Don Candeloro e C.i/Papa Sisto

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Papa Sisto

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Il tramonto di Venere Epopea spicciola


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PAPA SISTO.

[p. 109 modifica]Di commedianti come Vito Scardo non ne nascono più a Militello, massime dacchè fu toccato dalla grazia, e da povero diavolo arrivò ad essere guardiano dei cappuccini, come Papa Sisto.

Dopo aver provato cento mestieri — e averne fatte d’ogni colore anche, dicevasi, colla donna e la roba altrui — ridotto colle spalle al muro, malandato di borsa e di salute, Vito Scardo capì alfine: — Qui bisogna mutar strada.

Era l’anno della fame per giunta, che i seminati, dal principio, dissero chiaro che si voleva ridere quell’inverno, e tutti quanti, poveri e ricchi, si strappavano i capelli, alla raccolta. Vito Scardo stava bestemmiando anche lui nell’aia di massaro Nasca — compare Nasca sfogandosi coi figliuoli a pedate — [p. 110 modifica]sua moglie covando le spighe magre cogli occhi arsi e il lattante al petto — lo stesso marmocchio che si disperava e non trovava nulla da poppare — una desolazione insomma da per tutto, per la campagna brulla, senza una canzone o un suono di tamburello, quando si vide arrivare fra Angelico, quello della cerca, fresco come una rosa, trottando allegramente sulla bella mula baia dei cappuccini. — Sia lodato San Francesco! — E lodato sia, fra Angelico! — disse compare Nasca fuori della grazia di Dio stavolta. — Che a voi altri, benedica, il pane e il companatico non ve lo fa mancare San Francesco!... Sangue di!... Corpo di!... — Le bestemmie della malannata, in una parola. Ma fra Angelico se ne rideva. — O dunque chi prega Domeneddio per la pioggia e pel bel tempo, gnor asino?

Un pezzo di tonaca sulle spalle, una presa di tabacco qua e là, il buon viso e la buona parola, e fra Angelico raccoglieva grano, olio, mosto, senza bisogno di mietere nè di vendemmiare, e senza pensare ai guai e a malannate, chè al convento, grazie a Dio, il caldaione era sempre pieno, e i monaci non avevano altro da fare che ringraziare la Provvidenza e correre lesti al refettorio quando suonava [p. 111 modifica]la campanella. — Quello è il mestiere che fa per me, — disse allora Vito Scardo.

Di lì a poco, un bel giorno — volontà di Dio — lo trovarono tutto pesto e malconcio nel podere di Scaricalasino, o che l’avessero colto a cerca di olive senza permesso del padrone del campo, e senza la tonaca di San Francesco, o che a Scaricalasino quella notte gli dicessero le corna di tornare a casa insalutato ospite. Il fatto è che glie ne diedero tante, al povero Vito Scardo, da lasciarlo più morto che vivo, e in quell’occasione volle confessarsi dal guardiano dei cappuccini appunto.

— Padre Giuseppe Maria — disse veramente contrito — padre Giuseppe Maria, o me ne vo in paradiso, o prometto di cambiar vita e fo voto di darmi a Dio.

— Va bene, va bene. A questo c’è tempo. — Il guardiano credeva che fossero le solite chiacchiere di ogni galantuomo ridotto al mal passo, e promise d’aiutarlo anche, per sbrigarsene. Ma però non furono chiacchiere. Vito Scardo aveva la pelle e la testa dura. Non s’era fitto in capo di mutar vita? O dunque perchè gli aveva promesso Roma e toma quel servo di Dio? Il guardiano, di lì a un mese, [p. 112 modifica]come se lo vide capitar dinanzi con quel dettato, sano come una lasca, fece il segno della croce: — Monaco tu? Non ci mancherebbe altro adesso! — E vossignoria che vi cresceva qualche cosa? Per arrivare guardiano anche!...

Voi che avreste fatto? Un arnese come Vito Scardo, che puzzava di tutti i sette peccati mortali! Però egli giurava che era un altro, ormai. Lo pigliassero a prova. Tanto disse e tanto fece che il povero guardiano dovette pigliarlo a prova, pel vitto e la tonaca soltanto, frate converso. — Se la tonaca fa questo miracolo, vuol dire ch’è una santa cosa davvero, figliuol mio!

Basta, o che la tonaca abbia fatto il miracolo, o che sia stato il bisogno a far trottare l’asino, Vito Scardo divenne l’esempio della comunità. Bravo, modesto, prudente — le donne, magari, non le guardava neanche, in strada. — E per la cerca poi valeva un Perù; meglio di fra Angelico, ch’è tutto dire. La gente al vederlo così cambiato, che pareva un santo, diceva: — Questa è opera di San Francesco. — E mandava elemosine.

Però c’era ancora quella certa tizia che tirava a fargli perdere il pane — comare Menica la moglie [p. 113 modifica]di Scaricalasino, dopo che suo marito era andato in galera per le legnate di quella notte — lei a tentarlo fino in chiesa, e occhiate di fuoco, e imbasciate con questa e con quella. Una sera poi l’appostò al cancello del podere, che tornava tardi dalla cerca e non passava un cane, e lo strinse proprio colle spalle al muro: — Dopo averla messa in quello stato — nè vedova nè maritata! — E tutto quello che aveva fatto per lui! — Le legnate che s’era prese! — Sissignore! Eccole qua! — Quasi quasi si spogliava lì dov’era, dietro la siepe. La siepe fitta, l’ora tarda, sulla strada che non passava un cane... San Francesco glorioso, se Vito Scardo tenne duro come Giuseppe Ebreo, fu tutto merito vostro. — Sorella mia — rispose lui — sorella mia, in galera si va e si viene, ma se mi scacciano dal convento cosa fo, ditelo voi?

E lo disse anche al Padre Guardiano, a titolo di confessione — la carne — il demonio. — La sai più lunga di lui! — pensò il guardiano. Ma dovette chinare il capo anche stavolta, toglierlo dalla cerca e metterlo ai servizi interni del convento. Vito, contentone, badava a far la sua strada. Un colpo al cerchio, un colpo alla botte, barcamenandosi fra [p. 114 modifica]questo e quell’altro, che il convento è come un piccolo mondo, e le nimicizie covano anche fra i servi di Dio. Quando s’accapigliavano fra di loro, e volavano le scodelle, lui orbo e sordo. A tempo e luogo poi lisciare i pezzi grossi pel verso del pelo, e pigliare ciascuno pel vizio suo, fra Serafino col tabacco buono di Licodia, fra Mansueto chiudendo un occhio in portineria, il Padre Lettore a colpi d’incensiere. — Ah, che grazia v’ha fatto il Signore! Quante cose sapete, vossignoria! — Figliuol mio, ho sudato sangue. Vedi, ho tutti i peli bianchi. Che mi giova? Padre Lettore, e nulla più.

— Birbonate! La solita storia che chi più merita meno ha... M’intendo io, se fossi padre da messa e avessi voce in capitolo, quando fanno il guardiano!...

Il guaio era che per entrare in noviziato ed arrivare padre da messa ci voleva un po’ di latino, e 20 onze di patrimonio. Quanto al latino, pazienza, Vito Scardo, picchia e ripicchia, sudando sui libracci come Gesù all’orto, tendendo l’orecchio a questo e a quello, pigliandosi la testa a due mani — testa fine di villano che quel che voleva voleva — coll’aiuto di Dio e del Padre Lettore riescì a farvi entrare quel che ci voleva. Ma trovare le 20 onze del [p. 115 modifica]patrimonio era un altro paio di maniche. Ci si struggeva mattina e sera, senza contare i digiuni, le astinenze, e simili privazioni, che ormai era diventato tutto pelo e naso, e le divote susurravano anche che portava il cilizio sotto la tonaca. In chiesa poi servizievole con tutti quanti, premuroso colle figlie penitenti del guardiano e dei pezzi grossi, innamorato del Patriarca San Giuseppe, sì che la vedova Brogna s’indusse a fare l’altare nuovo, e fu tutto merito suo. Insomma, se il Patriarca non gli faceva trovare i danari per entrare in noviziato e darsi a Dio, voleva dire che non c’è religione nè nulla. — O tu che credi d’arrivare Papa? — Gli diceva alle volte il guardiano ridendo. E lui, minchione minchione: — Papa, no.

Bene, se il Patriarca non voleva farlo, l’avrebbe fatto lui il miracolo, Vito Scardo. A un tratto, corse la voce che egli guariva asini e muli, con certi rimedi che sapeva lui — e la fede viva. Se mancava la fede, addio virtù dei semplici, e tanto peggio per la bestia che crepava, salute a noi. Poi furono i numeri del lotto che gli vennero in mente, come un’ispirazione del cielo che gli diceva all’orecchio: — Escirà il tale, il tale, e il tal altro numero. Veramente a [p. 116 modifica]tanta grazia divina recalcitrava egli stesso, semplice frate laico, senza neppure gli ordini sacri. Resisteva alla tentazione, si confessava indegno, faceva il sordo o lo scemo, arrivava a tapparsi le orecchie insino, quando i poveri giuocatori gli correvano dietro supplicando: — Per la santa tonaca che portate! — Per l’anima dei vostri morti! — e per questo, e per quest’altro. — Due parole sole, e ci togliete dai guai! — Intanto i numeri che gli ballavano dentro, e le dita stesse che si tradivano e accennavano il terno, senza sua voglia, soltanto al modo di lisciare la barba e di far segno: — zitto! — Chi sapeva intendere poi e cavarne il terno ci pigliava l’ambo almeno. E l’elemosine fioccavano.

Il padre guardiano, uomo rozzo all’antica, prese infine Vito Scardo a quattr’occhi, e gli fece una bella lavata di capo: — A che giuoco giuochiamo? Che significa questa faccenda? — Lui a testa bassa, colle mani in croce nei maniconi, rispose tutto compunto che significava che il Signore lo chiamava in religione, e se non lo lasciavano entrare in noviziato sarebbe andato a fare l’eremita in cima a una montagna. Fra Giuseppe Maria capì il latino. — A fare il santo per conto tuo, eh? E tirar l’acqua al tuo [p. 117 modifica]molino? — Vito Scardo non capiva neppure. — L’acqua? — Il santo? — Il mulino? — E le 20 onze del patrimonio, per pigliar messa? le 20 onze le hai? — aggiunse il guardiano per tagliar corto. — Ah, le 20 onze?...

Come abbia fatto a procurarsele, quel diavolo di Vito Scardo, lo sa Dio e lui. O che siano stati frutti di stola, come dicevano le male lingue, denari rubati allo stesso San Francesco, messi da parte sulla cerca, in barba a lui; o che la vedova Brogna abbia fatto anche questa, e si sia lasciato toccare il cuore; o sia stata infine carità fiorita di qualche altra benefattrice, che tirava anime a salvamento — la Scaricalasino vendè allora un pezzo di terra, suo di lei. — Il fatto è che all’impensata saltò fuori il padre di Vito Scardo, Malannata, uno che il soprannome stesso diceva chi fosse, povero e pezzente che avrebbe cavato la pelle piuttosto al suo figliuolo per rattoppare la sua, e mise fuori i denari del patrimonio. — Qui, ecco le 20 onze! — Il guardiano, che cercava pretesti ancora, voleva sapere donde venivano e donde non venivano. Ma Vito Scardo che piangeva di tenerezza e di gratitudine, abbracciando gnor padre e baciandogli le mani, abbrancò il suo gruzzolo [p. 118 modifica]e minacciò di piantar su due piedi baracca e burattini.

— Allora, benedicite! Allora vi lascio la tonaca e me ne vo, giacchè non volete salvarmi l’anima neppure col fatto mio! — Questo diavolo ci darà da fare a tutti quanti! — disse poi in capitolo il padre guardiano. E disse bene, che gli parlava il cuore.

Basta, per toglierselo dai piedi lo mandarono a fare il noviziato fuori provincia, alla Certosa di Santa Maria. Ci pensassero intanto quegli altri frati a vedere se spuntava grano o loglio da quel seme. E Vito Scardo zitto, fece l’obbedienza, fece il noviziato, girò anche un po’ il mondo, come piaceva ai superiori, e tornò fra Giobattista da Militello, monaco fatto, con tanto di barba e qualche pelo bianco.

Però colla barba e i peli bianchi gli era cresciuto anche il giudizio. Trovò il paese sottosopra: bandiere, luminarie, ritratti di Pio IX da per tutto, Scaricalasino a spasso per le strade, e il padre guardiano colla coda fra le gambe. Cose che non potevano durare, in una parola. Intanto si doveva riunire il capitolo per la nomina dei superiori. Malcontenti ce n’erano molti, minchioni la più parte, [p. 119 modifica]che pensavano ciascuno: — Ora infine tocca a me! — E brigavano, s’arrabattavano, trappolandosi gli uni e gli altri, liberali e realisti. Lui invece nè carne nè pesce, affabile con tutti, rispettoso coi superiori, e tanto di coltello poi sotto la tonaca, a buon conto.

Come si avvicinava il gran giorno delle elezioni, il convento sembrava un formicaio messo in subuglio. Un va e vieni di frati sospettosi — quelli che andavano a caccia di voti — quelli che stavano a spiare — quelli che montavano la trappola — un fruscìo di tonache e di piedi scalzi, specie la notte, capannelli nei corridoi, conciliaboli di religiosi fino in sagrestia, vestendosi per la santa messa, e occhiate torve, anche in refettorio, il campanello della portineria che tintinnava ogni momento, gente di fuori che veniva a confabulare, le figlie penitenti che si guardavano in cagnesco fra di loro esse pure, il servizio divino sbrigato alla diavola, tutti colle orecchie tese alle notizie che giungevano di fuori, al vento che soffiava. — Vincono i regi. — Vincono i rivoltosi. — Hanno bombardato Messina. — Catania si difende. Gli umori e le alleanze segrete che ondeggiavano collo spirare del vento. Fra Giobattista vedeva e taceva, o al più rispondeva: — Ah? — Eh? — Oh! — [p. 120 modifica]quando venivano a tastarlo anche lui, tirandolo ognuno dalla sua parte. — Fra Mansueto che gli raccomandava in tutta segretezza di guardarsi bene di Scaricalasino, il quale voleva reso conto del pezzo di terra venduto da sua moglie. — Il Padre Lettore che lo incensava lui adesso: — Il merito deve premiarsi. Chi l’avrebbe detto di cos’era capace Vito Scardo se non fosse stato lui? — Lo stesso fra Serafino che veniva a sfogare le sue amarezze, dopo quarant’anni di religione, rimasto sempre a veder salire gli altri e vivere di elemosina — anche per una presa di tabacco! Potete dirlo voi stesso, eh! Che ve ne pare? Non è un’ingiustizia? Allora vuol dire che non arriveremo mai a prendere il mestolo in mano, nè voi nè io!

Fra Giobattista, rassegnato invece, si stringeva nelle spalle. — Eh, tenere il mestolo... al giorno d’oggi.... È un affare serio.... Ci vuol prudenza... ci vuol giustizia.... ci vuol carità. — Tante belle cose. — E al Padre lettore: — Non dubitate. Il vostro tempo è venuto. Ci vogliono uomini in testa e di lettere adesso. E senza di voi.... Guardate, mettessero anche l’ultimo del convento a quel posto, mettessero me, guardate.... Senza il vostro aiuto che [p. 121 modifica]potrei fare? — E dare perfino ragione a fra Mansueto, ch’era il capo dei malcontenti. — Ci vuol politica.... Chiudere un occhio. Non siamo più ai tempi che il guardiano faceva il commissario di polizia.

In verità il povero guardiano aveva altro da fare adesso. La tremarella da una parte, e la bile che gli toccava ingoiare dall’altra, e far buon viso a chi gli mirava al cuore. Questo vuol dir politica, ora che il Santo Padre aveva mutato casacca, e il Re, Dio guardi, mandava truppe a far sacco e fuoco. Se la spuntava, bene. Ma se no, chi vi andava di mezzo per il primo era lui, padre Giuseppe Maria. Un calcio nella schiena, e lo sbalestravano chissà dove, a far penitenza, semplice fraticello, giacchè i pochi a lui fedeli gli nicchiavano in mano anch’essi.

Era quella famosa settimana santa del ’48; le stesse funzioni sacre si trascinavano svogliate, la chiesa quasi vuota, tutta la gente in piazza dalla mattina alla sera, ad aspettare le notizie col naso in aria. Giungevano fuggiaschi, carri di masserizie che temevano il sacco anch’essi, e rivoltosi di tutte le fogge, che contavano d’aver fatto prodigi, e correvano ad aspettare i regi laggiù, a Palermo, per [p. 122 modifica]massacrarli tutti. Il sindaco, a buon conto, fece armare i galantuomini per tener d’occhio la roba del paese.

La folla correva ogni tanto sulla collina del Calvario, in cima al villaggio, per vedere se era già cominciato il fuoco nella città laggiù, lontano, in fondo alla pianura verde — uomini, donne, cappuccini anche, ciascuno pel suo motivo. Vito Scardo invece non si muoveva, badava alla chiesa, badava al convento, badava ad aggiustare le sue faccende con questo o con quello, a quattr’occhi, intanto che fra Mansueto e il Padre Lettore perdevano il tempo a vendersi vesciche per lanterne l’un l’altro, o a correre lassù al Calvario a cercar notizie e le stelle di mezzogiorno. — Signori miei, badate a quel che fate! — ammoniva Vito Scardo. — Vincano questi, vincano quegli altri, badate a quel che fate!

Soltanto a sera tarda sgusciava fuori un momento per pigliar aria, e sentire quel che si diceva, e lì, sotto gli olmi della piazzetta, al buio, amici, conoscenti, che spuntavano come funghi, e perfino Malannata, in gran sussurro. Alcuni dissero pure di averci visto Scaricalasino, in confidenza con fra Giobattista. Malannata poi che faceva il mestiere di vender erbe, ed era sempre in giro, ne portava più [p. 123 modifica]di ogni altro, notizie fresche. Andava a raccoglierle sino a Scordia e a Valsavoja, insieme alle erbe, talchè il figliuolo, perchè parlasse in libertà, lo ficcava anche in cucina, col naso sulla scodella.

Giunsero le funzioni del Giovedì Santo, la comunione per tutti i frati, abbracci e baci a destra e a sinistra. — Fra Giobattista adesso, colle lagrime agli occhi, si picchiava il petto quasi fosse giunta l’ultima sua ora. Tanto che il guardiano si mise in sospetto e lo chiamò in sagrestia: — Che c’è, figliuol mio? Che sai? — Niente, Padre. Ho il cuore grosso. Il cuore mi dice che arriva il finimondo.

Con tutta la comunione in corpo era più furbo che mai, quel diavolo di Vito Scardo, e non diceva altro. Ma il guardiano tirò un sospirone. Il finimondo, per un servo di Dio della taglia di fra Giobattista, doveva essere la vittoria dei regi e della podestà legittima. — Gli era rimasto sempre sullo stomaco quel religioso. — Fra Mansueto invece, giallo come un morto, lo aspettò nel corridoio per raccomandarsi a lui. C’era qualcosa per aria? Eh? Che sapeva di certo? — Nulla.... di certo, nulla.... Chiacchiere. “Tempo di guerre, menzogne per le terre„. — Insomma ciascuno più era al buio di tutto, e più [p. 124 modifica]aveva da perdere, e perciò era inquieto, e più Vito Scardo diventava un pezzo grosso, con quell’aria di dico e non dico di chi la sa lunga davvero. Tanto più che verso sera mutò il vento di nuovo: bande, fiaccolate, grida di viva che arrivavano sin lassù, e non si sapeva che credere e che pesci pigliare. Il venerdì fu peggio ancora. Giorno di lutto, in chiesa e fuori, le notizie che facevano a pugni fra di loro, dei curiosi che correvano in piazza per vedere se c’era ancora la bandiera al Municipio. La sera i reverendi accompagnavano il Cristo morto, quando all’improvviso corse la voce: — Correte! — Lassù, al Calvario! — Si vede la città in fiamme! — Figuratevi come restò la processione! Fra Mansueto, nel deporre il cero in sagrestia, gli tremavano le mani. Il guardiano non era tranquillo neppur lui. In refettorio non si mise neppur la tavola. Ciascuno, mogio mogio, era andato a rintanarsi nella sua cella, e aspettava come andava a finire. Verso mezzanotte, toc toc, fra Giobattista in punta di piedi andò a bussare all’uscio del Padre guardiano — Che è, che non è? — Gli altri religiosi, che avevano il suo peccato ciascuno, e la tremarella addosso, stavano ad origliare, e quando lo videro uscire, poi, dopo [p. 125 modifica]mezz’ora, ciascuno voleva sapere la sua. Niente. Si vedrà domani, in capitolo. — Fra Giuseppe Maria protestava che ne aveva abbastanza, del guardianato, e fra Mansueto non voleva fastidi neppur lui. — Basta, vedremo. Sentiremo quello che consiglia lo Spirito Santo. — E spunta infine il sabato santo, sempre in quell’incertezza. Gli stessi curiosi in piazza; la bandiera sul campanile; la città che si vedeva fumare, laggiù, dal Calvario. Intanto, per pigliar tempo, si fecero le funzioni in chiesa, prima di passare ai voti, suonarono le campane a gloria, s’invocò il Veni creator, e finalmente si riunì il capitolo. Padre Giuseppe Maria esordì con un discorsetto tutto miele, tutta manna: — La religione — la fratellanza, — la carità. — Lui domandava perdono a tutti se non era stato all’altezza della carica, mentre ne deponeva il peso, troppo grave per la sua età, supplicando di lasciarlo l’ultimo degli ultimi, semplice servo di Dio. — Fra Mansueto chinava il capo anche lui. Il Padre Lettore cominciò un’orazione in tre punti, per dichiarare che i tempi eran gravi e a reggere la comunità ci voleva giustizia — ci voleva prudenza — tutte le belle cose che aveva detto fra Giobattista. Però il discorso diventava lungo, e fra Serafino pel primo cominciò [p. 126 modifica]a interrompere. — Basta. — Lo sappiamo. — Ai voti, ai voti. Le lingue si confusero, e successe una babilonia. Allora saltò su fra Giobattista; ch’era stato zitto, e disse la sua: — Signori miei, a che giuoco giuochiamo? Altro che perdere il tempo per sapere se deve essere Tizio o Caio a pigliare il mestolo in mano! Qui si tratta che stasera non si sa chi lo piglia sul capo, il mestolo!

Successe un putiferio. Fra Mansueto, che aveva la maggioranza, voleva approfittare del momento e passar subito ai voti. Fra Giuseppe Maria protestò invece che se ne lavava le mani. — Sì e no. — Una baraonda. In quella si udì scampanellare in furia alla portineria. — Un momento! — strillò fra Giobattista come un indemoniato, colle mani in aria. — Un momento! Eccoli qua!

Che cosa? Lo sapeva lui solo, che uscì correndo, colla tonaca al vento. Era proprio quell’altro, Scaricalasino, ansante e trafelato, che veniva a pigliar chiesa, quasi ci avesse già gli sbirri alle calcagna; poi Malannata, gongolante, e altri ancora, che confermavano la mal nuova. Vito Scardo li piantò tutti in asso, e capitò di nuovo come una bomba in mezzo ai reverendi che si accapigliavano già. [p. 127 modifica]

— Signori miei, non fate sciocchezze. Siamo belli e fritti! Tolgono le bandiere. Andate a vedere.

Era proprio vero, la notizia che i regi s’erano impadroniti della città fin dal giorno innanzi si era sparsa come un fulmine. Il paesetto era allibito. E ogni frate, dal canto suo, per togliersi di impiccio, e assicurarsi il quieto vivere, dava il voto a chi gridava di più:

— Fra Giobattista — Fra Giobattista. — Vito Scardo che assisteva allo scrutinio con tanto d’orecchi aperti, a un certo punto cadde ginocchioni, colle mani in croce. Piegò il capo a recitare in fretta due parole di orazione, e poi disse:

— Sia fatta la volontà di Dio.

E fece anche la sua, sbalestrando padre Giuseppe Maria a Sortino — glielo aveva detto il cuore al poveraccio! — fra Mansueto e altri turbolenti di qua e di là. S’intese pure col Giudice, ora che il buon ordine era tornato in paese, e le autorità si dovevano aiutare a vicenda per rimettere sotto chiave i malviventi sul fare di Scaricalasino, e vivere poi quieti e contenti com’era prima della rivoluzione, ciascuno al suo posto. Vito Scardo rimase alla testa della comunità temuto e rispettato, un colpo al cerchio, un [p. 128 modifica]colpo alla botte, chiudendo un occhio a tempo e luogo, badando a non far ciarlare le male lingue, a proposito della Scaricalasino, o della vedova Brogna, che era gelosa matta. Tutti contenti e lui pel primo.

Chi rimase scontento fu solo Malannata che gli era parso di dover mutar vita anche lui, col figlio guardiano, e diventare non so che cosa. Ed era il solo che osasse lagnarsi.

— Monaco! — Tanto basta! — Nemico di Dio!