poesie popolari; in Roma, or sono quattro anni, stamparonsi alcuni canti popolari della provincia di Marittima e di Campagna: perchè non v’ha chi si studii di seguire quell’utile esempio nell’altre parti della bella penisola? Questa nostra Venezia non deve anch’essa avere le sue canzoni popolari? Non è presumibile che le avesse, a preferenza o al pari dell’altre provincie, quest’angolo d’Italia abitato da un popolo guerriero e navigatore? Un popolo che primo portò all’Europa le ricchezze orientali, nulla debbe aver ritratto di quella tanta ricchezza di fantasia, propria delle nazioni guardate prime dal sole quando si leva a consolare la terra? Di che rallegravano la solitudine e il tedio delle lunghe navigazioni i pri[p. 73 modifica]mi scopritori d’incogniti continenti? O viaggiavano taciturni coi sereni del cielo sul capo, e con sotto ai piedi l’azzurro delle acque, sospesi nelle loro mobili case fra due elementi, di cui non temevano la prepotenza? Taciturni movevano alle crociate? Taciturni alla conquista dell’antica reggia de’ Paleologhi?

Ma il prevalente desiderio d’imitazione, che si abbarbicò siffattamente alla gran pianta della novella letteratura, da poter ad essa impedire ogni guisa di spoutanea vegetazione, soffoco sul loro nascere tutte le inspirazioni di cui parliamo. Tra il popolo e le sette letterarie sorse un muro di bronzo che gli disgiunse per sempre, e la più bella delle corone, quella che dal voto universale de’ proprii concittadini si concede al poeta che ha saputo dilettare giovando, fu lasciata cadere nel fango, nè v’ebbe chi la raccogliesse. Le poesie popolari, di cui parleremo nella prossima rubrica, ci vennero guaste per modo nella dizione, e con intarsiature tanto spregevoli, da non potersene intendere il senso generale se non è per modo d’indovinamento.

L’ansietà con cui si ricercano da’ moderni le poesie popolari è corrispondente all’attuale progresso della civiltà, e alla nuova guisa onde vuol essere considerata la poesia al nostro tempo. Molta parte di quel linguaggio ch’essa adoperava s’inviscerò nella prosa, nulla più rimane a [p. 74 modifica]lei da insegnare. Le scienze assoggettate al rigore del calcolo tolgono ogni speranza alla poesia d’intromettersi in serie questioni. Che le rimane? Ridursi nel santuario del cuore, eccitare potentemente le vampe dell’immaginazione; le scienze, che giovano l’uomo e lo nobilitano, non pretendono, nè potrebbero mai cangiarlo. Cuore e fantasia gli rimarranno sempre compagni per tutti i giorni del suo pellegrinaggio. Quanto è più forte la loro compressione da un lato, tanto salgono più gagliarde dall’altro. Alessandro Manzoni ha tocco il sommo della poetica gloria cantando inni sacri dopo la rivoluzione francese!

II.
    » Palomba, che per l’aria va’ a volare,
          Ferma, che voglio dirti due parole.
          Voglio cava’ una penna a le tue ale,
          Voglio scrive una lettra al mio amore.
          Tutta di sangue la voglio stampare,
          Per sigillo le metto lo mio core,
          E finita de scrive e sigillare,
          Palomba, portacella a lo mio amore,
          E se la trovi in letto a riposare,
          O palomba, riposati tu ancore».

Sappiamo di non citar cosa nuova, ma intendiamo di citar cosa bella. Noi la crediamo il [p. 75 modifica]miglior preludio che arrischiar si potesse da noi, ponendoci a parlare di canzoni popolari: chi di questi versi non rimanesse contento gran fatto, è da noi pregato per cortesia a non perdere punto del proprio tempo nella lettura del nostro articolo. La prosa non gli farebbe a gran pezza il piacere che potevano fargli questi semplicissimi, e nella loro semplicità carissimi versi. E crediamo tuttavia che debbano contentare buona parte de’ nostri lettori, e per questi appunto ci dà l’animo di continuare colle nostre considerazioni sulla poesia popolare, giovandoci in questo secondo articolo, che protestiamo esser l’ultimo, meglio assai degli esempi che delle teoriche.

Le canzoni popolari dovrebbero avere una poetica affatto particolare, o a meglio dire non dovrebbero averne veruna. Un modó proverbiale, un volgarissimo ritornello, sono per lo più le principali bellezze di siffatti componimenti. Alludendo ad alcune particolarità tutte proprie del teinpo o della contrada; rinfrescando all’età matura le credenze e i prestigii degli anni infantili; lusingando pregiudizii e passioni che tutti, qual più qual meno, coviamo nel nostro secreto, ma pochi ardiscono mostrare all’aperto; interpretando per conseguenza i misteri della nostr’ anima, senza affettare di averla esplorata; egli è di questa maniera che le canzoni popolari, accompagnate dal ritmo e dall’armonia, che [p. 76 modifica]le fa sdrucciolare per l’orecchio al cuor nostro più agevolmente, assopiscono molte volte la superbia della nostra ragione, che tutto vorrebbe assoggettare a certe sue regole generali ed arbitrarie, e trascinano inavvertiti i nostri affetti a quella parte, ove il poeta stesso si era lasciato guidare dal sentimento concorde de’ suoi nazionali.

Non dubitiamo di ripetere quanto abbiamo detto altra volta; poco o nulla più rimane alla poesia da insegnare. Quando voglia parlare all’intelletto, non altro sarà il suo linguaggio che una misera parodia. Infiammi passioni, e si farà conoscere maestra dei popoli, anche quando i popoli nulla credono di dover più imparare; circondi d’immagini e d’armonia il proprio trono, e di là potrà dettare aforismi più veri e meglio creduti di quelli che sogliono e possono rivelarsi dalle scienze, sempre perplesse e incomplete. L’ intelletto umano, diffidato di sè stesso, e spossato nelle lunghe ed inani ricerche, verrà a ristorarsi del patito travaglio col porgere orecchio a chi parla un linguaggio, che sembra la espressione simbolica della verità eterna ed universale. Rimarrà maravigliato il sapiente di avere a compagni ne’ suoi interni commovimenti il fanciullo e la femminetta: ma indi a poco dovrà confessare quella essere verità irrepugnabile che feconda d’immagini e riscalda d’affetti la mente dell’erudito del pari che dell’idiota, e il cuore [p. 77 modifica]reso omai logoro dallo sfregamento sociale, del pari che quello tuttavia provveduto di tutta l’originaria elasticità.

Quando pensiamo avervi avuto fra le menti più altere, e più svincolate da ogni qual si sia genere di soggezione intellettuale, chi aspettava mattina e sera la morta cugina, e in questa affettuosa credenza le teneva sempre pronta ed in ordine, non che la seggiola, ma e la coperta alla mensa, e vegliava le lunghe notti d’inverno sviando il pensiero da’ calcoli, per traguardare dalla finestra se l’ospite desiderata giugnesse: o chi ripromettevasi dal fortuito colpire di un sasso in un tronco, o dallo sfallire quel segno, niente meno di un anticipato rivelamento de’proprii destini nella vita avvenire; che altro ne rimane a concludere, se non che tutto il colosso d’oro e di bronzo della nostra presunta sapienza ha per base pur sempre la creta onde fummo impastati, e ch’è la parte più propria e più genuina dell’esser nostro?

Fino dai primi tempi della nostra letteratura potremmo ravvisare, anche traverso le falsificazioni scolastiche, i vestigii della poesia popolare di cui parliamo. Potremmo trovarne gli esordii fino da quando la lingua volgare era tuttavia, non che bambina, rinvolta nelle fasce della latinità. Le rime assonanti, che disparvero dalla nostra lingua com’essa si andò a mano a mano appurando, furono a principio introdotte nel bar[p. 78 modifica]baro gergo di cui non ultima parte era il latino; e queste medesime rime continuarono ad essere adoperate nelle canzoni popolari di quanti sono i dialetti italiani. Appena però la lingua volgare ricevette politura e decoro, si vergognò di servire ai colloquii del trivio, e alle passioni ordinarie; e in mezzo a quella tanta copia benefica di appropriate parole e di frasi efficaci, trovi spesse volte scambiato il carattere di certe genti con quello di certe altre, intendesi sempre riguardo alla lingua e ai costrutti. Di che non può essere certamente accusato nella sua arguta semplicità il Novellino.

Era un obbligo che imponevano a sè stessi gli scrittori, a’ quali pure non mancava l’ingegno, di stimar parte della letteraria suppellettile nazionale que’ soli componimenti che ritraevano dell’antico gusto greco e latino. Un’antica ballata, o ballatetta come chiamavasi, adorna dei più cari fiori della poesia, che incomincia:

    »In un boschetto trovai pastorella,

e che mi astengo di riferire, perchè ristampata ad ogni ora nella raccolta delle poesie trecentistiche, ricopia fedelmente il ventesimo settimo degl’idillii di Teocrito che s’intitola: Il colloquio amoroso. Non credo che il poeta avesse in mira l’antico originale, ma forse la involontaria corrispondenza coll’idillio greco fu cagione alla [p. 79 modifica]ballatetta italiana di non rimanere dimenticata con quelle altre molte che certo composte vennero al tempo antico.

La Divina Commedia però, come s’è detto, cantavasi per le strade, e non ha guari l’eroiche ottave del Tasso eccheggiavano sulle nostre lagune. Ma tutto questo poco meno che a caso, e senza che nulla fosse dato derivare da ciò intorno all’indole e al costume particolare di tale o tal altra provincia o stagione. Converrebbe pertanto ritogliere alla ruggine onde furono ricoperte dal tempo e dall’ignoranza molte popolari canzoni, e ciò dietro alcuni principii di critica, talvolta generali a tutta la penisola, tal altra riferibili ad una qualche parte di essa soltanto. Molte di queste canzoni furono trasportate da uno ad altro dialetto, e raffazzonate più assai che tradotte. Sicché egli sarebbe prima da indagare a qual provincia appartenessero propriamente a principio, e quindi quali fossero intrusioni originarie della traduzione a cui soggiacquero, quali introdotte senza proposito alcuno dalla ignoranza delle diverse età, per le quali si propagarono fino a’di nostri. Ricerche sarebbero queste non disgiunte da molta storica utilità, e alle quali indarno vorrebbe porsi chi a molto gusto letterario molta conoscenza non accoppiasse della diversità che ci corre fra le varie provincie italiane, e della storia, e della topografia di ciascuna di esse. [p. 80 modifica]

Senz’aver potuto e saputo raccozzare veruna di dette canzoni per modo da poter presentarla ad essere esaminata da intelligenti lettori, mi sono abbattuto in più d’una, dalle quali (tra la rozzezza e stolidità di alcune aggiunte che ben si scorgeva essere state appiccate al corpo originario della poesia, senz’aver nulla d’inviscerato con essa) scappavano lampi d’immaginazione vivace e gagliarda oltre ogni dire, e traspariva un’abbondanza e verità di passione da poter contendere con quanto hanno le lettere di più eccellente. A chi non è toccato di udire alcuna volta quel volgare lamento della Rosettina, a cui fallito il primo voto d’amore viene l’anima consigliando di farsi fare una cassa profonda, capace di tre persone, nella quale poter essere allogati, il padre, la madre, e l’amante suo, che, cadavere almeno, le sarà conceduto di aver fra le braccia? E non esilara, e quasi direi non profuma la mente, quel fiore, ch’essa vuole piantato nel fondo di detta cassa, acciò le genti di la passando domandino che fiore sia quello, e venga loro risposto essere il fiore della Rosettina che mori per amore?

E con più lugubre fantasia, quanto non è vivamente ritratta la colpa e il rimorso di donna Lombarda; della fiera moglie, che, istigata dal malvagio compagno, avvelena il marito, com’egli ritorna a casa e le domanda da bere? E, passato l’anno, nel giorno stesso in cui diede com[p. 81 modifica]pimento al misfatto, ridottisi nuovamente a sprillare del vino la iniqua donna e l’amante, come essa gli porge da bere, l’altro crede veder bollire per entro la tazza non so che di sanguigno, di che il turbamento onde sono colti ambidue, e lo spaventoso presagio della misera fine che gli aspetta. 1 metro di questa canzone e la musica sono improntati della più cupa tristezza; il metro con certa rotta misura di versi imitando lo strazio di un’anima che trangoscia sotto il rimorso; e la musica con monotone e allungate cadenze accompagnando assai bene la battuta del remo che guida la barca traverso il canale, alle cui rive si crede successo il reo fatto.

Noterò terza, senza indugiarmi più oltre, la la bella invenzione, se pur non fu storia, del conte Angiolino, che, andatone alla guerra, e lasciata incinta la sposa, questa, com’egli è vcnuto il tempo del partorire, apre un doloroso colloquio colla madre circa il ritorno del conte. E sentendo campane suonare, e dalle finestre guardando la chiesa che par ardere tutta pei molti lumi, domanda che è quello che essa ode e vede in quell’ora: nè potendo la madre, atterrita e incalzata dalle spesse domande della figliuola, nasconderle il vero, si accorge la misera essere pei funerali del marito che suonano le campane, e sono accesi entro la chiesa quei tanti lumi. Dopo che la canzone si chiude colla querela della vedova infelice, che vuole ad [p. 82 modifica]ogni patto recarsi alla bara e aver sepoltura col marito ch’ella ha tanto amato ed atteso. Come vede per ultimo essergli apparecchiato un bel lo e ricco monumento, si il prega che voglia spezzarsi ed accoglierla, dacchè non può vivere dopo quel giorno.

Se queste nostre parole, e i brevi ritratti delle tre poesie che ci siamo studiati di presentare, invogliassero taluno a tentare una qualche raccolta di popolari canzoni, comincieremmo a stimare la compilazione del nostro giornale alquanto meno infruttuosa alle lettere di quello potesse sembrare finora, più che a verun altro, a noi stessi.