Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Campagna nelle vicinanze di Castiglia.

Carino ed Elisa.

Carino. Elisa, addio. (in atto di partire

Elisa.   Ferma, Carino ingrato,
Così tosto lasciarmi?
Carino.   Il sol rimira,
Come a gran passi ver l’occaso inclina.
Se più qui tardo, giungerà la notte,
E dalle tane i fieri lupi uscendo,
Delle pecore mie scempio faranno.
Elisa. Più pensi al gregge che ad Elisa, ed io
Tutto darei per te. Fin la mia cerva
Dimestica, vezzosa, e delle Ninfe

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Piacevole diporto, ancor darei

Per lo dolce piacer di starmi teco.
Carino. Ci rivedrem fra poco. Assicurato
Che avrò l’ovile, e dalle poppe il latte
Premuto avrò delle giumente, Elisa,
Ritornerò.
Elisa.   Deh fa che brieve, o caro,
Sia la tua lontananza; io non ho pace
Lungi da te. Nella capanna mia
Passerem della notte una gran parte
Fole narrando. Sai l’antica madre
Quanto goda vedermi a te vicina.
Carino. Chi di me più felice? Io non invidio
De’ più ricchi pastor fortuna amica.
Ma dimmi, Elisa mia, codesto affetto
Sempre a me serberai? Mi sarai fida?
Elisa. Mi offende il dubbio tuo. Vedrassi prima
Starsi col lupo l’agnellino in pace;
Dalle spine fruttar pomi soavi;
Volger al monte il loro corso i fiumi,
Ch’io ti manchi di fè. Tu sei, Carino,
L’unica del cuor mio pace e conforto.
Per te vivo e respiro, e voglio teco
O viver lieta, o terminar miei giorni.
Carino. Oh soavi parole! Oh cari accenti,
Che il cuor m’empion di gioia! Idolo mio,
Vo’ che finiam di sospirar; vedrai,
Se l’amor di Carino è amor sincero.

SCENA II.

Elisa sola.

È tempo ormai che una costante fiamma

Nel mio seno s’accenda. Amai finora
Quasi per giuoco, or vo’ cambiar costume.

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Di Titiro e Montan, d’Ergasto e Silvio,

Di Licisca1 e Megacle e di Fileno,
E di tant’altri che mi furo amanti,
Finsi gradir per vanità l’affetto;
Carino ha un non so che fuor dell’usato,
Che mi penetra il cuor. Quel suo modesto
Soave favellar, quel ciglio umile,
L’onestà de’ costumi, il cuor sincero,
Lo distingue dagli altri, e nel mio seno
Serbogli ’l primo luogo. Io l’amo, e voglio
Questa gloria donare a’ merti suoi,
D’aver reso il cuor mio costante e fido.
Ma quai grida son queste? (verso la scena

SCENA III.

Don Giovanni e detta.

D. Giovanni. (Di dentro) Ah scellerati!

Elisa. Cieli, che mai sarà?
D. Giovanni.   La vita almeno
Non mi togliete. (di dentro
Elisa. Un uom corre, e si lagna.
Che mai gli avvenne?
D. Giovanni. (Fuori) Ohimè infelice! solo,
Delle vesti spogliato e degli arredi,
Dove m’aggirerò?
Elisa.   Quale sventura,
Signor, v’accade? Poss’io darvi aita?
D. Giovanni. Empio drappel di masnadieri indegni
Mi spogliò qual vedete. I servi miei
S’involaro al periglio; il mio destriero
Hanmi rapito, e quanto di prezioso
Meco aveva, perdei.
Elisa.   (Misero! quale
Pietà in seno mi desta!) Io tal sono,

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Sicchè possa recare all’uopo vostro

Convenevol sollievo. Una capanna,
Un rozzo saio, affumicato pane,
Acqua pura del fonte e poche erbette
Offerirvi poss’io. Se ciò vi basta,
L’arbitro voi ne siete.
D. Giovanni.   Ah sì, mia bella,
Voi ben potete alleggerir miei mali.
Non ricuso l’offerta, e sarò grato
Più di quel che pensate.
Elisa.   A voi non offro
Per desio di mercè lo scarso aiuto.
Pietà in me desta il naturale istinto
Di giovare agli oppressi, e il tratto vostro,
Che fra i disastri il nobil cuor non cela,
Tutto m’impegna ad offerirvi quanto
Dalla mia povertà mi fia concesso.
D. Giovanni. (Atta mi sembra a compensar costei
Ogni perdita mia. La sua bellezza
Val più di quanto i masnadier m’han tolto).
Elisa. Che parlate fra voi? Sdegnate forse
I miei poveri doni?
D. Giovanni.   Ah no, gli apprezzo
Quanto la stessa vita. Un maggior bene
Anzi spero da voi.
Elisa.   S’è in mio potere,
Negar non lo saprò.
D. Giovanni.   Del vostro cuore
Il prezioso dono.
Elisa.   E che fareste
Del mio povero cuor?
D. Giovanni.   Vorrei riporlo,
Cara, nel seno mio.
Elisa.   Mal si conviene
Ad un nobile sen rustico cuore.

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D. Giovanni. L’oltraggio della sorte assai compensa

Il vostro di beltà ricco tesoro.
Al primo balenar de’ vostri sguardi
Io ferito rimasi, e tanto strazio
Non fecero di me que’ masnadieri,
Quanto voi ne faceste del cuor mio.
Elisa. (Se creder gli potessi!) In cotal guisa
Sogliono favellar tutti coloro
Ch’han desio d’ingannar semplice donna.
Nerina di Nicandro, Elia d’Ergasto,
Ambe restar da cittadini amanti,
Meschinelle, ingannate; al loro esempio
Cauta mi resi.
D. Giovanni.   (E pur dovria cadere).
Tutti non han lo stesso cuor nel petto.
E il periglio fatal testè incontrato
Non può farmi mentir; la pietà vostra,
Non men che la beltà, mi rese amante.
Elisa. (Sorte, non mi tradir). Signor, se aveste
Amor per me... (Che fo del mio Carino?
Scorderommi sì tosto?)
D. Giovanni.   A voi prometto
Un’eterna costanza.
Elisa.   Impunemente
Manchereste di fede a un’infelice?
D. Giovanni. Non sa tradir chi ha nobil sangue in seno.
Elisa. Siete voi cavaliero?
D. Giovanni.   Io nacqui tale,
E tal morrò.
Elisa.   Dove la culla aveste?
D. Giovanni. Di Partenope in seno.
Elisa.   I vostri passi
Dove or sono indrizzati?
D. Giovanni.   In ver Castiglia.
Elisa. Per qual cagion?

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D. Giovanni.   Per inchinarmi al trono

Del vostro Re, che alla Castiglia impera.
Elisa. Il nome vostro?
D. Giovanni.   Il nome mio non celo:
Don Giovanni Tenorio.
Elisa.   Ah don Giovanni!
D. Giovanni. Sospirate? Perchè?
Elisa.   Sa il ciel, se avete
Con voi tutto portato il vostro cuore.
D. Giovanni. Tutto meco sinora ebbi il cuor mio.
Ora non più, che fu da voi rapito.
Elisa. (Vorrei far mia fortuna. Il mio Carino
Mi sta nel cuor).
D. Giovanni.   Siate pietosa, o bella;
Io trarrovvi dal bosco. In nobil tetto
Posso guidarvi a comandare altrui:
Le rozze lane cangerete in oro,
E di gemme fornita, ogni piacere
Sarà in vostra balìa.
Elisa.   Se non temessi
Rimanere delusa...
D. Giovanni.   Io non saprei
Come meglio accertarvi: ecco la mano.
Elisa. Fra noi s’usa giurare, e sono i Dei
Mallevadori della fè.
D. Giovanni   (Si giuri
Per posseder questa beltà novella).
Giuro al Nume che al cielo e al mondo impera,
Voi sarete mia sposa.
Elisa.   E se mancate?
D. Giovanni. Cada un fulmin dal cielo, e l’alma infida
Precipiti agli abissi.
Elisa.   (Il caso mio
Compatisci, Carino). Ah sì, vi credo:
Ecco la destra mia.

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D. Giovanni.   Destra gentile,

Che mi penetra il cuore. (Amor pietoso,
Quanto ti deggio mai, se fra le selve
Una preda sì bella a me concedi!)
Elisa. Che pensate fra voi?
D. Giovanni.   Vo meditando
Le mie felicità.
Elisa.   Se un cuor fedele
Potrà farvi felice, in me l’avrete.
D. Giovanni. Bastami la tua fè; questa sol bramo
Mi serbi, idolo mio.
Elisa.   Quanto m’è caro
Del mio sposo adorato il primo cenno!
D. Giovanni. Deh non tardiamo più: lieta vivrai. (parte
Elisa. Consolati, Carin, s’io ti tradisco,
Che tu il primo non sei.2 Ama la donna
Più dell’amante suo, la sua fortuna. (parte

SCENA IV.

Donna Isabella in abito da uomo, difendendosi da vari masnadieri;
poi il duca
Ottavio.

D. Isabella. Aita, o ciel!

Ottavio.   Contro d’un solo, indegni?
Qual furor, qual viltade?
(li masnadieri entrano, incalzati dal duca Ottavio
D. Isabella.   Amico, io deggio
Tutto al vostro valor.
Ottavio.   Gli empi chi sono,
Che della vita vi han tenuto in forse?
D. Isabella. Masnadieri son quelli. A chi gli arredi
Tolgono, a chi la vita. Il mio destriero

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Già mi levaro; ah! perchè mai distrutta

L’empia turba non vien dall’armi regie?
Così presso Castiglia il Re la soffre?
Ottavio. Loco spesso cangiar sogliono i vili,
Ma gli raggiugnerà.
D. Isabella.   Deh fate almeno,
Che sappia a chi della mia vita io deggio
L’opportuno riparo.
Ottavio.   Il duca Ottavio
Son io, del Re nipote. E voi chi siete?
D. Isabella. Al mio liberator svelar m’è forza
Tutti gli arcani miei. Mentito sesso
Coprono queste spoglie. D’Altomonte
Isabella son io; trassi il natale
Di Partenope in seno, in nobil culla.
Ottavio. Perchè il sesso mentir? Quale avventura
Alla patria vi toglie? E perchè sola,
In sì tenera etade, errando andate?
D. Isabella. Oh numi, qual crudel domanda!3 Pure
Tutto a voi narrerò, tutto sperando
Impegnarvi a mio prò.
Ottavio.   Mia fè, mia possa,
Miei consigli e me stesso offro in aiuto
D’ogni vostro disegno.
D. Isabella.   Io son tradita,
E il traditor che nell’onor m’offese,
Ver Castiglia addrizzò l'orme fugaci.
Rinvenirlo desio.
Ottavio. Ma chi è l’ingrato?
D. Isabella.   Don Giovanni Tenorio, unico germe
D’una illustre famiglia, anch’egli nato
Sotto il barbaro ciel che mi diè vita.
Destinato mi fu l'empio in consorte,
E alla bella stagion che i prati infiora,

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Unir dovea le nostre destre amore.

Troppo io l’amava, e mi parea che meno
Corrisposta non fossi: ogni momento
Era eterno al mio cuor. Fremea l’amante
Della tardanza, e quante volte, ingrato,
L’innocente amor mio schernì giurando
Ardere per me sola! Oh quante volte,
Nel dirmi addio, ei si partì piangendo!
Felice io mi credea; ma il traditore
Senza mia colpa, ed in novelli affetti,
Che tardi io seppi, a danno mio perduto,
Furtivo mi lasciò, seco portando
Le sue, le mie promesse, il mio dolore,
La mia speme, il mio cor, la mia vendetta.
Deh voi, signor, d’una tradita amante
Se sentite pietà, la giusta causa
Proteggete, vi prego. AI Re clemente
Sia palese il mio caso, e il traditore,
Se giunge in suo poter, paghi il suo fallo.
Ottavio. Donna Isabella, il caso vostro amaro
Compatisco e compiango. O don Giovanni
Fia vostro sposo; o colla morte, il giuro,
Risarcire dovrà gli oltraggi vostri.
D. Isabella. Voi delle mie sventure una gran parte
Mi togliete dal seno.
Ottavio.   (Un sì bel volto
Non meritava un infedele amante).
Sopra del mio destrier salir potrete.
Altro per me ne serba il mio scudiero
Pochi passi lontano. Andiam, vicina
È la regal città.
D. Isabella.   Sia grato il cielo
A voi per me. Soccorrer gl’infelici
E tal virtù, che l’uom pareggia ai numi. partono

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SCENA V.

Carino solo.

Grazie al ciel, son partiti. Io non vorrei

Incontrarmi giammai con simil gente.
Cittadini? Alla larga. Hanno cotanta
Orgogliosa superbia, che lor sembra
Il misero villan selvaggia fera.
Noi lor prestiam col sudor nostro il pane;
Dalle nostre fatiche han quanto forma
Le lor ricchezze, e poi ci trattan peggio
De’ cavalli e de’ cani. Han per proverbio,
Che il villan è indiscreto. Oh sì, che dessi
Discretissimi sono! Il villan ruba,
Sogliono dire; e il cittadin non ruba
Molto peggio di noi?... Ma qui non veggo
Presso l’usato fonte il mio bel sole.
Elisa, dove sei? dove ti celi?
Nascosta si sarà per isfuggire
De’ cittadini l’odioso aspetto.
Vieni, non tormentarmi. Ah, ah, furbetta!
Tu se’ dietro quel faggio. Io t’ho scoperto...
Elisa mi pareva. Al colle forse
Andò per coglier de’ selvaggi frutti.
Al colle andrò... Ma già sen viene. Elisa,
Corri... Che miro? Un pastorello ha seco?
No, che non è un pastore. Ai rozzi panni
Rassembra tal; ma i finti crini ornati,
Il bianco volto e il camminare altero
Sono di cittadin sicuri segni.
Stelle, che mai sarà? Tradisce Elisa
Così tosto la fè? Qui mi ritiro.
Non veduto, vedrò. (si ritira

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SCENA VI.

Don Giovanni in abito rustico, Elisa, e Carino in disparte.

D. Giovanni.   Ninfa cortese,

Son grato al vostro amor.
Elisa.   Perchè non darmi
Il bel nome di sposa?
Carino.   (Ahimè, che sento?)
D. Giovanni. Tale ancor non mi siete.
Elisa.   E che vi resta
Il nodo a stabilir?
D. Giovanni.   Ciò che conviene
Al grado mio. Le cerimonie usate,
Il rito, e tutte le nuziali pompe.
Elisa. Andiam dunque a compir cotesti riti!
Carino. (Oh scellerata!)
D. Giovanni.   Sì, ma non conviene
Ch’ora meco venghiate. Io deggio prima
Tutto dispor. Fra pochi giorni, o cara,
Vi attendo alla città.
Elisa.   Come? Ingannarmi
Pretendete voi forse?
D. Giovanni.   Il van timore
Discacciate dal seno. Io non potrei
Esservi disleal, quando il volessi:
Giurai, tanto vi basti.
Elisa.   E i numi stessi
Vi puniran, se me tradir pensate.
Carino. (Te puniran, che traditrice or sei).
D. Giovanni. (Allettarla convien per non soffrire
Il noioso clamor di sue querele).
Cara, ti lascio il cuor. Col pianto agli occhi
Mi divido da te; ma porto meco
Dell’amor tuo, della mia fede il pegno.
Elisa, addio.

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Elisa.   Posso sperarvi, o caro

Nell’amarmi costante?
D. Giovanni.   Un’altra volta
Giurerò, se bramate4.
Elisa.   Ite felice,
Anch’io vi seguirò.
D. Giovanni.   Ma non sì tosto,
Sicchè altrui se n’avvegga. (Invano speri
Rivedermi mai più). Mia cara, addio. (parte

SCENA VII.

Elisa e Carino.

Carino. (Occhi miei, che vedeste! Ah, che far deggio!)

Elisa. (E se poi m’ingannasse? Al suo Carino
Tornerà questo cuore. Ad ogni evento.
Vo’ d’un amante assicurarmi almeno).
Carino. (Oh nera infedeltà! Voglio l’infida
Rimproverar: vo’ abbandonar l’indegna).
Elisa. (È cavalier; non mentirà).
Carino.   Sì tarda
Ritornare ti veggio?
Elisa.   Odi, Carino.
La candida cervetta a me sì cara
Belar intesi: a lei corsi tremante...
Qualche mal dubitai non le avvenisse.
Carino. Dimmi: stato sarebbe un daino forse,
Che ti avesse belando a sè invitato?
Elisa. Damma quivi non giunse.
Carino.   Eppur mi parve
Teco veder un animal, che cerva
Certamente non era.

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Elisa.   Eh, t’ingannasti.

Carino. No, no, non m’ingannai, era animale
Come siam noi.
Elisa.   Un uom vorrai tu dire?
Carino. Appunto.
Elisa.   Or mi sovviene. Era il famiglio
Di Coridon, che di Nerina è il damo:
Quel zotico pastor, che dà sovente
Altrui piacer coi sciocchi detti.
Carino.   Intendo;
E tu piacere più d’ogni altra avesti.
Elisa. Rider certo mi fe’.
Carino.   Chi sa, che piangere
Forse un dì non ti faccia?
Elisa.   E perchè mai?
Carino. Basta... Come si chiama?
Elisa.   Oh, che mi chiedi?
Non conosci Pagoro?
Carino.   Io non lo vidi
Mai vezzoso così, mai così altero!
Elisa. (Ahi, comincio a temer d’esser scoperta).
Carino. Ma che mai ti promise, e che giurotti
Di far per te?
Elisa.   Promise alla mia cerva
Ritrovar un compagno.
Carino.   (Affé, la cerva
Il compagno trovò). Ma pur di sposa
Parvemi udir il nome.
Elisa.   Ebben, la sposa
Sarà allor la mia cerva.
Carino.   A dir l'intesi,
Che tu sposa sarai.
Elisa.   Questo ancor disse.
Soglion tutte le Ninfe all’uomo stolto
Esibirsi in ispose, ed ei sei crede.

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Carino. Passato è alla città?

Elisa.   Sì; di Nerina
Andò a vendere i fiori.
Carino.   E seco il cuore
D’Elisa si portò.
Elisa.   Come?
Carino.   T’accheta.
Tutto so, tutto intesi. Empia, mendace,
A me invano ti celi.
Elisa.   Aimè! Carino
Meco parla così?
Carino.   Parla in tal guisa
Il tradito Carino alla spergiura.
Dimmi, crudel, non ti sovvenne allora
Di quella fè, che a me giurasti? Ingrata!
Non sapesti un sol giorno esser costante?
Elisa. Odimi... Non pensar...
Carino.   Taci, non voglio
Udir le voci tue. So che vorresti
Con lusinghe mendaci un nuovo inganno
Tessere alla mia fede. Ah, s’io porgessi
Nuovamente l’orecchio a tai menzogne,
D’esser allor meriterei tradito.
Elisa. (Più nasconder non posso il fallo mio).
Ah Carino, mia vita! è ver, pur troppo;
Lusingarmi volea quel che vedesti
Ardito cavalier. Pietà mi mosse
Verso di lui, che dai ladron spogliato
Chiedea soccorso; indi la destra in premio
Di mia pietade il cavalier m’offerse;
E con vezzi, e lusinghe, e con mill’arti
D’accorto cittadin, quasi m’indusse
A seco vaneggiar; ma mi sovvenne
Di te, Carino mio; costante e fido
Questo cuor ti serbai.

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Carino.   Oh me felice,5

Se tue parole non avessi udito.
Ti lascio, t’abbandono, e maledico
Il dì che ti conobbi.
Elisa.   Ah no, t’arresta.
Misera me! Non mi lasciar, mio caro;
Non ti sowien di que’ soavi giorni
Che a vicenda fra noi?...
Carino.   Sì, men sovviene
Per mia pena maggior. Quanto ti amai,
Giuro ti abborrirò.
Elisa.   Mira prostrata
La tua povera Elisa a’ piedi tuoi.
Chiedo perdono all’innocente errore.
Caro, pietà.
Carino.   Non la sperar giammai.
Elisa. Se tu sei la mia vita, ah non poss’io
Viver senza di te.
Carino.   Nulla mi cale
Del viver tuo.
Elisa.   Saprò morirti ai piedi.
Carino. Mirerò con piacer la morte tua.
Elisa. (Provisi l’odio suo). Con questo dardo,
Mira, mi passo il sen.
Carino. (Senza mirarla) Su via, ferisci;
Passa l’indegno cuor. Lava la macchia
Che facesti a mia fede, o all’amor mio.
Elisa. Non pavento la morte. Il sol tuo sdegno
Mi fa tremar; deh non voler ch’io muoia
Senz’almeno mirarmi. Il guardo volgi
Una volta pietoso, e poi m’uccido.
Carino. Ciò da me non sperare.
Elisa.   Ah disumano!
Un sì lieve conforto ancor mi nieghi?

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Non ti muove a pietade il pianto mio?

E pur picciolo il don che ti domando;
Guardami una sol volta, e poi mi sveno.
Carino. (M’intenerisce). Mirerotti, ingrata;
Che pretendi perciò? (Vista fatale).
Non mi muovi a pietade. (Ah non resisto!)
Elisa. (A cedere comincia). Oh Dei, non posso
Reggermi più; l’atroce aspro dolore
Toglie al ferro l’uffizio; io cado, io moro.
(finge svenire
Carino. Elisa, o numi! Che sarà? Sei morta?
No, che morta non è. Dal vicin fonte
Corro Tacque a raccorre; agli svenuti
Soglion Tacque giovar, spruzzate in volto. (parte

SCENA VIII.

Elisa, poi Carino che torna portando un vaso con acqua.

Elisa. Il credulo è caduto. Oh quanto giova

Saper finger a tempo. È l'arme questa
Più felice del sesso. Ecco ritorna:
Seguasi a simular. (ritorna nella positura di prima
Carino.   Numi del cielo,
Soccorretela voi. S’ella perisce, (la bagna
Misero, che farò? Mosse ha le labbra,
Parmi ch’ella rinvenga. Idolo mio,
Mira che il tuo pastor t’ama e soccorre.
Elisa. Barbaro, mi vuoi morta, e poi t’opponi
Quand’io voglio morir?
Carino.   No, mio tesoro:
Morta non ti vogl’io.
Elisa.   Ma se mi credi
Incostante, infedel, la vita ho a sdegno.
Carino. E costante, e fedel, cuor mio, ti credo.

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Elisa. Mi deridi, crudele?

Carino.   Ah no, mi pento
Della mia crudeltà.
Elisa.   De' tuoi sospetti
Mi parlerai mai più?
Carino.   No, mio tesoro.
Elisa. Mi sarai tu fedel?
Carino.   Sino alla morte.
Ma non perdiamo inutilmente, o cara,
I preziosi momenti. Andiam, le destre
Unisca amor; la genitrice accorda...
Elisa. Andiamo sì, che te seguir sol bramo.
Carino. Grazie, numi del cielo, ho racquistata
La smarrita mia pace, il più felice
Degli amanti son io. (parte
Elisa.   Miser Carino!
Li vorrebber così le scaltre donne. (parte


Fine dell’Atto Secondo.

  1. Così nel testo.
  2. In qualche edizione si legge: Ma tu il primo non sei.
  3. Nelle prime edizioni: Oh Dio, che barbara domanda!
  4. Altre edizioni: Se il bramate.
  5. In altre edizioni: Oh me infelice!