Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo I

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BIOGRAFIA

DI

FRÀ PAOLO SARPI




CAPO PRIMO.


Il nome di Frà Paolo è popolare in tutta l’Europa, e ciò non pertanto non abbiamo che assai imperfette notizie intorno alla sua vita. Gli articoli che la riguardano inseriti nelle raccolte biografiche sono zeppi di errori, nè mi ha fatto meraviglia di leggere nella Biografia Universale stampata recentemente a Venezia, nella patria del Sarpi, spacciate sul conto suo le più grosse falsità del mondo: non mi ha fatto meraviglia, ripeto, perchè la riputazione di questo grand’uomo essendo stata lungamente in mano ad un ordine di persone che lo avea sacro ad un odio fanatico, ove a loro sottratto non lo avesse il secolo che sempre va innanzi e approva tutto che egli fece e scrisse, Frà Paolo sarebbe tra quelli che giacciono oppressi dalle superstizioni della loro età, e dalla ingiustizia de’ giudizi del mondo.

Ma d’altro lato è osservabile come quest’odio medesimo abbia contribuito a renderlo più celebre; il [p. 2 modifica]che deriva dal favor pubblico sempre propizio a chi fu impugnatore de’ grandi abusi, la benevolenza e la gloria crescendo all’avvenante delle difficoltà superate e delle persecuzioni patite. Le quali contro al Sarpi per essere state così lunghe ed assidue provano una offesa durevole, profonda, e che due secoli anzichè allenire fecero più acerba. E meritamente, ove si consideri quanta mole di potere abbia egli infermato, e quante illusioni distrutte, e quante false opinioni riformate, e i danni inestimabili fruttati da lui alla monarchia de’ papi e alle attribuzioni sterminate de’ cherici.

Un’altra singolarità è, che nato e quasi dalla natura destinato a essere uno tra’ più insigni nelle scienze fisiche e matematiche, fu da impreveduti accidenti tratto sopra una scena molto più tumultuosa e alla quale non avrebbe pensato; tal che par quasi che una specie di fatalità presieda alla nascita di certi ingegni privilegiati, e che la volontà dell’uomo non sia tanto libera che una occulta provvidenza non ne disponga a’ suoi fini.

Di tante fatiche del Sarpi, di tanti studi, di tante indagini profonde negli arcani della natura, di tante bellissime ed utilissime sue scoperte non ci resta omai più che una memoria tradizionale; ed ove non fosse la testimonianza de’ contemporanei, stenteremmo a credere che questo frate avesse poggiato tanto alto nelle parti più difficili dell’umano sapere: mentre un genere di studi cui coltivò per ornamento d’ingegno e quasi a modo di diversivo fortuna volle che diventasse il fondamento della sua gloria. [p. 3 modifica]

In una età infanatichita dalle discordie teologiche, nissun altro scrittore fu pari a lui nello innovare, senza furore di setta, contro errori sanciti da secoli, radicati ne’ costumi de’ popoli, legati cogli interessi di gente numerosa e potente, convertiti in religione, e che parevano inseparabili dalla esistenza civile; e neppure di nissun altro la vita e la fama corse così varia e piena di contradizioni, e scopo di tanti amori e di tanti odii, ed esaltata altrettanto o depressa, quasi che al solo suo nome si attacchino le passioni più vive di due grandi fazioni religiose che sin da quel tempo si divideano il mondo. E però se la storia di alcun privato fu mai utile o curiosa, quella di Frà Paolo ha su molte altre la preminenza, non per singolarità di avventure, ma perchè offre un largo campo di meditazioni sopra oggetti che ebbero la maggiore influenza sullo spirito umano.

(1552). Nacque egli in Venezia ai 14 agosto del 1552, e fu chiamato Pietro. Quasi nel medesimo tempo nasceva in Roma Camillo Borghese che fu poi Paolo V. Ai genetliaci di questi due bambini nissuno avrebbe mai sognato la posizione in cui si sarebbero trovati un giorno l’uno verso dell’altro. Il Veneziano ebbe a genitori Francesco Sarpi e Lisabetta Morelli. Francesco, nativo di San-Vito grossa terra del Friuli, di scarse fortune, si era portato per migliorarle a Venezia dove esercitò la mercatura poco prosperamente, e con uguale sfortuna fece qualche viaggio in Soria. La Lisabetta o Isabella apparteneva ad una delle case dette in Venezia cittadinesche, ma fra le infime. Non so se [p. 4 modifica]meriti ricordo quanto notarono i contemporanei, dello strano accoppiamento di Francesco, piccolo di statura, fiero, torbido, litigioso, dedito alle armi, con donna di alte membra, d’indole dolcissima, e devota. Forse i fisiologi ne dedurranno conseguenze che influirono sul carattere di Frà Paolo. Aggiungo che nelle fattezze del volto egli alla madre assaissimo somigliava. Bene importa di non dimenticare come da’ suoi nemici gli fosse dappoi rimproverata questa sua oscurità di natali, quasi colpa; come se non fosse più presto un vanto: che è facile a’ ricchi sollevarsi co’ mezzi che loro dà la fortuna; ma il povero tutto debbe a sè stesso: non eredita la nobiltà, ma la crea.

Orfano del padre, che morì lasciando in poco buon sesto i suoi affari e la moglie vedova con due figliuoletti, il piccolo Pietro e una sorellina, Elisabetta cominciò di buon ora a insinuare nel figlio i sentimenti di religione; e ad iniziarlo nelle lettere lo affidò ad Ambrogio suo fratello, sacerdote di professione e che teneva scuola di grammatica e rettorica a cui concorrevano molti ragazzi nobili della capitale, tra’ quali Andrea Morosini, di quattro anni minore del Sarpi, in età matura suo amico, dotto, ameno; e autore elegante di latina istoria della sua patria.

Pietro avea sortito dalla natura una complessione gracile, onde lo chiamavano Pierino, indole pensosa e tacita, avversione a’ passatempi, sobrietà meravigliosa, grandissimo trasporto per gli studi, il che congiunto ad ingegno perspicacissimo e a tanto prodigiosa memoria che soleva recitare di un fiato [p. 5 modifica]trenta versi di Virgilio uditi a leggere una sol volta, operò sì che a 12 anni lo zio e maestro non aveva più nulla a insegnargli.

(1564). Il buon prete, non presontuoso, conobbe che suo nipote, ancorchè in così tenera età costituito, avea bisogno di tutt’altro che di un maestro dozzinale; e raccomandollo a Frate Gian Maria Capella cremonese, della congregazione de’ Servi, dotto in filosofia e matematica, e teologia. Col quale conversando il giovanetto Sarpi, e profittando de’ nuovi ammaestramenti, sì s’innamorò delle matematiche che ne fece l’occupazione sua prediletta. I rapidi suoi progressi e i docili costumi lo rendevano caro al precettore Capella e a quanti altri lo conoscevano, talchè tutti a gara si mostravano vogliosi di fargli parte delle loro cognizioni. Con questi mezzi si applicò anco alle lingue greca ed ebraica; e, o inclinato a vita solitaria, siccome quella che agli ingegni studiosi e melanconici è favorevole, o eccitato da’ Serviti medesimi, si affigliò a quell’ordine in onta alle opposizioni della madre e dello zio che lo destinavano prete. Vestì l’abito monastico a’ 24 novembre 1565 contando appena 13 anni, età troppo acerba per una risoluzione di tanto momento, la quale però non smentì giammai. Usando i frati di sbattezzarsi, mutò il nome e si chiamò Paolo, col quale è universalmente conosciuto. E benchè non uscisse ancora dalla puerizia, diede prove di già provetto sapere argomentando pubblicamente, il giorno della vestizione, ad una conclusione di filosofia. Due anni dopo (1567) sostenne in Mantova pubbliche tesi di teologia controversa e diritto canonico, [p. 6 modifica]fra’ quali ve n’erano sulla podestà del papa e sui concilii. Sarebbe curioso conoscere come Frà Paolo fanciullo abbia trattato questi argomenti per cui si rese tanto celebre fatto uomo; ma Francesco Grisellini che vide il manoscritto, si contentò di darcene il titolo.

Queste giostre scolastiche, specie di cartelli con cui i disputatori si sfidavano, erano assai di moda; il dotto pubblico vi accorreva come a spettacoli, e grandi onori facevano, perfino i principi, al vincitore. Ma realmente erano puerilità dove meglio che del sapere davasi prova del cattivo uso fatto del tempo, dell’ingegno e della facoltà preziosa della memoria, scialaquandoli in dispute dove ciascun lottatore faceva pompa di cavillazioni, cercava di sorprendere l’avversario con arguzie o motteggi, e vinceva chi più ne abbondava. I frati, propagatori di tutto che sente il cattivo gusto, ne andavano pazzi, ne tenevano ad ogni Capitolo, vi avvezzavano per tempo i giovani allievi, ed era con queste misere armi che gli preparavano a combattere gli eretici. I barbassori sfoggiavano ne’ Capitoli generali, in chiesa, pubblicamente, e vi assistevano personaggi grandi come oggi ad una accademia. Il più dotto non era chi ragionava meglio, ma chi produceva maggior numero di tesi, e quanto più sottili, tanto più applaudite.

(1570-74). Il giovane Frà Paolo dovendo anch’egli obbedire allo spirito de’ tempi e dei suoi maestri, nel 1570 comparve di nuovo ad un Capitolo tenuto in Mantova armato di 309 tesi del genere di quelle già sostenute tre anni innanzi; e [p. 7 modifica]pubblicato a stampa il programma, siccome era l’uso, sfidò altri ad impugnarle. La disputa ebbe luogo nella solita chiesa di San Barnaba: vi assistevano il duca Guglielmo Gonzaga, monsignor Gregorio Boldrino vescovo di Mantova, e più altri personaggi cospicui, secolari o ecclesiastici; e fu tanto l’applauso con cui fu udito quel teologo imberbe, sì pel numero e l’ardita scelta delle tesi superiori alla sua età, sì per la erudizione, o pel metodo con cui le difese, che i suoi superiori gli assegnarono una provvisione annua di sei scudi (36 franchi di Francia, e a ragguaglio di valori colle derrate, più del doppio) per provvedersi di libri; il duca il volle ad ogni modo per suo teologo, e il vescovo non esitò a fidargli la cattedra di teologia positiva colla lettorìa de’ casi di coscienza e de’ sacri canoni: nell’adempire ai quali impieghi fu tanta la meraviglia destata dal suo sapere in così tenera gioventù (18 anni), che ne restò lunga memoria, e divenne volgare il dettato: Non verrà mai più un Frà Paolo.

Tanti onori in età così precoce, e spesse volte così infausti agli ingegni, non lo inebriarono; allo incontro profittando dell’ozio di cui godette per quattro anni alla corte dei Gonzaga e dei comodi che gli offrivano la sua situazione e il concorso di assai dotte persone, si occupò indefesso ad ogni genere di studi. La erudizione ecclesiastica non essendo perfetta disgiunta dalle lingue antiche, volle impossessarsi a fondo della greca ed ebraica, e della caldea; nelle quali, massime nelle due prime, divenne peritissimo e salì in fama del più dotto orientalista che vivesse a’ suoi tempi nella Italia orientale. [p. 8 modifica]

Ma sopratutto le matematiche avea in amore, e negli ozii di cui godette ne’ quattro anni che visse alla corte di Mantova fece in quelle straordinari progressi, non nelle speculative soltanto, ma nelle applicate, nella astronomia, fisica, ottica, prospettiva, idraulica ed altre; si applicò anco ad un severo studio della medicina, anatomia, chimica, botanica, mineralogìa, e insomma a tutte le scienze che hanno per iscopo d’indagare gli arcani della natura. Ingegno sottile, indole ostinata erano i mezzi che opponeva alle difficoltà e con cui le vinceva.

E per servire il principe, uomo di spirito e coltissimo e amico de’ dotti, conobbe la necessità della storia universale; in che prese a metodo di recarsi a mente tutte le date principali, poi tutte le opinioni degli autori sui fatti discordi, e conciliarne le difficoltà: metodo utilissimo, ma solo praticabile a chi è donato di una memoria quale il Sarpi.

Per la storia ecclesiastica osservava giudiziosamente doversi cercare la verità non negli storici, inesatti o parziali; ma nei documenti contemporanei, nelle lettere e negli scritti de’ Padri, negli atti de’ concilii: non nelle traduzioni, infedeli o monche, ma nella lingua originale; cui tutti egli lesse, e di ogni cosa prendeva nota segnando in margine o con sottolinee i luoghi di ricordo, o straendone gli squarci cui distribuiva ordinatamente in quaderni sotto forma tale che ad ogni bisogno potesse facilmente trovare ciò che desiderava. Persino i pensieri, le riflessioni, le bizzarrìe che gli saltavano in capo leggendo, affidava alla carta, e di tempo in tempo le ricorreva, lacerando le inette o di poco conto, conservando le [p. 9 modifica]sode. Nascendogli difficoltà o dubbio o pensiero, fosse anche in letto, balzava, metteva a contribuzione quanti autori avessero trattato di quel proposito, gli raffrontava e non se ne stoglieva finchè chiarito non si fosse; e se era un problema di matematica, vi lavorava pertinace tutto un giorno o tutta una notte, finchè trovata la soluzione potesse far plauso a sè stesso e sclamare: L’ho pur vinta, non voglio pensarci più.

Nè meno indispensabile era a lui la scienza canonica, al qual uopo seguendo lo stesso ordine metodico si applicò a leggere tutti gli scrittori ecclesiastici; e stese in latino, per lettere d’alfabeto, una storia di tutti i concilii col sunto degli atti e la sposizione de’ canoni; il MS. di cui, veduto dal P. Montfaucon e da Apostolo Zeno, esisteva ancora nel secolo passato.

Pensa il Grisellini che Frà Paolo già disegnasse la sua storia del concilio tridentino come parte dell’anzidetto lavoro: congettura da lui fondata sopra un errore di cui parlerò altrove. A me sembra più verosimile che quel Dizionario de’ Sinodi fosse un manuale esarato per solo suo privato uso. Io non l’ho veduto, e ignoro se esista ancora e dove: forse in Francia, negletto in qualche biblioteca; solamente so che era distribuito in due volumi in fol. di manoscritto. Ora per metterlo in proporzione colla storia del Tridentino erano necessarie dissertazioni di storia e di critica sull’origine e le vicende del diritto canonico, sull’andamento e il progresso della teologia, e particolarmente su varie opinioni in cui molto dissentono gli antichi dai moderni, e sulle [p. 10 modifica]vicissitudini della disciplina ecclesiastica che mutò ogni secolo, le quali cose dovevano d’assai allargare la mole di due volumi; nè per quanto fosse oltrata l’erudizione del Sarpi, è verosimile che fosse ancor valida a così difficile impresa: giunto che la Storia, basta solo leggerla per vedere che è lavoro isolato, finito, e che non ha relazione alcuna con altro.

È ben vero che il Sarpi fino d’allora mostrava curiosità grande di conoscere i particolari di quel concilio, terminato pochi anni addietro (nel 1563); ma era del pari curioso di ogni altro avvenimento pubblico, de’ quali s’informava esattamente, nel che continuò sino al fine di vita. E rispetto al concilio era naturale che un uomo così avido di sapere e di penetrare i secreti dei principi e delle corti, s’interessasse per un oggetto che teneva a sè rivolte tutte le menti, e gli arcani di cui la corte di Roma con ogni diligenza cercava di occultare al mondo; e che per sua istruzione e curiosità raccogliesse quanti documenti e notizie potesse avere. Camillo Oliva, secretario del fu cardinale Ercole Gonzaga presidente del concilio, gliene somministrò bella copia intorno a’ fatti dell’ultima convocazione; ma per scrivere una compiuta storia non bastavano di lunga mano questi materiali, nè quanto Frà Paolo potè ricavare dagli archivi del duca su casi particolari; e il meglio che avrà trovato, doveva essere il carteggio tra il duca Federico, padre di Guglielmo, e papa Paolo III quando si trattò di mettere il concilio a Mantova.

Oltre all’Oliva col quale ebbe famigliarità intrinseca, e al vescovo Boldrino, strinse amicizia con [p. 11 modifica]Frà Girolamo Bernerio da Correggio, domenicano, allora inquisitore in Mantova, poi (nel 1586) vescovo d’Ascoli e cardinale, uno della congregazione del Sant’Ufficio, indi (nel 1606) Protettore dell’ordine de’ Servi, e in ultimo (nel 1607) vescovo di Porto e santa Rufina: amicizia durata più anni, ma che sembra essere stata interrotta da’ casi che seguirono appresso e dalla contraria posizione in cui si trovarono. Bernerio morì nel 1611.

Così passando il tempo fra i libri e la conversazione dei saggi, e lo studio degli uomini e del mondo, studio difficile e troppo spesso trascurato e senza di cui la filosofia è quasi un’acqua morta, una causa senza effetti, un mezzo senza applicazioni, e il filosofo rimane uomo straniero a quanto lo circonda, Frà Paolo rendeva sempre più perspicue le doti ammirabili del suo ingegno. A’ 20 anni, (nel 1572) in un Capitolo convocato a Cremona fece la professione solenne de’ voti, che tacitamente, siccome allora si usava, aveva fatto due anni innanzi. A 22 in altro Capitolo di Mantova celebrato a’ 19 di Maggio 1574 fu decorato del grado di baccelliere in teologia, col qual titolo sottoscrisse anch’egli in quella adunanza medesima il contratto di spartimento in due provincie della già congregazione dei Servi di Venezia, riunita in un corpo solo col restante ordine dei Serviti.

Ornamento della corte Gonzaga, era diventato carissimo al duca che amava spesso di trattenersi con lui, e si dilettava di suscitar questioni singolari e difficili co’ forestieri venuti alla sua corte, ecclesiastici o secolari, per mettere in ragionamento il suo [p. 12 modifica]teologo. E tal fiata accadeva che certi dotti di saccenteria sprezzando la gioventù del Sarpi, dal modesto suo contegno e dal suo modo socratico e sempre interrogativo di parlare traevano argomento che avessero molte cose da apprendergli; ma poi nel bel mezzo della disputa restavano confusi, di che il duca si smascellava dalle risa.

Una volta fra le altre propose il Gonzaga la tesi che Cristo morisse di 33 anni, questione inutile e che pure imbarazza i cronologi. Il Sarpi senza altro soccorso che la sua memoria schierò ordinatamente tutte le date, massime della Pasqua, somministrate dagli Evangelisti, che concordò colla storia, co’ calcoli astronomici e colle allegazioni d’Eusebio; e l’opponente, altro frate, ebbe la sublime capacità di rispondere che Eusebio è storia non racconto vero; onde il duca sghignazzando gli disse: Padre, sono storie per voi le leggende di sant’Alessio e del morto e del vivo.

Quel principe era anche un bell’umore cui piacevano le burle. Frà Paolo da curiosità giovanile e da’ pregiudizi del secolo fu tratto anch’egli all’astrologìa giudiziaria, ed al duca essendo nato da una cavalla nobile un mulo, al tempo della gestazione fece stare il Sarpi tutta la notte sopra una specola a contemplare le stelle e a stendere l’apotelesma, o vogliam dire la tavola astrologica de’ punti, siderei sotto i quali il giumento era nato; cui mandò a’ primi impazziti di astrologìa giudiciaria chiedendo l’oroscopo di un bastardo di padre plebeo, di madre nobile, nato in casa sua in tal punto e tale congiunzione di astri. Donde avvennero di assai [p. 13 modifica]curiosi equivoci, perocchè chi predisse che quel fortunato bastardo sarebbe maresciallo, chi vescovo, chi cardinale, e fino chi papa; ma Frà Paolo ebbe occasione di disingannarsi della vanità di una scienza delirante e temeraria.

Ma quanto al duca piaceva schernare cogli altri, altrettanto, come è il solito dei principi, non amava che si scherzasse con lui, e ben lo seppe padre maestro Cornelio da Codogno, servita anch’egli e teologo del duca. Un giovine, figliuolo bastardo del cardinale Ercole Gonzaga (giacchè molti cardinali di quel tempo avevano figliuoli), richiedeva, da’ tribunali i beni del padre, e sembra eziandio che il cardinale medesimo gliene avesse legati una parte; ma non trovando pronta giustizia perocchè la lite si trattava tra un piccolo e un grande, diresse al duca con una supplica concetta in termini poco moderati, alla quale il duca rispose facendolo mettere in prigione. Ivi il giovane confessò che autore della supplica era Frà Cornelio, che pure fu sostenuto in carcere, e gli accadeva peggio se non trovava il destro di fuggire.

(1574) Malgrado ciò che dice Frà Fulgenzio biografo di Frà Paolo ed amico, par bene che il primo scherzo fatto a lui e il secondo fatto a un suo correligionario e le continue bizzarrie del duca contribuissero a disgustarlo della vita di corte; e le ripetute sollecitazioni dei suoi amici e superiori, e forse anco la morte del vescovo Boldrino accaduta ai 2 novembre del 1574, lo fecero risolvere di accomiatarsi dal principe, e passò a Milano o in quei mese medesimo o nel seguente. [p. 14 modifica]

Dove si rese accettissimo al cardinale Carlo Borromeo che fu poi santo. Il quale tediato dalle ambizioni della corte di Roma si era portato a risiedere nel suo arcivescovato, e intendeva a riformare il suo clero trascorso ad abusi gravissimi, massime in quello che riguarda a confessionali, affidati allora come poi tra i non molti buoni a non pochi o avidi o ignorantissimi. Ed egli si valse del Sarpi adoperandolo nella confessione, sì nel convento dei Servi come in altre chiese, chiamandolo ad importanti consultazioni, invitandolo ancora a pranzare con lui. Ed è probabile che dal conversare con quel prelato che fu segretario di suo zio papa Pio IV quando ancora durava il concilio di Trento, e sotto cui terminò, e con altri uomini dotti che a lui concorrevano, abbia potuto raccogliere nuovi lumi relativi alla storia di quello.

A Milano ebbe Frà Paolo a sperimentare i primi morsi della maligna ignoranza e della invidia, che poi negli anni seguenti diventati più rabbiosi in ragione del cresciuto suo merito misero alla prova tante volte la sua fermezza e furono come tinte oscure per dar risalto al gran quadro della sua vita. Fu accusato di eresia.

Alcuni spositori della Sacra Scrittura leggendo le prime parole della Genesi: «Nel principio Iddio creò il cielo e la terra, e la terra era informe e vacua, e le tenebre sopra l’abisso, e lo spirito d’Iddio si movea sulle acque»; immaginarono di trovarvi entro la Trinità, come quel curato che nelle ombre della luna vedeva il campanile della sua parochia. Quanto al Padre e allo Spirito Santo [p. 15 modifica]non v’è difficoltà: Iddio creò, lo Spirito di Dio si movea sono espressioni chiarissime persino agl’increduli. L’imbroglio sta nel Figliuolo che non si lascia scorgere; ma poichè la Santissima Trinità è indivisibile, e le tre stanno in una e l’una comprende le tre, è ragione lampante che dove c’è il Padre e lo Spirito Santo debba esservi anco il Figliuolo. Ma se l’argomentazione può passare co’ teologi, non ha lo stesso valore coi filosofi e meno ancora coi rabbini.

I popoli primitivi riponendo ogni virtù o diritto nella forza, non capaci a sollevarsi alle cause razionali dei fenomeni della natura, e giudicandone solo dagli effetti onnipotenti e terribili, era congruo che non potessero concepire altra idea dell’Ente occulto, autore di que’ fenomeni, fuor quella della forza: così tra gli Orientali Elah significa del paro Dio e la Forza; e in altre lingue e fra altri popoli Dio e Forza sono egualmente sinonimi, o a dir meglio un’una e medesima cosa. Osservano dunque i filosofi che nel testo citato, Dio è espresso in ebraico colla formola plurale Elohim, le forze, od una potestà che si compone di loro. E quella formola può significare l’Ente Creatore, ma, e forse meglio, una causa seconda: molto più che l’originale non dice Elohim creò dal nulla, ma Elohim fece da qualche cosa, lasciando presupporre la esistenza anteriore della materia. La frase Spirito di Dio (Rovah Elohim) con quel che segue può tradursi più letteralmente un vento fortissimo agitava le acque, od anche il soffio di Dio, ovvero il soffio della Forza produttrice fecondava le acque. I Rabbini poi affatto si [p. 16 modifica]discostano dalle nostre opinioni, e non manco chimeri de’ teologi ne tirano interpretazioni più o meno strane.

Frà Paolo adunque trovandosi un giorno in discorso ebbe a dire, non potersi la Trinità dimostrare dalle riferite espressioni. Un frate invidioso e di grosso ingegno, non potendo alzarsi cogli studi e colle virtù al credito di Frà Paolo, pensò di avvantaggiarsi deprimendolo, e lo accusò al Sant’Offizio quale eretico giudaizzante e negatore della Trinità. Un inquisitore idiota ne formò il processo: ma il giovane teologo oppose primamente la connivenza tra l’accusatore e il giudice; poi, che l’Inquisitore era inabilitato a giudicarlo essendo ignaro di lingua ebraica. E sostenuto dal cardinal Borromeo e più ancora dal suo merito, negò di rispondere al Santo Uffizio ed appellò a Roma; dove si rise della ignoranza dell’accusatore e del giudice, e a quest’ultimo toccò una buona reprimenda e l’avviso di non impacciarsi di quello che non sapeva. Chè l’Inquisizione romana ove non si tratti d’interessi speziali alla Corte, o di vendette, si mostrò sempre, se non posso dire il più giudizioso di ogni altro di sì fatti sanguinari tribunali, almanco il meno irragionevole.

(1575). Non fu di lunga durata il suo soggiorno in Milano, imperocchè nell’agosto o nel settembre del 1575 fu da’ suoi superiori chiamato a Venezia per insegnare filosofia nel convento de’ Servi. E qui parmi il luogo di porre un fatto indicato vagamente da Frà Fulgenzio. Il Sarpi viaggiando a cavallo sotto la sferza di un sole cocente fu soprapreso da schinanzia terribile tra Vicenza e Padova. Mandato per [p. 17 modifica]il flebotomo, professione che allora esercitavano i barbieri, quegli negò l’uffizio senza l’indicazione del medico; ma Frà Paolo cui la gola abbruciava fino a perderne il respiro, nè si sentiva voglia di tirare in lungo, disse al barbiere, facesse pure venire il medico, e intanto gli mostrasse se aveva buona lancetta. La quale poichè ebbe in mano si applicò alla vena del braccio, e al barbiere, attonito di quell’atto improvviso, non rimase più altro che fasciarlo; e in poche ore il Sarpi, ristabilito, potè proseguire suo cammino.

(1575-78). In Venezia continuando le sue lezioni filosofiche, fino a tutto il 1577, si fece distinguere per lucidezza d’idee, profondità di dottrine e chiarezza di metodi, così che vi intervenivano non pure i frati, ma giovani secolari, e fra gli uni e gli altri ebbe egregi discepoli. Nel 78 fu lettore di teologia, e a’ 15 maggio dell’anno medesimo ricevette la laurea dottorale nella università di Padova, non compiuto il ventesimo sesto anno di sua età.

Correndo questi tempi ebbe occasione di conoscere personalmente Arnaldo Ferrier già ambasciatore di Francia al concilio di Trento, e nel 1576 mandato a Venezia a significare la pace conchiusa in Francia tra cattolici ed ugonotti e a chiedere danaro in prestanza: da lui raccolse esatte notizie intorno a molte cose occorse al concilio. Ma in quel medesimo anno fu amareggiato da una perdita grave; imperocchè dalla fierissima pestilenza che addolorò Venezia e tutta Lombardia gli fu tolta di vita la madre. La quale poco di poi che fu vedova, assecondando la inclinazione propria alla [p. 18 modifica]santimonia, e conversando sempre con monache, aveva finito con prendere anch’essa il velo, e morì, dice Frà Fulgenzio, in concetto di santa e di profetessa.

Della sorella non trovo più notizia: so unicamente ch’era stata raccettata in casa dello zio prete, e debbe essere premorta a Frà Paolo; imperocchè nella sua vecchia età non gli rimanevano più parenti, toltone una vecchia cugina in quarto grado cui andava a visitare qualche volta, e che gli sopravvisse.