Guerino detto il Meschino/Capitolo XXVIII

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Capitolo XXVIII

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CAPITOLO XXVIII.


Il Meschino è accettato dalla fata Alcina, la quale gli dichiara le cagioni di molte cose, ma non dove sia suo padre e la sua generazione.


II
l Meschino appena vide la porta aperta entrò dentro il 17 di giugno a ore dodici del dì; e queste damigelle dissero: — Ben venga messer Guerino! Molti dì sono che noi sappiamo della vostra venuta». Queste erano tre damigelle tanto ornate e belle, che lingua mai non le potrebbe dire. Quando Guerino entrava, una di quelle damigelle, disse con un falso riso: — Costui sarà nostro signore!» Ed egli allora disse fra sè: «Tu non pensi bene!» Quindi una gli tolse la fiasca, l’altra la saccoccia e le candele, e la terza lo prese per la mano e gli rimise la spada nel fodero. Egli con loro se ne andò, e passarono un’altra porta, e giunsero in un giardino vicino ad una bellissima loggia tutta istoriata, e lì vi erano più di cinquanta damigelle l’una più bella dell’altra. Tutte si volsero verso di lui, e in mezzo di quelle vi era una matrona, la più bella che i suoi occhi avessero mai veduto. Una di queste tre gli disse: — Questa è la gran signora Fata!» E verso lei andarono, ed ella gli venìa incontra, e giunto [p. 237 modifica]appresso a lei s’inginocchiò Guerino, ed ella s’inchinò, e presolo per la mano, gli disse: — Ben venga messer Guerino!» ei la salutò dicendo: — Quella virtù, nella quale avete più speranza, vi aiuti,» e mentre che ei parlava, ella si sforzava fargli i più bei sembianti, e tanta era la sua vaghezza, che ogni corpo umano avrebbe ingannato e con le dolci parole, e con le belle accoglienze. Essa era di smisurata gentilezza, e di grandezza grande e tanto colorita, che quasi lo cavò dal suo proposito.

Egli era smarrito fra molte rose piene di spine, e se Dio per la sua grazia non gli avesse fatto tornar a mente i ricordi dei romiti, sarebbe caduto, ma tornò a Dio, e disse tre volte: «Gesù Cristo, liberatemi da questi incantamenti!» e questo disse fra sè nel cuore, e ragionando con lei la sua falsa volontà si partì da lui. Il Guerino gli cominciò a raccontare le pene, che aveva sostenuto da quel punto, che Alessandro l’aveva fatto libero in fino a questo parlamento, ch’ei faceva con lei, e poi tutto il viaggio. La Fata gli disse: — Io voglio che tu veda se ho del tesoro quanto il prete Janni,» e menollo in una camera di un gran palazzo, e gli mostrò tant’oro ed argento, e perle, e pietre preziose, e gioielli, e ricchezze, che se non fossero state false, tutto quel paese che ei aveva cercato non avrebbe valuto la terza parte. Poi tornò su quella sala molto ricca, dove gli fu apparecchiato da mangiare, e tante damigelle lo servivano che era una maraviglia. Quand’ebbe mangiato, la Fata lo menò in giardino, che a lui parve essere un paradiso novello, nel quale era di tutti i frutti, che da lingua umana si possano contare. Per questo conobbe tutte queste cose false e fatali, perchè vi erano molti frutti fuori di stagione.

Dopo molti ragionamenti ella prese il Meschino per la mano, venne verso il palagio reale con tre damigelle intorno ed innanzi suonando l’una un’arpa, e le due cantando, e giuocando l’una con l’altra, facendo tutti atti d’amore. La Fata spesso lo guardava, scontrando alcuna volta gli occhi suoi con quelli del Meschino, e l’accese del suo amore, sicchè per tal modo ardeva, che si aveva ogni cosa dimenticato, cioè le parole dei tre santi romiti, onde cominciò a dar intendimento alla Fata, ed ella a lui. [p. 238 modifica]

Giunti al palagio entrarono in una camera molto ricca, che mai non ne aveva veduta una più bella, se le cose non fossero state false. Disse il Meschino: — Ci ponemmo a sedere a lato il letto». Le damigelle si partirono e serrarono la porta della camera. Il Meschino abbassò gli occhi in terra, e gli tornarono a mente le parole dei tre romiti, e dentro alla sua mente disse tre volte: «Gesù Cristo Nazareno, fammi salvo!» E subito s’accorse dell’inganno che faceva a sè stesso, poichè di vermiglio colore venne, e tutto pallido e smarrito drizzossi in piedi, e andò all’uscio, e quello aperse, e così uscì fuori1. La Fata [p. 239 modifica]aspettava ch’ei tornasse in camera, e vedendo che non tornava, uscì fuori, e dimandogli per qual ragione s’era partito, e perchè non si aveva dato piacere con lei? Il Meschino disse: — Madonna, io mi sento molto male e tutto venire meno,» ed ella lo credette, e per questo s’avvide il Meschino che ella non intendeva i cuori nè le menti degli nomini, e così ritornarono nel giardino dove furono fatti molti giuochi piacevoli. Poi andò a cena, e mentre cenavano, ei per voler sapere da loro quello che cercava, cominciò a dire alcun fatto d’amore, e poi dimandò chi fosse suo padre e la sua madre, e se erano vivi. Ella dissegli: — Per questo tu non hai saputo niente, e acciocchè tu sappia che io so tutto, tu fosti dato in guardia ad una gentildonna della città di Costantinopoli, la quale aveva nome Sefferra, la quale per certo caso fuggì per mare, essendo tu di età di due mesi. Discesa dalle mura e navigando per mare fu presa da tre galee di corsari, e la balia che ti dava il latte, fu tanto stracciata per le galee, che il terzo dì morì, e un donzello che era con Sefferra fu gettato in mare, e, perchè non restava di piangere, la cattivella fu morta e gettata in mare, e tu fosti venduto in Arcipelago ad un mercante di Costantinopoli detto Epidonio, il quale ti fece allevare col suo figliuolo, e a te pose nome Meschino al battesimo, e quando da prima fosti battezzato avesti nome Guerino, però pensa se so la tua nazione! ma per questo tu non sai ancora niente». Ei piangeva udendo la sua disavventura, e pensava a quelle parole che si incontravano con quelle di Epidonio, e sospirò. Nondimeno tenne ogni cosa secreta nell’animo suo, ma non per prieghi, nè per lusinghe, nè promesse, ella non volle mai dirgli chi fosse il padre suo.

La sera fu mandato in una ricca camera, e la Fata venne con tutti quei piaceri e giuochi che fossero possibili per farlo innamorare, e quando egli fu nel letto, lei si coricò a lato. Il Meschino fu preso d’ardente amore, e fecesi il segno della santa croce, nè per questo non si partiva la Fata, ma per venir all’effetto del suo desiderio più si accostava a lui, ed ei ricordandosi delle parole dei romiti, disse tre volte: «Gesù Nazareno, aiutatemi!» e disselo dentro del suo cuore. [p. 240 modifica]Questo nome è di tanta potenza, che, come l’ebbe detto, ella si levò, e uscì fuori del letto e si partì, non sapendo la cagione che la faceva partire. Il Meschino rimase solo, e la notte dormì in pace senza essere molestato da lei nè da altre.

Con la grazia di Dio, disse il Meschino, che dormì tutta la notte, e la mattina a buon’ora la Fata andò a visitarlo con molte damigelle. Quando fu levato gli fu apparecchiato un bel vestimento di seta, e un portante leggiadro, e montò a cavallo con loro, e lo menarono per una bella pianura, e vide in questo dì, ch’era il mercoledì, il paese della savia Alcina di cui ella gli prometteva di farlo signore. Vide molti castelli e molte ville e palazzi, e molti giardini, immaginandosi questi essere tutti incantamenti, perchè in un poco luogo di montagna non era possibile che tante cose fossero. E mostratogli era quello che non era, e parevagli fare quello che non fece, e ritornato al palazzo di prima, ebbe gran fatica a potersi difendere dalle loro insidie. Così fu al venerdì, e all’ora che il sole era a ponente, vide femmine e maschi cambiarsi di colore, e diventare pallidi e paurosi. Di questo molto si maravigliò, e quella notte sentì molti lamenti tra queste generazioni di gente, e la mattina del sabbato, essendo venuto in bella loggia, vide andare e stare tutta quella gente melanconica, e stando in quella loggia un uomo di quarantasei anni passava sospirando dinanzi a lui, e molto melanconico. Guerino lo chiamò, e disse: — Gentiluomo, se la divina potenza non te lo vieta, dimmi perchè sei cambiato?» Disse: — Ahimè lasso! che tu aggiungi pena sopra pena? Per forza conviene che io ti dica il nostro male, perchè mi hai scongiurato; se io avessi creduto che tu non l’avessi saputo, io non ti sarei venuto dinanzi: ma dimmi, tu che lo vuoi sapere, che dì è oggi?» Guerino disse: — Sabbato». Ed egli disse: — Come LA.... de’ cristiani sia detta, subito tutti che siamo in questo luogo della Fata, per divin ordine cambiamo figure, maschi e femmine tutti diventiamo brutti vermi, qual serpente, qual dragone, quale scorpione, chi un verme, chi un altro, secondo il peccato che ci ha condotti in questo luogo. A te non bisogna temere, che non ti possono nuocere nè offendere; e quando saremo così diventati, se la necessità della [p. T32 modifica]Il Meschino alla porta dell’incantatrice Alcina. [p. 241 modifica]fame t’assalisse, anderai al luogo dove sei solito mangiare, e troverai tutte quelle cose che ti farà mestiere. Noi poi staremo così fino al lume di detta LA...2 poscia ritorneremo al nostr’essere primo, e così ogni sabbato ci avviene». Quando Guerino ebbe [p. 242 modifica]intese queste parole, molto si maravigliò, e disse: — O gentiluomo se questa non si dicesse, diventereste voi così brutti?» Ei disse di , e già s’approssimava il far del dì. Guerino allora dimandogli di che nazione fosse, ed ei cominciò a volerlo dire, e subito sospirò, e bestemmiò il dì che nacque al [p. 243 modifica]mondo, e la natura che non lo fece pietra. Quindi gittò fuori le vestimenta, e diventò dalla cintura in giù la coda di un serpente, o sia dragone, e poi si sfigurò tutto il busto, finalmente il volto con tutta la testa. Disse Guerino: «Io non vidi mai la più brutta cosa!» Esso gli pareva superba bestia, la cui divina possanza fece umile, e pareva di terra, e più non si scuoteva, tant’era diventato umile e basso! Allora il Meschino disse fra sè medesimo: «S’io ci stessi dieci mila anni, giammai non mi farete peccare». Poi venne un altro brutto verme, il quale aveva la testa lunga una spanna, e abbaiava come cane, ed era di color bigio, grosso come un uomo, lungo tre braccia, e gli occhi di fuoco, con la coda in bocca, la qual si mordeva per ira. Ed erano in quel luogo molti simili a quello di maggiori e di minori, che avevano colore di terra, come l’aspide sordo, ed al quale rassomigliavano. Ei levò le mani al cielo, e disse: «O signor Gesù Cristo Nazareno, difendimi da queste brutte sentenze!» E poco più oltre vide molte altre sorte di vermi, come rospi; con bocche molto grandi, con quattro zampe, e due dinanzi che pigliavano l’una coll’altra, guerci degli occhi, e gonfiati che parevano che crepassero, e quando videro il Meschino pareva che si stringessero in loro, e si gonfiavano come se gli avessero portato invidia. Appresso costoro vide fra loro molti scorpioni con tre bocche da mordere, grandi come un uomo, il busto poco più o meno secondo la statura di colui, e molto magri di aspetto, come se l’avarizia del mangiare gli avesse lasciati morire di fame. Poco più avanti vide un’altra brutta sorta di vermi, e molti scorpioni carichi di fastidio, e tutti avevano fatto ruota del corpo loro, e avevano ficcato il capo sotto terra, e stavano accidiosi e pieni d’iniquità. A lato a costoro erano molti serpenti con la testa crestata come galli, i quali avevano la coda verde; questi vermi al mondo sono chiamati basilischi, e dice che parvero a lui che fossero i più lussuriosi animali che si vedessero giammai, poichè avevano rosse le teste, che parevano di fuoco, e così il collo. E vide molti altri animali di brutta condizione. Egli andò poi sul palazzo, e trovò nella sala molte bestie, cioè serpi molto lunghi, biscie negre di sopra e bianche di sotto, fra le quali era una maggiore dell’altre, e [p. 244 modifica]quella parlò verso Guerino, dicendo: — Non temere, questo non tocca a te». Ei rispose: — No, per la grazia di Dio!» Poi trovò da mangiare nel luogo usato, e se ne stette così dal vespero del sabbato sino al lunedì a ora di vespero.

Passata l’ora di terza Guerino montò nel palazzo, ed incontrò la Fata ch’era ritornata in sua figura, e aveva con lei molte damigelle di tanta bellezza ch’erano una maraviglia. E’ vennero contro a lui con un falso riso, e quando egli vide tanta beltà maravigliossi, e andò incontro alla Fata, e salutolla dicendo: — Quelle cose in che aveva più speranza, nobilissima Fata, ti aiutino!» Ella disse: — Che cosa è Fata, e a che tu mi chiami Fata, se tu sei fatto come sono io!»

Poi dimandò s’ei sapeva di che era fatto questo nostro corpo, cioè l’uomo. Quindi rispose come i nostri corpi eran governati da trentaquattro cose, e che ventotto venivano dalla natura. Ei la pregò che gli volesse esporre il tutto, ed ella lo espose in questa forma: — La prima è la forma ricevuta dal padre e dalla natura; poi disse che in noi erano cinque elementi: l’aria, l’acqua, il fuoco e la terra, e questi quattro sono per ordine di natura; ma il quinto elemento, il quale per intelletto abbiamo, non si può sapere donde venga se non per ispirazione divina, ch’è l’anima, la quale da Dio ha il suo movimento, e al partirsi dal corpo torna a lui che l’ha creata, se ella ha operato nel mondo quel che gli fu ordinato per comune ordine, e quest’anima è molto più nobile, ed è il quinto elemento, al quale poi che il corpo è generato nel ventre della madre sono date due compagne, una sensitiva e l’altra vegetativa. Imperocchè così ha vita un arbore come un uomo, ma l’arbore non ha se non la vita, e non ha senso; e le bestie hanno anima sensitiva e razionale, ma non si può sapere donde ella viene, se non dal vero fattore Iddio, e questa anima razionale non ci è data dalla natura ma bensì da Dio. Però le bestie hanno il corpo di quattro elementi, come l’uomo, ma non hanno il quinto che è la intellettiva, cioè l’anima razionale; imperciocchè l’aria e la terra, l’acqua ed il fuoco hanno con il corpo senso e vita. Appresso queste sei cose sono dodici operazioni, e 12 segni del cielo, cioè Ariete, il quale è il primo segno della [p. 245 modifica]suprema parte, cioè della testa; secondo è Tauro, che è segno delle braccia; il terzo è Gemini; il quarto è Cancro, che è segno del cuore; il sesto è Vergine, che è segno della budella; il settimo è Libra, che è segno delle vene; l’ottavo è Scorpione, che è segno della natura; il nono è Sagittario, che è segno delle coste; il decimo è Capricorno, che è segno dei ginocchi; l’undecimo è Acquario, che è segno delle gambe; il duodecimo è segno dei piedi; e in questi dodici segni sono le case de’ sette pianeti. La casa della Luna è Cancro, e quando la è in Cancro, è in maggior possanza che negli altri segni, perchè questo segno è umido e freddo. Mercurio ha due case, cioè Gemini e Vergine, e Mercurio in Gemini ha maggior possanza, perchè questo segno è umido e caldo, e quando è in Vergine ancora questa possanza è maggiore perchè questo segno è fecondo e freddo. Venere ha due case, cioè Tauro e Libra, e quando Venere è in Tauro, allora ha maggior possanza che negli altri, perchè è segno inferiore, e tiene di terra arida, ed è freddo e umido. E quando Venere è in Libra allora ha gran possanza, perchè il segno di Libra è caldo e umido. Il Sole non ha altro che un segno, cioè Leone, e quando il Sole è in Leone egli ha la maggior possanza che in altri, perchè il segno di Leone è focoso, caldo e secco. Marte ha due case, cioè Ariete e Scorpione, e quando Marte è nel segno di Ariete ha gran possanza, perchè Ariete è secco e caldo, e quando è nel segno dello Scorpione, è peggiore, perchè Scorpione è segno d’acqua, freddo e umido, e molto lussurioso. Giove ha due case, cioè: Sagittario e Capricorno; quando Giove è in Sagittario, ha gran possanza e piacevole, perchè si trova temperato, e perchè Sagittario è di natura caldo e secco, egli è segno nobile; e quando Giove è in Capricorno, è infermo, perchè questo segno è umido, secco e infermo. Saturno ha due case, cioè Acquario e Pesce; quando è nel segno di Acquario ha maggior possanza, perchè partecipa più l’un dell’altro, perchè Acquario è caldo, e umido, e segno comune; quando Saturno è in segno di Pesce, è peggiore perchè il segno è umido e freddo, e grave e infermo, e pochi nascono sotto questo segno che non sieno melanconici. [p. 246 modifica]

Udito il Meschino delle diciotto cose che in questo corpo vivono, le quali la Fata gli aveva allegato, disse: — Io vorrei sentire ancora le altre sedici in compimento,» e dimandolle che hanno a fare questi sette pianeti in questo nostro corpo? Ella ne rise, e dissegli — Qual è più basso pianeta che sia?» Ei rispose: — La luna». Ed ella disse: — Se la luna con la sua freddezza non temperasse il caldo che ha recato il sole, quel corpo non sarebbe niente». Ei disse: — Che fa Mercurio a questo corpo?» Rispose: — Se Mercurio non facesse correr il sangue per questo corpo, il corpo non sarebbe niente. Mercurio è quel pianeta che dà movimento a tutti i membri di ogni animale». Ancora disse: — Che ha egli a fare Venere in questo corpo?» — Assai, rispose; Venere è pianeta d’amore, e se amore non fosse, che sarebbe questo corpo ed ogn’altra cosa? La terra non produrrebbe frutto, e niun’altra cosa germoglierebbe, e tutte le cose sarebbero sterili; ma Venere, donna dell’amore, dà movimento a tutte le cose, ed il primo movimento venne d’amore». Guerino confessò esser vero, e dimandò: — Il Sole che dà egli a questo corpo?» Rispose: — Lo matura ed asciuga, e dà calore alla gran frigidità e umidità, e se questo caldo non tempera questa umidità e frigidità, nè corpo nè altro sarebbe vivo». Ancora dimandò: — Che cosa dà Marte al corpo?» Rispose: — Marte dà a tutte le cose viva fortezza, perchè il corpo non si potrebbe muovere se Marte non gli desse forza». Ancora gli domandò: — Che dà Giove al corpo?» Rispose: — Giove gli dà chiarezza per la quale discerne, e conosce l’una dall’altra con fecondità d’allegrezza». Poi domandò: — Che dà Saturno a questo corpo?» Rispose: — Saturno gli dà temperanza e grandezza, epperò sono chiamati questi corpi melanconici Saturnini; ma sai tu quali son Saturnini? sono quelli che nascono quando Saturno è in Pesce, ch’è segno umido, freddo e grave, e se Saturno non desse queste gravezze ai corpi umani, i corpi sarebbero tanto vagabondi, che il mondo non durerebbe perchè i corpi umani non avrebbero fermezza». Dichiarate per la Fata le ventisei cose, il Meschino dimandò delle altre nove, ed ella rispose: — Sono cinque i sentimenti del corpo, cioè: vedere, udire, [p. 247 modifica]toccare, gustare e odorare; e quando al corpo alcune di queste mancano, il corpo rimane storpiato: or pensa, mancandogli tutti cinque, quello che farebbe il corpo! Le altre sono: memoria, intelletto e volontà, e per tutte queste cose non sarebbe compito questo corpo, se l’anima la qual è l’effetto, non gli fosse conceduta; e di questo ti metto l’esempio. Pongo che tu veda una donna bella, la tua memoria ti riduce all’intelletto quello che ella è; per questo modo viene la volontà, e queste sono naturali, perchè queste vengono dalla natura che le produce; ma con tutto questo non ha fatto niente senza l’effetto, sicchè aggiunte insieme queste sono le trentaquatro cose che sono legate coi nostri corpi, quando il corpo è compito». E quando gli ebbe assegnato questa ragione, andarono a desinare, e nel seguente dì s’informò di molte cose, tra le quali dimandò dei vermi che egli aveva veduti tramutare.

— O nobilissima Fata, per quella virtù in cui tu hai speranza, cavami di un pensiero, cioè di quelli che io vidi tramutati di figura, perchè io vidi più ragioni di vermi variati l’un dall’altro». Ella disse: — Poichè hai piacere d’intendere il tutto, io te lo dirò; dimmi quello che vedesti, ed io ti dirò quello che desideri». Ei disse: — Io vidi un bell’uomo diventar un dragone tanto nero, che mai non vidi la più brutta cosa, e dalla sua testa uscivano sette corna, ed era molto spaventevole, ma non si moveva». Ella rispose: — Costui fu in vita al mondo un piccolo signore in queste montagne di Calabria, ed era il più superbo del mondo, e pieno dei sette peccati mortali, e fece sempre guerra a tutti i suoi vicini, e per la guerra ei perdette la signoria. Però venne in questo luogo come uomo disperato per fuggir dinanzi a’ suoi nemici. Il nome suo non è lecito che io te lo dica, alcuni dicono ch’ei morì in una zuffa, ma egli non vi si trovò; ma perchè il Giudice ch’è sopra noi, tramuta i nostri corpi, e falli diventar animali che convengono a quei peccati, e molto si convenivano a quel che tu dici quelle pene per superbia, e per i sette peccati mortali che in lui regnavano, e però aveva sette corni in testa come tu vedesti a quei dragoni che ci sono per la loro superbia». Ei disse: — Vidi un’altra ragione di vermi molto brutti i quali erano lunghi [p. 248 modifica]tre braccia, con la testa piccola, larga, occhi focosi, e così la coda pareva di corallo, e avevanla presa con i denti e la mordevano, e il resto assomigliava ad un aspide sordo». Ella disse: — Questi sono per ira che ebbero al mondo, dove stavano accesi e pieni d’ira». Disse il Meschino: — Ancora vidi altri vermi laidi, e brutti grandissimi rospi gonfiati che pareva che scoppiassero». Ella disse: — Questi sono stati al mondo invidiosi che si disperarono, e fu cagione di farli venire in questo luogo l’invidia». Disse il Meschino: — Vidi vermi, che parevano molto grandi, ed avevano tre bocche da mordere, ed una da mangiare molto maggiore». Rispose la Fata: — Questi sempre furono cupidi ed avari contra il prossimo, contra Dio, e i poveri suoi, che l’avarizia non è altro che amare sè medesimo e non amare Dio nè il prossimo, e furono tanto avari che si disperarono, e vennero qui per avarizia». Disse il Meschino: — Io vidi un’altra ragione di vermi, come scorpioni negri e brutti, carichi di terra e di fastidio, che avevano fatto una ruota dei loro corpi, e tenevano i corpi loro a terra». Rispose la Fata: — Quelli sono accidiosi, che sempre a tutte le cose create portarono invidia, odio e mala volontà, e vennero qui per disperazione di accidia». Disse il Meschino: — Io vidi serpenti che gittavano grandissimo puzzore, coperti di fastidio, e tenevano la gola aperta come se desiderassero di mangiare». Rispose la Fata: — Quelli furono tanto viziati nel peccato della gola, che vennero in povertà, poi si disperarono, e vennero in questo luogo per il peccato della gola». Disse il Guerino: — Ancora vidi un’altra generazione di vermi che avevano la coda e le ali come serpenti, e la testa come galli, e gli occhi focosi, la coda serpentina e verde». Rispose la Fata ridendo: — Questi vermi furono vinti dal peccato della lussuria, ed essendo molto biasimati e minacciati, si disperarono e deliberarono di venire in questo luogo solo per questo vizio di lussuria». Per queste parole intese il Meschino com’erano condannati dalla divina Giustizia insino al giorno del giudizio per i sette peccati mortali.

Poichè il Meschino intese la cagione dei vermi, perchè diventarono serpenti, e la loro condizione, e come erano appropriati [p. 249 modifica]ai sette peccati mortali, ringraziò Iddio, e pregollo che gli desse grazia ch’egli uscisse sano dell’anima e del corpo di quel luogo, e di ritrovare il padre e la madre sua. Non è dubbio che in quella settimana fu molto tentato di lussuria con tutti i modi e astuzie che seppero fare, ma ei si raccomandò sempre a Gesù Cristo Nazareno, e Gesù Cristo lo aiutava. Ogni mattina diceva i sette Salmi Penitenziali e molte altre orazioni, e con questa fatica passò questa settimana, tanto ch’ei li vide tramutare un’altra volta nella figura ch’erano prima, e quando furono tornati in loro, egli pregò la Fata per quella virtù in cui più sperava, che gli dicesse chi era suo padre e sua madre che costei sapeva. Ma essa lo richiese di lussuria volendolo sapere, ed esso tacque e non rispose; quella si adirò in modo che tutto quell’anno passò che da lei non ebbe più altra risposta. Mancando solo tre giorni a finir l’anno, le Fate tutte erano tramutate in vermi secondo facevano per lo avanti; e non sapendo come potesse fare a sapere chi era il padre suo, e pensando come aveva perduto così un anno, molto si contristò, e deliberò di pregare da capo la Fata, e se essa non glielo volesse dire, di pregarla e scongiurarla. Onde com’ella fu tornata nel suo essere, andò da lei, e in questa forma le parlò: — O sapientissima Fata, io ti prego per la tua virtù che ti sia in piacere di dirmi chi sono i miei antichi, cioè mio padre e mia madre, acciocchè io non abbia fatto tanta fatica indarno». Ella rispose: — A me rincresce di quello ch’io t’ho detto, ch’essendo nato di gentile lignaggio, tu sia tanto villano cavaliero». Quando Guerino intese la risposta, restò del tutto turbato, e con ira le disse: — Per quella virtù che solevano avere le foglie, che tu volevi mettere in su l’altre che stavano ferme, mostrando vera la tua profezia, e non curando il soffiar del vento, ti prego che m’insegni il padre e la madre mia». E la Fata se ne fece beffe, e disse: — Il duca Enea troiano fu più gentile di te, e lo condussi per tutto l’inferno, e gli mostrai il suo padre Anchise, e que’ gentili romani che da lui dovevano nascere, profetizzando la fondazione di Roma, e cavando Anchise a salvamento dall’inferno, e, come già disse Carmenta madre del re Evandro, parlando di Ercole, tu pure ci hai da stare ancora tre giorni, e se ci [p. 250 modifica]rimarrai più oltre, ti avverrà male assai. Dicoti, che tu da me, nè da altra persona che sia qui dentro, non sei per saper da nessuno di che generazione sei». Guerino desiderando pur di trovare i suoi genitori, da capo cominciò a prometterle che se essa gli insegnasse, le darebbe al mondo buona fama, direbbe la sua nobiltà, e terrebbe celata la sua trasmutazione di figura umana in brutti vermi, e non altramente. Ed ella rispose con intenzione femminile, che esse non si curano di onore, nè vergogna, nè ricchezze, nè parenti, per contentare un loro appetito abbandonando l’amore di Dio e del prossimo; e per questa durezza, ch’egli vide in lei, aggiunse ira sopra ira, e disse verso di lei: — O iniqua e rinegata Fata, maledetta dall’eterno Dio, io ti scongiuro per la divina potenza, che tu mi dica chi è mio padre, siccome tu dicevi che lo sapevi chi egli era!» Rispose: — O falso cristiano, le tue scongiurazioni non mi possono nuocere: imperciocchè io non sono fantasima, ma sono, e fui di carne e ossa come sei tu, e solamente per mio difetto il divino Giudice mi ha così dannata. Va scongiura i demoni che non hanno corpo, e gli spiriti immondi, chè da me non saprai niente più di quello che tu sai: tu troverai l’ultima parte da ponente, cercherai nell’inferno, e lì ti sarà mostrato per figura tuo padre». Per queste parole molto s’impaurì Guerino temendo di non trovare il suo padre se non dopo la sua morte alle pene infernali; nondimeno fece buon cuore, e disse: — Il tuo giudizio non sarà vero per la grazia di Dio, a cui per la confessione e penitenza posso tornare, e così farò. Or fammi rendere le mie cose che io portai in questo maledetto luogo». Ella ordinò che gli fosser rese, e gli fu portata la sua tasca con dodici pani, e con tutti gli ordigni da fuoco, una candela, e un pezzo dell’altra abbruciata, e la Fata rispose: — Non con tua ira potrai nuocere nè offendere, perchè nè tu nè altra persona morta non mi puote far male nè bene, essendo giudicato quel che mi debbe esser fatto,» e sparì da lui, e da lì a poi non la vide mai più. Conobbe tutte le loro funzioni essere disdegnate ed irate, ed egli s’immaginò queste cose non essere per altro se non per invidia e per dolore che non avevano potuto metterlo nel numero loro e nei vizj loro. Dopo che egli ebbe [p. 251 modifica]radunate le sue cose stette tre dì, e ogni mattina ringraziava Dio, e diceva i sette Salmi penitenziali, e molte altre orazioni, e diceva sempre: «Gesù Cristo Nazareno, aiutami!» E così stette sino al terzo giorno, e la mattina, dette le sue orazioni, cominciò ad avere paura, raccomandandosi a Dio che non lo lasciasse perire. Veramente a lui pareva essere in un gran labirinto più oscuro di quello che fu fatto in Creta al Minotauro divoratore degli Atenissi tributarii di Minos.

Essendo l’ultimo giorno, ora di mezzodì, disse il Meschino che venne una damigella e dissegli: — O cavaliero, perchè non ti dimentichi, per forza a noi conviene, per la divina provvidenza, di mostrarti l’ora e il punto ch’è dell’uscire, e però non ti dimenticare; vieni appresso di me ch’io ti mostrerò la porta di queste abitazioni». Egli laudò Dio, ed andò con lei pieno di allegrezza. Ella lo menò per un cortile dov’ei riconobbe esservi passato quando vi entrò, e dice che in tutto quell’anno non vide mai quel cortile, nè la porta alla quale essi giunsero, perchè l’avrebbe molte volte avuto in pensiero. Ma la gran forza d’incantesimi non gli lasciava vedere niente, e quella damigella le disse, che s’ei voleva rimanere, gli farebbe perdonare alla Fata. Ancora s’ingegnava d’ingannarlo; ma egli disse:

— Piuttosto voglio morire ch’essere giudicato in questo luogo con lei».

— Ella soggiunse: Se tu uscirai, tutto in cenere diventerai».

— Rispose: Non ti venga pietà di me più di quello che ho io a me medesimo, imperocchè la carità, la fede e la speranza che ho in Gesù Nazareno, mi caverà sano e allegro da questo brutto luogo, voglio più presto stare alla speranza di Dio che in tanto vituperio, quanto state voi; ora aprimi la porta!» Ed ella stette ancora un poco, poi aperse provando col dito. Egli gridò:

— Domani io voglio andare a trovare Macco, cambiato di così bella figura in così brutto serpente». Ella aperse la porta, ed egli allegro saltò fuori. Ella disse:

— Va, che non possa trovare la tua generazione!» Guerino rispose: [p. 252 modifica]

— Di’ alla Fata che io sono vivo e campato; viverò sano, allegro, e salverò l’anima mia, e voi in questa scellerata vita vivrete ogni giorno morendo, diventando brutti vermi, e bestie irrazionali per le vostre peccata, che vi mutano la vostra figura laida». La damigella allora rinserrò la porta, ed il Meschino fece orazione a Dio ed a lui si raccomandò.



  1. Guerino ha vinti o superati ostacoli infiniti contro uomini e bestie, e finalmente dopo mille riportate vittorie, e mille trionfi acquistati colla ragione del più forte sul debole, filosofia de’ tempi oscuri della cavalleria, lo vedi pieno di religione avviarsi ad Arrezio di Calabria verso il monte della Sibilla, malgrado le ammonizioni di alcuni santi eremiti che gli dipinsero i pericoli che avrebbe egli perciò dovuto superare.

         Ma quel d’onde ritrar non vi potreste
    In modo alcun, se dentro vi cascaste,
    Però che con lascivie disoneste
    S’impegneran di far, che seco usaste;
    Ha forza tanta quest’oscura peste,
    Che s’in lussuria con lor vi lasciaste
    Cader, sareste legato in eterno
    Dopo tal luogo giù nel cieco inferno.
                             Tullia d’Aragona, Canto XXIV.

    Ringrazia Guerino i romiti de’ loro consigli, e penetra nullameno dentro le bocche delle caverne ove abita la Sibilla con delle candele accese. Passa sul dorso dell’empio Malco, o Macco, cangiato in serpente, ed arriva alla porta del regno sibillino, la quale è di metallo figurata tutta a demonii. Tre belle e gentili damigelle gli vengono ad aprire, le quali lo conducono in un giardino amenissimo, dove incontra la Fata, che è una donna la quale rifulge sopra tutte le altre in bellezza e maestà. La Sibilla lo prende per mano, e con isguardi lascivi comincia a parlargli d’amore, e quindi lo conduce nel suo palazzo in mezzo ad altre damigelle che suonavano e cantavano cose d’amore. Furono lasciati soli in una camera. Il Meschino pensando alle parole dei romiti, si fa di colore vermiglio, mentre la Sibilla comincia a vezzeggiarlo. Il Guerino era già per cadere nelle tesegli insidie, ma ricordando le parole de’ romiti esce fuori della camera. Ora vedremo la Fata tentare un nuovo colpo di seduzione. Alla sera dopo una cena squisita e sontuosa data a Guerino, lo conduce solo in una camera. Lo fa mettere a letto e se gli corica vicino. — Dopo tutta questa descrizione, che specialmente ricorda le poetiche descrizioni dell’Ariosto e del Tasso ne’ loro incantamenti, Tullia d’Aragona, la quale nel suo poema del Meschino ricordò pure questo fatto, tranne il solo cangiamento de’ nomi, parlandoci essa della Sibilla di Cuma invece della fata Alcina, ci viene nel Canto XXV del suo poema, toccando ogni particolare di questo abboccamento della Sibilla, per farci comprendere a quale rischio il Meschino era esposto, e da cui non sarebbe certamente uscito salvo, se non avesse subito ricorso al santo nome di Cristo.

  2. Pare che qui s’intenda l’Avemmaria, principio e termine delle assemblee notturne delle streghe, e di cui corrono ancora fra la plebe alcune credenze superstiziose.
    La setta degli stregoni ci offre una delle storie più famose della superstizione umana, e fu un tempo in cui le menti restarono invase in tal modo da questa credenza, che i più dotti ed assennati non ne andarono esenti. Perciò i deliri degli scolastici per combatter un delitto immaginario, e gli accaniti auto da fe’ dell’inquisizione per estirpare un male che in realtà non ha mai esistito. Che perciò? La storia delle stregherie e dei maleficii diabolici presenta degli interessantissimi episodii, e potrebbe dar luogo nello stesso tempo ad osservazioni utilissime. Chi non ha sentito parlare in sua gioventù delle assemblee notturne delle streghe, e dei così detti loro sabbati? Sappiamo che il lunedì, il mercoledì e il venerdì di ogni settimana erano i giorni fissi per la loro riunione, oltre alle grandi feste della chiesa, come Pasqua, la Pentecoste, Natale, perchè il demonio voleva che i giorni, che i cristiani consacrano in modo speciale al culto della loro religione, fossero anche particolarmente consacrati al suo culto. Ogni assemblea si apre alle nove ore di sera, e se non termina alla mezzanotte non può prolungarsi che fino al primo canto del gallo. Appena l’assemblea è aperta, tutto il mondo si prostra a terra e adora il demonio, chiamandolo suo padrone e Dio, e ripetendo l’apostasia pronunciata nel momento della sua accettazione nella setta, e baciandogli il piede, la mano, le parti sinistre, l’ano e la verga. Il qual demonio, se non è sotto la forma di un caprone, di un gatto o di un cane, ha la figura d’un uomo tristo, collerico, nero e brutto. Egli è seduto sopra una sedia elevata, ora nera come l’ebano, ed ora dorata, accompagnata da tutti gli accessorii che ne possono fare un trono maestoso. Ha sulla fronte una corona di piccole corna, due altri grandi corna sul di dietro della testa, ed un terzo uguale in mezzo della fronte, col quale rischiara la notturna assemblea d’una luce più brillante che quella della luna, e meno di quella del sole. I suoi occhi sono grandi, rotondi e bene aperti, luminosi e spaventevoli; la sua barba è come quella d’una capra; ed è metà uomo e metà becco. I suoi piedi e le sue mani sono come quelle dell’uomo, ha le dita uguali e terminate in unghie smisurate che si allungano e finiscono in punta. L’estremità delle sue mani è ricurvata come gli artigli d’un uccello da preda, e quella de’ suoi piedi rassomiglia proprio alle gambe d’un’oca. La sua voce è come quella dell’asina, roca, disordante e formidabile. Le sue parole sono mal articolate, pronunciate con un tuono basso ed irregolare, ed in una maniera grave, severa ed arrogante. La sua fisionomia esprime il cattivo umore e la melanconia. — Questa è la descrizione succinta del diavolo, di cui potranno valersi a proposito anche gli artisti, e quale si mostrò in alcune assemblee delle streghe. Non parlo dei sacrifizii e delle cerimonie ridicole quanto orribili che in esse avevano luogo, le quali dovevano essere affatto in contrasto colla santità della religione cristiana. Gli astanti confessano i loro peccati al demonio, e questi peccati sono di non avere fatto tutto il male che per loro si poteva; e dopo confessati assistono ad una cerimonia che è un’imitazione diabolica della messa de’ cristiani, e nella quale fra le altre cose ridicole, ogni assistente doveva baciar il diavolo dietro la coda nel mentre che uno stregone gliela teneva levata. Quindi gl’incesti, gli stupri, ed ogni sorta di simile lordura. Poi le trasformazioni in cane, in gatto, in lupo, in uccelli da preda ed in altri animali, per recare in questo modo più facilmente danno altrui, e distruggere anche i frutti della terra. Perciò si adoperano gli unguenti e le polveri velenose che si preparano con rospi, gatti, colubri, serpenti, lumache, ed altri rettili ed insetti, e con alcune corteccie di piante, quindi con ossa di cadaveri e cervelli de’ morti cavati dalle sepolture delle chiese frammisti coll’acqua giallognola estratta dal rospo che ogni stregone deve avere con sè, e che è lo stesso diavolo ubbidiente a’ suoi cenni dal momento ch’egli è ricevuto nella setta. La preparazione di simili unguenti, che il primo tragico d’Inghilterra trovò come un grande effetto drammatico gettandola nel suo Macbetto, occupò infiniti processi, e quello principalmente ne ricorda degli Untori di Milano, intorno a cui avremo forse dei grandi rischiarimenti nella storia che A. Manzoni sta per pubblicare. Siffatti unguenti, coi quali ogni stregone doveva ungersi la pianta de’ piedi, le palme delle mani, il viso, il petto e le parti naturali per poter arrivare presto al luogo dell’assemblea, fosse anche mille miglia lontano, esistevano di fatti, ed avevano la facoltà di avvelenare, come si pretese in quei tempi, oppure non era egli piuttosto una superstiziosa credenza, come le streghe, i diavoli, e tutte le loro assemblee, intorno a cui furono agitate tante vane questioni e funeste agl’innocenti? — La storia di Spagna principalmente è piena di vittime cadute miseramente sotto al ferro dell’inquisizione, perchè credute appartenere a siffatte società. Erano innocenti; pure tante volte confessavano. Confessavano perchè gli accusati speravano di sfuggire alla inquisizione più facilmente dicendo ciò che gli accusatori dicevano sul loro conto, o perchè temevano di essere condannati e puniti come negativi, perchè erano troppo deboli a sopportare i dolori della tortura. Che poi se erano convinti veramente di quanto dicevano? Chi può assicurare che l’intima convinzione dell’esistenza delle streghe non facesse cadere in una specie di delirio certe persone, le quali poi credessero veramente di aver con loro stretto un patto d’inferno?
    La favola ci rappresenta Oreste, che appena svegliato vede le furie che lo perseguono per punirlo d’aver uccisa la madre. Le donne che nella Grecia si consacravano al culto di Rea la madre degli Dei, credevano di sentire continuamente il suono dei tamburri e d’altri stromenti di musica, e vedere delle danze di Fauni, di Satiri ed altri simili fantasimi, e per godere più liberamente di questo spettacolo, esse guadagnavano le montagne e le foreste nelle quali credevano di trovare il cumulo delle loro delizie. Non si avrà a dire lo stesso delle streghe o fate delle loro notturne assemblee? — La Dio mercè nel nostro secolo le magie e le streghe sono passate di moda, e il progresso nelle scienze naturali ci fa considerare come altrettanti naturali fenomeni ciò che prima volevasi effetto solamente d’un’arte diabolica. Effetti immaginari, e che non avevano altro fondamento che l’impostura o l’ignoranza per quanto di straordinario raccontavasi e credevasi intorno all’alzarsi d’una verga, e al misurare d’un circolo! Tutto sarebbe a volgersi in riso se la memoria di tanti infelici condannati, trucidati, e uccisi scelleratamente per un delitto chimerico, non richiedesse da noi una lagrima di commiserazione. Sa Dio quanti orrori pesano sopra i secoli!