Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto/Atto III

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Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Cortile negli appartamenti di don Alfonso.

Don Alfonso e Donn’Anna.

D. Alfonso. State lieta, donn’Anna: il vostro sposo

Giunto è in Castiglia, e qui l’attendo in breve.
Donn’Anna. Signor, talvolta il nostro cuor presago
È co’ palpiti suoi di sue sventure.
Del Duca il nome nel mio sen non puote
Destar letizia, anzi in udirlo io provo
Un’incognita pena.
D. Alfonso.   Eh, nel mirarlo
Cangerete pensier. Non ben s’intende
Il linguaggio del cuor; sembra talora

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Ch’ei predica sventure, ed ai temuti

Palpiti non intesi il ben succede.
Donn’Anna. Lasciate pria che come Duca il vegga,
Anzi che accodo come sposo.
D. Alfonso.   Ei viene;
Non gli siate scortese. Abbian cotesta
Prova da voi d’ubbidienza almeno
L’amico, il padre, il Re.

SCENA II.

Il Duca Ottavio, Donna Isabella da uomo, e detti.

D. Ottavio.   Signore, un cenno

Del monarca clemente a voi mi guida.
D. Alfonso. Ecco il regio voler. Questa è donn’Anna,
Che in isposa vi elesse.
D. Ottavio.   (Aimè! Che sento?
Donna sposar per cui d’amore in vece
Avversione ha il cuor?)
Donn’Anna.   (Lieto non parmi).
D. Alfonso. Appressatevi, Duca, e il labbro vostro
Del vostro amor la vaga sposa accerti.
D. Ottavio. Donn’Anna, il mio signor di me dispose:
Venero il cenno, e la mia destra io v’offro.
Donn’Anna. Signor, non deggio ricusar quel nodo,
Cui la reale autorità prescrive.
D. Alfonso. Signor, più caldi gli amorosi accenti
Sperai udir d’una donzella in faccia. (al Duca
D. Ottavio. In più teneri sensi io non saprei
Scioglier la lingua al dolce amor non usa.
Donn’Anna. Vi dispenso, signor, da quello sforzo
Che costarvi potria soverchia pena.
D. Alfonso. Duca, chi è il cavalier che con voi miro?
D. Ottavio. Questi, o signor... Ma tal arcano io deggio

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Svelarvi in lui, che a segretezza impegna;

Con voi sol, me presente, ei parlar brama.
Donn’Anna. Signor, vuole il dover ch’io m’allontani;
Lo farò, se v’aggrada. (a don Alfonso
Donn’Anna.   Ite, me avrete
A momenti con voi.
D. Alfonso.   (Donna a me sembra.
Giusta curiosità sentir mi sprona). (si ritira
soltanto per non essere, ascoltando, osservata.
D. Ottavio. Sotto spoglie virili a voi presento
Donna, signore, per natali illustre,
Da un cavaliero nell’onore offesa.
In Castiglia lo cerca, e s’ei v’è colto,
Contro il vile offensor giustizia chiede.
D. Isabella. Signor, donna Isabella, unico germe
De’ duchi d’Altomonte, a voi s’inchina,
E il favor vostro in suo soccorso implora.
D. Alfonso. Tutto farò per voi; ma chi è l’audace
Cavalier, che vi offese e vi abbandona?
D. Isabella. Don Giovanni Tenorio.
D. Alfonso.   È a me ben noto;
Molto degli avi suoi parlò la fama.
D. Isabella. Di lui non narrerà che il tristo inganno,
La fuga vile e ’l mio tradito amore.
D. Ottavio. Della dama il dolor merta pietade.
D. Alfonso. Se quivi giugne il cavalier, giustizia
Dal Re v’impetrerò.
Donn’Anna.   No, don Alfonso,
Fede non date alle menzogne altrui;
Quella donna sarà del duca Ottavio
Un’amante celata. Averla seco,
Senza il Re provocar, meglio non puote
Che con sì vago ed opportuno inganno.
Prevenuto il suo cuor conobbi allora
Che appena mi guardò; che tardo, e a forza,

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Disse offrirmi la destra. A tempo il cielo

Scopre gl’inganni suoi. Non voglio il Duca
A un nodo violentar, ch’egli abbonisce;
Ami pure a sua voglia; io gliel concedo.
D. Alfonso. Troppo presto, donn’Anna, al van sospetto
Vi abbandonate. Era miglior consiglio
Rispettar il mio cenno.
D. Ottavio.   (L’ire sue
Non son figlie d’amor).
D. Isabella.   A torto, amica,
Voi di me sospettate. Il Duca vostro
Oggi solo vid’io. Pietà lo mosse
A prestarmi soccorso, e non amore;
Lo giuro al ciel.
Donn’Anna.   Sì, crederollo a voi,
Che degli inganni suoi complice siete.
Non si scolpa l’amante, e non si cura
Il sospetto sgombrar dal seno mio.
E qual prova maggiore aspettar deggio
Della sua indifferenza, anzi dell’odio,
Onde il mio cuor, onde il mio volto abborre?
Grazie, o numi del ciel; scopersi il vero.
Parto per non mirarlo. (A tempo io colsi
L’opportuno pretesto all’odio mio). (parte

SCENA III.

Don Alfonso, il Duca Ottavio e Donna Isabella.

D. Alfonso. Duca, irata è donn’Anna. A voi s’aspetta

Disingannarla, e renderla placata.
D. Ottavio. Come ciò far potria? Non vidi mai
Femmina più leggera e men prudente.
D. Alfonso. D’un forte amor la gelosia è compagna.
D. Ottavio. Di sì tenero amor poco son pago.

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Priegovi, se di me punto vi cale,

Non mi astringhiate ad un tal nodo.
D. Alfonso.   Un nodo
Stabilito dal Re, scior non si deve.
Donn’Anna è vostra sposa, al padre suo
Ha impegnata per voi la vostra fede.
D. Ottavio. Ma se il cuor non consente...
D. Alfonso.   Il cuor rammenti
Non il vano desio, ma il suo dovere. (parte



SCENA IV.







Il Duca Ottavio e Donna Isabella.






D. Isabella. Duca, oh quanto mi duol del dolor vostro!
Io son cagion che voi penate; io sono
L’innocente cagion de’ vostri sdegni.
D. Ottavio. Donna Isabella, io più de’ vostri casi
Che de’ miei prendo cura. Altro non bramo
Che rinvenir chi v’oltraggiò. Col brando
Saprò sfidarlo, e s’egli cade estinto,
A voi non mancherà forse lo sposo. (parte

SCENA V.

Donna Isabella, poi Don Giovanni.

D. Isabella. Volesse il ciel, che senza scorno o macchia

Dell’onor mio cangiar potessi affetto!
Forse il Duca saria la degna fiamma
Del mio tenero cuor. Stelle, che miro!
Ecco il mio traditor. Sì, lo ravviso.
Lo presentano i numi agli occhi miei.
Mi trema il cuor. Che far non so. Consiglio
Prenderò dall’amore e dallo sdegno. (si ritira

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D. Giovanni. Ovunque giri curioso il guardo,

Splender vegg’io la maestade Ibera.
Ma ancor non s’appresenta agli occhi miei
Rara beltade a incatenarmi il cuore.
Le catene d’amore io prendo a giuoco,
Poichè costanza nell’amar non serbo.
Amo sol quanto1 il giovanil desio
Secondar mi compiaccio, e solo apprezzo
Quella beltà che possedere io spero.
Piacquemi un dì donna Isabella, e quasi
Mi sedusse ad amarla, oltre il costume;
Ma credendo l’incauta a’ miei sospiri,
Sol di mia libertà mi resi amante.
Così la pastorella, ed altre cento
Lusingate da me... Ma quale oggetto
Si presenta a’ miei lumi? O ch’io traveggo,
O che donna Isabella in viril spoglia
Importuna mi segue. Ah sì, ch’è dessa;
Quest’incontro si sfugga. (in atto di partire
D. Isabella.   Cavaliero,
Non isdegnate trattenere il passo:
Favellarvi degg’io.
D. Giovanni.   Qualunque siate,
Incognito a’ miei lumi, ad altro tempo
Serbatemi l’onor de’ vostri cenni:
Trattenermi non posso.
D. Isabella.   Ah don Giovanni,
Così l’effigie mia come dal cuore,
Dalla memoria cancellata avete?
Non ravvisate in me quell’infelice
Che ingannata da voi, da voi tradita,
Spoglie cambiò per inseguirvi? Ingrato!
Non conoscermi fingi?
D. Giovanni.   In viril spoglia

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Dunque femmina siete? Ed io fui quegli

Che v’ingannò, che vi tradì, che fede
Vi promise, e mancò? Non mi sovviene.
D. Isabella. Non vi sovvien donna Isabella? Il crudo
Fiero dolor, le lacrime, i sospiri,
Le vigilie, i disagi, il gran viaggio
Aver potriano il volto mio cangiato;
Ma un nome tal dovria destarvi in seno
Il rimorso, il rossor; dovreste, ingrato,
Scuotervi dal letargo, e i giuramenti
Rammentar, che faceste al cielo, ai numi.
D. Giovanni. E pur di ciò non mi sovviene ancora.
D. Isabella. Perfido, voi la fè non mi giuraste,
Non mi giuraste amor?
D. Giovanni.   So che il mio cuore
Mai s’impegnò di serbar fede a donna.
D. Isabella. Ah t’intendo. Dir vuoi, mendace, infido,
Che se tua sposa m’appellasti un giorno,
Lo dicesti col labbro, e non col cuore;
Che fingesti d’amarmi, e che rapita
Dall’incauto amor mio soverchia fede2,
Or me deridi, e il mio dolor schernisci;
Sogno non è la fede mia tradita,
Sogno non è mio vilipeso amore.
Invano, traditor, finger procuri;
Il mio volto, il mio nome, i nostri ardori
Non rammentar. Empio, t’ascondi invano;
Ti conosco pur troppo; e se ricusi
Render giustizia al mio tradito amore,
Farò col sangue tuo vendetta almeno.
Su via, quel ferro impugna. O vo’ la vita
Perdere teco, o risarcir miei danni.
D. Giovanni. Non soglio, amico, a mentecatti, a insani
Prestar orecchio. L’impugnar la spada

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Contro di voi saria viltà.

D. Isabella.   Se insana,
Se mentecatta io sia, noi lo vedremo
Al paragon dell’armi. O quel tuo ferro
Impugna tosto, o ti trafiggo inerme.
D. Giovanni. (Che risolvo, che fo?)
D. Isabella.   Se cuor avesti
D’abbandonarmi, sarai meno ardito
Nel darmi morte? Ma che darmi morte?
Tu morirai, fellone.
D. Giovanni.   (Eh pera ormai
Questa importuna turbatrice odiosa
Della mia pace). Ecco, la spada impugno:
Voi del vostro morir l’ora affrettate.
D. Isabella. Darà forza al mio braccio il giusto cielo. (si battono

SCENA VI.

Il Commendatore e detti.

Commend. Cavalieri, fermate... Oh ciel, che miro?

Qui don Giovanni? Amico, e quando, e come
In Castiglia giugneste? E perchè mai
Cimentarvi col ferro?
D. Giovanni.   Oh saggio, oh degno
Commendator, di questo regno onore,
Permettete che imprima un umil bacio
Su quella destra generosa invitta.
Commend. Nol consentirò mai.
D. Isabella.   (Qual importuna
Remora ai sdegni miei?)
Commend.   Ma voi sì poco
Fate conto di me? Giunto in Castiglia,
A caso ho da saperlo? E non degnate
Ospite divenir d’umile albergo.

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D. Giovanni. Pochi momenti son, ch’io posi il piede

Nella regia città.
Commend.   Qui giunto appena,
V’esponete a’ cimenti?
D. Isabella.   OMai soverchio
Rispettai, cavaliero, il vostro aspetto, (al Commend.
Non impedite il proseguir la pugna.
Commend. Sospendete per poco il vostro sdegno.
Piacciavi almen che la cagion io sappia
Dell’ire vostre.
D. Isabella.   A voi saper non giova
Ciò che al mio labbro pubblicar non lice.
Don Giovanni mi offese; ed io col ferro
Chiedo ragion del ricevuto oltraggio.
D. Giovanni. Strano caso udirete. Agli occhi miei
Sconosciuto è quel volto. Ei vuol vendetta,
Nè so di che. Uomo talor si dice,
E di donna talora ostenta il sesso.
Nulla promisi, e mancator m’appella.
D. Isabella. Sì, che sei mancatore...
D. Giovanni.   Ah più non soffro...
Commend. Un momento vi chiedo. Se fia vero (a donna Isabella
Che v’abbia offeso don Giovanni, io stesso
Giustizia a voi farò. Tradir non soglio
La ragione, il dover per l’amistade.
Svelate in che mancò.
D. Isabella.   L’offesa è tale,
Che celarla conviene al mio decoro.
Commend. Pubblica non sarà, quand’io la sappia.
D. Isabella. Ma che voi la sappiate io non consento.
Commend. Diffidate di me?
D. Giovanni.   Non sa produrre
Dello sdegno ragion. Privo di senno
Lo trasporta il furor.
Commend.   Deh non vogliate

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Cimentarvi con tal che non conosce

Nè ragion, nè dovere. A un mentecatto
Volete voi prestar orecchio? E quale
Fama sperate conseguirne al fine?
Se vinto rimarrete, avrete il danno;
Se vincitor, dir v’udirete in faccia,
Che lieve cosa è vincere uno stolto.
D. Isabella. Stolto non sono; a vendicarmi intendo3.
Commend. Io del Re mio signor v’impongo in nome,
Desister dalla pugna. Il regio sdegno
Intimo a voi, se d’ubbidir sdegnate.
D. Isabella. Venero il regio nome: ad un tal cenno
Depongo il ferro, e l’ira mia sospendo.
Tempo verrà che il traditore indegno4
Pagherà col suo sangue i torti miei. (parte

SCENA VII.

Il Commendatore, Don Giovanni, poi Don Alfonso, il Duca Ottavio e guardie.

Commend. Sì, sì, tempo verrà. Ma, don Giovanni,

Non vo’ tardar di presentarvi ai piedi
Del mio Signor; venite meco; io spero
Grato rendermi a lui per sì bel dono.
D. Giovanni. Dalla vostra bontà sperar non posso
Che benefici effetti.
Commend.   Io mi rammento
Di quanto il vostro genitore illustre
Fece un tempo per me. Quanto ha perduto
L’Italia in lui! Della sua spada ancora
Si rammentano i Mori... A noi sen viene
Don Alfonso, del Re ministro e amico,

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D. Giovanni. Lo conosco per fama: un cavaliero

Egli è, che amare e che temer si è fatto.
D. Alfonso. Commendator, per oggi vi dispensa
Il Re dai primi rispettosi uffizi.
Commend. Un nuovo effetto della sua clemenza.
Amico, a voi un cavalier presento
Degno del vostro e del reale amore:
Don Giovanni Tenorio egli s’appella;
In Partenope nacque...
D. Alfonso.   Il nome illustre
Rammento ancor del genitor suo prode.
(Quel che tradì donna Isabella è questi).
(piano al duca Ottavio
D. Ottavio. (Sarà desso senz’altro). (risponde piano
D. Giovanni.   A voi s’inchina (a don Alfonso
Tal che vi stima, ed ubbidirvi anela.
D. Alfonso. Disponete di me, nè vi pensate
Questa cittade abbandonar sì tosto.
(Chiarirmene saprò). Commendatore,
Conducete donn’Anna al vostro albergo.
Ella andarvi desia. L’amico vostro
Meco resti per or. Fra poco anch’egli
Vi seguirà.
D. Giovanni.   Sarò da voi fra poco. (al Commendatore
Commend. Deh non fate, signor, ch’io sia deluso.
(a don Giovanni
Parca mensa vi attende ed un gran cuore. (parte
D. Alfonso. (Ritiratevi, Duca). (piano al Duca
D. Ottavio.   (Sì, frattanto
Donna Isabella a rintracciare io volo). (parte

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SCENA VIII.

Don Alfonso, Don Giovanni e guardie in lontano.

D. Alfonso. Don Giovanni, voi siete illustre germe

Di segnalati, gloriosi eroi.
Degenerar dalle virtù degli avi
Non potreste volendo, onde non puossi
Da voi sperar ch’opre famose e degne.
Pur violenza d’amor, che vincer suole
Gli eroi senza riserva e i saggi opprime,
Potria spargere in voi quel rio veleno
Che alle menti più chiare usurpa il senno,
Nè appellar io saprei sfregio e delitto
Una tale sventura. Il molle istinto
Dell’inferma natura, il più bel fiore
Di giovanile età, vezzi e lusinghe
Di femminil sembiante han forza tale,
Che se non fugge un cuor, resiste appena.
No, don Giovanni, non chiamate al volto
L’importuno rossor; io compatisco
Le amorose follie. Da voi sol chiedo
Di vostra lealtà sincere prove.
Ditemi, è ver che lusinghiero amante
Di fè mancaste a verginella illustre?
D. Giovanni. Pur troppo anch’io della comun sventura
A parte fui nel seguitar Cupido.
Amai, ed amo ancor; ma l’amor mio
Colpevol non mi rende, anzi l’onesta
Fiamma m’accende di pudico amore.
Amo la sposa mia, quella che il cielo
Mi destinò, quella il cui nodo piacque
Alla patria, ai congiunti ed al mio cuore.
D. Alfonso. Posso il nome saper?
D. Giovanni.   Donna Isabella
De’ Duchi d’Altomonte.

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D. Alfonso.   E fur le nozze

Stabilite fra voi?
D. Giovanni.   Volesse il cielo!
Che or non sarei dall’idol mio lontano.
D. Alfonso. Ma perchè abbandonarla?
D. Giovanni.   Empio destino
Mi divide da lei. Mi offese ardito
Un ministro del Re. Dall’ira acceso,
L’invitai colla spada; ei venne, e il fato
Lo fe’ cader sotto il mio braccio al suolo.
Spiacque al Re la sua morte: io per sottrarmi
Da’ primi sdegni suoi, lasciai la patria;
Mi staccai dal mio bene. (Una menzogna
Sostener non si può senz’altre cento).
D. Alfonso. Donna Isabella v’inseguisce e piange,
E al tradito amor suo vendetta chiede.
D. Giovanni. O che donna Isabella è fuor di senno,
O codesta è una larva.
D. Alfonso.   Io stesso ho seco
Favellato poc’anzi.
D. Giovanni.   E qual certezza
Avrà colei che finge il nome e il grado,
Perchè voi le crediate?
D. Alfonso.   Assai distinti
Sa narrar i suoi casi.
D. Giovanni.   Un testimonio
Fallace troppo è della donna il labbro.

SCENA IX.

Il Duca Ottavio e detti; poi Donna Isabella.

D. Ottavio. Signor, donna Isabella è qui dappresso,

Che parlarvi desia.
D. Alfonso.   Giunge opportuna.

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D. Ottavio. (Don Giovanni è confuso).

(da sè, poi va ad introdurre donna Isabella
D. Giovanni.   (Or sì v’è duopo
Di sciolto labbro e coraggioso ardire.
D. Isabella. (Ecco il mio traditor).
D. Giovanni.   Dov’è colei
Che di donna Isabella usurpa il nome?
D. Alfonso. Eccola innanzi a voi.
D. Isabella.   Sì, quella io sono...
D. Giovanni. Perdonate: signor, questi ch’io miro,
Uomo o donna non so, mentisce il nome,
Favole sogna, e può mentire il sesso.
Altro volto leggiadro, altre pupille,
Altra maestà di portamento altero
Serba donna Isabella, altri costumi
Ornano il di lei cuor. Le altrui lusinghe
Vincere non potriano il suo rigore.
Come? donna Isabella in viril spoglia,
Sola fuor della patria, andare in traccia
D’un fuggitivo? Una donzella illustre
Di fresca età, d’onesto amore accesa,
Non ardisce cotanto. Ah se non fosse
Dal vostro aspetto il mentitor difeso,
Lo vorrei di mia man stendere al suolo.
D. Isabella. Ah perfido! Ah crudel! Signor, que’ detti
Son d’un barbaro cuor studiati inganni.
Colpe a colpe raddoppia il traditore,
Moltiplica gl’insulti, e al primo scherno
Ora aggiunge il secondo. Ah non mentisco!
Io son donna Isabella. Egli è lo sposo
Che mi fu destinato, e che spergiuro
Mi abbandonò.
D. Giovanni.   Facile è il dirlo, audace,
Ma provarlo convien; qual testimonio
Addur potrai, che ogni tuo detto approvi?

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D. Isabella. Tutti i numi del ciel.

D. Giovanni.   Gli scellerati
Orror non hanno a profanare i Dei.
D. Isabella. Scellerato tu fosti, e i Dei scherniti
Per lor, per me, vendicheran le offese.
Giustizia chiede l’amor mio tradito. (a don Alfonso
D. Alfonso. Per giustizia ottener, porger non basta
Mal fondate querele. Ove si tratta
Di giudicar, le prove si richiedono
Chiare, qual chiaro è nel meriggio il sole.
D. Giovanni. Di giustissimo cuor giusta sentenza!
D. Isabella. Ah lo veggo pur troppo! I’ son da tutti,
Misera, abbandonata. I numi stessi
Divenuti mi son nemici ancora.
Deh, signor, per pietà...
D. Alfonso.   Ma che vorreste
Ch’io facessi per voi? Fra due che al pari
Negano in faccia mia, che i testimoni
Seco non hanno, a chi5 degg’io frattanto
Prestar fede maggior? Qualunque siate,
Itene al vostro Re. Se dritto avete
Sovra il cuor dello sposo, ei lo costringa
A serbarvi la fè.
D. Isabella.   Stelle! degg’io
L’oltraggio tolerar senza vendetta?
Duca, gli uffizi vostri...
D. Ottavio.   A tal sventura
Riparar non saprei.
D. Isabella.   Se la mia vita
Altro non valmi che a serbar l’indegno6
Cagion del mio dolore, ah questa ancora
Offrasi in sacrifizio al mio tiranno.
Sì, perfido, morrò. Se non v’è in terra

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Chi ti sappia punir, faranlo i numi,

Lo farà il tuo delitto e il tuo rossore. (parte

SCENA X.

Don Alfonso, Don Giovanni e il Duca Ottavio.

D. Giovanni. Dubiterete che colui sia stolto? (a don Alfonso

D. Alfonso. Che dubitar non so. Seguite, o Duca,
Quell’infelice, e sia guardata in guisa
Che non perisca.
D. Ottavio.   Lo farò. (parte
D. Giovanni.   La morte
Il minore saria de’ suoi disastri.
Viver senza saperlo è della morte
Male ancora peggior.
D. Alfonso.   Sì, ma dobbiamo
Preservare la vita anche agl’insani.
Don Giovanni, desio per vostro bene,
Che stolto sia chi traditor vi appella. (parte

SCENA XI.

Don Giovanni, poi Elisa.

D. Giovanni. Stolta il duol la farà, siccome stolta

La rese un tempo il faretrato arciero.
Misero me! se men coraggio avessi
Nel sostener, che nell’ordir gl’inganni.
Non mi fido però di vincer sempre,
E un altro incontro paventar mi è forza;
Altrove andrò. Non seguirà per tutto
L’audace i passi miei.
Elisa.   Mio ben, mio sposo,
Pur alfin vi trovai.

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D. Giovanni.   Diletta Elisa!

(Ecco un nuovo cimento: arte m’assista).
Elisa. Da che da me vi separaste, oh quante
Lacrime ho sparso dolorose! Il cielo
Secondò i voti miei. Qui giunta appena,
Ecco vi trovo, e ritrovar io spero
Lo stesso amor, la stessa fede in voi.
D. Giovanni. Ah sì, mio ben, non v’ingannaste: io sono
Fedele al vostro amor. (Stolta se il credi).
Elisa. Deh se mi amate, che si tarda, o caro,
Le nozze stabilir?
D. Giovanni.   Riguardi onesti
Me le fan differir.
Elisa.   Tutti i riguardi
Supera un vero amor. Togliete ormai
Dall’amante mio cuore i miei sospetti.
Vi piace il volto mio? Queste mie luci
Spargon fiamme per voi? V’offro il mio cuore:
Se accettarlo tardate, il ciel potrebbe
Di me forse dispor.
D. Giovanni.   Morrei di pena;
Ma se sorte miglior per voi si offrisse,
Arbitra siete ancor del vostro cuore.
Elisa. (Ahimè! scaltro risponde). Ingrato! io sono
Arbitra di me stessa? E qual mi resta
Libertà di voler da che son vostra?
Amore uniti ha i nostri cuori: or resta,
Che unisca amor le nostre destre ancora.

SCENA XII.

Carino e detti.

Carino. (Oh ciel, che miro! L’infedele Elisa

Col nuovo amante! Oh traditrice indegna!)
D. Giovanni. Ma per ora non lice...

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Elisa.   Eh tutto lice

A chi serba nel cuore onesta fiamma.
Se mi amaste, crudel, com’io v’adoro,
Cerchereste d’avermi a voi vicina.
Carino. Cavalier... (a don Giovanni
Elisa.   (Me infelice!)
D. Giovanni.   A me che chiedi?
Carino. Ai finti detti, alle mentite voci
Di femmina sleal, non date fede.
Elisa vi tradisce. Ella ha per uso
D’ingannare gli amanti.
D. Giovanni.   E d’onde il sai?
Elisa. Eh fatelo tacer.
D. Giovanni.   No, parla.
Carino.   Io stesso
Della sua infedeltà prove ho sicure:
M’ha giurata la fede, or m’abbandona.
D. Giovanni. Senti, Elisa, il pastor. (ad Elisa
Elisa.   Nol nego, il feci
Per compiacer la madre mia. Voi solo
Amo però di vero amor.
D. Giovanni.   Non lice
Sciogliere i nodi altrui. Pastor, ti rendo
La sposa tua: s’ella è infedel, perdona
L’uso del sesso in lei; credi che meno
Incostanti non son le donne nostre.
Elisa. Ah barbaro, così...
D. Giovanni.   Ma che? Vorreste
Per novello desio cangiar lo sposo?
Bello invero sarebbe un tal costume!
Oh quante, oh quante imitatrici avreste,
Se ciò far si potesse! Eh siate paga
Di lui, che vi accordò la madre e il cielo.
Elisa. Mi schernite, crudel?
Carino.   No, no, vi cedo (a don Giovanni

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Tutte le mie ragion. Sciolgasi un nodo,

Che abborrisco assai più che morte istessa.
Vostra sia, non m’oppongo, e della fede
Che l’ingrata giurommi, a voi non caglia.
D. Giovanni. Cavalier non sarei, se i propir affetti
Superar non sapessi. A te la rendo;
Prendila, se t’aggrada; e ti rammenta
Cauto celar ciò che svelar non giova. (parte

SCENA XIII.

Carino ed Elisa.

Elisa. (Ahimè! parte l’infido, e m’abbandona).

Carino, oh Dio!
Carino.   Sì, sì, Carino invoca.
Se ti veggo morir, più non ti credo.
Elisa. E tu pur m’abbandoni?
Carino.   Almen son lieto,
Che vendetta farò de’ torti miei.
Elisa. Gl’infelici oltraggiar è un’empietade.
Carino. E il mancare di fè sarà virtude?
Elisa. Morirò disperata.
Carino.   Ancor fìngesti
Di volerti ferir; fallo davvero.
Elisa. E avrai cuor di mirarlo?
Carino.   E il braccio mio
Ti presterò, se il tuo bastar non puote.
Elisa. Ah sì tosto cangiata hai la pietade
In barbaro rigor?
Carino.   Sì, qual tu stessa
Per amante novel cangiasti il cuore.
Elisa. Stelle! che far degg’io?
Carino.   Fa ciò che brami.
Fa tutto ciò che un disperato cuore

[p. 324 modifica]
Può suggerire a un schernitor schernito.

Resta col tuo dolor, col tuo rimorso.
Se più torno ad amarti, il giusto cielo
Strugga ne’ campi miei la bionda messe,
Vada disperso il gregge mio, nè trovi
Erba che lo satolli, o pur la trovi
Sparsa di rio veleno; ingrata, infida,
Della tua vanità son questi i frutti.
Ch’io ti miri mai più? Se più ti miro,
Chiuder possa le luci al sonno eterno.
Ch’io ti parli mai più? Se più ti parlo,
Arda la lingua mia d’eterna sete.
E se più t’amo, e se d’amor mi senti
Delirare per te, Giove supremo
Con un fulmine suo m’incenerisca. (parte

SCENA XIV.

Elisa sola.

D’irato amante i giuramenti audaci

Giove non ode, e van dispersi al vento.
Ne’ miei vezzi confido. Armi son queste
Rade volte infelici. Ha la natura
Di lor difesa provveduti i parti
Della terra e del mar. Diede alla tigre
L’ugna rapace, al fier leon la forza,
Le corna al toro, al corridore i piedi,
I denti al cane, e squamme e gola ai pesci,
E penne e rostro ai volatori augelli;
All’uom diede il consiglio, ed alla donna
I molli vezzi, i dolci sguardi, il pianto.


Fine dell’Atto Terzo.

  1. In altre edizioni: quando.
  2. Così si legge io tutte le edizioni; e sarebbe arbitraria ogni correzione.
  3. In altre edizioni si legge: Stolto non sono, e vendicarmi intendo.
  4. Manca questo verso nell’ed. Zatta e in altre.
  5. Nell’ed. Zatta ed in altre è stampato: e che.
  6. Così in tutte le edizioni, ma forse deve leggersi indegna.