Giacomo Leopardi/XXI. 1824-25: Leopardi a Bologna e a Milano

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XXI. 1824-25: Leopardi a Bologna e a Milano

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XXI. 1824-25: Leopardi a Bologna e a Milano
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XXI

1824-25


LEOPARDI A BOLOGNA E A MILANO

Il solitario di Recanati, dàlli e dàlli, comincia a perdere pazienza. Non ha poi il cuore così agghiacciato, come vuol dare a intendere al Giordani. Quel suo sforzo d’indifferenza e di calma si va rilassando, e quella mala soddisfazione, finora compressa, trabocca. Cominciano i lamenti. «Sono fuor del mondo», scrive a Brighenti. Vorrebbe andare a Bologna! Conoscere Brighenti! Il desiderio resta, l’occasione manca. Il suo scontento piglia qualche colore più vivo:

Sono qui sepolto e segregato affatto dal resto del mondo, non solo per la lontananza delle persone, ma anche per la maledetta o negligenza o malizia delle poste, che finisce di escludermi dal commercio umano.

Così il 29 ottobre 1824 a Brighenti. E il 6 maggio 1825 gli scrive in modo più amaro:

Tanta è la mia noia del soggiorno in questa città sciocca, morta, microscopica e nulla, ch’io rinunzierei volontierissimo ai comodi corporali che ho qui, per gettarmi a vivere alla ventura in una città grande, cercando di vivere colla penna.

Gli uomini paiono a lui piante e marmi, per la noia che prova nell’usar con loro, come scrive a Giordani. [p. 180 modifica]
L’impazienza della solitudine era alimentata dalla speranza di prossimo collocamento. Partire da Recanati era il suo «gran desiderio».

Ma il giorno dopo, io non avrei da pranzo, perché mio padre, o che non possa, o che non voglia, non mi darebbe mai tanto da potermi mantenere per il primo tempo, fino a tanto che avessi trovato da procacciarmi il mantenimento da me stesso.

Ben ci pensava il Niebuhr, che non aveva intermesse le pratiche in favore del suo protetto, il quale egli aveva in molta stima e per l’ingegno non comune, e per il nobile animo («nobles Gemüth»). Partito di Roma, il Niebuhr gl’inviò in dono un esemplare del suo Merobaude, e lo raccomandò al Bunsen, suo successore.

Così cominciò tra Leopardi e Bunsen un cambio di lettere e di relazioni amichevoli, che continuò sino alla sua morte. Desiderava Leopardi di essere nominato cancelliere del Censo, e c’era il posto vuoto in Urbino.

Questo ufficio, essendo sufficientemente provveduto, e non esigendo gran travaglio, potrebbe somministrarmi i mezzi di passare la metà dell’anno in Roma, e per conseguenza la possibilità di esercitare e continuare i miei deboli studi.

Questi erano i pensieri modesti di Giacomo Leopardi, e non poterono avere effetto, soprattutto dopo la morte di Pio VII.

La reazione gerarchica, narra Bunsen, che alzò al trono Leone XII, e guidò il suo pontificato, rendeva impossibile quello che sotto Pio VII era solo difficile.

Fallite queste pratiche, se ne iniziarono altre, ed intanto Leopardi cercava nuove vie. Ma ohimè! I letterati, a quel modo che era Leopardi, sono in Italia condannati irremissibilmente alla fame. Non trovò un editore che accettasse un suo volgarizzamento dei Caratteri di Teofrasto. Volgeva pure in mente una Antologia platonica. Bei progetti! Ma gli editori preferivano libri per le scuole di facile smercio. Il noto editore Stella [p. 181 modifica]vagheggiava una Biblioteca de’ classici, e soprattutto un Cicerone illustrato, con prefazioni e quel che segue. Ne scrisse al Leopardi, che gli rispose una dotta lettera il 18 maggio 1825. Lo Stella credette di aver trovato il suo uomo, e si pose in mente di farlo direttore di questa impresa, e invitò a Milano «il figlio di famiglia», come nel rispondergli si chiama il povero Giacomo. Lo Stella capì il latino, e presto furono d’accordo, e l’uccello prese il volo.

Cosí Leopardi lasciò Recanati, e prese la via di Bologna. Vide Brighenti, rivide Giordani, contrasse nuove amicizie, soprattutto con la famiglia Pepoli. L’aria, il moto, l’espansione, le liete accoglienze gli fecero bene.

Scrive al padre il 22 luglio 1825:

Ho sofferto nel viaggio e qui in Bologna un caldo orribile, e dovendo girare continuamente nelle ore più abbruciate, mi sono strutto, e mi struggo ogni giorno in sudore... Con tutto questo, invece di peggiorare, sono talmente migliorato della salute, che nessuno strapazzo mi fa più male: mangio come un lupo... Anche gli occhi sono migliorati assai. Sono stato tentatissimo di fermarmi qui in Bologna, città quietissima, allegrissima, ospitalissima, dove ho trovato molto buone accoglienze.

Roma gli pareva una solitudine; in Bologna si sente in compagnia, si sente riconciliato con gli uomini. Ebbe pure una offerta d’impresa letteraria, che non richiedeva gran fatica e non l’obbligava per troppo tempo. Ma, non potendo mancare all’impegno contratto con lo Stella, prese la via di Milano. Partito a malincuore e con l’ospitale Bologna nella mente, dove in nove giorni avea contratto più amicizie che a Roma in cinque mesi, Milano non gli fa una buona impressione.

In Bologna nel materiale e nel morale, scrive a Carlo, tutto è bello, e niente magnifico; — non si pensa ad altro che a vivere allegramente senza diplomazie; — ma in Milano il bello, che vi è in gran copia, è guastato dal magnifico e dal diplomatico anche nei divertimenti. In Bologna gli uomini sono vespe senza pungolo; e credilo a me, che con mia infinita maraviglia ho dovuto [p. 182 modifica]convenire con Giordani e con Brighenti (brav’uomo), che la bontà di cuore vi si trova effettivamente, anzi vi è comunissima, e che la razza umana vi è differente da quella di cui tu ed io avevamo idea. Ma in Milano gli uomini sono come partout ailleurs; e quello che mi fa più rabbia è, che tutti ti guardano in viso e ti squadrano da capo a piedi, come a Monte Morello.

Quale incontro nella sua immaginazione! Recanati e Milano! Nel suo spirito entrava una certa timidezza, che gli faceva parere che tutti si burlassero di lui. La compagnia di Giordani, Brighenti, Pepoli, Papadopoli e altri amici doveva contribuire a mostrargli in Bologna tutto color rosa. Vi si sentiva amato e stimato. A Milano sta di malissima voglia «occupato in istudi che abbomina, senza un solo amico, e senza niuna certezza dell’avvenire». Non vi ha conosciuto che pochissime persone di merito, e tra queste nessuna disposta a concedergli la sua amicizia, eccetto il cav. Monti. Ricadendo nella vecchia e consueta malinconia, ciò che rimane più impresso nella sua immaginazione sono gl’incogniti che lo squadrano da capo a piedi, e vede la solitudine» di Milano a traverso le rimembranze di Recanati. I suoi giudizii non sono di un tranquillo osservatore, sono il riflesso dell’umore.

A Milano, grande e spensierata città, incredibile era l’ignoranza circa la letteratura del Mezzogiorno d’Italia.

I libri di Milano sono subito conosciuti nell’Italia inferiore, e quelli dell’Italia inferiore si conoscono a Milano o tardi o non mai.

Questo è anche un poco così oggigiorno. Immaginate allora. Con queste impressioni Leopardi si sentiva straniero a Milano, e anche a disagio in casa dello Stella.

Né Milano, né una casa d’altri, sono soggiorni buoni per me.

Finalmente lo Stella si persuade di non poterlo indurre a dirigere la sua «maledetta» edizione ciceroniana.

Gli ultimi giorni del suo soggiorno a Milano furono meno tristi, a giudicarne da lettere a Paolina e a Carlo. Si sente [p. 183 modifica]seccato a Milano, ma la salute è buona, e scrive scherzoso. La certezza del suo presto ritorno in Bologna, l’assegno mensuale di dieci scudi avuti dallo Stella per lavori fatti e da fare, la speranza di un impiego molto desiderato, forse contribuirono al suo buon umore. Il 26 settembre riprese la via di Bologna.

Cosa aveva fatto a Milano? Aveva combinato gli elementi di una edizione latina, e di un’altra latina e italiana delle opere di Cicerone, e ne aveva scritto i programmi. Partiva conservando una certa sopraintendenza su quel lavoro. E prima di partire aveva consegnato allo Stella per la stampa un manoscritto, che l’abate Cesari aveva trovato «ammirabile, e di qualche ottimo autore del Trecento», e che era cosa sua, il Martirio de’ Santi Padri.

Dopo tre giorni di viaggio arrivò a Bologna, contento di avvicinarsi un po’ ai suoi, e sopraccontento, perché riacquistava la sua libertà. Ma non gli mancarono nuovi fastidii, più gravi a lui, che esagerava le piccole miserie della vita. Faceva un’ora di latino a un greco, e due ore al suo «divino» amico Papadopoli. Queste tre ore gli «sventravano» la giornata. Poi fare il maestro non era vocazione sua: «vi si annoiava orribilmente». E il padre notava che l’ufficio di precettore avviliva la nobile prosapia. Il greco, ch’era un ricchissimo signore, gli dava otto scudi al mese; ma presto si seccò, non saprei se del latino o del latinista più seccato di lui, e con bel garbo lo mandò via. Il conte Papadopoli e la contessa passarono l’inverno a Roma e a Napoli. E a Leopardi non rimase altra speranza che dello Stella.

Costui avea preso grande opinione di lui, e sentiva i suoi consigli, e gli usava ogni maniera di cortesia. Al padre di Giacomo sembrava umiliante che il figlio fosse stipendiato da un libraio. O perché non lo stipendiava lui? Ma il figlio, che non aveva di questi pregiudizii di casta, stimava che non ci fosse nulla di umiliante, e nella sua corrispondenza con lo Stella non si vede ombra di imbarazzo. Si trattano, come buoni amici, da pari, e si ricambiano dimostrazioni cordiali di affetto.

Ammiro questo libraio, che, pensando prima a trarre guadagno da Leopardi, finì con fargli lui le spese, e talora non solo [p. 184 modifica]senza guadagno, ma con suo pregiudizio, come avvenne del Martirio de’ Santi Padri, e più tardi delle Operette morali, libri che ebbero poco spaccio. Ma il libraio non era un eroe, e presto fece i suoi conti. Leopardi gli mandò il Saggio sugli errori popolari degli antichi, e il Manuale di Epitteto, e l’Isocrate, voleva gli pubblicasse tutta una serie di moralisti greci da lui volgarizzati, e gli fa i più belli ragionamenti per attirarlo. Il libraio non voleva dirgli no; ma non diceva neppure sì, un vero sì, e pigliava tempo. Più volte Leopardi tornò alla carica; ma il tempo passava, e non se ne fece nulla, e tutti questi volgarizzamenti non furono pubblicati se non dopo la sua morte. Il libraio non aveva torto; preferiva articoli pel suo Nuovo Ricoglitore, e libri scolastici, di sicuro spaccio. È interessante nell’Epistolario questa lotta tra autore ed editore, dove l’editore, che ha i quattrini, vince sempre, e il povero autore dee mettersi a lavori contro il suo genio. Nel Nuovo Ricoglitore troviamo di suo un Volgarizzamento della satira di Simonide sopra le donne, le Annotazioni alle Canzoni, un Frammento di una traduzione in volgare dell’Impresa di Ciro descritta da Senofonte, e più tardi un suo Discorso in proposito di una orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone, e volgarizzamento della medesima. Ivi comparvero, per la prima volta, gl’Idillii. E fin qui meno male. Ma il libraio pretendeva libri scolastici, e, mentre si pubblicava il Cicerone, volle il Petrarca, e poi un’Antologia. E come non bastasse, voleva anche un Cinonio riformato, un Dizionario, e non so cos’altro. Il buon Leopardi non sapeva dir di no; gli uscì una parola, ed eccolo invischiato nel Petrarca, che fu il suo tormento e la sua noia in Bologna.

Sentiva il freddo sino a spasimare e a piangerne: già in questa benedetta Italia poco schermo è contro il freddo. Aggiungi una irritazione degl’intestini, che non gli consentiva lo stare e non lo andare. Fra questi spasimi furono scritti parecchi di questi lavori, che sentono di chiuso e di solitudine. Pure, fu sempre grato allo Stella di quelle commissioni, che gli rendevano possibile il vivere, e amava meglio lavorare così contro genio, ma a casa sua, che quel saliscendi delle altrui scale. [p. 185 modifica]
Se ella vuol che io lasci le seccantissime e importunissime lezioni che mi occupano la metà del tempo, gli scriveva, io sarò qui tutto per lei...; non avrò altro pensiero né altra occupazione che di servirla.
Il libraio, per averlo tutto a sé, gli aveva raddoppiato l’assegno.

Ma non era neppur quello un bel mestiere, quel lavorar sì, ma contro genio, o piuttosto a genio altrui. E il pover’uomo sospirava sempre a quel tale impiego che doveva trarlo dall’incerto. Bunsen lavorava per lui a Roma, e Giordani a Firenze. Nell’Antologia erano usciti i primi dialoghi suoi a cura di Giordani, che già lo aveva trombettato «ingegno immenso e stupendo». Giordani, che mirava al riscatto d’Italia per via dell’educazione e coordinava a questa mira la sua Scelta di prosatori italiani, voleva associare l’immenso ingegno ai suoi disegni, e si adoperava a trovargli una posizione stabile in Toscana. Ma da Roma venivagli avviso di non accettare nessuna proposizione che gli venisse di Toscana. Gli è che Bunsen lavorava per lui, con sottile avvedutezza di diplomatico. Rappresentava al cardinale della Somaglia, che era l’Antonelli di quel tempo, come non convenisse lasciar quel giovine nelle mani di Giordani, aperto nemico della Santa Sede. E gli mandava il fascicolo dell’Antologia, dove il Giordani parlava con tanta ammirazione di Giacomo Leopardi. E il cardinale suggeriva che, se il giovane voleva fare qualche opera, e soprattutto «se l’opera avesse una stretta relazione con la religione», Sua Santità potrebbe fornirgliene i mezzi. Fallitagli la cancelleria del Censo in Urbino, Leopardi desiderava molto il posto di segretario generale nell’Accademia di Belle Arti in Bologna, come quello che esigeva ben piccola fatica e piccolo tempo, e gli dava agio di mettersi a lavori di suo gusto.

Volgeva fra l’altro in mente una Antologia platoniana, e come Platone cominciava a venire in moda, a guisa di opposizione al materialismo francese, questo disegno comunicato da Bunsen non doveva dispiacere al cardinale.

Ho letto, scrive a Bunsen il giovane, il Platone di Cousin, e per quello che si poteva aspettare da un francese, mi pare un lavoro assai diligente. Lo trovo poi ottimo quanto alla parte filosofica, ed [p. 186 modifica]anche quanto alla eleganza e purità dello stile. Non dissimulo che alcune sue interpretazioni non mi paiono giuste, ma ciò non toglie al merito dell’opera in generale.

Aggiungi che il traduttore di Epitteto e d’Isocrate, che ora vagheggiava Platone, era stato già chiarito come il vero scrittore del Martirio de’ Santi Padri. Il secreto era stato confidato al solo Stella, e poi Leopardi lo disse al solo Carlo, al solo Giordani, al solo Papadopoli; e fra tanti soli divenne il secreto di tutti. Or tutto questo, fatto valere da Bunsen, dava di lui buona opinione all’Eminentissimo, e fu un momento che Bunsen tenne la cosa come fatta, e ne ringraziò il cardinale, anche in nome del Niebuhr. Ma l’Accademia, malgrado una pressantissima del cardinale, non voleva far torto a un tale Tognetti, e la gioia di Bunsen fu breve.

Il cardinale, scrive al Niebuhr, ci ha menati pel naso; e, con tutte le promesse anche in iscritto, non si è fatto nulla per Leopardi.

Le pratiche, sospese, riprese non camminavano. E intanto il cardinale offriva una cattedra, alla Sapienza, di eloquenza greca e latina, con dugento scudi. E il povero Leopardi a opporre l’insalubrità di quel soggiorno di Roma nella state, e la grandissima debolezza del suo petto, e la sua poca attitudine a trattare con una scolaresca, sempre insolente, «attesa la timidità del suo carattere». Pur messo alle strette, finisce con cedere; ma come fare il viaggio senza quattrini? E Bunsen gli offre i mezzi. E allora si trova costretto a confessare a Bunsen quello che non aveva scritto ancora alla sua famiglia: la malattia che lo travagliava degl’intestini. La conclusione fu che non ebbe né il professorato, né il secretariato.

E non è maraviglia che in questa stretta desideri dal padre la rendita del beneficio destinato a Pietruccio, venuto già in età. — Volontieri, rispondeva il padre, ma vestirai l’abito ecclesiastico? Dirai la messa? Adempirai tutti gli obblighi? — La pillola è amarissima; Leopardi cerca qualche scappatoia. — Non si potrebbe ottenere una dispensa dal dir messa? Non basta l’abito nero? — Volevano per forza farne un abate. Anche il cardinale [p. 187 modifica]gli concedeva il professorato, a patto che vestisse l’abito ecclesiastico. Leopardi questa volta non fa rifiuti così netti, come fece in Roma. Assottiglia l’ingegno; vorrebbe salvare capra e cavoli, la dignità e il bisogno di vivere. Allora era più giovane, sgusciato appena di Recanati, meno pratico della vita. Ora, prova di qua, prova di là, è un po’ accasciato sotto la pressura di bisogni più morali che fisici, e non ha modo di soddisfarli, e vorrebbe... «Ingeniosa paupertas». Gladstone se ne scandalizza, e ne arguisce difetto di forza morale, e declama contro lui e contro gl’italiani. Ma queste cose si spiegano, non si biasimano. Leopardi non era una icse, un ente di ragione, un principio puro. C’era anche l’uomo, nel tal tempo e nel tal luogo. Non ostentava l’eroe, l’uomo forte; semplice, modesto, fin timido. Aveva le sue opinioni, e le faceva valere nella stampa, o con gli intimi della stessa fede; con gli altri usava il solito linguaggio convenzionale. E se nella vita adopera sottili trovati per provvedere ai suoi bisogni senza mancare alla sua fede, chi potrebbe fargliene colpa?

Il padre insiste; lo vorrebbe prete. Il figlio risponde con semplicità pari alla fermezza:

Quanto al mutare stato, sebbene io non lasci di apprezzare infinitamente gli amorosi consigli ch’ella mi porge, e le ragioni che ne adduce, debbo confessarle con libertà e sincerità filiale che io vi provo presentemente tal repugnanza, che quasi mi assicura di non esservi chiamato, ed anche di dovere riuscire poco atto all’adempimento de’ miei nuovi doveri in caso che io li volessi abbracciare... Circa il benefizio, ella può ben credere che vedendone investito un mio fratello, io ne proverò quella stessissima soddisfazione che avrei se lo vedessi nelle mie mani.

E più tardi, dopo nuova offerta, risponde:

Ringraziandola sinceramente e vivamente della bontà con cui ella mi ha destinato i benefizi e desidera ch’io li ritenga, le confermo la mia intenzione di rinunziarli per non portare i pesi annessi ed indispensabili.

Linguaggio semplice di uomo onesto e saldo.

Tra queste angosce lavorava Leopardi in quel crudo inverno di Bologna.