Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXIX

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Inferno
Canto ventinovesimo

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Inferno - Canto XXVIII Inferno - Canto XXX
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C A N T O   XXIX.





1La molta gente e le diverse piaghe
      Avean le luci mie sì inebriate,
      Che dello stare a pianger eran vaghe;
4Ma Virgilio mi disse: Che pur guate?
      Perchè la vista tua pur sì soffolge
      Là giù tra l’ombre triste smozzicate?1
7Tu non ài fatto sì all’altre bolge:
      Pensa, se tu annoverar le credi,
      Che miglia ventidue la valle volge;
10E già la luna è sotto i nostri piedi:
      Lo tempo è poco omai che n’è concesso,
      Et altro è da veder, che tu non vedi.
13Se tu avessi, rispuos’io appresso,
      Atteso la cagion per ch’io guardava,
      Forse m’avresti ancor lo star dimesso.
16Parte sen già, et io retro gli andava,
      Lo Duca, già facendo la risposta,
      E soggiugnendo: Dentro a quella cava,
19Dov’io tenea or li occhi sì a posta,
      Credo che un spirto di mio sangue pianga
      La colpa che laggiù cotanto costa.2

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22Allor disse il Maestro: Non si franga3
      Lo tuo pensier da qui inanzi sovr’ello:
      Attendi ad altro; et el là si rimanga;
25Ch’io vidi lui appiè del ponticello
      Mostrarti, e minacciar forte col dito,
      Et udi’l nominar Geri del Bello.4
28Tu eri allor sì del tutto impedito
      Sovra colui che già tenne Altaforte,
      Che non guardasti in là, sì fu sparito.5
31O Duca mio, la violenta morte,
      Che non gli è vendicata ancor, diss’io,
      Per alcun che dell’onta sia consorte,
34Fece lui disdegnoso; ond’el sen gìo
      Sanza parlarmi, sì com'io stimo,
      Et in ciò m’à el fatto assai più pio.6
37Così parlammo infino al luogo primo,
      Che da lo scoglio l’alta valle mostra,
      Se più lume vi fosse, tutto ad imo.
40Quando noi fummo in su l’ultima chiostra7
      Di Malebolge, sì che i suoi conversi
      Potean parere alla veduta nostra,
43Lamenti saettaron me diversi,
      Che di pietà ferrati avean li strali;8
      Ond’io li orecchi con le man copersi.
46Qual dolor fora, se delli spedali9
      Di Valdichiana tra luglio e il settembre,
      E di Maremma e di Sardigna i mali

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49Fossero in una fossa tutti insembre;10
      Tal era quivi, e tal puzzo n’usciva,
      Qual suol venir delle marcite membre.11
52Noi descendemmo in su l’ultima riva
     Del lungo scoglio, pur da man sinistra,
      Et allor fu la mia vista più viva
55Giù ver lo fondo, dove la ministra12
      Dell’alto Sire, infallibil Giustizia,13
      Punisce i falsator che qui registra.14
58Non credo che a veder maggior tristizia
      Fosse in Egina il popol tutto infermo,
      Quando fu l’aere sì pien di malizia,
61Che li animali infino al picciol vermo
      Cascaron tutti, e poi le genti antiche,
      Secondo che i poeti ànno per fermo,
64Si ristorar di seme di formiche;
      Ch’era a veder per quella oscura valle15
      Languir li spirti per diverse biche.
67Qual sopra il ventre, e qual sopra le spalle
      L’un dell’altro giacea, e qual carpone
      Si trasmutava per lo tristo calle.
70Passo passo andavan sanza sermone,
      Guardando et ascoltando gli ammalati,
      Che non potean levar le lor persone.
73Io vidi due seder a sè poggiati,
      Come a scaldar s’appoggia tegghia a tegghia,
      Dal capo al piè di schianze maculati:16

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76E non vidi giammai menare stregghia
      Da ragazzo aspettato dal signorso,17
      Nè da colui che mal volentier vegghia;
79Come ciascun menava spesso il morso
      Dell’unghie sopra sè per la gran rabbia
      Del pizzicor, che non à più soccorso:
82Così traeva giù l’unghia la scabbia,18
      Come il coltel da scardova le scaglie,
      O d’altro pesce che più larghe l’abbia.19
85O tu, che con le dita ti dismaglie,
      Cominciò il Duca mio all’un di loro,20
      E che fai d’esse tal volta tanaglie,
88Dimmi, s’alcun Latino è tra costoro,2122
      Che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
      Eternalmente a cotesto lavoro.
91Latin siam noi, che tu vedi sì guasti23
      Qui amendu’, rispuose l’un piangendo;
      Ma tu chi se’, che di noi domandasti?
94E il Duca disse: Io sono un, che discendo
      Con questo vivo giù di balzo in balzo,
      E di mostrar l’Inferno a lui intendo.
97Allor si ruppe lo comun rincalzo,
      E tremando ciascuno a me si volse
      Con altri, che l’udiron di rimbalzo.

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100Lo buon Maestro a me tutto s’accolse
      Dicendo: Dì a lor ciò che tu vuoli;24
      Et io incominciai, poscia ch’ei volse:
103Se la vostra memoria non s’imboli25
      Nel primo mondo dall’umane menti;
      Ma s’ella viva sotto molti Soli,
106Ditemi chi voi siete, e di che genti:
      La vostra sconcia e fastidiosa pena26
      Di palesarvi a me non vi spaventi.27
109Io fui d’Arezzo, et Albero da Siena,28
      Rispose l’un, mi fe mettere al fuoco;
      Ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.
112Ver è, ch’io dissi a lui, parlando a giuoco:
      Io mi saprei levar per l’aere a volo;
      E quei ch’avea vaghezza, e senno poco,
115Volle ch’io gli mostrasse l’arte; e solo,
      Perch’io nol feci Dedalo, mi fece
      Ardere a tal, che l’avea per figliuolo.
118Ma nell’ultima bolgia delle diece
      Me per l’alchimia, che nel mondo usai,
      Dannò Minos, a cui fallar non lece.
121Et io dissi al Poeta: Or fu giammai
      Gente sì vana, come la sanese?29
      Certo non la francesca, sì d’assai.30
124Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
      Rispose al detto mio: Trane lo Stricca,3132
      Che seppe far le temperate spese,

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127E Nicolò, che la costuma ricca33
      Del gherofano prima discoperse34
      Nell’orto, dove tal seme s’appicca;
130E trane la brigata, in cui disperse3536
      Caccia d’Ascian la vigna e la gran fronda;
      E l’Abbagliato il suo senno profferse.37
133Ma perchè sappi chi sì ti seconda
      Contra i Sanesi, aguzza ver me l’occhio,38
      Sì che la faccia mia ben ti risponda;
136Sì vedrai, ch’io son l’ombra di Capocchio,
      Che falsai li metalli con l’alchimia,39
      E te dee ricordar, se ben t’adocchio,40
139Com’io fui di natura buona scimia.

  1. v. 6. C. M. e smozzicate?
  2. v. 21. C. M. La pena che là giù
  3. v. 22. C. M. pianga
  4. v. 27. C. M. E viddil nominar
  5. v. 30. fu partito.
  6. v. 36. m’à el fatto a sè più pio.
  7. v. 40. C. M. Quando poi
  8. v. 44. C. M. Che di pianti
  9. v. 46. Fora; sarebbe. Nell’imperfetto congiuntivo del verbo primitivo si disse io fore o fora; forano, seguitando i Latini che in cambio di essem, esses usavano anche forem, fores. E.
  10. v. 49. Insembre; insieme, dall’insimul dei Latini, cambiato il secondo i in e, e lu ed l in b ed r con un‘e in fine. E v. 51. C. M. dalle marcide membre.
  11. v. 51. membre. Nel plurale e in verso e in prosa rinviensi con tre terminazioni; membra, membre, membri. E.
  12. v. 55. C. M. Giù verso il fondo là dalla ministra
  13. v. 56. C. M. Dell’alto Sire, ineffabil Giustizia,
  14. v. 57. C. M. il falsador
  15. v. 65. C. M. quella scura
  16. v. 75. C. M. di sangue maculati:
  17. v. 77. signorso. Gli antichi in luogo di mio, tuo, suo, adoperavano mo, to, so; ma più spesso come affìssi; la qual maniera vive tuttora in alcune provincie d’Italia. Signorso vale signor suo; fratelmo, fratel mio; patreto, patre tuo. ec. E.
  18. v. 82. E sì traevan con l’ unghie
  19. v. 84. C. M. pescio
  20. v. 86. C. M. ad un di loro,
  21. v. 88. C. M. Dinne,
  22. v. 88 e 91. Latino, significa qui pure uscito di progenie romana. E'
  23. v. 91. C. M. Latin siem noi,
  24. v. 101. Vuoli; non viene raro negli antichi poeti e prosatori; ma oggi si preferisce vuoi. Nasce da volere, voglio, come suoli da solere, soglio. E.
  25. v. 103. C. M. s’involi
  26. v. 107. C. M. faticosa pena
  27. v. 108. C. M. palesarmi
  28. v. 109. C. M. Alberto
  29. v. 122. C. M. senese?
  30. v. 123. C. M. è si
  31. vv. 125 130. Trane; ne tra, ne cava, ne togli, e viene dall’infinito trare. L’uso richiede ora trai o tragga o traggi. E.
  32. v. 125. Tramene Stricca,
  33. v. 127. Costuma; costume con desinenza doppia, come domanda, domando; condotta, condotto ec. E.
  34. v. 128. C. M. del garofano
  35. v. 130. In questa brigata, detta la Godereccia o Spendereccia, alcuni giovinastri sanesi in poco d’ora gittaron via forse un dugento mila fiorini d’oro. E.
  36. v. 130. C. M. in che
  37. v. 132. C. M. E l’Abbagliato suo senno proferse.
  38. v. 134. C. M. Senesi,
  39. v. 134. C. M. archimia,
  40. v. 138. Te; a te. Non è raro presso i nostri maggiori incontrare il nome personale, senza essere preceduto dalla particella a. È in Pacino Angiolieri « faceste dono Me di vostra amistade » E.

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C O M M E N T O


La molta gente ec. In questo canto xxix l’autore comincia a trattare della x et ultima bolgia ove si puniscono li falsatori; e dividesi lo canto principalmente in due parti: imperò che prima pone come esce della nona bolgia e passa alla decima, e pone in genere le pene che vi sono; nella seconda tratta specialmente delle dette pene, e delle persone che finge che vi trovasse tra l’altre, quivi: Qual sopra il ventre, ec. Questa prima, che è la prima lezione del canto, si divide in vii parti: imperò che prima finge che Virgilio l’ammonisca del procedere oltre, e riprendelo dello stare attento troppo in su la nona bolgia; nella seconda soggiugne l’autor la scusa del suo attendere con alcuna cagione, quivi: Se tu avessi, ec.; nella terza Virgilio toglie via quella cagione, quivi. Allor disse il Maestro: ec.; [p. 739 modifica]nella quarta pone l’autor nostro risposta al detto Virgilio, e il suo processo, quivi: O Duca mio, ec.; nella quinta pone come giunsono in su la x bolgia, et in genere le pene che sentì in quella, quivi: Quando noi fummo ec.; nella sesta pone lo suo discenso in su l’altro capo dello scoglio, quivi: Noi descendemmo ec.; nella settima pone una comparazione, quivi: Non credo che a veder ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

Dice l’autore che la moltitudine de’ peccatori e le diverse piaghe della nona bolgia aveano inebriati li occhi suoi sì, ch’erano vaghi a piagnere; ma Virgilio di ciò lo riprende, dicendo: Perchè pur guardi? Perchè la vista tua si ficca pur giù tra l’ombre triste e smozzicate? Già non ài tu così fatto all’altre bolgie; et ammoniscelo del tempo conceduto che era brieve, et ancora aveano altro a vedere e cercare. A che Dante risponde che, se Virgilio avesse atteso a quel, perchè Dante restava, forse li avrebbe conceduto ancora di stare. E così parlando andavano tutta via; et aggiugne la cagione del suo attendere, la quale era per vedere uno spirito ch’era della stirpe sua, lo quale elli credeva essere condannato quivi. A che Virgilio li risponde: Non pensar più di lui, attendi ad altro e lascia star lui, ch’io lo vidi a piè del ponte minacciarti, et udi’lo chiamare Geri del Bello: tu eri allora sì attento sopra messer Beltrame dal Bornio, che tu non t’avvedesti di lui, sì fu ito via. Allor Dante rende la ragione, perchè Geri sopra detto lo minacciò; cioè perch’elli fu morto, e per quelli del casato non ne fu mai fatto vendetta; e per questo se n’andò sdegnoso com’io penso, e per questo m’à fatto ancor più pietoso ch’io non sarei stato. E così parlando, dice che passò in su l’altro ponte della x bolgia; e quando fu in su quella ultima bolgia sì, ch’ogni cosa si potea vedere, dice che sentì sì grandi lamenti e pianti, ch’elli si chiuse li orecchi per non udirli; e fa similitudine che, se tutti li malati delli spedali di Valdichiana, e di Maremma, e di Sardigna l’infermi fossono tutti insieme in una fossa, non sarebbono li lamenti sì fatti com’eran quelli; e tal puzza n’uscia qual suole uscire delle membra fracide. E per veder meglio, dice che discese in sul capo del ponte dell’altro lato da man sinistra, et allora vide meglio lo fondo ove la Divina Giustizia punisce li falsatori; et all’ultimo aggiugne una similitudine poetica, dicendo che non fu maggiore tristitizia a veder li malati d’Egina, quando vi fu la pestilenzia che vi morì ciascuno, se non lo re Eaco, e poi si riparò quel popolo di formiche, che si mutarono in uomini per suo priego, che vedere quella di quella x bolgia. E qui finisce la prima lezione: ora è da vedere il testo con le esposizioni.

C. XXIX — v. 1-12. In questi quattro ternari l’autor nostro finge che Virgilio lo riprende dello star troppo attento sopra la nona [p. 740 modifica]bolgia, et ammoniscelo dell’andar più oltre, dicendo così: La molta gente; ch’io vedea nella nona bolgia, e le diverse piaghe; ch’io vedea nelle loro persone, Avean le luci mie; cioè delli occhi, sì inebriate; di lagrime, Che dello stare a pianger eran vaghe; e qui nota la sua compassione e la reprensione di Virgilio, onde dice: Ma Virgilio mi disse: Che pur guate; tu, Dante? Perchè la vista tua pur sì soffolge; cioè si ficca, Là già tra l’ombre triste smozzicate; come mostrato è nel precedente canto? Tu non ài fatto sì all’altre bolge; come tu fai a questa: Pensa, se tu annoverar le credi; l’anime che sono in questa bolgia, Che miglia ventidue la valle volge; finge l’autore che il tondo di questa bolgia fosse ventidue miglia, per mostrare ch’era presso al centro della terra: imperò che avea a passare la x bolgia e lo nono cerchio che à dentro da sè quattro cerchi, e dentro dal quarto finge che sia lo centro, E già la luna; qui l’ammonisce del procedere oltre: con ciò sia cosa che il tempo sia brieve et ànno ancora a vedere altro; e lo tempo conceduto, secondo l’autore, era una notte e un di’ infino al centro, e parte dell’altra notte quanto fosse da mattina a mezza terza dovea logorare a passare lo centro, e l’avanzo della notte dovea logorare infino appresso all’aurora a risalire e ritornare all’oriente, ove finge essere il purgatorio intorno a uno monte, nella sommità del quale finge essere lo paradiso terrestre. E così in su l’aurora finge ritornarsi quivi, et innanzi essere uscito e ritornato nell’inferno, come si mosterrà nell’ultimo canto di questa cantica; la notte era già passata e venuto tanto del di’, che la luna era girata nell’altro emisperio, passato il centro della terra: imperò che, s’ella era sotto i piedi di Dante e di Virgilio che non erano ancor giunti al centro, dunque ella era1 passato il centro e debbasi immaginare ch’ella venia contra loro. E la cagione è questa, che Dante discendendo sempre, è ito verso l’occidente; e quando à avuto a volgere à finto che sia volto a sinistra, e questa è conveniente via all’inferno, perchè la via de’ peccati è sempre in verso occidente et in verso sinistra: imperò che in verso oriente, et in verso destra si va alle virtù. E la luna, poichè à passato l’orizzonte dell’occidente, viene in verso lo levante, e pertanto immaginiamo che fosse corso più che mezza notte2 nell’altro emisperio, dunque di quassù a noi era corso più che mezzo di’: imperò che tanto dovea essere corso di qua lo sole in verso l’occidente, quanto di là la luna verso l’oriente: imperò che nel tempo, che l’autore finge che questo discenso fosse, era l’equinozio vernale, pari lo di’ con la notte; onde si può comprendere che fosse tra la nona e il vespro, e però dice: E già la luna è sotto i nostri piedi; nell’altro emisperio di qua dal [p. 741 modifica]centro, come noi siamo, che ancora noi siamo giunti ad esso, Lo tempo è poco omai che n’è concesso: imperò chè da passato nona a sera, sicchè poco era per rispetto di quello ch’era passato, che era la notte e più che il mezzo il di’, Et altro è da veder, che tu non vedi: però ch’avea a vedere la x bolgia e il nono cerchio che n’à in sè quattro.

C. XXIX — v. 13-21. In questi tre ternari pone Dante la risposta, che finge che facesse a Virgilio a quel che detto fu di sopra, dicendo: rispuos’io; cioè Dante, appresso; cioè immantinente, Se tu; cioè Virgilio, avessi Atteso; cioè saputa, la cagion perch’io; cioè Dante, guardava; così attentamente, Forse m’avresti ancor lo star dimesso; cioè m’avresti conceduto ch’io fossi stato ancora più. Parte; cioè tutta via, o in quel mezzo, sen gìa... Lo Duca; cioè Virgilio se n’andava, et io retro gli andava; cioè io Dante lo seguitava, già facendo la risposta; che seguita, E soggiugnendo; al detto di Virgilio: Dentro a quella cava; cioè bolgia; ecco la risposta di Dante, Dov’io tenea or li occhi sì a posta, Credo che un spirto di mio sangue; cioè di mia schiatta, pianga la colpa; cioè sua, che laggiù: cioè in quella bolgia, cotanto costa; cioè sì grande pena è; e non ci è altra esposizione.

C. XXIX — v. 22-30. In questi tre ternari finge l’autore che Virgilio li togliesse via la cagione, dicendo: Allor disse il Maestro; cioè Virgilio: Non si franga; cioè non si rompa dall’altre cose che ài a pensare, Lo tuo pensier da qui inanzi sovr’ello; cioè sopra colui che dicesti: Attendi ad altro; tu, Dante, et el; cioè colui di che tu dici, là si rimanga; cioè in quella nona bolgia, Ch’io vidi lui; dichiara Virgilio che il vide e nominalo; e questo non finge l’autore sanza cagione: imperò che questo suo parente non fu mai veduto da lui, e però finge che Virgilio che significa la ragione, come detto è di sopra, lo vedesse e nominasselo, appiè del ponticello; in sul quale noi eravamo, Mostrarti; cioè te Dante, e minacciar forte col dito: menando il dito si minaccia, tenendol fermo si dimostra, Et udi’l nominar; cioè io Virgilio, Geri del Bello; questo Geri fu figlio di Giovanni del Bello, lo quale fu della progenie di Dante, e fu morto per uno della casa de’ Gerini3, per parole che questo Giovanni avea rapportate; onde Geri suo figliuolo pensò sempre di farne vendetta. E non vedendo modo di farla, si stavano a buona guardia; quello de’ Gerini4 si contrafece a modo di uno povero lebroso, avendosi fatto dipignere sì che parea lebbroso, e passando da casa i Gerini si restò al maggior della casa che era armato, e domandolli bene per l’amore di Dio, e disse: Messere, ecco la famiglia del [p. 742 modifica]potestà, riponete l’arme. Costui entrò in casa e pose giù l’arme et uscissi fuori; allora questo Geri lo percosse d’uno coltello ch’avea sotto, et ucciselo. Avvenne poi caso che uno di casa i Gerini andò potestà di Fucecchio, e con lui andò uno suo nipote che si chiamava Geremia per officiale, et andò un di’ alla cerca per l’arme, scontrò questo Geri ch’era capitato a Fucecchio per suoi fatti; e cercatolo s’elli avea arme, e non trovandogliele, lo percosse con un coltello nel petto et ucciselo, e di questo non fu mai fatto vendetta per quelli del casato di Dante; e però finge l’autore che lo minacciasse, perchè la vendetta non era fatta. E perchè questo Geri fu seminatore di scandali, però lo mette nella nona bolgia, e seguita: Tu eri allor; dice Virgilio a Dante, si del tutto impedito Sovra colui che già tenne Altaforte; questo fu messer Beltramo di cui fu detto di sopra, che a posta del re Giovanni, detto di sopra, tenne una fortezza che si chiamava Altaforte, che è in Inghilterra, Che non guardasti in là; cioè in verso là, sì fu sparito; cioè Geri detto di sopra.

C. XXIX — v. 31-39. In questi tre ternari l’autor nostro pone la risposta, ch’elli fìnge che facesse a Virgilio sopra quel che detto avea, e il suo processo, dicendo: O Duca mio; dice Dante a Virgilio, la violenta morte; del detto Geri che fu morto, come detto fu di sopra, Che non gli è vendicata ancor; per alcuno di sua casa, diss’io; cioò Dante, Per alcun che dell’onta sia consorte; cioè per alcun de’ consorti suoi, Fece lui disdegnoso; in verso di me, ond’el sen gìo; cioè se n’andò, Sanza parlarmi, sì com’io stimo; cioè penso io Dante, Et in ciò; cioè et in questo ch’io l’ò veduto isdegnoso, m’à el fatto assai più pio; cioè ch’io non sarei in verso l’inimici a non farne vendetta, che bench’io avesse in cuore di non farne vendetta, ora l’ò molto più. Così parlammo; io Dante e Virgilio, infino al luogo primo, Che; cioè che prima, da lo scoglio; cioè dal ponte, l’alta valle; cioè profonda, mostra, Se più lume vi fosse, tutto ad imo; cioè tutto infino al fondo; ma perchè v’è poco lume, non si può così vedere in fino al fondo del ponte che è luogo alto; e così dimostra che sia venuto in su la decima bolgia.

C. XXIX — v. 40-51. In questi quattro ternari lo nostro autore dimostra come giunsono in sulla decima bolgia, e manifesta in genere le pene che vi sono, dicendo: Quando noi; cioè Virgilio et io Dante, fummo in su l’ultima chiostra; cioè in su l’ultima chiusura, Di Malebolge; detto fu di sopra, perchè così si chiama, sì che i suoi conversi; conversi chiama i peccatori che vi sono, perchè nelli chiostri stanno li conversi, e di sopra è detto l’ultima chiostra, Potean parere alla veduta nostra; cioè potean apparere alli occhi nostri, Lamenti diversi5; perchè veniano da diverse parti, e [p. 743 modifica]perch’erano diversi, ovvero differenti, Che di pietà ferrati avean li strali; continua la similitudine, poichè à detto che saettarono, finge che fossono lamenti di pianti, come li strali ferrati di ferro; e come li strali ferrati feriscono col ferro, così quelli lamenti percoteano li orecchi di Dante6 con ferite di pietade; Ond’io li orecchi con le man copersi; cioè per non udirli. Qual dolor fora; qui fa una similitudine, che tale era quel dolore, qual sarebbe quello che s’udirebbe, se in una fossa fossono li malati che sono nelli spedali di Valdichiana, la state presso all’autunno, e li mali di Maremma e di Sardigna, e però dice: se delli spedali di Valdichiana; qui parla l’autore delli spedali posti in Valdichiana, sottoposti alla casa d’Altopascio che è tra Fiorenza e Lucca e Pistoia, tra luglio e il settembre; cioè d’agosto, quando le genti sono più inferme, E i mali di Maremma; questo dice, perchè la Maremma suole essere più inferma in tale tempo, che li luoghi montanini, e di Sardigna: Sardigna è isola molto inferma, come sa ciascuno che v’è stato, Fossero in una fossa tutti insembre; cioè insieme, Tal era quivi; lo dolore, e tal puzzo n’usciva; di quella x bolgia, Qual suol venir delle marcite membre; e così in genere à narrato la pena che v’è, che tutti finge che sieno malati e piagati, come si dirà di sotto più spezialmente.

C. XXIX — v. 52-57. in questi due ternari l’autor nostro finge lo suo discenso fatto in su l’altro capo dello scoglio, dicendo così: Noi; cioè Virgilio et io Dante, descendemmo in su l’ultima riva; cioè ripa; et intendesi di quella di là, perchè prima è detto che vennono in su l’arco dello scoglio, onde si potea vedere la bolgia infino al fondo, Del lungo scoglio; cioè della pietra che sta sopra la bolgia come ponte, e perchè dice lungo, mostra che la bolgia sia larga, pur da man sinistra; questo dice: imperò che da man sinistra si discende ai vizi e peccati, come a man diritta si monta alla virtù, Et allor fu la mia vista più viva; questo dice, perchè vide meglio, Giù ver lo fondo; che prima non potea vedere, dove la ministra; cioè in quella parte dove la ministra; cioè servigiale, Dell’alto Sire; cioè Idio, infallibil Giustizia; questa è la ministra di Dio, infallibile perchè non si può ingannare, Punisce i falsator; cioè coloro che commettono falsità per qualunque modo, che qui registra; cioè che qui rappresenta.

C. XXIX — v. 58-66. In questi tre ternari l’autor nostro fa una similitudine, presa dai poeti, della pestilenzia che fu in Egina, città del re Eaco, posta in Grezia in isola ch’era così chiamata dal nome della madre d’Eaco, ch’ebbe nome Egina; e prima era chiamata Conopia7 et era posta nella contrada che si chiama Achaia, e questa [p. 744 modifica]Egina era moglie d’Asopo. Questa terra odiata da Giunone, perchè Egina era stata concubina di Giove, secondo che pone Ovidio Metamorfoseos nel vii, fu corrotta da una grande pestilenzia intanto che tutti li uomini morirono infino alli animali; e non essendo rimaso se non lo re Eaco con tre suoi figliuoli Peleo, Telamone e Foco, pregò Giove che li rendesse li cittadini morti, o elli pigliasse ancora lui. Et avuto segno da Cielo ch’elli sarebbe esaudito, e guardando presso a sè, vide una quercia tutta piena di formiche ch’andavano suso e giuso portando granella, come è di loro usanza; e vedendo questa moltitudine, pregò Giove che gli desse altri tanti cittadini; et andato a dormire, perchè era sera, vide in sogno che quelle formiche si mutavano in uomini, e la mattina svegliato, vide quelle formiche diventate uomini, e però furono chiamati Mirmidones dalla formica che si chiama così in lingua greca; e diventati uomini, vennono a lui e salutaronlo per loro re e riempierono la città. E però di questo fa comperazione l’autore, dicendo: Non credo; io Dante, che a veder maggior tristizia Fosse in Egina; cioè in quella città d’Eaco, il popol tutto infermo, Quando fu l’aere sì pien di malizia; per la pestilenzia, Che li animali infino al picciol vermo Cascaron tutti, e poi le genti antiche; di quella città Egina, Secondo che i poeti ànno per fermo; quasi dica: Li poeti questo fingono, e non l’ànno se non come per fizione, e così si dee avere per li altri, Si ristorar di seme di formiche: però che le formiche diventarono uomini, com’è detto di sopra, Ch’era a veder per quella oscura valle Languir li spirti per diverse biche; cioè dolersi per diversi luoghi di quella bolgia, ordinati e distribuiti secondo lo più e il meno della colpa; e questa è la determinazione della comperazione, e qui finisce la prima lezione.

Qual sopra il ventre ec. Questa è la seconda lezione del xxix canto, nel quale l’autor nostro tratta spezialmente delle pene che finge essere in questa x bolgia, e de’ peccatori che qui si puniscono; e dividesi in sette parte: imperò che prima pone distintamente delle pene che sono nella x bolgia, e distintamente d’alquanti peccatori; nella seconda, come Virgilio domanda due se v’è alcun latino, quivi: O tu, che con le dita ec.; nella terza, come pone la risposta di quelli due che sono latini, quivi: Latin siam noi ec.; nella quarta, come Virgilio mette Dante a domandar, quivi: Lo buon Maestro ec.; nella quinta, come l’addomandato risponde, quivi: Io fui d’Arezzo ec.; nella sesta, come Dante per alcuna cagione esce della materia, e domanda a Virgilio della condizione de’ Sanesi, e quel che vi rispose uno di quelli addomandati, quivi: Et io dissi al Poeta ec.; nella settima dichiara questo medesimo, che rispose alla domanda di Dante fatta a Virgilio chi elli è, quivi; Ma perchè [p. 745 modifica]sappi ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

Poi che l’autore à detto in somma che quelli della x bolgia ànno questa pena, che sono malati di diverse infermità, dichiara ora spezialmente la lor pena, dicendo che giaceano l’uno sopra il ventre dell’altro, e l’altro sopra le spalle dell’altro; e quale andava carpone per quella fossa, come fanno li gravemente malati che non si possono levare in piè. E dice che, andando sanza parlare, guardando et ascoltando quelli ammalati che non si poteano in su le lor persone, vide due levati a sedere che non si poteano reggere, se non che l’uno s’appoggiava all’altro, come fa testo a testo quando si pongono sopra lo fuoco a scaldare; e questi come lebbrosi si grattavano rabbiosamente sì, che faceano cadere la scabbia come le squame del pesce quando vi si frega il coltello; onde Virgilio domandò uno di loro, se alcuno latino era quivi tra loro, e il peccatore rispose di sè e d’altri, e domandò lui chi elli era. Allora Virgilio li disse che era uno che discendea, per mostrare l’inferno a quel vivo ch’era con lui; allora costoro et altri ch’udirono questo, si volsono presso Virgilio; e Virgilio allora s’accostò a Dante, dicendo che domandasse ciò che volea; e Dante li domandò chi elli erano, pregandoli che il dovesson dire. Allora rispose uno di quelli ch’egli era d’Arezzo8, e che Albero da Siena lo fece ardere per incantatore e malioso, e già per questo non n’èra elli condannato nella x bolgia; ma per falsificare l’alchimmia ch’avea usata nel mondo; e la cagione perchè lo fece ardere fu questa, che dicendo un di’ a giuoco con questo Albero: Io saprei farmi portare per l’aere volando, questo Albero volle ch’io gliele insegnassi, e perch’io non gliele insegnai mi fece ardere al vescovo di Siena del quale questo Albero era figliuolo. Allora Dante udendo questo, domandò Virgilio se mai fu gente vana quanto la sanese; e rispondendo a sè medesimo, dice che non la francesca, che sono gente vana, non sono ancora tanto vani, quanto li Sanesi a gran fatto. E per questo rispose l’altro lebroso al detto di Dante: Cavane lo Stricca che seppe fare le temperate spese, e Nicolò che trovò la ricca costuma del gherofano in Siena, e la brigata spendereccia in che Caccia d’Asciano consumò tutte le sue possessioni, e l’Abbagliato mostrò ben suo senno. E perchè sappi ch’io sono che t’ò risposto, guardami bene e vedrai ch’i’ sono l’ombra di Capocchio, che falsai i metalli con l’alchimmia: se io ben ti riconosco, dice costui, tu Dante ti dei ricordare ch’io fui da natura buona scimmia. E qui finisce il canto, et ora è da vedere lo testo con l’esposizioni. [p. 746 modifica]

C. XXIX — v. 67-84. In questi sei ternari l’autor nostro tratta singularmente delle pene che finge essere nella x bolgia; nella quale parte l’autore pone tre similitudini diverse a tre diversi atti. E perchè qui si descrivono specialmente le pene che ànno li falsatori, vedremo, come aviamo veduto nelli altri, del peccato della falsità quello che è, e quali sono le sue compagne e le sue figliuole e le sue pene e li rimedi contra esso. E prima doviamo sapere che qui finge l’autore che si punisca la x spezie della fraude, che si chiama falsità la quale è sottoposta alla invidia, et è delle sue spezie: imperò che s’oppone alla verità che si contiene sotto la carità, alla quale è contraria l’invidia, et è la x spezie della fraude: imperò che la falsità non si può commettere, se non si mostra una cosa per un’altra. Et in questo sta la fraude; mostrare la cosa con alcuno colore essere quel che non è, e questo si fa per ingannare lo prossimo in suo danno; et è falsità generalmente negare quello che non è vero9, et à due spezie: imperò che è falsità in detti, e questa si chiama bugia propriamente; et è falsità in fatti, e questa si chiama propriamente falsità. Quella che è in detti à ancora otto spezie sotto sè: imperò che alcuna è nella dottrina della religione, alla quale nullo si dee inducere; et è alcuna che ingiustamente offende et a niuno fa pro; et è alcuna che offende uno e fa pro a un altro, benchè non offenda ad inimicizia corporale; et è un’altra che è solo per diletto d’ingannare, e questa si chiama veramente10 mendazio; et è alcuna che si dice per piacere ad altrui con belle novellette; et è alcuna ch’a niuno nuoce et ad alcuno fa pro temporalmente, sì come se io so che alcuno osi togliere ingiustamente pecunia, et io sono addomandato, se io lo so e dico che no; et alcuna che a niuno nuoce et ad alcuno fa pro spiritualmente, sì come s’io sono addomandato s’io so Piero che altri lo vuole uccidere, et io sappiendolo11 dico che no; l’ultima è ch’a niuno nuoce, sì come si sono addomandato se io so Berta la quale altri richiede per immondizia, et io sappiendola dico che no. Et in tutti questi modi si pecca: imperò che in veruno modo non si dovrebbe dire bugia; ma vorrebbesi rispondere: Io non tel voglio dire. E così la falsità infatti può essere in più modi; cioè falsando scritture, falsando metalli che si chiama alchimia, falsando moneta; e questo in tre modi, o falsando la lega, o torneandola e levando da essa, o falsando il conio; e di queste intende l’autore dimostrare in questo canto e nell’altro. Et à tre [p. 747 modifica]compagne la bugia, o vero la falsità, sanza le quali non si truova mai, nè non può essere; e questo è cupidità, furto, malinconia, pensieri, inganno, paura e rabbia; cioè tristizia d’animo, simulazione e dissimulazione. Simulazione è fingere vero quello che non è vero; dissimulazione è negare quello che è vero; e quando la falsità si commette in fatti, sempre queste due compagne sono con essa, et ancora à alcuna volta la bugia per sua compagnia per lo spergiuro; ma quando si commette in detti, che è bugia, possono essere insieme, et ancora può essere pur l’una. Et à la falsità queste figliuole; infamia, viltà, abominazione, corruzione, et alcuna volta infermità e povertà. Li rimedi contra sì fatto peccato sono questi; cioè proponimento di non partirsi in detto, nè in fatto dal vero; considerazione delle pene, che merita così fatto peccato, temporali e spirituali, e considerare quanto d’onore e di bene à la lealtade. Ora sono da considerare le pene le quali l’autore finge essere ordinate a sì fatto peccato, le quali sono queste e sono x; cioè che prima finge che si lamentino e piangano, a denotare la loro infermità; secondo, che giacciono, a denotare la loro viltà; terzio, che putano, a denotare la loro viltà12, o corruzione; quarto, che sono ignudi, a denotare la loro povertà13; quinto, che sieno lebrosi, a denotare la loro corruzione; sesto, che sieno piagati, a denotare la loro infamia; settimo, che sieno idropici, a denotare la cupidità dell’avere, per la quale si mettono li uomini a sì fatto peccato; ottavo, che abbino grandissimo pizzicore, a denotare le grandi cure e sollecitudini che ànno li falsari a occultare le loro falsità; e nono, che abbino tremore, a denotare la paura che ànno che non si scuopra la falsità loro; et ultimo, che corrono rabbiosi mordendo altrui, a denotare la loro rabbiosa cupidità la quale si truova in alquanti. E veramente sì fatto peccato à in questa vita sì fatte pene, come dimostrato è; e convenientemente finge l’autore che sieno di là nell’inferno: imperò ben si convengono a sì fatto peccato. Ora dice adunque così lo testo, poi ch’à detto della puzza, della infermità, del pianto e lamento: Qual sopra il ventre; di quelli peccatori, e qual sopra le spalle L’un dell’altro giacea; e per questo significa che ve n’era grande moltitudine, e qual carpone Si trasmutava per lo tristo calle; cioè per quella bolgia; e questo dice, a mostrare la loro bestialità che, come bestie sono vivuti amando pur li beni terreni; così come bestie vanno co’ piedi e con le mani, volto il volto in verso la terra. Passo passo andavan sanza sermone; cioè io e Virgilio, Guardando et ascoltando gli ammalati; cioè della x bolgia, Che non potean levar le lor persone; in che si nota la lor viltà. Io vidi; ora specialmente narra di due i quali [p. 748 modifica]nominerà di sotto; e quivi dirò di loro condizioni, e però dice: Io; cioè Dante, vidi due seder a sè poggiati; che per sè non si sostengano onde ancor si nota qui la lor viltà, Come a scaldar s’appoggia tegghia a tegghia; fa una similitudine che, come s’accosta sopra il fuoco testo a testo, sicchè l’uno regge l’altro per scaldare, per far migliacci; così faceano costoro due, per meglio reggersi, Dal capo al piè di schianze maculati; e per questo nota la loro corruzione. E non vidi giammai menare stregghia; qui fa una similitudine che, come lo ragazzo che è aspettato dal signorsoo, che à fretta d’andarsene tosto a letto a dormire, mena la stregghia fortemente a stregghiare il cavallo; così costoro menavano l’unghie a grattarsi; e però fìnge, o vero dice: E non vidi giammai; io Dante, menare stregghia; a stregghiare lo cavallo, Da ragazzo aspettato dal signorso; che voglia cavalcare, Nè da colui che mal volentier vegghia; che fa in fretta per andare a dormire, Come ciascun; di questi due, menava spesso il morso Dell’unghie sopra sè per la gran rabbia; del pizzicore ch’avea; e qui si notano le grandi cure e sollicitudini che ànno li falsari, a dare effetto alle loro falsitadi, Del pizzicor, che non à più soccorso; se non di stracciarsi con l’unghie: Così traeva giù l’unghia; di colui che si grattava, la scabbia; cioè la crosta della lebra, Come il coltel da scardova le scaglie, O d’altro pesce che più larghe l’abbia; fa similitudine che così l’unghie faceano cadere le croste della lebbra, come lo coltello14, col quale si tolgono via le scaglie da’ pesci, le fa cadere da quel pescie, che si chiama scardova che à molto grandi scaglie e squame, O d’altro pesce che più larghe; scaglie, l’abbia; più che la scardova.

C. XXIX — v. 85-90. In questi due ternari l’autor nostro finge che Virgilio parlasse a questi due detti di sopra, addomandando se v’era alcuno italiano, scongiurandoli per quello che a loro era caro, dicendo così: O tu, che con le dita ti dismaglie; dice Virgilio all’un de’ due detti di sopra; cioè ti levi la scaglia, come si leva dal coretto maglia da maglia, Cominciò il Duca mio; cioè Virgilio, all’un di loro; cioè di quelli due, E che fai d’esse; cioè delle tue dita, tal volta; cioè alcuna volta, tanaglie; cioè quando afferrava e strappava, quando la scaglia era ancora verde che non si spiccava, Dinne15; tu a noi, s’alcun Latino è tra costoro; cioè alcuno d’Italia, Che son quinc’entro; cioè in questa bolgia, se l’unghia ti basti Eternalmente a cotesto lavoro; scongiuralo per quello che crede che sia a lui di piacere, per cattare benivolenzia: piace al lebroso di grattarsi per lo [p. 749 modifica]pizzicore, benchè poi li torni in amaro per lo cocimento che ne sente per aversi grattato; così lo falsario à piacere delle malizie sue et occultamente16, che sa trovare che non appaia la sua falsità; ma poi li torna in cocimento, quando la coscienzia lo rimorde che si vede aver fatto o detto quel che non è, o vero quello che non dee.

C. XXIX — v. 91-99. In questi tre ternari l’autor nostro finge che uno di loro rispondesse a Virgilio, e domandasse chi elli era; e però dice: Latin siam noi; ecco la risposta che fa l’un di quelli due addomandati, Latin siam noi; cioè d’Italia noi due, che tu vedi sì guasti; dalla lebbra, Qui amendu’, rispose l’un piangendo; e poi domanda Virgilio, dicendo: Ma tu chi se’, che di noi domandasti? Et aggiugne la risposta che fece Virgilio, dicendo: E il Duca; cioè Virgilio, disse; a colui: Io sono un, che discendo Con questo vivo; cioè con Dante, giù di balzo in balzo; cioè di cerchio in cerchio, e di ripa in ripa, E di mostrar l’Inferno a lui intendo; e questi è Virgilio, secondo la lettera; secondo l’allegorica esposizione è la ragione, come detto fu di sopra. Allor si ruppe lo comun rincalzo; cioè l’un si partì dall’appoggimento dell’altro, e per vedermi si volsono, E tremando; qui nota la loro debolezza e paura, ch’ànno continuamente che non si scuoprano le loro falsità, ciascuno a me si volse; cioè a me Dante, Con altri; ancora, che l’udiron di rimbalzo; cioè udiron quel che disse Virgilio, benchè non dicesse a loro.

C. XXIX — v. 100-108. In questi tre ternari l’autor nostro finge che Virgilio commettesse a lui la dimanda, dicendo: Lo buon Maestro; cioè Virgilio, a me; Dante, tutto s’accolse Dicendo: Dì a lor ciò che tu vuoli; Et io; cioè Dante, incominciai, poscia ch’ei volse; a parlare, s’intende, e dissi così: Se la vostra memoria non s’imboli; cioè non si tolga, Nel primo mondo; intende nella presente vita, dall’umane menti; cioè che durante17 molto nella memoria delli uomini; e però aggiugne: Ma s’ella; cioè la vostra memoria e la vostra fama, viva sotto molti Soli; cioè sotto molti anni, intendendo per ogni sole un anno, sì come nell’anno compie lo sole il corso suo; la qual cosa vi può dare questo mio poema nel quale io vi metterò, Ditemi chi voi siete, e di che genti; domanda ora Dante il nome e la nominazione18 loro, La vostra sconcia e fastidiosa pena; alla quale sete dannati, Di palesarvi; cioè manifestarvi, a me non vi spaventi; cioè non vi spaurisca di dirmi chi voi siete.

C. XXIX — v. 109-120. In questi quattro ternari l’autor nostro induce l’uno di quelli due, de’ quali à detto di sopra, a manifestarsi; e questo non fa sanza cagione: imperò ch’elli lo pone dannato [p. 750 modifica]per altra cagione, che la comune fama non suona. Questi fu aretino et ebbe nome maestro Grisolino19 e fu molto sottile alchimista et ingegnoso; et essendo in Siena, avea dimestichezza con uno20 chiamato Albero figliuolo del vescovo di Siena; e ragionando un di’ insieme, vedendo maestro Grisolino che questo Albero era cotale scioccaccio, feceli a credere vantandosi, ch’elli per arte sapea farsi portar per l’aere, volando là ovunque volea. Questo Albero fermatosi in su questo pensiere, andava dietro a questo, e spendea in onorarlo e donavali assai per inducerlo che gliele insegnasse; cioè di potere andare per l’aere volando; e questo maestro ogni di’, per più trarre da lui, ogni di’ confermava più in su questa credulità, come comunemente questi alchimisti sono comtori21 e parabolani. E finalmente avendo questo Albero molto consumato in andare dietro a questo maestro; e questo maestro menandolo lungamente per promesse, e mostrandoli cotali esperienzie che si possono fare per arte magica, per trarre continuamente da lui, venne questo fatto a notizia del vescovo ch’era padre di questo giovane, chiamato Albero; onde fece pigliare questo maestro Grisolino, e fecelo ardere come incantatore e malefico; e però induce costui a parlare di sè, perchè manifesti la verità del peccato suo, lo quale era d’alchimmie e non di malie, nè d’incantamenti o fatture, dicendo così: Io fui d’Arezzo; dice questo spirito indotto a parlare, et Albero da Siena; molti testi ànno Arbaro. — Rispose l’un; di questi due posti di sopra, cioè maestro Grisolino alchimista, mi fe mettere al fuoco: imperò che mi fece ardere, Ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena; quasi dica: Io non sono dannato qui per incantatore; ma per alchimista e falsatore di moneta, o vero metalli. Ver è, ch’io dissi a lui; cioè a quello Albero già detto, parlando a giuoco; dice che prima gliel disse per goderlo e per prenderne22 solazzo; ma poi che ’l vide credulo, gliel avverava per ingannarlo: Io mi saprei levar per l’aere a volo; cioè mi saprei far portare sì, ch’io andrei per l’aere come vanno li uccelli volando; E quei; cioè Albero predetto, ch’avea vaghezza, assai, cioè molta vanità, e senno poco; come appare nella sua credulità, Volle ch’io; cioè Grisolino, gli mostrasse l’arte; cioè di volar per l’aere, e solo, Perch’io nol feci Dedalo; cioè, perch’io nol feci volar per l’aere, come finge la favola di Dedalo fatta da’ poeti, che Dedalo volasse, la quale è posta di sopra nel canto xvii, mi fece Ardere a tal; cioè dal vescovo di Siena, che l’avea per figliuolo; cioè ch’avea questo Albero per suo figliuolo, e facea dire che fosse suo nipote. [p. 751 modifica]Ma nell’ultima bolgia delle diece; cioè in questa dov’io sono, e non nella iiii ove sono li maliosi, Me per l’alchimia, che nel mondo usai; cioè mentre ch’io vissi. Dannò Minos; cioè el giudice dell’infernali, del quale fu detto di sopra nel canto quinto, a cui fallar non lece; dice: A Minos non è licito di fallare; e questo dice, per mostrare che non per errore l’abbia posto quivi; ma per convenicnzia. Et è qui da notare che la Divina Giustizia, per soddisfare alla giustizia mundana, volle che costui fosse arso come meritava per la falsità, benchè di quello, perchè fu arso, fosse non colpevole. Potrebbesi dubitare, perchè l’autore non finge che li falsatori sieno puniti in fuoco, come li punisce il mondo. A che si può rispondere che l’autore vuole mostrare le pene, ch’elli finge, rispondere alle circustanzie del peccato; cioè alle spezie, compagne e figliuole del peccato del quale tratta, per mostrare la perfezione della Divina Giustizia alla quale s’appartiene; e la mondana punisce imperfettamente per la cupidità dell’avere. Ancora è qui da notare dell’alchimmia, che l’alchimmia è intorno a’ metalli operazione d’arte, ad imitazione della natura: e però alchimmia non è al tutto inlicita: imperò che sono due spezie d’alchimmia; l’una è vera, e l’altra è sofistica. La vera si può usare; la sofistica, no, secondo che dicono li Teologi. Et a mostrare questo, s’induce questa ragione, che tutti i metalli per materia e per forma sustanziale sono una medesima cosa; ma sono differenti per accidentale forma: imperò che tutti si generano d’ariento vivo e di solfo23, secondo che dice il Filosofo In Mineralibus; e tutti sono uno congiunto d’ariento e di solfaro, sicchè non sono differenti per forma sustanziale; ma per accidentale. E questo avviene, perchè la natura dal suo24 principio intende a dare perfezione a’ metalli nella sua generazione, e se avviene che dia perfezione, allora genera l’oro; e se manca da questa perfezione, è oltre all’intenzione della natura, e sono le specie de’ metalli, secondo che manca più e meno. E questa imperfezione è per difetto della materia ch’è insufficiente a ricevere la perfezione, o vero l’operazione della natura, sì come appare quando l’ariento vivo è purificato, e ’l solfo rosso è mondo, allora la natura produce l’oro; ma quando il solfo è bianco, o rosso, corrotto, e l’ariento vivo è putrefatto in vena di terra putrida, allora produce altri metalli. Adunque la malizia della natura25 viene quando si producono li altri metalli, e non l’oro; la quale malizia intende l’alchimista a sanare, reducendo quelli nelle sue prime parti; cioè ariento vivo e solfo. E quelli dispartiti intende poi a [p. 752 modifica]purgare o per calcinazione, o per distillazione; e purgati, intende poi a conficere insieme con fuoco, o con certe acque o sughi d’erbe ch’alla detta arte fanno bisogno; sicchè chiaro appare che possibile è a chi sa l’arte di fare questa mutazione della forma accidentale; ma io non credo che alcuno sia che la sappia bene: imperò che gran maestria sarebbe a seguitare le opere della natura che in nulla fallisse; onde credo che sia meglio tale arte non imparare, nè usare: imperò che ogni volta cadrebbe l’alchimista nella sofistica, che non è licita; anzi chi l’usa commette falsità e merita d’essere arso, perch’ella mostra quel che non è, come si conosce poi alle pruove del fuoco. E perchè li uomini non intendenti di questo riceverebbono gran danno, però è proibita; et ancora la medicina, che dà alcuna volta l’oro allo infermo o al malato, dando un altro metallo, potrebbe uccidere, e qui ove l’oro potrebbe guarire.

C. XXIX — v. 121-132. In questi quattro ternari pone l’autore una digressione dalla materia, trattando de’ costumi de’ Sanesi; e fa due cose: imperò che prima parla elli, poi induce a parlare l’altro lebbroso di quelli due che indusse di sopra de’ fatti de’ Sanesi, dicendo così: Et io; cioè Dante, dissi al Poeta; cioè a Virgilio: Or fu giammai Gente sì vana, come la sanese? Questo dice indotto da quello Albero sanese, di cui già è detto che volea imparare a volare. Da vanità d’animo procede essere troppo credulo e desiderare le cose impossibili, e seguiri26 i diletti mondani che sono tutti vani che non ànno stabilità, li quali molto seguono li Sanesi, sì come appare in mangiare e in bere, et appresso in porre speranza in quelle cose che non sono per avere effetto; onde l’autor nostro dice nella seconda cantica cap. 13: Tu li vedrai tra quella gente vana Che spera in Talamone, e perderalli Più di speranza, ch’a trovar Diana; Ma pia vi perderanno li ammiralli. E fatta la detta domanda a Virgilio, egli medesimo vi risponde dicendo e facendo comparazione dalli Franceschi a’ Sanesi, che i Sanesi sono assai più vani che i Franceschi, i quali sono detti leggieri per natura, come li Africani ingannevoli e mutevoli, et i Greci pigri. Or dice così: Certo non la francesca; gente, s’intende, ; cioè vana, come la sanese, d’assai; cioè di molto avanzano li Sanesi in vanità li Franceschi. Onde l’altro lebbroso, che m’intese; induce ora a parlare l’altro delli due detti di sopra, Rispose al detto mio; dice Dante, che io avea fatto a Virgilio de’ Sanesi27: Trane lo Stricca; tu, che parli della vanità dei Senesi; e [p. 753 modifica]questo è parlare ironico; cioè per lo contrario, quasi volesse dire: Cavane lo Stricca che fu più vano che tutti li altri; e però aggiugne parlando ancora per contrario: Che seppe far le temperate spese; quasi dica: Che spese il suo stemperamente: tanto fu vano. Questo Stricca fu uno giovane sanese, molto ricco lo quale fu della brigata spendereccia la quale si fe in Siena; nella qual brigata questo Stricca consumò tutto lo suo grande avere. Questa brigata fu fatta a Siena da certi giovani ricchissimi, de’ quali l’autore induce questo Capocchio, lo quale à indotto a parlare, a nominare alcuni; cioè Stricca del quale è detto, e messer Nicolò de’ Salimbeni e Caccia d’Asciano e l’Abbagliato, i quali furono caporali della detta brigata e seppono sì fare, che rimanendo costoro della detta brigata, non rimase loro alcuna cosa. Questa brigata vivette molto lussuriosamente e prodigalmente, stando in cene et in desinari, sempre cavalcando bellissimi cavalli ferrati con ferri d’ariento, vestendo bellissime robe, tenendo famigli vestiti a taglia e spenditori, facendo sempre più e più vivande e di grande spesa; e tra l’altre pompe28 faceano friggere i fiorini, e davansi per taglieri e succiavansi a modo di calcinelli, e gittavansi sotto la mensa come si gittano li gusci de’ calcinelli, e così faceano dell’altre simili cose a queste. E di queste novelle et istorie moderne io me ne scuso, ch’io non posso ben sapere lo vero; sicchè, dicendone io o più o meno, dico com’io truovo detto dalli altri; e però li lettori m’abbino per iscusato, e se meglio truovano la verità, seguitino quella. E Nicolò; cioè trane ancora messer Nicolò de’ Salimbeni che fu della detta brigata, che la costuma ricca Del gherofano prima discoperse; questo messer Nicolò fu della detta brigata, e perchè ciascuno pensava pur di trovare vivande suntuose e ghiotte, in tanto che allora si dicono essere trovati i bramangieri e le frittelle ubaldine et altre simil cose, sì che delle vivande il lor cuoco fece uno libro; e pensando di trovare qualche vivande disusata, fece mettere nelli fagiani e starne et altri uccelli arrosto li gherofani et altre speziarie sì, che tale usanza fu chiamata la costuma ricca del gherofano, et elli fu lo primo che la trovò; e però dice: prima discoperse; cioè manifestò, Nell’orto; cioè nella detta brigata, o vero in Siena, dove tal seme s’appicca; cioè s’appiglia tal seme; cioè ogni seme di golosità e ghiottornia; e parla qui similitudinariemente29 che, come nell’orto dove s’appigli lo seme si dee seminare; così in quella brigata et in Siena quel seme di ghiottornia si dovea seminare: imperò che sarebbe bene appreso, non sarebbe mica lasciato. E trane la brigata; ora per spacciarsi li conta tutti insieme, dicendo che ne cavi tutta la brigata dell’esser vani; et ancora [p. 754 modifica]fa speziale menzione di due; cioè di Caccia d’Asciano, che fu molto ricco di possessioni e tutte le consumò in tale brigata, e dell’Abbagliato, che fu reputato saputa persona, oltre ricchezza30 ancora in tal brigata perdette il nome d’essere saputo; e però dice: in cui disperse; cioè nella qual brigata spendereccia consumoe, Caccia d’Ascian la vigna; questo dice, perchè questo Caccia avea una grande e bella vigna ad Asciano in quel di Siena, e la gran fronda; cioè lo gran terreno ch’elli avea ancora per seminare, o li grandi boschi ch’elli avea, parlando retoricamente: potrebbe dire lo testo: e la gran fonda; et allora s’intenderebbe di danari, E l’Abbagliato; cioè ch’avea così nome, il suo senno profferse; cioè manifestò, entrando e stando in sì fatta brigata, consumando il suo.

C. XXIX — v. 133-139. In questi due ultimi ternari et uno verso l’autor nostro induce questo Capocchio, che à parlato in fino a qui, a manifestarsi dicendo: Ma perchè sappi; tu, Dante, chi sì ti seconda; cioè chi sì ti seguita, Contra i Sanesi; mostrandoli essere vani come tu dici, aguzza ver me l’occhio; cioè31 riguardami attentamente, Sì che la faccia mia ben ti risponda; cioè sì, che mi vegghi bene diritto, Sì vedrai; tu, Dante, ch’io son l’ombra di Capocchio: l’anime si chiamano ombre, e però che come l’ombra si vede e non si palpa; così lo corpo aereo che piglia l’anima, come si dirà nella seconda cantica, quando si parte dal corpo è visibile e non palpabile, e però si chiama ombra. Questo Capocchio fu sanese e fu di grande ingegno, e studiò con Dante in uno studio in filosofia naturale e valsevi molto intanto, che poi si diede all’alchimia, credendosi venire alla vera; ma mancando nelle operazioni, s’avvenne alla sofìstica, e però Dante finge che sia dannato quivi, e però dice: Che falsai li metalli con l’alchimia; ecco qui che accusa lo peccato suo, E te dee ricordar; cioè a te Dante, se ben t’adocchio; cioè se ben ti riconosco, cioè tu sia colui ch’io credo, Com’io fui32 di natura buona scimia; questo si può intendere com’io fui per natura in aoperare l’alchimia: altrimenti si può intendere ch’elli fosse naturalmente contrafacitore delli atti delli uomini, come è la scimmia; ma io credo più tosto il primo intendimento. E qui finisce il xxix canto: seguita lo xxx canto.

Note

  1. C. M. ella avea passato
  2. C. M. mezza la notte nell’
  3. C. M. dei Germi,
  4. Qui il Cod. R. ci dà — Germi
  5. C. M. diversi saettaron me; Dante, e dice diversi
  6. C. M. di Dante col pianto;
  7. C. M. Cenopia
  8. C. M. d’Arezzo Albizo, o vero Albaro da Siena
  9. C. M. quello che è vero, e fingere quello che non è vero,
  10. C. M. veramente micidio;
  11. Sappiendo è gerundio non raro presso gli antichi, da sapere addoppiato il p, come nel presente indicativo, imperativo e congiuntivo, frammessovi l’i. Dante stesso, Inf. C. xxxii v. 137 «Sappiendo chi voi siete». E.
  12. C. M. la loro abominazione; quarto,
  13. C. M. la loro paura; quinto,
  14. C. M. lo coltello, con che si diliscano li pesci, fa cadere da quel pescio
  15. In alcune copie nel Testo per quella difficoltà, che seco arrecano le opere stampate in diverso carattere, ci è sfuggito - Dinne per Dimmi, di che speriamo ci vorrà escusati la cortesia dei lettori. E.
  16. C. M. occultamenti,
  17. C. M. che duriate molto
  18. C. M. e la nazione loro,
  19. C. M. Griffolino,
  20. C. M. con uno Alberto, o vero Albero
  21. C. M. sono comelliatori e parabolani.
  22. C. M. e per pilliarne trastullo; ma poi
  23. C. M. di solfaro, sì come dice lo Filosofo
  24. C. M. la natura del solfaro principio
  25. C. M. la malizia della materia viene
  26. C. M. seguire li diletti — . Il — seguiri — del nostro Codice è come il fari, soffriri ed altri, viventi sempre nel dialetto siciliano. Iacopo da Lentino ebbe scritto «Non vi porea mai diri Com’era vostro amante» E.
  27. C. M. dei Senesi: — sino — della vanità dei Senesi — correzione, secondo il Magliab. E.
  28. C. M. tra l’altre scedarie faceano
  29. C. M. similitudinariamente
  30. C. M. oltre a la ricchezza
  31. C. M. cioè avvisami attento,
  32. C. M. fai buono contrafattore di natura, cioè della natura in operando l’archimia:


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