Compendio de le istorie del Regno di Napoli/Libro II

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Libro II

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LIBRO SECONDO

del Compendio de le istorie del regno di Napoli

a lo illustrissimo principe Ercule inclito Duca di Ferrara.

In questo secondo libro si tratto primieramente d’un terremoto stato nel regno, e foco uscito del monte Vesevo; dapoi segui la guerra di Alarico goto e presa di Roma; de la guerra di vandali e unni et alani e altri barbari venuti in Italia, e de’ fatti di Belisario e di Totila e de la passato de’ longobardi in Italia, e de la venuta di Carlo Magno e de’ fatti di Pipino contra longobardi e greci d’Italia e cacciato di quelli per li ungari e schiavoni; e come fussino introdotti li elettori de l’imperio.


Dappoi che Cesare Augusto ebbe la monarchia del mondo, l’anno quadragesimo secondo del suo pacifico imperio fu l’anno primo del parto de la Vergine e nativitá di Cristo, nostro capo, signore e Dio: dal quale anno cominciando (si come è detto) la nostra istoria, dico che per il resto del termine del suo imperio, finché mori poi a Nola in Campania, e anche per tutti li tempi sequenti, finché li altri Cesari successori suoi dimorarono in Italia o curarono quella, non trovo che guerra o mutazione alcuna notabile per opera umana fusse nel regno. Solo due gravi accidenti per natura si ricordano: uno sotto l’imperio di Nerone, l’altro sotto Tito figliuolo di Vespasiano. Il primo fu un terremoto si grande in Campania, che Pompei amenissima cittá tutta affatto ruinò et Erculaneo cittá prossima per la metá cadette e le regioni circostanti tutte furono in vari modi dannificate: per il quale terremoto alcuni maravigliosi accidenti successeno, tra li quali seicento pecore tutte [p. 40 modifica] di una mandria, senza esser tocche o oppresse da ruina, in un subito cadetteno morte, e molti uomini per il terremoto si alienorno di mente e cosi poi sempre insensati e mentecatti vissono.

Ma l’anno primo de lo imperio di Tito, il monte Vesevo, detto oggi di Summa, vicino a Napoli, a similitudine del monte Etna di Sicilia, buttò fuora de la cima fumo e foco e globi di miniere sulfuree e sassi ardenti, con strage grande di molti uomini e notabile danno di molti lochi circostanti. E fu allora che Gaio Plinio, scrittore de VIstoria naturale, essendo prefetto de l’armata la quale i romani tenevano al Miseno, vago di indagar sottilmente la forma, la natura e la causa di tanto incendio e vomito di fuoco, tiratosi a le radici del monte con una galea e smontato in terra, non per ruina o per fuoco o per cosa che avesse, ma per oppilazione e constrizione de l’arteria del polmone causata da quelli fumi densi e sulfurei, in un subito mori; in quel loco, per molti indizi, il quale affermano li dotti che oggi è chiamato la Torre di Ottavi: non per altro però cosi detta che per esser da Napoli otto miglia lontana. E fu tale il caso di questo incendio che Tito creò un nuovo magistrato di uomini consulari, i quali si chiamorno curatori de la restituzione di Campania, che avessino a riedificare e reconciare li lochi guasti, e dispensare li beni di coloro che oppressi da l’incendio non aveano lasciato eredi, in riparazione e ristoro de le terre dannificate. Dappoi questi due casi, il regno quieto e beato sotto il romano imperio si stava, da’ suoi pretori e altri magistrati governato. E avendo molti lochi piacevoli e da ozio in molte sue parti, a l’amenitá di quelli li uomini si davano e non essendo da esterne nazioni vessati, felici chiamar si poteano. Ma come la sede imperiale fu transferita in Constantinopoli e l’imperio romano cominciò a poco a poco diventare, non solo di sito e di lingua, ma di costumi, greco, e per consequente declinare da la sua pristina virtú e gloria, cosi con Roma l’altre provincie italiane ancora, e massimamente questa de la quale parliamo, cominciorno per espe[p. 41 modifica] rienza a sentire qual fusse lo stato de la nave, che senza nocchiero e governatore si trovava. Imperocché circa li anni di Cristo 409 Alarico visigoto e cristiano, successore di Radagaso suo zio nel regno dei goti, con esercito di circa ducento mila di loro per la via del Friuli entrò in Italia per passare in Gallia: ma offeso da la perfidia di Stilicone vandalo, capitano di Arcadio e di Onorio imperatori figliuoli di Teodosio magno, voltò l’esercito verso Roma e ne l’anno 410, imperando Onorio solo et essendo nel pontificato Innocenzo I, assediò e prese Roma per forza e misela a sacco non perdonando a persona, salvo a quelli che ne le chiese s’erano ridotti. E stato tre di solamente a Roma, passò con tutto l’esercito nel regno di Napoli e in preda a ruina pose tutta Campania e Lucania e terra di Bruzzi, ove stando a Regio in deliberazione di passare in Sicilia, e fattone qualche prova, ributtato in terra da naufragii, infine a Cosenza mori. Li suoi goti di molti et eccessivi onori li suoi funerali celebrorno, e tra le altre cose feceno a li prigioni che aveano derivare da l’usato suo corso il fiume Busento, e in mezzo del letto del fiume cavata la sepoltura, dentro il corpo di Alarico con infinito tesoro collocorno: poi feceno il fiume nel suo letto ridurre e ricoprire la sepoltura, acciò che mai non si potesse rivelare il loco di essa. Tutti li miseri prigioni che a quell’opera erano stati condotti, crudelmente ucciseno e loro a Roma se ne tornorno; e di nuovo posto in preda quello vi era rimasto, con Ataulfo parente di Alarico e da loro creato re, in Ispagna se ne andorno. Questa fu la prima calamitá che per opera umana il regno di Napoli dappoi lo imperio di Augusto Cesare sentisse. Farò un poco di digressione in questo loco, acciò che la condizione de l’imperio a quelli tempi si intenda. Successe ad Alarico Ataulfo suo parente e per donna tolse Placidia sorella di Onorio, fatta prigione ne la direpzione di Roma, donna prudentissima e di somma religione. Questo Ataulfo vedendosi avere in mano Roma e Italia, in tanta arroganza pervenne, che fu in pensier piú volte di cancellare in tutto [p. 42 modifica] il nome romano e fare in sé la monarchia de’ goti, come Cesare Augusto avea fatto de’ romani, deliberando di far chiamare l’imperio gotico, e Roma non piú Roma ma Gozia: questo riferiva Ieronimo dottor santo nostro aver inteso in Beteleem da un milite narbonese giá familiarissimo di Ataulfo, il quale diceva aver da Ataulfo proprio questo suo pensiero molte volte udito. Ma Placidia sua donna con prudenza e artificiosa facondia lo levò da questa impresa, persuadendoli che li goti come fiera nazione e insueta a la osservanza de le leggi, che era cosa massimamente necessaria a la monarchia, non si lasciariano governare; e però lo indusse a far pace con Onorio suo fratello e a volerlo aiutare ad amplificare lo imperio di Roma. E cosi fece, e lasciando Italia, con tutti li suoi goti passò in Ispagna, ove in Barzalona da li suoi proditoriamente fu morto.

Tornando a la nostra istoria, un’altra tribolazione, non troppo dappoi quella di Alarico, ebbe il regno di Napoli da’ vandali: imperocché avendo uno chiamato Massimo patrizio procurato la morte di Valcntiniano imperatore e avendo tirannicamente usurpatosi l’imperio in Roma, per stabilirlo di qualche piú autoritá, per forza si tolse per donna Eudossa, la quale secondo vari scrittori era o mogliere o figliuola o sorella del detto Valentiniano morto. Lei essendo donna di grande animo, indignata de la crudeltá e violenza di Massimo, per vendicarsene, occultamente chiamò a Roma Genserico re de’ vandali, il quale in Cartagine di Africa regnava, promettendolo fare imperatore. Genserico, allegro di tale invito, con una potentissima armata di trecentomila uomini passò a Roma ne l’anno 456, imperando in Constantinopoli Marziano et essendo allora pontefice Leone I, e quella mise in preda e ruina lasciandola deserta; e ucciso e lacerato Massimo, nel Tevere lo fece gittare. Poi passò in Campania e quella tutta scorrendo, ogni cosa di rapine e di occisione venne ad empire; espugnò Capua e rubata e bruciata da’ fondamenti la spianò. Sola Napoli per fortezza di muri e gagliardia d’uomini che dentro vi erano, da tanto furore virilmente si liberò. [p. 43 modifica] Tra pochi giorni poi movendo di li Genserico, carico di preda e di prigioni in Africa con Eudossa tornò.

E perché di sopra nominato avemo Radagaso e Alarico visigoti e Genserico vandalo, una breve annotazione mi pare dover fare in questo loco per quelli che mal scienti et esperti dicono mai esser stata in peggior termini Italia, che a questi nostri tempi: acciò che la sua miserabile condizione et estrema calamitá di quelli che fin qui avemo scritto si intenda. Radagaso visigoto con goti, unni e vandali al numero di ducento mila persone entrò in Italia l’anno di Cristo 406: e assediato nel monte di Fiesole in Toscana da Stilicone capitano di Teodosio, fu morto e li suoi tutti occisi, presi e venduti.

Alarico visigoto dappoi lui ne l’anno 410 piú di ducento mila goti in Italia condusse, come disopra avemo detto. Attila unno ne l’anno 450 con infinita moltitudine di gente, unni, ostrogoti, gepidi, rugi, eruli, quadi, turcilinghi et altre nazioni settentrionali, venne in Italia, e vinta e soggiogata e occupata tutta la Lombardia di qua da Po, a le preghiere di Leone I pontefice, di Italia si parti.

Genserico vandalo ne l’anno 456 con trecento mila persone Roma, Lazio e Campania scorse, come di sopra è ricordato. Biorgo re de li Alani, poi detti alemanni, nel 463 con infinita moltitudine di loro per la via di Trento entrò in Italia e tutta la Istria e Marca Trivisana e gran parte de la Lombardia pose in preda, e finalmente da Ricimero goto sopra il lago Benaco (oggi di Garda) fu morto e il suo esercito prodigato. Odoacre di nazione Rosso, re de li eruli, giá abitanti ove è ora la Valachia di lá dal Danubio, nel 476 passò in Italia con gente innumerabile e se ne fece re di tutta; e tornò ad una impresa in Pannonia, la qual vinse, e ritornò grossissimo in Italia: talché due volte in quattordici anni che la possedette con potenti eserciti la scorse. Teodorico ostrogoto ne l’anno 481 con innumerabile moltitudine di goti, e con mogliere e con figliuoli, venuto contra Odoacre, passò al regno e possessione d’Italia. [p. 44 modifica] Gondebaldo re de’ burgundioni con gran moltitudine de li suoi passò l’Alpe ne l’anno 489 e posto a sacco e preda tutta la Liguria e Lombardia, con grandissimo numero di prigioni e infinita preda in Borgogna si tornò.

Tutti questi otto re di barbare e crudelissime nazioni con nove grandissimi eserciti in spazio di ottant’anni (come si vede) entrorno in Italia, e chi tutta e chi una buona parte di essa di fuoco, di ferro, di rapine squarciarono: e quattro di essi, cioè Alarico, Genserico, Odoacre e Teodorico possedetteno Roma madre de l’imperio. Succedetteno a questi poi non giá miglior tempi, per le guerre di diciotto anni sotto Totila re de’ goti e Teia suo successore, e quelli de’ longobardi poi non men lacrimabili che li predetti: de’ quali tutti, per non esser nostra materia, lasciaremo di raccontare li particolari accidenti e a la nostra narrazione del regno di Napoli tornaremo. Partito Genserico, rimase Italia sotto l’imperio de’greci, come era, e cosi ancora il regno di Napoli. Ma circa quindici anni dappoi, Odoacre re de li eruli entrò in Italia, come è detto, e fattosene re tutta la possedette, finché Teodorico re de li ostrogoti da Zenone imperatore del regno di Italia fu investito; e in quella venuto e vinto in due battaglie Odoacre e a l’ultimo morto ne l’anno 493, il regno di Napoli pacifico, si come tutta l’altra Italia, gloriosamente molti anni possedette. Successe a Teodorico Amalasunta sua figliuola vedova, nobilissima donna, la quale al regno d’Italia insieme con lei Atalarico ancor fanciullo premesse, figliuolo di Eucario nobile ostrogoto giá suo marito, e similmente il regno napolitano circa otto anni tennero, fin che Atalarico ne la sua adolescenza mori. Teodato ad Atalarico successe per elezione di Amalasunta, la quale, per esser lui suo consobrino e de la casata Amala, nobilissima tra li ostrogoti, al regno il sublimò, sperando dovesse egregiamente governarlo, per essere dotto in lingua greca e latina, in tanto che scrisse la istoria de’ suoi tempi, e per essere filosofo platonico e aver fatta qualche dimostra[p. 45 modifica] zione in sua giovinezza di perizia militare. Ma peggiore effetto ebbe la sua elezione, che non fu estimato; perocché, come ingratissimo, prima confinò Amalasunta nell’isola del lago di Bolsena e consenti che da alcuni suoi inimici fusse morta; e poi datosi a la avarizia e a la ignavia a tanto pervenne, che essendo odiosissimo si a li suoi come a li altri italiani, Iustiniano imperatore, primo di questo nome, deliberò cacciarlo e di mano de li ostrogoti liberar Italia e con lo imperio unirla. A la quale impresa fece capitano Belisario, uomo di singulare et eccellente virtú si militare come civile, e di animo e di corpo valorosissimo fra tutti li greci, di chi memoria alcuna da scrittori antichi e moderni si faccia. Tenendo dunque Teodato re de li ostrogoti il regno di Napoli, in essa ottocento goti in presidio avea posto, e in terra di Bruzzi, cioè Calabria, avea fatto presidente Embrimo, ovvero Evermido suo genero. Stando in questi termini il regno predetto di Napoli, Belisario ne l’anno 536 con una grossa armata facendo fama di voler passare in Africa, prese l’isola tutta di Sicilia; poi partendo da Messina e arrivando a Regio in Calabria, quello ebbe per accordo insieme con tutti li lochi circostanti, i quali a la prima sua giunta si renderno. Il che vedendo Evermido ancor lui ne l’arbitrio di Belisario si commise con tutte le provincie e fu da lui benignamente raccolto: poi in Constantinopoli a Iustiniano mandato, il quale onoratamente con molti doni lo ricevette. La Lucania parimente e tutto il resto del paese insino a Napoli a Belisario si détte.

Giunto a Napoli Belisario per via di terra, e nel medesimo tempo l’armata di mare nel conspetto della cittá, veduto che li goti insieme con li giudei e alcuni altri sediziosi erano in proposito di resistere, deliberò di espugnarla: onde subito presi li borghi e ottenuto l’acquedotto che serviva a la terra e derivata l’acqua di esso per uso de l’esercito, tutte le cose pertinenti a l’assedio et espugnazione de la terra preparava. E stando in consultazione del modo, per esser la terra ben murata e difesa, un suo uomo d’arme di nazione isaurico, essendo per avventura entrato ne la parte de l’acquedotto che [p. 46 modifica] era senz’acqua, tanto innanzi passò che giunse a le mura de la terra; e veduto che un sasso il quale era nativo li, e sopra il quale erano fondate le mura, ne lo edificare l’acquedotto era stato artificiosamente forato per dare il transito a l’acqua, imaginò che se quel pertuso fusse alquanto dilatato, facilmente si potriano per esso intromettere uomini ne la terra. Onde, riferito secretamente il tutto a Belisario e posto ordine a quello si aveva a fare, fu dilatato il pertuso del sasso senza alcuno strepito, e fatta dimostrazione di voler dare la battaglia a l’altra parte de le mura opposita a l’acquedotto, poi mostrato di differirla al di seguente, come fu notte, quattrocento uomini armati e di buon animo per il pertuso entrorno; e quelli che per far dimostrazione di battaglia a l’altra banda aveano le scale portato, subito per la oscuritá de la notte tacitamente le scale appresso il muro de l’acquedotto riportorno, attendendo il segno di quelli che ne la terra per lo acquedotto entrar doveano. Era di lá dal pertuso ne la cittá un monticello alquanto elevato, diffícile ad esser montato da uomini armati, e bisognava ascenderlo a chi volea entrare ne la terra ovvero voltarsi per montare sopra le mura. Il perché stando in pensiero di quello si aveva a fare, uno de li uomini d’arme passati si disarmò e al meglio che possette attaccandosi sali la sommitá del monticello. Et entrato in una casetta di una vecchiarella, impostoli silenzio con minacciarla di morte, ebbe da lei tanto pezzo di corda, che calatola al basso a li compagni e in cima legatola bene ad uno olivastro, tutti con quella aiutandosi in cima salirno e di li poi sopra le mura: ove fatto il segno secondo l’ordine dato e accostate le scale, buona parte de li uomini d’arme sopra le mura montorono. Quelli che per lo acquedotto erano entrati, andando a la porta piú prossima e morti li guardiani di essa, per forza l’aperseno: per la quale tre ore ’nanzi il giorno Belisario con tutto il resto de lo esercito entrò. Cosi fu presa Napoli e prima occupata che li goti o cittadini che da l’altra banda erano intenti per la battaglia futura, sapessino piú in qual loco l’impeto dei greci fusse fatto. Li quali avendo cominciato [p. 47 modifica] a saccheggiare la terra e pigliare le femine con intenzione di abbruciare e ammazzare quanti trovavano, Belisario su ’1 levare del sole tutti insieme li fece convocare e con l’autoritá e con accomodate parole mitigò il loro furore, promettendoli solamente in preda la robba con salvamento de le persone, e maschi e femine, de la terra e ancora de’ goti: li quali non altramente che se propri suoi soldati fussino, onorò. Poi verso Roma prese il cammino, e quello facesse poi fuora del regno di Napoli da molti scrittori e massimamente da Procopio ne le sue Istorie diffusamente si narra.

Nel regno di Napoli accadette poi che partito di Italia gloriosamente Belisario vincitore con Vitige re de’ goti suo prigione, li goti creorno loro re Totila, uomo di singular virtú: il quale avendo fatto per Lombardia e Romagna molte egregie cose contra li capitani di lustiniano e li suoi greci, passò in Toscana, e di li per l’Umbria, cioè per il ducato di Spoleto, e per la Sabina e per li Marsi, pervenne in Campania ne l’anno 543. E per forza prese Benevento e buttògli le mura per terra, poi assediò Napoli e preselo, e durante quell’assedio racquistò Cuma; poi non avendo resistenza, mandò parte de l’esercito ne le altre regioni del regno e cosi esso la Lucania, la Calabria e la Puglia con tutte le sue terre, eccetto Otranto, in potere de li goti ridusse.

Per la qual cosa portandosi male tutti li altri capitani di lustiniano imperatore, che molti ne erano in Italia, li fu forza revocare da la impresa contra Parti Belisario e di nuovo rimandarlo in Italia: ove con l’armata e quattro mila uomini venendo, inteso che Otranto assediato stava a patti, li mandò Valentino suo capitano con parte de l’armata, il quale per allora lo liberò da lo assedio. Poi ridotto Belisario a Ravenna e di li a Durazzo per levare il supplimento de lo esercito mandato da lustiniano per il soccorso di Roma, che giá da Totila era assediata, partito da Durazzo e inteso li goti esser tornati a l’assedio di Otranto, di nuovo con tutta l’armata lo soccorse, cacciandone li goti, i quali a Brundusio si ridusseno; poi al suo viaggio verso Roma n’andò. [p. 48 modifica] Partito da Durazzo Belisario, Giovanni figliuolo di Vitaliano fratello di Iustiniano e uno de’ suoi capitani, ancor lui partito da Durazzo e passato il golfo, a l’improvviso assaltò li goti e ruppeli e in un subito prese Brundusio; poi similmente per forza ebbe Canusio e di li passando in Calabria, rotta e morta gran parte de l’esercito di Richimondo goto, che a la guardia di quelle provincie era stato mandato da Totila, e preso lui, la terra di Bruzzi e la Lucania per dedizione recuperò e in Puglia ad alloggiarsi si ridusse.

Avea in questo mezzo Totila preso Roma e mandato ambasciatori a trattar pace e amicizia con Iustiniano; e intendendo le cose fatte da Giovanni, mandò di nuovo in Lucania e in Bruzzi sue genti ad instaurar la guerra in quelli paesi. Dappoi, essendo ritornati di Constantinopoli li suoi amba•sciatori e non con buona risposta, buttata a terra la maggior parte de le mura di Roma e bruciatola quasi tutta, uomini e donne tutte ne mandò fuora e li disperse per le terre di Campania; cosi lasciando Roma deserta e desolata, con parte de l’esercito andò in persona in Calabria contra Giovanni, il quale intesa la venuta di Totila, lasciando ogni altra cosa, in Otranto si ridusse. Il perché Totila Lucania e Bruzzi e Calabria tutta, eccetto Otranto, in un momento recuperò; e in questo tempo Taranto giá potente cittá, che per queste guerre era stato ruinato e deserto fu riedificato e ridotto in picciola cittá da calabresi e lucani, che de le loro proprie cittá erano stati cacciati.

In questo mezzo avea Belisario riedificato e fortificato le mura di Roma: il perché lasciando Totila Calabria, tornò a Roma per espugnarla un’altra volta, e non potendo per la virtú di Belisario che la difendeva, mandò buona parte de l’esercito al presidio di Campania e lui a la espugnazione di Perosa ne andò.

Il che intendendo Giovanni, desideroso di gloria venne in Campania per liberare li romani che per quella provincia erano stati sparsi da Totila ne la desolazione di Roma: onde scontratosi a Minturna sopra il Garigliano con li goti mandati [p. 49 modifica] da Totila, li ruppe e cacciò, e poi tutti li senatori romani e gran numero di nobil donne levò di Campania rimandandoli a Roma.

Inteso questo Totila, deliberando al tutto vendicarsi di Giovanni, lasciata parte de l’esercito a l’assedio di Perosa, cavalcando con maravigliosa celeritá, per il Piceno e Peligni e Sanniti, cioè per la Marca e per Abruzzo, pervenne in Puglia e di li in Calabria, né mai cessò che trovato Giovanni lo ruppe e prese il campo suo e miselo in preda, con poca occisione di uomini però, per averlo assaltato di notte: per la qual cosa Giovanni e Arnolfo duca de li eruli, che con Giovanni militava, a Otranto si ridusseno, ove li loro soldati ancora per varie vie latitando per li monti insieme si miseno.

Non molto dipoi Valeria no capitano de li armeni e Vero capitano de li eruli, mandati con nuova gente per supplimento da Iustiniano in Italia, a Otranto arrivorno, ove andando Belisario per accettarli secondo le lettere di Iustiniano, che cosi li imponeva, non potendo per li venti contrari toccare Otranto, a Cotrone si fermò; ma per non esservi di che pascere li cavalli, ritenendosi ducento fanti che avea, mandò seicento cavalli ne la valle di Rosciano, con intenzione di aspettar li Giovanni, che con l’altro esercito venisse a unirsi con lui. Totila movendo con tre mila cavalli assaltò questi seicento e preseli e occise; e de’ dui loro capi, Fassa dopo molte mrrabil prove combattendo fu morto, Barbazione con dui compagni solamente fuggi. Assediò poi Totila Rosciano, nel quale erano trecento cavalli mandati da Giovanni e cento fanti da Belisario; non potendo essere soccorsi per fortuna di mare e altri casi adversi, a Totila si rendetteno, né altro di loro vi peri che Colligerio loro prefetto, che avea denegato raccordo. Solo costui lo fece Totila frustare, e tagliarli il naso, e poi occidere; li altri parte senz’arme se n’andorno, e la maggior parte per non perdere il suo, a stipendio con Totila rimase. E Rosciano, salve le persone, in preda a li goti fu concesso. In questo mezzo Perosa non essendo soccorsa a’ goti si diede e Belisario a Constantinopoli fu revocato; e Totila lasciata la Calabria, a [p. 50 modifica] lo assedio di Roma la terza volta ne venne, la quale dappoi lungo assedio per tradimento prese e umanamente trattò. Deliberando poi Totila recuperare Sicilia, per via di terra pervenne a Regio in terra di Bruzzi, il quale era in guardia di Teramondo e Ainereo capitani lasciati in quel loco da Belisario; e avendo Totila tentato di espugnarlo e non potendo, lasciò parte de li suoi goti a l’assedio, e lui a Taranto se n’andò e per forza lo prese: e in quel mezzo per mancamento di vittuaglie li predetti capitani ancor Regio a’ goti rendetteno. Cosi Totila passato in Sicilia, tutto il regno di Napoli ebbe in suo dominio, eccetto Otranto, che sempre ne la fede de l’imperio perseverò, et eccetto Cotrone, il quale nondimeno assediato da’ goti si stava.

In questo mezzo Narse eunuco cubiculario, creato capitano da Iustiniano a l’impresa di Italia, venia con potentissimo esercito terrestre e navale. Totila lasciata la Sicilia in governo di quattro suoi capitani, tornò in Italia per provvedere a li bisogni d’essa contra l’impeto di Narse; Artavade, capitano di una parte de l’armata di Iustiniano, recuperò Sicilia e in Italia soccorse Cotrone, e fu cagione che dui capitani goti, Raginaro, che era prefetto a Taranto, e Morra, che era ad Acherunzia, renderno quelle due terre a l’imperio e loro con 11 suoi a stipendio de l’imperio rimaseno.

Ma avvenne dappoi questo, che essendo (appresso molte gran cose fatte ne l’altre parti d’Italia) stato morto Totila a Bressello in Lombardia, e fatto re de’ goti Teia, e collegatisi con lui contra Narse li franchi e burgundioni, il capitano goto che era in Taranto, chiamato Raginaro, pentito d’essersi dato a’ greci deliberò rebellarsi, ma riavere prima con industria li suoi ostaggi, che a Otranto erano stati mandati. Onde simulando che li goti venissino a Taranto, scrisse a Macario, prefetto di Otranto, che li mandasse qualche sussidio di uomini. Macario a buona fede cinquanta uomini li mandò, li quali Raginaro subito mise in prigione, e scrisse a Macario che se voleva che lui li liberasse, li rendesse li suoi ostaggi. Macario indignato di tanta perfidia, lasciando alcuni pochi a [p. 51 modifica] la guardia di Otranto, subito col resto de la sua compagnia, a Taranto se ne andò. Raginaro prima fece ammazzare quelli cinquanta avea in prigione, poi usci fuora e fatto un pezzo fatto d’arme con Macario, rotto e vinto se ne fuggi, e trovato serrate le porte di Taranto, ad Acherunzia si ridusse. Un altro caso in quel medesimo tempo avvenne, che essendo in Campania molti nobili romani e patrizi e altri de l’ordine senatorio, i quali Totila per rispetto de la lor grandezza non avea lasciato ritornare a Roma, e parte per la medesima ragione ne avea relegati, li goti che erano in Campania, intesa la morte di Totila e la successione di Teia e la recuperazione di Roma fatta da Narse, tutti quelli gentiluomini romani senza riservo amazzorono; e il medesimo di trecento nobili giovini romani fu fatto in Lombardia, li quali per ostaggi sotto specie di milizia Totila aveva con sé menati. Narse fatto capitano e venuto in Italia, morto Totila da li suoi eserciti e fatte gran cose, e recuperata Roma e in quella stando (si come diffusamente nelle Istorie gotiche si narra, per non dire se non quelle che al regno di Napoli appartengono), mandò suoi capitani in Campania e tutte le terre eccetto Cuma recuperò; e intendendo da una nobil donna gotica, giá amica di Totila, et era allora tra’ prigioni, che nella rocca di Cuma avea Totila posto una parte del suo tesoro, si come un’altra parte a Pavia, e per guardia li avea lasciato un suo fratello, fece ponere il campo a Cuma e strettissimamente assediarla. Teia, re dei goti, uomo bellicosissimo, essendo nel Piceno e intendendo Cuma assediata e il tesoro in pericolo, deliberò soccorrerla; e vedendo non poter passare l’Apennino per lo passo di Esernia né per quello di Venafri e di Cassino, perché erano guardati da le genti di Narse, fece la via per li Marsi e Peligni e passò in Puglia e accampossi in Luceria.

Narse, benché, inteso questo, subito movesse da Roma e per Campania ne andasse, non possette cosi presto giungere, che Teia avea giá preso Luceria: onde passato il monte con intenzione di far fatto d’arme, calava verso Luceria. Né con [p. 52 modifica] altra intenzione verso Narse ne veniva Teia, avendo anche lui deliberato di passare il monte per soccorrere Cuma: onde dubitando di non esser assediato e rinchiuso in Luceria, uscendo fuora si pose sopra il fiume li vicino chiamato Fortore e fortificò per sé un solo ponte che vi era. Narse, giá calato dal monte, in un subito fu da l’altra ripa del fiume accampato. Aveva Teia per il ponte questo avvantaggio, che in sua facoltá era a sua posta o assaltare il campo di Narse o estendere l’esercito per fare fatto d’arme; ma avea questo disvantaggio, che le vittuaglie le avea da Siponto per via de l’armata di mare, che quasi trenta miglia poi per terra venivano, e l’armata spesse volte per li mali temporali bisognava si scostasse, onde qualche sinistro di vittuaglia ebbe a le volte l’esercito di Teia. Ma un caso sopra tutto li tolse Tarmata. Imperocché essendo un di per fortuna sforzata di entrare nel porto di Brundusio e avendo salvocondotto da’ brundusini, in quello secura si stava; li brundusini, i quali insino a quel di erano stati ambigui e poco fedeli a l’imperio, e manco a li goti, per guadagnarsi con un notabile atto la grazia de l’imperatore, tutti li patroni de Tarmata contra la fede datali miseno in prigione: per il che mai piú de Tarmata i goti si possetteno valere. Mosso da queste difficoltá, Teia ridottosi al monte di Luceria e provocato a necessitá di combattere per le vittuaglie e impedimento del saccomanno che li davano li cavalli di Narse, due mesi poi che erano stati in quel modo ambo li eserciti, una mattina a l’improvviso su ’l levar del sole, calò del monte e assaltò l’esercito di Narse. Fecesi il fatto d’arme crudele e sanguinoso tutto il di sino a la notte senza determinata vittoria: benché cominciassino ad allentare li goti per la morte di Teia, il quale facendo maravigliose prove de la sua persona in mezzo de li inimici, e volendo mutare lo scudo, che per le molte saette e altri passatori che in esso erano, troppo pesava, nel scoprirsi fu passato a traverso da una lancia. Stetteno una notte in arme ambidui li eserciti e al primo spuntar del sole il di sequente ricominciorno il fatto d’arme, il quale quel di fu ancora piú crudele [p. 53 modifica] del primo. Tuttavia prima che la notte venisse, li goti dimandorno pace e con queste condizioni li fu data da Narse: prima, che li ostrogoti e quelli che avevano loro case e abitazioni di qua e di lá da Po, non prima tornassino a casa che le terre e lochi loro fussino consegnati a li prefetti e magistrati di Iustiniano; e in questo mezzo tutti quelli che erano in Campania e nel regno di Napoli e altrove deponessino le arme con promissione di mai piú ripigliarle, se non quando da li magistrati di Roma li fusse comandato. Questo fu fatto perché questi ostrogoti erano tutti nati in Italia nel tempo decorso da la entrata di Teodorico in essa insino a quell’ora. Dappoi questa vittoria subito e in quel tempo medesimo Dagisteo capitano di Narse in Lombardia tutte le terre d’Italia da l’Alpe in qua tenute da goti, per forza e per accordo avea recuperato e li franci e burgundioni ributtati ne li lor paesi, e cosi vinta tutta l’Italia a l’imperio di Iustiniano. In questo modo fu estinto il nome de li ostrogoti in Italia, i quali settantadue anni l’aveano posseduta, cioè da l’entrata di Teodorico lor re insino a la vittoria predetta di Narse: de li quali settantadue anni i diciotto ultimi furono quelli che si chiamano de la guerra de’ goti, che cominciorno dal di che Iustiniano contra Teodato loro re mandò in Italia con lo esercito Belisario. Avendo noi fatto menzione de la guerra gotica, né particolare alcuno avendone detto, se non quanto al nostro proposito appartiene de le cose accadute nel regno di Napoli, non sará forse ingrato se in un breve summario raccoglierò la calamitá, ne la quale la misera Italia in questo spazio di diciotto anni de la guerra de’ goti si trovò, appresso le altre per adrieto da’ barbari ricevute.

Mandò in questo tempo in Italia Iustiniano quaranta capitani, dodici armate di mare, tra le principali e quelle che per supplimento li furono in piú volte mandate: Roma perduta e da Belisario due volte racquistata e due volte perduta, da Vitige re de’ goti con centocinquanta mila uomini un anno intero assediata con tanta fame e carestia, che nonché ogni [p. 54 modifica] sordido cibo e animale da li assediati fusse usato, ma alcune madri le carni de’ propri figliuoli giá morti per rabbiosa fame mangiavano. Da Totila poi tre grandissimi e lunghi assedi sostenne: li cittadini maschi e femine di ogni etá con ogni sevizia trattati, le mura buttate a terra, li palazzi, le terme, li teatri e altri maravigliosi edifíci ruinati o per la maggior parte distrutti: il senato e li patrizi, parte da Vitige e parte da Totila o morti o lacerati et espulsi. Li nobili o ne l’entrar de la terra occisi. o essendo menati per ostaggi da’ goti, subito che qualche rotta avevano, erano crudelmente ammazzati; e Roma, che cosa incredibile pare, rimase desolata e deserta, senza alcuno maschio o femina che vi abitasse, un anno intero e alcuni mesi ancora. Simile esterminio in detto tempo molte altre cittá d’Italia afflisse: Milano da’ burgundioni assediato, dappoi molte calamitá e trentamila cittadini uccisi, ruinato da’ fondamenti; Pavia, Piacenza, Bressello (allora nobile cittá), Ravenna, Arimino, Perosa, Napoli tre volte o quattro o prese o duramente assediate. La Gallia Cisalpina (ora Lombardia) tutta devastata, Venezia (ora Marca Trevisana) afflitta, Toscana, Abruzzo, Puglia, Terra d’Otranto, Calabria e Campania proculcate e distrutte, vincendo ora goti e ora romani, mentre l’un l’altro de le terre occupate si cacciavano; e oltra le calamitá de le guerre, tre singulari carestie con tre pestilenze in questo tempo Italia faticorono: lacrimabil cosa certamente a qualunque italiano che, bene instituto e di buona mente dotato, la regina de le provincie a tanto esterminio per occulto divino giudizio esser giá venuta considera.

Avendo di sopra fatto menzione di Belisario e di Narse, giusta cosa mi pare che in memoria di due uomini di tanta virtú non sia da tacere quello che per diversi scritti a nostra notizia è pervenuto de la loro eccellenza, per non essere ingrati a quelli che la posteritá di gloriosi esempli hanno illustrata. Oltra che a me che queste cose scrivo, forse piú che ad alcun altro a questi tempi, convenga per speciale obbligazione le laudi di Belisario commemorare, avendo lui ne la [p. 55 modifica] seconda sua italica spedizione riedificato contra l' impeto di Totila la cittá di Pesaro mia patria per prima distrutta, e munitola di doppie fosse e di fortissimi terraghi, i quali ancora si vedono; in modo che avendo Totila tutte le terre circostanti occupate, solo Pesaro, vedendolo si ben munito, non lo volse tentare.

Belisario adunque constantinopolitano, creato patrizio da lustiniano primo, fu di persona e di aspetto formoso, virile e magnanimo et egualmente d’ingegno e di forze dotato, fedelissimo al suo signore, e di somma religione cristiano, scientissimo de l’arte bellica e osservantissimo de la disciplina militare sopra tutti li capitani di quelli tempi; umano e facile in conversazione e parlare verso di ogni sorte di persone e maravigliosamente liberale; in tanto amico de la modestia de’ suoi militi e de li uomini rurali per poter sempre avere abbondante il suo esercito, che dove conducea li suoi soldati, non che maggior danno facessino, ma né anche li frutti che da li arbori pendevano ardivano cogliere. Fu mandato da l’imperatore contra li Persi e li Parti, i quali usciti de li loro confini erano entrati ne le provincie romane con numerosissimi eserciti, e dopo molte battaglie fatte con loro sempre vittorioso, li debellò in tutto e costrinseli a ritornare ne le loro provincie e star sotto il giogo de l’imperio romano: dopo la qual vittoria tornò in Constantinopoli e di volontá di. lustiniano fu di carro trionfale onorato. Mandato poi per la sua seconda spedizione in Africa contra li vandali, i quali giá molti anni l’avevano occupata, avendo piú volte rotto li loro eserciti, domò l’Africa e recuperò Cartagine l’anno nonagesimo sesto dopo la sua rebellione a l’imperio, e Guilimero re dei vandali fatto prigione, tornando a Constantinopoli, nel trionfo condusse. Fatto poi console, prima venisse in Italia tutta la Sicilia subiugò; fece magnifici giochi e spettacoli in Siracusa, e la seconda volta di Sicilia passò in Africa per componere alcune sedizioni e tumulti mossi da alcuni ribelli de le reliquie de’ vandali contra li magistrati romani, avendo fatto lor capo uno chiamato Stotza: il qual fugato in tutto, e [p. 56 modifica] sedata e composta tutta la provincia, tornò in Sicilia e di li passò in Italia contra Vitige re de’ goti, ove fece grandissime cose. E quello che facesse nel difender Roma, in recuperarla e in riedificarla e liberare Italia, chi vuole particolarmente saperlo, oltra tutti li altri scrittori legga Procopio: il quale per patria fu da Cesarea di Palestina in Giudea e fu medico ne l’esercito di Belisario ne la sua prima espedizione italica, e scrisse l’istoria di tutti li gesti fatti in qualunque parte del mondo sotto l’imperio di Iustiniano. Niuna cosa insomma fu da Belisario pretermessa in Italia che in ottimo capitano e valoroso cavaliero desiderar si potesse. Finalmente vinse e prese Vitige re de’ goti, e menollo in Constantinopoli; poi rimandato un’altra volta in Italia, dappoi molte gran cose fatte a fermezza de l’imperio contra Totila successor di Vitige, fu revocato in Grecia per istanza di Antonia sua donna appresso Iustiniano. Né stette però la sua virtú oziosa, imperocché essendo un’altra volta rebellata l’Africa e suscitata la potenza de’ vandali sotto Guntharith, che ’l nome di re si avea usurpato, Belisario la terza volta mandato in Africa, vinto e morto in battaglia Guntharith, debellò et estinse in tutto il nome e la nazione de’ vandali. Partito vittorioso di Africa, come religiosissimo e grato a Dio di tutti li suoi prosperi successi, ne venne a Roma e per le mani di Vigilio allora pontefice presentò a l’altare di san Pietro una croce d’oro di peso di cento libre, tutta di preziosissime gemme adornata, ne la quale tutte le sue battaglie e gesti e vittorie erano con mirabile artificio scolpite. Due ospitali edificò in Roma, uno in via Lata e l’altro in via Flaminia, e ad Orta, cittá di Etruria, uno monasterio sotto il titolo di Santo Iuvenale, lasciando a tutti questi lochi amplissimi fondi e possessioni, de le quali si potessino li poveri e li monaci nutrire. E finalmente tornato in Constantinopoli pieno di gloria e di trionfi, lasciò la terra: uomo veramente da poter essere comparato a Marco Marcello, a Gaio Mario e a Pompeo e a qualunque altro buon romano, avendo senza alcun dubbio trapassato Lisandro spartano, Agesilao e Temistocle e qualunque altro piú famoso greco ne le loro istorie si legga. [p. 57 modifica] Narse fu per nazione persiano, per fortuna eunuco, per professione prima cartulario, cioè scrivano inferiore a’ notari in diversi offici, poi cubiculario di Iustiniano primo, e a la dignitá di patrizio da lui sublimato. Il quale, se bene a la gloria di Belisario non giunse, nondimeno fu uomo ancor lui di singular virtú, si militare come civile e morale: fu di grandissima potenza e autoritá appresso il suo principe, e solo governava la sua corte, solo le entrate e pecunie de l’imperio riceveva e dispensava. Tutti li secreti consigli di Iustiniano sempre seppe, e di molte sue imprese non solo fu consiglierò, ma autore: la qual grazia e potenza estimava ciascuno che meritamente avesse, per esser uomo naturalmente disposto a tutte le opere e azioni virtuose e di somma integritá e fede. Debellò li ostrogoti in Italia e due loro potenti e valorosi re, Totila e Teia, e Bucellino, capitano di Teodeberto re de’ Franchi, sotto il suo governo furono in battaglia occisi, e per lui Italia e Roma a lo imperio recuperate. E benché in tutte le arti et opere militari fusse peritissimo e gran duca, nondimeno fu di religione e di pietá singulare, ottimo cristiano, largo e munifico donatore a li poveri e calamitosi, studiosissimo a le riparazioni de le chiese, in tanto dato a l’orazioni e sacrifici, che piú vittorie si estima ottenesse impetrate per preghiere da Dio, che per forza d’arme acquistate. Di liberalitá e di clemenza e di affabilitá e grazia a conciliarsi li popoli e li sudditi e li militi suoi fu si eccellente, che scrivono li autori lui in queste virtú aver superato tutti quelli a chi mai capitaneati e imperi furono commessi; in modo che tutti li principi e baroni e re de le nazioni esterne e barbare ebbeno con lui familiare amicizia e di loro come volse sempre a suo piacere dispose. Edificò in Venezia, allora nuova cittá, il tempio di San Teodoro, ove è ora quello di San Marco, e una chiesa a’ santi Geminiano e Menna; e a Ravenna il tempio di Sant’Apollinare in Classe, opera che ancor si vede magnificentissima. A Roma ancora molti edifici construsse, e tra li altri il ponte sopra il fiume Aniene in via Salaria, come testifica l’epigramma vetusto, che ancor si vede in quel ponte [p. 58 modifica] murato: il quale noi seguitando, non Narsete, come alcuni nuovi scrittori, ma Narse lo avemo nominato. E insomma di perfettissima laude saria degno tanto uomo, se in ultimo vinto da ira e da sdegno non avesse in servitú de’ longobardi posto Italia, la quale da’ goti avea liberata; imperocché stando a Napoli giá pacifico e presidente del tutto, morto Iustiniano e imperando Iustino II, Sofia imperatrice, femina petulante e superba, stimolata da la invidia de’ cortigiani portata a Narse e da la sua naturale malignitá, operò che fusse revocato di Italia, soggiungendoli queste contumeliose parole: che ad esercizio piú conveniente a la sua condizione lo voleva mettere, cioè a dispensar la lana e far tele tra le altre femine de la corte.

Narse essendo uomo di animo generoso, tanta indignazione prese di queste parole, che in risposta li disse: — Io ordirò tal tela, che né lei né il suo vii marito, che per lei si governa, mai potranno strigarla. — Cosi occultamente chiamò di Pannonia Alboino re de’ longobardi suo amico a la possessione d’Italia, e benché poi, vinto da la ragione e da le preghiere di Giovanni III pontefice, il quale in persona andò a Napoli a dissuaderli tale incepta, facesse ogni opera per far remanere Alboino da la impresa, nondimeno, per mal fato d’Italia, noi possette, per avere giá fatto Alboino ogni apparato per la sua venuta e per esser giá con turba infinita e innumerabile in procinto del venire. Onde venuto a Roma Narse con Giovanni pontefice per provvedere di qualche rimedio a tanto scandalo, senza aver potuto produrre alcun effetto, fu da la morte prevenuto, e il suo corpo con onorevoli esequie in Constantinopoli riportato. Questo fu il fine di Narse, dappo’ il quale niuno greco fu piú che a Belisario e a lui equiparare si potesse: in tanto continuamente sempre da la prisca virtú quella gente declinando, che a’di nostri avemo veduto l’imperio de’ greci totalmente estinto e tutta la lor nazione a misera servitú condotta. Finita la guerra de’ goti e spento il lor nome in Italia, Alboino re de’ longobardi invitato da Narse, come è giá detto, [p. 59 modifica] parti di Pannonia, ove aveano giá quarantanni li longobardi abitato, e con incredibile moltitudine, con tutte lor famiglie entrò in Italia ne l’anno di Cristo incarnato 568 e tutta la Lombardia occupò; et essendo morto, e regnato dappo’ lui Cleph secondo re in Italia, deliberando i longobardi non voler piú governo regale, creorno trenta capitani de’ loro, che chiamorono duchi, a li quali tutto il governo de la nazione longobarda poseno in mano; il quale governo però non piú che dodici anni durò. Questi duchi con un mirabil corso di vittoria in un anno facendo la via di Arimino e di Urbino preseno l’Umbria e quella parte del Piceno che tocca l’Apennino, preponendoli un duca, che a Spoleto facea residenza. E occuporno la regione de’ Marsi e de’ Peligni e de’ Sanniti e tutta Campania, eccetto Napoli e Pozzuolo; e tutto quello che da queste regioni a la marina e infra terra si contiene, sino a Tibure e Roma (la qual non preseno). Ferono ancora Benevento ducato lasciandoli un duca che quelle regioni governasse che sotto il ducato di Benevento si contenevano, le quali erano tutta Campania vecchia, eccetto Napoli e Pozzuolo, e la maggior parte de’ Sanniti da Benevento et Esernia e dal Guasto sino al fiume de la Pescara, e di li tutto quello che sotto il nome di Peligni e Marruccini e Marsi si contiene. Tutto il resto del regno di Napoli sotto l’imperio di Constantinopoli e de’ greci si governava. Tennero adunque li duchi longobardi di Benevento tutta la detta parte del regno di Napoli senza alcuna molestia, perché subito con romani ferono tregua e confermandola molte volte ancora ferono pace; benché uno di quelli duchi chiamato Zottone rompesse la tregua, perché da’ fondamenti ruinò il monasterio di Monte Cassino, il quale poi da Arrighis suo successore ad esortazione di santo Gregorio pontefice fu riedificato. E benché dappoi li dodici anni del governo de li trenta duchi, il primo re longobardo chiamato Autharis, avendo scorso e occupato tutto il regno di Napoli sino al Faro di Messina, facesse piantare una colonna sopra ’l lito del mare e poi con un’asta toccandola dicesse: — Io voglio che questo [p. 60 modifica] sia fine del regno de’ Longobardi: qualunque il moverá, severamente sará punito; — nondimeno la sua parte del regno dappoi la morte di Autharis a l’imperio ritornò.

Quelli che per l’imperatore governavano Napoli si chiamavano principi. Fu ne l’anno di Cristo 614 in Napoli per l’imperio un nobile constantinopolitano chiamato Giovanni Compsino, il quale sentendo che Foca imperatore era stato morto in Constantinopoli e Giovanni Lemigio esarca per l’imperio in Ravenna ancor lui occiso, e Roma vedendola senza pontefice, però che, morto Bonifacio IV, stette otto mesi in controversia il popolo prima che il successore nel pontificato eleggessino, estimando che queste mutazioni dovessino partorire maggiori intricamenti, deliberò farsi re di Napoli, e cosi tirannicamente Puglia, Calabria, Bruzzi e Lucania e quella parte di Campania che a’ longobardi non era subietta, in un subito occupò. Ma creato imperatore Eraclio, mandò in Italia per esarca Eleuterio, il quale composte le cose di Ravenna e di Roma, andò con l’esercito a Napoli. Usci fuora a l’incontro Giovanni Compsino e in su le porte facendo fatto d’arme fu rotto e morto; il regno tutto a la devozione de l’imperio si ridusse. Non molto tempo dappoi Grimoaldo longobardo, duca di Benevento, sentendo esser morto a Pavia Ariperth re suo, e Bertherith e Comperth suoi figliuoli essere in discordia per il regno, fece duca di Benevento in suo loco Romoaldo suo figliuolo, e lui con potente esercito ne venne in Lombardia, e cacciato da Pavia Bertherith e da Milano Comperth, si fece re de’ longobardi.

Sentendo questi movimenti, Constanzo imperatore, il quale ad Eraclio e Constantino suo figliuolo succedette, con grosso esercito venne in Italia a’ danni de’ longobardi per occupare Benevento, e con l’armata giunse a Taranto: il che sentendo Romoaldo, subito fortificò Luceria e Acherunzia (oggi detta Matera), e avendo ottimamente munito Benevento, mandò un suo fidatissimo balio chiamato Gensualdo, che sin da li teneri anni lo avea allevato, a Pavia al re Grimoaldo suo padre a domandarli soccorso. Constanzo pose il campo a Luceria e [p. 61 modifica] facendo li cittadini poca difesa, per non credere che mai l’imperatore li facesse danno, e li longobardi soli non potendola difendere, fu in pochi di presa e da l’imperatore, che avarissimo era, non come cittá italiana, ma barbara, fu posta a sacco e foco e ferro, e da’ fondamenti rumata. Acherunzia, veduta la desolazione di Luceria, animosamente da la crudeltá di Constanzo si difese, talché li fu forza levarsi di campo. Onde con molta potenza si condusse a l’assedio di Benevento, aspramente stringendolo, né con minor virtú Romoaldo giovine e generoso duca con li suoi longobardi si difendeva: in modo che non solamente non riceveva danno, ma spesse volte con l’uscir fuora a le fortezze e bastioni de’ greci gran carico facea. In questo mezzo Grimoaldo con tutte le forze del regno longobardo, movendo da Pavia veniva al soccorso del figliuolo, e per la via di Romagna e de la Marca passò in Abruzzo, e per il medesimo Gensualdo che a Pavia era andato, mandò a dare avviso al figliuolo de la sua venuta. Gensualdo intercetto da Constanzo et esaminato, disse il vero de la venuta e potenza di Grimoaldo: il perché Constanzo impaurito e deliberato levarsi subito, trattò con Romoaldo di aver sicurezza di poter ridursi a Napoli, e per ostaggio volse la sorella di Romoaldo chiamata Gisa; poi voluta la promessa di Gensualdo di dire il contrario di quello sapea, lo mandò a le mura de la terra, imponendoli che dicesse Grimoaldo impedito non poter venire al soccorso di Benevento. Gensualdo condotto a le mura, dimandò di poter vedere e parlare al suo duca Romoaldo; al quale venuto disse: — Sta forte e di buona voglia, Romoaldo, ché tuo padre è appresso con potentissimo esercito per soccorso tuo, et hollo lasciato sul fiume del Sánguine. Ben ti raccomando mia mogliere e figlioli, ché son certo che questi crudeli greci mi faranno morire. — Constanzo, adirato del generoso atto di Gensualdo, li fece tagliar la testa e con una briccola buttarla in Benevento: Romoaldo se la fece portare, e tenendola in mano e teneramente baciandola con molte lacrime onorando la fede e l’amore del suo buon balio, la fece degnamente seppellire. [p. 62 modifica] Constanzo adunque si levò da l’assedio e verso Napoli prese il cammino. Drieto li andò a la coda un capitano di Romoaldo chiamato Mittola capuano; e soprastato tanto che una parte de l’esercito greco passò il fiume Calore, assaltò il resto con grandissimo impeto, né tornando mai indrieto al lor soccorso alcuno di quelli che eran passati, quasi tutti furono morti: per lo quale generoso fatto poi il re Grimoaldo come grato, nel suo ritorno in Lombardia, fece Mittola capuano duca di Spoleto.

Giunto a Napoli Constanzo, volendo andare a Roma, fece capitano suo un gentiluomo napolitano chiamato Saburro e diedeli un esercito di ventimila persone a due effetti: acciò che difendesse quelli lochi di Campania che erano de l’Imperio, e guardasse che li longobardi nel suo andare a Roma non li dessino impedimento. Saburro si mise con l’esercito a Formie, parendoli loco opportuno a l’uno e l’altro effetto, per essere comodo a la via Appia e a la via Latina e confine a li lochi si lasciava di drieto. Constanzo entrò in Roma onoratissimamente da Vitaliano pontefice ricevuto, il quale sei miglia con tutto il clero e il popolo fuor di Roma li andò incontro; e Romoaldo, impetrata una parte de l’esercito dal padre, andò a trovar Saburro e fece con lui un gran fatto d’arme, ove un longobardo chiamato Ainalongo, che portava la lancia a Grimoaldo, tirando un colpo a due mani con la medesima lancia, passò un cavaliere greco e levatolo de la sella, se lo buttò in arco di sopra la testa in terra: dopo il qual atto ponendosi li greci in fuga e allegando farlo per sdegno de l’avere il capitano latino, furono da’ longobardi seguitati e rotti e buona parte morti e con loro insieme Saburro.

Constanzo stette sette di in Roma né altro fece in quel mezzo che rubare tutte le belle cose che vidde o di marmo o di bronzo o di pittura e ogni altro ornamento insino a le tegule di bronzo, de le quali il tempio Pantheon (oggi santa Maria Rotunda) era coperto; e ogni cosa pose in su le navi spogliando Roma, avendoli fatto piú danno di simil cose in [p. 63 modifica] sette giorni, che non aveano da Alarico insino allora, in 258 anni, fatto li barbari, si come tutti li scrittori di questa greca perfidia concordano. Da Roma poi li dodici giorni tornò a Napoli, e li stato pochi giorni senza piú curare d’Italia o longobardi passò in Sicilia: la quale mentre con rabbiosissima avarizia spogliava e rubava, essendo a Siracusa in un bagno fu morto da’ suoi, e la preda e li ornamenti di Roma che seco avea, non molto tempo poi da una grossa armata di saracini, che in Sicilia per questo era passata, fu insieme con altre ricchissime cose in Alessandria di Egitto portata. Grimoaldo, recuperato tutto quello che da’ greci era stato occupato che al suo ducato pertinesse, a Pavia ritornò, e volendosi stagnare il sangue di una vena del braccio, da’ medici con unguenti venenati fu morto. Nel qual tempo li bruzii e li lucani erano da’ greci pessimamente trattati, in modo che ’l fu necessario che Conone, allora pontefice, da lustiniano II imperatore la surrupzione di gravezze e tributi in buona parte a li miseri popoli impetrasse.

Gisulfo longobardo, poi duca di Benevento, ruppe la pace con i romani circa li anni di Cristo 700 et essendo pontefice Giovanni VI entrò ne le terre di Campania, le quali i romani possedevano, menandone prede e bruciando le terre, e occupò Sora, Arpino e Arce; ma Giovanni pontefice mandandoli alcuni sacerdoti, con preghi e con denari umilmente tanto operorno, che li prigioni e la preda e le terre restituí e da quel tempo dappoi mai le cose de’ romani attentò.

Ma l’anno 745 li longobardi di Benevento a tradimento occuporono Cuma, né volendo in alcun modo restituirla, Stefano II pontefice, con l’aiuto del principe che per l’imperatore Napoli governava, similmente per furto la racquistò, ove circa trecento longobardi furono morti; né altro poi succedette. Anzi Liutprando, sestodecimo re dei longobardi, raffermò la pace con li romani, e intendendo che Romoaldo duca di Benevento era morto e da li longobardi di quel loco era stato eletto al ducato Gisulfo suo figliuolo ancora fanciullo, andò a Benevento e lo depose e in suo loco fece duca Gregorio suo [p. 64 modifica] nepote. Il quale morto poi la partita di Liutprando, Godescalco si introdusse nel ducato, e intendendo che Liutprando aveva vinto e tosato e fatto clerico Trasamondo, che per forza si avea usurpato il ducato di Spoleto, dubitando che anche di lui non facesse vendetta, deliberò con la mogliere e figliuoli fuggirsi in Grecia; ma seguitato da’ beneventani fu morto per via, e la mogliere e li figliuoli che giá erano montati sopra la nave e aveano il rumor sentito, fatto vela, camporno. Circa li anni di Cristo 770, essendo venuto Carlo Magno re di Francia in Italia chiamato da Adriano I pontefice contra l’insolenza de’longobardi, assediò Desiderio loro re in Pavia e lo prese e menò prigione in Francia; e fu l’ultimo re dei longobardi, i quali circa 232 anni aveano posseduta la maggior parte d’Italia, eccetto Roma; e confermò li duchi che tenevano Benevento, e facendo poi donazione a la Chiesa romana di molte regioni e cittá d’Italia, tra le altre che ne l’instrumento de la donazione sono comprese, sono ancor nominati li ducati di Benevento e di Spoleto. Et essendo Aregisio allora duca di Benevento, che molestava spesso le terre di Campania subiette al pontefice, Carlo lo ammoni che a la Chiesa romana si guardasse dare piú niuno impedimento, e fece che mandò Childebrando e Grimoaldo suoi figliuoli a Roma e feceli rinnovare la pace col pontefice. Il che fatto, morto a Salerno Aregisio, li detti suoi figliuoli possedetteno con somma concordia il ducato, con li greci lor vicini sempre guerra facendo.

Non molto poi essendo tornato Carlo Magno in Germania e facendo guerra col re di Baviera, Constantino VI imperatore comandò a li suoi greci che erano ne la sua parte d’Italia, che rompessino guerra a li altri italiani. Li greci avidamente pigliando l’impresa, subito entrorno ne li confini del ducato di Benevento e di Spoleto, occupando tutto il paese che è « tra il fiume Aterno (cioè Pescara di Abruzzo), e Benevento; ma Ildebrando duca di Spoleto e Grimoaldo duca di Benevento unitamente pigliando l’arme assaltorno li greci, e fatto una gran battaglia feceno di loro gran carnaggio, e li dissiporono [p. 65 modifica] in modo che dappoi per un gran tempo la nazione greca in quelle parti stette quietissima. E Irene imperatrice, che avendo tratto li occhi e carcerato per suoi demeriti il detto Constantino VI suo figliuolo, governava l’imperio, volendosi gratificare a Carlo, confermò e conservò la pace con beneventani e con romani; ma essendo poi fatto pontefice Leone III e male trattato da’ romani, li greci si strinseno con longobardi e li indusseno a romper guerra nel paese di Roma: il che intendendo Carlo, che giá la seconda volta veniva in Italia a favore di Leone pontefice, comandò a Pipino suo figliuolo, che subito andasse con le genti d’arme a Benevento e dèsse il guasto al suo territorio. Pipino menò con sé Vinigisio duca di Spoleto con la sua gente, e diede il guasto; poi volendo ritornare a Roma per ritrovarsi a l’entrata di Carlo Magno suo padre e al concilio si aveva a celebrare, lasciò Vinigisio a Luceria in Puglia, con ordine che con diligenza attendesse che li beneventani non facessino incursione alcuna in quel di Roma.

Tornato Pipino a Roma e entrato Carlo Magno suo padre il di di Natale ne l’anno 801, in mezzo la messa, la qual fu celebrata sopra le reliquie del beato Pietro apostolo, Leone III pontefice dichiarò imperatore de’ romani Carlo e poseli la corona imperiale in testa. Allora il popolo romano feceno le acclamazioni consuete a li imperatori ad alta voce tre volte dicendo:—A Carlo Magno Augusto coronato da Dio magno e pacifico imperatore, vita e vittoria. — E come fu fatto silenzio, il pontefice con olio e balsamo consacrato a questo effetto lo unse; poi voltandosi a Pipino suo figliuolo, lo pronunziò re d’Italia, e del medesimo sacramento lo unse, e allora intervenendo l’autoritá del pontefice, fu fatta pace e lega perpetua tra romani e francesi.

Volendo poi Carlo componere le cose d’Italia, vedendo che longobardi e greci ne possedevano buona parte (come è detto) e prima, quanto a li longobardi, pensando che difficil cosa era estirparli in tutto, essendo, in tanti anni che vi erano stati, confusi e commisti col nome italiano e diventati italiani, [p. 66 modifica] massimamente questi quattro ducati di Benevento, di Spoleto, di Ivrea in Piemonte e del Friuli, in tanto che non si riconosceano per distinti, e che sola quella parte di Gallia Cisalpina, ove è Milano e Pavia, riconoscea la sua nazione longobarda distinta da la italiana, fu contento si chiamasse Longobardia; e da quel tempo a questo si è poi sempre la Gallia Cisalpina chiamata Lombardia, quasi Longobardia. Dappoi, quanto fusse per li greci, deliberò levarli in tutto di Italia, e vedendoli ristretti con il duca di Benevento, mandò Pipino re d’Italia contra beneventani con tutte quelle genti d’arme che possette mettere insieme in Italia, e lui per la via di Ravenna e di Pavia e di Ivrea in Francia se ne tornò.

Pipino pose il campo intorno a Benevento e fatto ogni prova per espugnarlo, vedendo che impossibile era ottenerlo per forza, assediò Teate, cioè Civita di Chieti, la quale governava un longobardo chiamato Roseimo, e la prese per forza e posela a saccomanno e bruciolla; per il che poi per accordo ebbe Ortona. E in Luceria lasciò per guardia Vinigisio duca di Spoleto e andossene a Roma; ma infermandosi poi Vinigisio, Grimoaldo duca di Benevento andò a campo a Luceria e conquistolla e prese Vinigisio, il quale trattò amorevolmente, confortandolo a resumere le forze del suo ducato contra francesi: il che intendendo Pipino subito levatosi da Roma andò a Luceria, e postovi il campo attorno, la vinse e prese Grimoaldo, col quale altro accordo non fece se non che lasciasse tutte le terre le quali teneva nel regno e andasse in esilio libero a Pavia.

Vedendo in questo mezzo Irene imperatrice Carlo incoronato imperatore in pregiudizio suo e de l’imperio constantinopolitano, e aver disposto di levare in tutto li greci di Italia, avea giá mandato Leone spatario suo oratore a Carlo, e Carlo avea rimandato oratori a lei e invitatola di tòrla per donna, pensando che facil cosa saria riunire l’imperio e farsi imperatore universale, avendo questa imperatrice greca per moglie. La cosa piacea molto a Irene e stringevasi la pratica, ma non possette esser tanto secreta, che uno Erizieno patrizio, che la [p. 67 modifica] sapea, non la rivelasse a Niceforo suo fratello, il quale avea molta grazia e autoritá appresso le genti d’arme. Niceforo dunque tanto operò che prese Irene e la confinò ne l’isola di Lesbo, oggi detta Metellino, e occupò l’imperio di Constantinopoli per sé, poi si strinse con il conte Eligaudo e con il vescovo di Ambiano ambasciatori di Carlo Magno, e in modo fece, che concluseno buona pace insieme Carlo Magno e lui. E allora fu fatta la divisione de l’imperio romano in due imperi, cioè l’imperio orientale de’ greci e l’imperio occidentale de’ francesi; e Italia rimanette in questo modo, che da Siponto a Napoli per terra, tutto il resto d’Italia verso Sicilia insieme con l’isola di Sicilia fusse sotto l’imperio de’greci, l’altra verso l’Alpe fusse de l’imperio occidentale; e in mezzo fu lasciato, quasi come per termine e confine tra l’uno e l’altro, il ducato di Benevento. E per pacificare interamente Italia, Carlo rimise in stato Grimoaldo nel detto ducato, il quale solo era rimasto de le reliquie dei longobardi. Il reame di Napoli adunque tutto in questo tempo, circa li anni di Cristo 802, era la maggior parte sotto l’imperio dei greci e una buona parte sotto il duca di Benevento longobardo e una piccola parte sotto l’imperio occidentale di Carlo Magno: il quale essendo morto dappo’ il quartodecimo anno del suo imperio, Lodovico Pio suo figliuolo e successore per la quiete d’Italia la pace con Grimoaldo confermò.

Stava in questa quiete il regno di Napoli, quando circa li anni del Signore 829 li saracini di Africa passorno in Italia e spianato Centocelle, ora detta Civitavecchia, scorseno a Roma e spogliorno e bruciorno la chiesa di San Pietro e di San Paulo, e poi passorno a Monte Cassino e la terra che era ove è oggi San Germano ruinorno; poi andorno al monasterio di San Benedetto e Io spogliorno e bruciorno, e rimontando sopra la loro armata a la bocca del Garigliano, in Africa se ne tornorno.

Non molto poi, circa li anni 845, tornorno li saracini nel regno di Napoli, sotto un loro capitano chiamato Sabba e assediorno Taranto, e venendo una grossa armata de l’imperatore [p. 68 modifica] greco con un capitano chiamato Teodosio e insieme sessanta vele de’ veneziani per soccorrerlo, come si presentorno nel seno di Taranto, Sabba simulando avere paura, con la sua armata si ritirò verso Tacque di Cotrone, e fra pochi di feceno fatto d’arme, ove la maggior parte de le navi veneziane furono prese e sommerse e de li uomini, fatti alcuni pochi prigioni, tutto il resto fu morto; e Teodosio verso la Grecia fuggi. Nell’anno 864 li saracini preseno l’isola di Creta; venendo poi la maggior parte di loro in Italia, preseno tutte le terre, che sono per riviera d’Ancona sino ad Otranto, bruciando quelle che li abitanti fuggendo abbandonavano. E dipoi facendo il medesimo per il seno di Taranto, da Tarmata veneziana sotto il ducato di Urso Particiaco furono vinti e cacciati. Avvenne poi che imperando in Constantinopoli Constantino fanciullo, uno giá capitano de Tarmata di Leone suo padre, chiamato per nome Romano, e anche, di vilissima condizione, romano per patria, usurpò l’imperio per forza; onde essendo le cose in tumulto, calabresi e pugliesi se li rebellarono, il perché Romano, uomo di pessima natura, indusse il re de li saracini di Africa a mandarli in Italia per vendicarsi de’ calabresi e de’ pugliesi. Il perché li saracini, naturali inimici de’ cristiani, con grandissima moltitudine ne Tanno 919 entrorno in Italia e non solo Calabria e Puglia, ma tutta quella parte d’Italia, che da la punta di Otranto viensi allargando tra li due mari, cioè il Tirreno e il seno Adriatico, scorseno e saccheggiorno senza rispetto alcuno de l’imperatore sino appresso Roma, facendo consiglio di espugnarla e predarla.

Ma Giovanni X allora pontefice, con l’aiuto di uno Alberico marchese in Toscana, stimato da alcuno suo fratello, e di uno grande esercito fatto dal popolo di Roma, li cacciò de li confini romani, e seguitandoli insino al Garigliano fece una gran battaglia con loro e vinseli in modo, che li saracini lasciando le altre cose, si ridusseno al monte Gargano (ora Sant’Angelo) e sopra il monte e a la radice di esso si fortificorno e tennerlo molt’anni e da esso fatigorno spesso e [p. 69 modifica] molestorno Italia, rubando sempre e discorrendo tutto quello che è dal Tevere a la Pescara per traverso insino a la punta di Otranto e di Calabria, e da la parte di sopra assediorno Benevento e lo miseno a sacco e poi lo bruciorno; e deliberando venire a Roma, Giovanni X predetto adunate tumultuariamente alcune genti, con l’aiuto di un certo conte chiamato Guido, li ritenne indietro: e a tanta viltá e miseria erano allora ridotte le cittá del regno di Napoli, che subito che li saracini li promettevano non ammazzarli tutti né ruinarli le case, ignominiosamente se li davano.

Non voglio omettere al presente una osservazione istorica, la quale ancora da molte parti di questo nostro compendio si può ritrarre, acciò che si intenda non esser mai stata calamitosissima Italia, se non quando per sua mala sorte le nazioni barbare vi sono state chiamate e introdotte: notabile esempio e terribile per quelli che a li di nostri con suo pericolo ce li hanno fatti venire. Dico adunque che in questo medesimo tempo ancora Alberico marchese predetto, cacciato da Roma per invidia e per ingratitudine di quel popolo, si fortificò ne la cittá di Orta e chiamò li ungari in Italia, che venissino a far vendetta de’ romani, con patti che non toccassino la Toscana. Vennero li ungari, e senza rispetto alcuno de’ patti, tutta la parte di sopra d’Italia sino a Roma, eccetto la Lombardia ne la quale imperava Berengario I, miseno in preda, menando in Ungaria maschi e femine prigioni, ruinando e lasciando deserte le cittá, il che poi feceno piú anni, tornando spesso a la dolcezza de la preda: e questo facevano quando l’altra parte inferiore d’Italia, li saracini introdotti da Romano nel modo giá detto guastavano.

Ne l’anno di Cristo 963, essendo pontefice Leone VIII e imperatore Ottone I, li Schiavi abitanti in Dalmazia, i quali al tempo di Adriano II pontefice erano diventati cristiani, essendo loro re Sueropilo, passorno nel regno di Napoli al monte Gargano e nel seno di Siponto contro a’ saracini, e fatta di loro grandissima occisione li cacciorno da quelli lochi. Tornati a casa li Schiavi, li ungari feceno il medesimo [p. 70 modifica] passaggio, e avendo vittoriosamente cacciato il resto de’ saracini, che si erano insieme congregati, occuporono le terre di quelli lochi: li quali li greci per denari ricuperorno da li ungari rimandandoli ne la patria loro, e con li altri saracini, i quali tenevano la Puglia e Terra d’Otranto e la Calabria, feceno tregua. E nondimeno nel tempo che Ottone I era in Germania e Giovanni XIII pontefice era confinato a Capua, altri saracini partirono di Africa e venendo in Calabria occuporno Cosenza e la poseno a saccomanno e bruciorno. Essendo poi venuto a Roma Ottone I e avendo menato con seco Ottone suo figliuolo, che fu poi Ottone II, e riposto in sedia Giovanni XIII pontefice, uno Pandolfo Capodiferro principe di Capua persuase l’imperatore essere facil cosa cacciare li saracini d’Italia, se l’esercito de’ Germani, i quali aveva menato con sé, se li mandasse contra. L’imperatore aveva accettato per sposa di Ottone suo figliuolo Teofania figliuola di Niceforo imperatore greco, ma Niceforo ricusava di dargliela: per il che indignato, non minor voglia aveva di cacciare li greci di Italia che li saracini. Il che tanto piú volentieri faceva, intendendo che si erano accordati con saracini con proposito di difendersi contra di lui; onde accettò l’impresa e con Pandolfo mandò Ottone suo figliuolo, giovine virtuosissimo e di prestantissima indole, nel regno di Napoli. Ma poca fatica fu levar li saracini, però che subito che inteseno li Germani venirli contra, ruborno quello poterono e facendo vela si partirno. Non cosi li greci, li quali difendendosi, Ottone e Pandolfo dappoi molte battaglie e varie occisioni fatte in molti lochi, al fine li vinseno, e di Puglia e di Calabria li cacciorno. Per la qual cosa il popolo constantinopolitano, giudicando aver perduto queste provincie d’Italia per causa e ostinazione di Niceforo loro imperatore, lo occiseno e in suo loco feceno imperatore Giovanni suo figliuolo, e Teofania sua sorella fu data per donna ad Ottone giovine: il quale tornato a Roma, in premio de la vittoria fu dichiarato dal padre consorte ne l’imperio e detto Ottone II, e da Giovanni XIII ne la chiesa Lateranense fu insieme con Teofania [p. 71 modifica] sua moglie unto e coronato, e fattoli le acclamazioni consuete. E per li meriti di Pandolfo e per li buoni trattamenti fatti verso lui nel tempo che fu confinato in quella terra, Giovanni pontefice fece allora metropolitana la chiesa di Capua. Dappoi molti anni, essendo morto Ottone I e occupato Ottone II ne le guerre contra Lotario re di Francia, Basilio e Constantino successori di Giovanni, lor padre giá morto, ne l’imperio di Constantinopoli, deliberorno recuperare le provincie perdute in Italia; e prima racquistorno per forza l’isola di Creta che era stata occupata da’ saracini, poi per non lasciarseli inimici di drieto, condusseno gran parte de’ detti saracini a’ loro stipendi, e con essi vennero in Italia e preseno Bari, e parte de li cittadini, acciò non rebellassino, occiseno, e parte ne confinorno in Constantinopoli, e poi andorno a Matera e quella ruinorno: per il che la Puglia prima e poi la Calabria spontaneamente a loro si reseno.

Ottone II, fatta la pace con Lotario re di Francia, e tornando in Italia con Teofania sua donna, essendo nel territorio di Treviso, intese Basilio e Constantino suoi parenti aver assaltata Italia e giá presa la Puglia e la Calabria. Per la qual cosa, avendo deliberato al tutto di unire la Puglia e la Calabria e tutto quel regno a l’imperio occidentale, prima con l’armata di mare scorse la Schiavonia e la Dalmazia facendo occisione e preda assai, essendo destitute quelle provincie dal presidio di greci; poi venne a Roma, ove a un di deputato si congregorno tutte le genti de’ Germani, de’ Galli, de’ longobardi e d’altre regioni d’Italia, ch’egli aveva fatto comandare. E movendo con un grande esercito si fermò a Benevento: ove mise insieme ancora beneventani e altre genti, le quali capuani, napolitani e salernitani li aveano deputate, e tutte le mandò innanzi. Poi a l’entrar di Puglia ordinatamente con l’esercito quadrato se ne andò ad un loco chiamato Basantello in Calabria, e in quello con greci e saracini fece un gran fatto d’arme de l’anno 982. Li romani e li beneventani, non che non combattessino, ma se ne fuggirono ’nauti a la battaglia abbandonando le bandiere, talmente che l’esercito di [p. 72 modifica] Ottone fu rotto e quasi a l’ultimo esterminio tutti morti, con tanto danno e abbattimento di tutta Italia, che se li greci avessino saputo usar la vittoria, facil cosa li saria stato allora subiugar Roma e Italia. Ottone si mise in fuga a la marina, e volendo salvarsi nuotando, fu preso incognito da marinai greci: pur essendo stato riconosciuto da un mercatante schiavone, il quale segretamente fece intendere la sua cattura a la imperatrice e a Teodorico vescovo Metense, i quali erano a Rosciano ad aspettare il fine de la battaglia. A pena scampò da le mani loro; imperocché stando occupati li marinari a voler un gran denaro, il quale era stato portato per riscuoterlo, lui montato subito sopra un cavallo con velocissimo corso se li levò dinnanzi, et entrato in una barchetta per fuggire in Sicilia, fu preso da corsari e condotto ne l’isola, ove riconosciuto da siciliani, con gran fatica e con promessa di una gran somma di denari fu da loro liberato e condotto a Roma. Ove, per vendicarsi de’ beneventani, i quali prima 10 aveano come disertori abbandonato a la battaglia e tenea loro fussino stati cagione de la rotta ricevuta, mise insieme quelle poche reliquie possette de l’esercito rotto; poi, simulando di volersi opponere a’ greci, che non si facessino piú innanzi, andò a Benevento e quello mise in preda e foco e ruina in tutto, e il corpo di san Bartolomeo apostolo tolse di 11 e portollo a Roma e ne l’isola del Tevere (oggi detta di San Bartolomeo) lo fece collocare, e lui di li a poco tempo morendo in Roma ne la chiesa di San Pietro fu sepolto. Fu creato dappo’ lui imperatore suo figliuolo Ottone detto III l’anno di Cristo 983: il quale venendo in Italia potente, altro non fece circa il regno di Napoli, se non che costrinse per forza capuani e beneventani a far pace co’ romani e non molestarli come per adrieto aveano fatto, e per voto andò a visitare la chiesa di San Michele nel monte Gargano, e tornato a Roma, essendo morto Giovanni XVI pontefice, fece creare papa Gregorio V suo parente di Sassonia. Il quale Gregorio poi la partita di Ottone di Italia cacciato da’ romani, tornò in Germania e fece di nuovo tornare Ottone a Roma, il quale [p. 73 modifica] occiso Crescenzio potente romano inimico di Gregorio e cavato gli occhi a Giovanni XVII eletto e intruso da Crescenzio, ripose in sedia Gregorio V suo parente.

Il quale Ottone in odio e vendetta de’ romani fece quella legge, che ancora si serva, che la nazione germanica sola fusse quella che avesse ad eleggere l’imperatore romano: il quale eletto si avesse a intitolare Cesare, e ricevuta che avesse in Roma la corona dal pontefice, si intitolasse imperatore. E li elettori ordinò che fussino sette, cioè tre clerici cancellieri de l’imperio e quattro laici ufficiali imperiali. Li tre clerici sono l’arcivescovo di Treveri cancelliero di Gallia, l’arcivescovo di Magonza cancelliero di Germania, l’arcivescovo di Colonia cancelliero d’Italia; li quattro laici, il marchese di Brandimburgo gran camerlengo, il conte Palatino portatore del piatto a mensa, il duca di Sassonia, che porta la spada, e il re di Boemia, il qual dando a bere serve di coppa. E fu fatta questa legge ne l’anno di Cristo 1002, col quale ancor noi il secondo libro del compendio de le istorie napolitane finiremo. [p. 74 modifica]