Enrico/Atto IV

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Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Giorno.

Leonzio e Ormondo dalla porta comune.

Leonzio. Ogni trista memoria ormai si taccia;

Leonzio non tradisce, e1 vi assicura
Dell’amor di Matilde.
Ormondo.   E tanto basta
Mia mente a serenar. Modestia e tema
Sarà la sua freddezza; in vostra figlia
Men che grande virtù sperar non posso.
Veggo però con mio dolore estremo
Ch’una giovine sposa, e colta e vaga,

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In una trista Corte è mal sicura.

Or questa Corte abbandonar vogl’io;
Condurrò meco la mia sposa, e in pace
Sotto l’antico mio tetto paterno
Passeremo felici i giorni nostri.
Leonzio. Lodo il consiglio e il vostro stato invidio.
Potessi anch’io dalle moleste cure
Della Corte sottrarmi. Ma può dirsi
A colui ch’una volta ivi s’inceppa:
“Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”.
Ormondo. Ite, vi priego, a vostra figlia, ed essa
Disponete a partir. Dite a Matilde
Che in luogo andrem dove sarà signora
Di poca sì, ma di felice terra.
Leonzio. Quanto val più l’esser signor del poco,
Che suddito del molto! Andiamo, amico,
Andiamo uniti a rinvenir Matilde,
Che ben lieta sarà per tal novella.

SCENA II.

Riccardo con guardie dalla porta comune, e detti.

Riccardo. Signor, mi duole che de’ vostri lacci (ad Ormondo

Odioso ministro essere io deggia.
Il Re comanda che l’illustre spada
A me cediate, e che in prigion vi guidi.
Ormondo. A Ormondo questo?
Leonzio.   Al gener di Leonzio?
Riccardo. L’ordine io n’ebbi, ed eseguirlo2 è forza.
Ormondo. Qual delitto commisi? Ah giusto cielo!
Matilde forse è la cagion funesta,
Che colpevol mi rende? Oh Dio! Leonzio,
S’accresce il mio timor. Se cedo il ferro,

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Se prigione mi chiude, ah chi difende

L’onor mio dagli insulti?
Leonzio.   Io lo difendo3.
Ubbidire convien, perchè non prenda
Dal disprezzo ragion l’ingiusto sdegno.
Cedete il ferro; non temete; io stesso
Andrò dinanzi al Re. Se non varranno
Le giuste preci, ho ben io donde ancora
Farlo tremar. Pendon dal cenno mio
Consigli e magistrati, e il popol tutto
Meco intraprenderà la mia vendetta.
Fidatevi di me, che per affetto
E pel nuovo legame a voi son padre.
Ormondo. Non s’abbia a dir che in ogni strano evento
Io dal vostro voler m’abbia disgiunto.
Ecco la spada; andiam.
Leonzio.   Di tal consiglio
Non vi avrete a pentir.
Riccardo.   (Mal s’incomincia
Da questo nuovo Rege il suo governo)4 (a parte
Ormondo. Vi raccomando la mia sposa. Oh sorte!
Chi sa se più potrò mirarla in viso!
(parte con Riccardo e le guardie per la porta comune

SCENA III.

Leonzio, poi Costanza dal suo appartamento.

Leonzio. Ah comprendo pur troppo onde deriva

L’ingiusto cenno! Il folle amor d’Enrico
Vuol sconvolgere il regno. Ei m’oda, ed abbia
Del suo fallo rossore e pentimento.
Si rammenti ch’io fui...

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Costanza.   Leonzio, è tempo

Di chiarirmi del tutto. Il Re destina
Me per sua sposa, o mi lusingo invano?
Leonzio. Ne dubitate ancor? Ieri la fede
Non vi giurò di tutto il regno a fronte?
Costanza. Giuramento forzato e mal sicuro.
Leonzio. Chi forzollo a giurar?
Costanza.   L’amor del regno,
Di Ruggiero la legge, ed il timore
D’esser vassallo al suo minor germano.
Leonzio. Disse pur che a sposarvi avealo indotto
L’interesse d’amor, più che del regno.
Costanza. Non è sì strano il simular, se giova.
Leonzio. Non ho ragion di dubitar d’Enrico.
Costanza. Io dell’inganno suo quasi son certa.
Leonzio. Donde il sospetto vostro?
Costanza.   Ei non procede
Da una sola cagion. Ma varie sono
Le fonti, onde deriva il mio cordoglio.
Leonzio. Troppo amante voi siete, ed a misura
Sempre d’amor la gelosia s’avanza.
Costanza. Non m’accieca l’amor, sicchè non scema
Troppo vero il sospetto.
Leonzio.   Oggi avrà fine
La pena vostra; l’ombre vane e triste
Dissiperà dell’imeneo la face.
Costanza. Sì vicino non spero il mio contento.
Leonzio. Io v’accerto del bene5, e voi volete
Tremar del male? La follia di tanti
Non seguite voi pur. Viziosi sempre
Furo gli estremi: il confidar soverchio
E il soverchio temer nuoce del pari.
La speranza e il timor sono i governi
Dell’accorto nocchiero. Ei non è vile

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In mezzo alle tempeste, ei non è audace

Nel mar tranquillo, e coi pensiero ai porto
Va reggendo la nave in ogni evento.
Poichè cura maggiore al Re mi guida,
Parlerogli di voi; le vostre nozze
Farò sollecitar. Il vostro nodo
Non men che a voi m’è caro e m’appartiene6.
(parte per l’appartamento reale

SCENA IV.

Costanza, poi Enrico con guardie dal suo appartamento privato.

Costanza. Infelice Costanza! Or più che mai

Fra la speme confusa ed il timore,
Soffri in pace... Ma veggo?... oppur m’inganno?
Sì, sì, egli è desso. Tenterò mia sorte;
E se fìa d’uopo, con inganno ancora.
Enrico. Olà, guardate i passi; e voi, Costanza, (alle guardie7
Ite alle vostre stanze.
Costanza.   In simil guisa
La sua sposa novella Enrico accoglie?
Enrico. L’alte cure del regno alla mia mente
Fanno peso soverchio. Or non poss’io
Far parte con amor de’ miei pensieri.
Deh lasciatemi solo. Alcun non passi
Senza mio cenno. (alle guardie
Costanza.   Partirò; ma prima
Pochi accenti ascoltar piacciavi almeno.
Enrico. Siate breve, e v’ascolto.
Costanza.   Non temete
Che mi voglia abusar del vostro dono.
Scorgo negli occhi vostri un fosco raggio

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Che minaccia al cuor mio strage e ruina.

Già preveggo il mio danno, e mi dispongo
A soffrirlo con pace. Io sol vi chiedo
Di saper da voi stesso il mio destino.
Se mi amate davvero, e se pensate
Di farmi vostra, più felice al mondo
Non saravvi di me. Se non mi amate,
Se sperarvi non posso, il colpo atroce
La morte mi darà, ma soffrirollo8 O
Costante sì, che il mio dolor non paia.
Bastami che sincero il labbro vostro
Meco parli, nè il sappia altri che noi.
Seconderò gli affetti vostri. Io stessa
Rivocherò del genitor la legge;
E mostrandomi avversa agl’imenei,
Metterò in libertà la vostra mano,
E senza me vi formarete il trono9
Posso vendervi, Enrico, a minor prezzo
Tutta la mia fortuna?
Enrico.   Ah, principessa,
Se di tanta virtù foss’io capace,
Felice me! Voi mia regina e sposa
Sola sareste, se il mio cor potesse
Amare in libertà. Pur troppo i’ deggio
Confessarvi che amor...
Costanza.   Tanto mi basta.
Ingratissimo Enrico, assai comprendo
La vostra infedeltà. Voi mi tradiste
Per usurparmi il trono; ed or sperate
Dividerlo con altri a mio dispetto;
Ma lo sperate invan. Vile cotanto
Non son per sofferir sovra il mio soglio
Donna qualunque sia.

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Enrico.   Quest’è la pace,

Con cui dai labbro mio?...
Costanza.   Lice con l’arte
Dell’arte trionfar. Voi m’ingannaste
Affetto10 simulando: io simulando
Lo sdegno, v’ingannai. Faccia ora l’odio
Le veci dell’amor. Seguite voi
Ad abborrirmi, ed io comincio adesso
Ad odiarvi per sempre. Il regal serto11
Procurate usurparmi; io vendicarlo
Procurerò. Vedrem chi ha più potere,
Vedrem se più varrà l’arte d’un empio,
O di femmina offesa il giusto sdegno.
(entra nel suo appartamento

SCENA V.

Enrico, poi Leonzio dall’appartamento reale.

Enrico. Nello stato in cui son, poco spavento

Mi fa costei. Più di Matilde l’ira
Temo che di Costanza. Ah potess’io
Quella placar! Ma fin nelle sue stanze
La troverò. Mi getterò a’ suoi piedi:
Spargerò, se fia d’uopo, il sangue ancora
Per accertarla della mia costanza.
Ma che prò, se l’ingrata è già d’altrui?
Se già sposa è d’Ormondo? Eh tutto lice
Ad un Re amante. L’ira sua si plachi,
Poscia nell’amor suo tutto confido.
Leonzio. Temerari, a Leonzio è chiuso il varco? (sforza le guardie, e passa
Enrico. (Ah mi difesi invan dall’importuno!)

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Leonzio. Signor, se lice ad un fedel vassallo

Lagnarsi del suo Re, vengo di voi
Giustamente a dolermi: e qual delitto
Commise Ormondo? Riflettete, o Sire,
Ch’egli è genero mio12. La mia famiglia
Con eterna ignominia infama e oscura
Questa vostra ingiustizia. Ah rammentate
Che una tal prigionia dal vostro fianco
Può staccar le persone a voi più fide.
Ma qual ragione a perversar v’induce
Contro quell’infelice?
Enrico.   Il suo delitto
E noto a me. Ragione altrui non rendo
Del mio voler.
Leonzio.   Eh già m’è noto, o Sire,
Ciò che vi spiace in lui. So qual passione13
Vi consigliò. La vostra debolezza
È l’inimico vostro: ella è che tanto
Odioso vi rende un innocente.
Enrico. Poichè sì franco ragionarmi ardite,
Col medesimo stile io vi rispondo.
Vi dolete di me, perchè fra’ ceppi
Feci stringere Ormondo, ed io vi aggiungo,
Che non termina qui lo sdegno mio.
Se vi sembro crudel non istupite,
Mentre la crudeltà voi m’insegnaste.
Sì, barbaro, inumano, mi toglieste
Al riposo, alla pace, a quanto mai14
Mi rendeva felice. Ah che ridotto
Voi mi avete ad odiar15 sino me stesso.
Mi toglieste Matilde, e il cuor con essa
Mi strappaste dal sen. Non vi crediate,
Ch’io per questo seguir voglia alla cieca

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Tutte le vostre idee. Se la mia destra

A Costanza promisi, io sol lo feci
Per acchetar16 f ) il popolo commosso
Solo forse dal vostro empio consiglio;
Ma sposar non vogl’io...
Leonzio.   Come, signore!
Ricusate sposar la principessa
Dopo averlo promesso? Il popol tutto
Lusingate17 dal trono; ella sicura
Vive di vostra fede, e voi pensate
Di tradirla così?
Enrico.   Di ciò incolpate
Solo voi stesso. Perchè mai ridurmi
Ad una tal necessità? Forzato
Da’ vostri detti, anzi da’ vostri inganni,
Cosa promisi lor contro mia voglia.
Chi vi obbligava il nome di Costanza
Segnar sul foglio, che dovea la sorte
Far di Matilde? Ingiusto padre, aveste
Tanto cor di tradire il vostro sangue?
Tant’ardir d’arbitrar dei mio volere?
Ditemi: quale autorità vi diedi
Sovra gli affetti miei, sicchè disporne
Poteste a piacer vostro? No, Leonzio,
Non sperate che a fin vada il disegno.
Pria di veder l’odiosa face accesa,
Arderà tra le fiamme il regno tutto.
Leonzio. Qual terribil minaccia! Ah voi mostrate
Questi sudditi vostri amar ben poco.
Deh non lasciate che l’amor v’acciechi;
Deh la vostra virtù non offendete.
Enrico. Tutto facil rassembra a un crudel padre,
Che con legge tiranna odiosa al cielo,
Sovra il cor della figlia arbitra ancora.

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Leonzio. Se ad Ormondo, signor, sposai mia figlia,

Lo feci sol per stabilirvi in esso
Un suddito fedele; un che potesse
Di don Pietro frenar gl’impeti audaci.
E lo dirò, con queste nozze intesi
Toglier dagli occhi vostri...
Enrico.   Ah sì, l’oggetto
Voi toglieste più bello agli occhi miei.
Deh, Leonzio crudel, perchè recarmi
Sì gran dolor? Questo sì fiero colpo
Perchè dar al mio sen? Vi aveva io forse
Incaricato di condurmi al trono
A costo di dover perdervi il cuore?
Perchè sol non lasciarmi a sostenere
Le mie ragioni, i miei diritti al soglio?
Mi mancava valor, forza, coraggio
Per metter in dover li presuntuosi
Sudditi, e chi d’opporsi avesse ardito?
Tiranno è il Re, se sull’arbitrio impera
De’ suoi vassalli; e sul reale arbitrio
I vassalli imperar dunque potranno?
De’ sudditi sarà schiavo il Monarca?
Questa barbara legge ove sta scritta?
Se i regnanti goder dunque non ponno
Ciò che l’uomo più vil contento gode,
Ripigliatevi pur cotesto scettro.
Troppo caro mi costa: e più mi cale
Della mia libertà, che d’un tal regno.
Leonzio. Una sola ragion non sta per tutti.
Comanda il Re quando fermato è in soglio.
Ma chi ascender vi brama, e patti, e leggi,
E condizioni, benchè dure, osserva.
Enrico. Qual dritto avea di stabilir Ruggiero
Cotesta legge al successor del regno?
Ottenuto l’ha forse egli in tal guisa?

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Egli muor senza figli. Io son il primo

Figlio d’un suo germano, ed ho bisogno
Della sua volontà per gire al trono?18
Per esser voi gran cancellier del regno
Mal mostrate saper le leggi nostre.
Leonzio. Le so meglio di voi. Passa ne’ figli
Questo regno da’ padri; e il Re che muore
Senza prole viril, può de’ nipoti
Lasciarlo a quel che più gli aggrada, quale
Può di suo patrimonio ognun disporre.
Potea Ruggiero far regnar don Pietro,
Escluder voi: noi fece; ed or rendete
Al donator tal ricompensa ingrata?
Enrico. Se Ruggiero il mio cor veduto avesse,
Altro avrebbe disposto. Ei non intese
Violentar il mio affetto. Un Re che dona,
Non è tiranno. Se don Pietro ardisse
Sue speranze fondar sul mio rifiuto,
Decideria questa gran lite un ferro.
Leonzio. Fate ciò che v’aggrada. In avvenire
Noia non vi daranno i miei consigli.
Pur, se qualche mercè merta il mio zelo
Reo per troppo fervor, chiedovi, o Sire,
La libertà d’Ormondo.
Enrico.   Io voglio darvi
Prove di mia clemenza. Egli dimane
Avrà la libertà.
Leonzio.   Clemenza intera
Fora il dargliela tosto.
Enrico.   Un giorno solo
Non è pena che opprima.
Leonzio.   È tal che basta
La fama ad oscurar.

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Enrico.   Così ho risolto.

Prima non esca a riveder la luce,
Che la luce novella il sol ne porti.
Leonzio. (Non s’irriti soverchio un Re sdegnato).
Adoro in ogni guisa il regal cenno.
Enrico. Ciò non basta però. Voglio che Ormondo
Da Palermo sen vada; e qui non torni
Senza l’ordine mio.
Leonzio.   Peggior del male
Sarà il rimedio. Da prigione oscura
All’esilio passar proprio è de’ rei.
Perchè tal si condanna un innocente?
Enrico. È sempre reo chi il suo Monarca offende.
Leonzio. Involontaria offesa non è colpa.
Enrico. Nè l’esilio sarà per lui di pena.
Io gli darò d’una città il governo.
Leonzio. M’accheto a una tal legge. Il Ciel pietoso
V’illumini, o signor; dagli occhi vostri
Tolga la nera benda, e puri e chiari
Vi presenti gli oggetti. All’amor mio
Permettete, signor, cotesto sfogo.
Rammentate che i Re soggetti sono
Dell’eterno Monarca al sommo impero.
Dalla legge civil, divina e umana,
Non esenta il diadema; anzi, chi il cigne,
Coll’esempio insegnar le deve altrui.
Falso è il dire: A chi regna, il tutto lice;
Non lice al Re ciò che la legge offende.
(parte per la porta comune

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SCENA VI.

Enrico, poi Matilde dal suo appartamento.

Enrico. Non si perdano invan questi preziosi

Momenti. Or che lo sposo e il genitore
Lungi son da Matilde, a lei si vada.
Sappia la mia innocenza, e non condanni
D’infedele il mio cor. Ma giusto cielo!
Viene ella stessa. Che sperar degg’io
Da tal venuta? Oh la guidasse amore!
Matilde. Signore, io non credea che a tant’eccesso
La vostra crudeltà giugner sapesse.
Che vi fece Leonzio, onde vogliate
Cotanto imperversar contro il suo sangue?
Non vi bastava esaminar la figlia?
Contro il genero ancor sfogate l’ira?
Ditemi: in che v’offesi? Ah se l’amarvi
Colpa fu di Matilde, il mio delitto,
Ve ’l confesso, fu grande. Assai mi sembra
Compensato però da tante pene
Che ho sofferto per voi. Barbaro Enrico,
Dopo avermi tradita, or mi volete
Per trionfo maggior prostrata a’ piedi?
L’onor mio mi conduce. Il mio decoro
Per lo sposo mi fa19 chieder pietade.
Ma la chiedo ad un Re troppo tiranno,
Nè sperarla poss’io. Giustizia adunque,
Giustizia, o Re. Se la negate, al Cielo
La chiederò; non sarà sordo il Cielo
D’una misera donna al giusto pianto.
Enrico. Deh non mi condannate entro il cuor vostro
Senza prima ascoltarmi. Al solo fine
Di scolparmi con voi, da voi lontano

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Per questo solo dì trattengo Ormondo.

Dimani ei sarà tosto20 in libertade,
Nè potrò più vedervi. Ah permettete,
Che per l’ultima volta io vi favelli.
Se il perdervi, idol mio, tanto mi costa,
Voglio almeno il piacer, che a voi fia noto
Che senza colpa mia, cara, vi perdo.
No; non sono infedel qual mi credete.
Se a Costanza promisi amor e fede,
Forzato il feci, e sallo ben Leonzio
Se per sol compiacerlo io finsi allora.
Favellava a Costanza il labbro mio,
Ed intanto il mio core a voi correa21.
Sì, l’anima pensava a porvi in fronte22
La reale corona; e l’arte e i mezzi
Già divisando, e mi parea vicina
La mia felicità. Voi distruggeste
Tutta l’opra in un punto, e disponendo
Di quel cor ch’era mio, voi convertiste
In estremo dolor le gioie nostre.
Ah Matilde, la colpa è tutta vostra.
Perdeste il regno, ed io perdei la pace.
Perdemmo entrambi il sospirato frutto
Del costante amor nostro. Oh dolce un tempo,
Oh sviscerato amore! oh come adesso
Ti cangiasti in tormento! oh come adesso
Funesta l’alma mia23 tua rimembranza!
Matilde. (Ahimè! che sento? Quegli accenti... il pianto...
Gl’interrotti sospiri... Oh Dio! pur troppo
Tutto dell’error mio certa mi rende!) (a parte
E fia ver che m’inganni? A me di fede
Dunque voi non mancaste?
Enrico.   Ah s’io mentisco,

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Quel Dio che tutto può, che tutto vede,

Ora m’incenerisca a’ piedi vostri.
Consolatevi, o cara; e l’ombre vane
Del timor discacciate; ancor son vostro.
Matilde. Enrico, oh Dio! dopo l’amaro passo
Fatto per debolezza, un maggior duolo
Reca all’anima mia la vostra fede.
Misera ed infelice! ah che mai feci?
Troppo sedotta fui da ingiusto sdegno;
Troppo facile al padre io condiscesi;
Troppo a perdermi fui facile e presta.
Io commisi il delitto. Io fui la prima
A mancarvi di fede, io fui cagione
Delle nostre comuni alte sventure.
Vendicatevi, Enrico. Or più non sono
Degna del vostro amor. Matilde odiate;
Scordatevi di lei.
Enrico.   Stelle! che dite?
Io scordarmi di voi? Ma con qual mezzo
Sradicarmi dal cuor quel primo affetto
Che distrugger non puote altro che morte?
Matilde. Eppur, oh Dio! cotesto sforzo è troppo
Necessario per noi.
Enrico.   Ah, voi capace
Di scordarvi di me dunque sareste?
Matilde. Che pensate, signor? Vi lusingate
Ch’io vi segua ad amar? Ch’io vi permetta
Più parlarmi d’amor? Deh rinunziate24
A sì vana speranza, io ve ne priego.
Se per esser regina io non son nata,
Ho però nel mio sen virtù che basta
Per salvar la mia gloria agli urti interni
Con cui mi vuole a sè rapir l’amore.

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So reagir con vigorìa perenne25.

Se mi amaste, signor, se ancor serbate
Qualche stima per me, deh vi scongiuro
Di qui tosto partir.
Enrico.   Barbara! ingrata!
Con sì fiero rigor voi mi trattate!
Non basta ancor per mio tormento estremo
Ch’io vi vegga d’Ormondo infra le braccia?
Anco il lieve piacer di rimirarvi
Negate agli occhi miei?
Matilde.   Fuggite, Enrico,
Quest’oggetto funesto agli occhi vostri.
V’amai teneramente, e non so quanto
Giugneste26 ancor... Deh per pietà partite.
Questo sforzo dovete a vostra gloria,
Questo sforzo dovete all’amor mio.
Io ve ’l domando per lo27 mio riposo,
Ve ’l dimanda il cor mio per la sua pace.
Ah per quanta virtù chiami in aiuto,
La memoria fatal dell’onor vostro,
Questi vostri sospiri, il vostro volto,
Danno all’anima mia sì fieri assalti,
Che resister non posso.
Enrico.   E pretendete
Ch’io mi parta da voi, quando, mia vita,
Più mostrate d’amarmi?
Matilde.   Incauto labbro,
Congiurato a tradirmi! Condonate
Ad un misero amor lo sfogo estremo.
Or più quella non sono. Amo colui
Che mi destina il Ciel, solo al mio sposo
Serbo la fede mia: sento pur troppo
I rimproveri suoi, perch’abbia tanto

[p. 533 modifica]
Un amante sofferto a lui nemico.

Restate pur; so il mio dover. Sottrarmi
Agli occhi vostri deggio28. Addio per sempre.
Enrico. Vi seguirò...
Matilde.   Cotanto ardir non soffro.
Enrico. A un amante così?...
Matilde.   Così una moglie.
Enrico. Son vostro Re.
Matilde.   L’autorità reale
Questa soglia non passa. È Re ciascuno
Nel proprio albergo. A custodir l’onore
Vagliami questa porta.
(Entra nel suo appartamento, chiudendo l’uscio in faccia ad Enrico.

SCENA VII.

Enrico solo.

  Ingrata! A tanto

Giugne sua crudeltà!29 Se mi vuoi morto,
Vieni il trionfo a rimirar tu stessa
Della tua tirannia. Sparger il sangue
Più lieve mi saria, che soffrir questo
Tormentoso disprezzo. Amor crudele,
Sì spietato con me? Deh cangia tempre.
S’io fui finor di tue saette il segno,
Cangia alfin l’ira tua meco in pietade.


Fine dell’Atto Quarto.

  1. Ed. Bettinelli, 1740: et.
  2. Bett.: essequirlo.
  3. Bett.: A me lasciate — La cura di vegliar sul vostro Fato. — Obbedire convien ecc.
  4. Bett.: Comincia male — Questo nuovo Monarca il suo Governo.
  5. Bett.: Che vago stil di tormentar voi stessa! — lo v’accerto del bene ecc.
  6. Bett.: Forse mi preme — Più di quel ch’a voi preme il vostro bene.
  7. Nell’ed. Bett. si aggiunge: le quali si distribuiscono a guardar le porte.
  8. Bett.: Sarà al cor mio; ma di soffrirlo io giuro ecc.
  9. Bett. : vi fermarete in trono.
  10. Nella ed. Zatta: affatto.
  11. Bett.: trono.
  12. Bett.: Rifletteste, o Sire, — Ch’egli è Genero mio?
  13. Bett.: mistero.
  14. Bett.: Il riposo, e la pace, e quanto mai ecc.
  15. Bett.: a odiar.
  16. Bett.: acquetar.
  17. Bett.: lusingaste.
  18. Segue nell’ed. Bett.: E voi cotanta debolezza aveste — Che soggettarmi a questa legge ingiusta? (sic) — Per esser voi ecc.
  19. Bett.: Fammi del Sposo mio.
  20. Bett.: vosco.
  21. Bett.: pensava.
  22. Bett.: Sì, pensava il mio cor di porvi in fronte ecc.
  23. Bett.: oh come riesce — Funesta all’alma mia ecc.
  24. Bett.: rinonziate.
  25. Bett.: O però nel mio sen virtù che basta — Per salvar la mia gloria. Ad un amante — Che offenderla potria, chiudo l’orecchio.
  26. Bett.: Giugnesse.
  27. Bett.: Il.
  28. Bett.: Deggio dagli occhi vostri.
  29. Bett.: tua crudeltà?