I Bernardi/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO II

SCENA I

Messer Rimedio vecchio, Gianni suo servidore.

          Messer Rimedio.  Gianni, vien’un po’ qua. Dimmi: che pratica
          hai tu con Alamanno, che mai spiccasi
          da te? che cose avete d’importanzia
          a ragionar insieme?
          Gianni.  Le son favole
          e cose, a dirvi il ver, di poco pregio,
          padron.
          Messer Rimedio.  Ben. Queste cose e queste favole
          non si possono intendere?
          Gianni.  Si possono,
          messer si. Mi diceva ch’era d’animo,
          in questo carnovale, intorno a Fiesole
          fare una caccia.
          Messer Rimedio.  Una caccia? Anco credolo;
          ma non come mi vuoi dare ad intendere.
          Gianni.  E’ vuol provar i can che da Dovadola
          gli fúr mandati.
          Messer Rimedio.  Altro che cani, credimi,
          vuol provar!
          Gianni.  No, padron. Cosí è proprio
          la veritá.
          Messer Rimedio.  Orsú! Questa girandola
          la ’ntendo anch’io.
          Gianni.  Padron, domandatelo;

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          e troverrete questo esser verissimo
          che i’ v’ho detto.
          Messer Rimedio.  Tant’è, non accaggiono
          piú parole; la ’ntenderò per agio.
          Va’ via tu prestamente infino a Fiesole:
          e fatti dal fattor mostrar e rendere
          el conto a punto del gran che gli ha ’n prestito
          dato, ed a chi; e cosí ancor l’olio
          che si è fatto. E, se non vi fussi, aspettalo;
          e fa’ che tu non torni senza intendere
          il tutto, intendi?
          Gianni.  Messer si.
          Messer Rimedio.  Or spacciati.
          Gianni.  I’ voglio andar infino in casa; e poscia
          andrò.
          Messer Rimedio.  No, no. V vo’ che vadia subito.
          Gianni.  Se vi piace cosi, ecco che subito
          vo.
          Messer Rimedio.  Or va’ via. I’ mi son messo in animo
          di levar tanti pissi e tante pratiche
          ch’i’ veggio; che qualcosa bolle in pentola.
          E però ho mandato questa bestia
          via per un pezzo. In fine, questi giovani
          ad altro mai, giorno e notte, non pensano
          che a’ lor amori, a lor trame, a lor chiachiere;
          e, quando co’ famigli s’accompagnano
          in tal maniera, per fatta può’metterla.
          Né mutan modo mai, se non s’amogliano.
          Allor, alfin, si ferman come bestie
          brave quando colle funi si legano.
          Onde, per questa cagion, mi delibero
          di dargli moglie. E, perch’i’ ho qualche indizio
          ch’una, fra l’altre, figliuola di Noferi
          Amieri, gli va a gusto, voglio ogni opera
          far, non guardando a nulla, a fin che l’abbia.
          Ma ecco fuor di casa el nostro Cambio

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          Ruffoli. Oh! Gli ha la sporta. Questo è il solito
          suo: far di suo’ mano; e parli essere
          savio assai piú che gli altri. Ma lasciamolo
          andare; ed io seguirò mio viaggio.

SCENA II

Cambio vecchio solo.

               Dice il proverbio: «Come son degli uomini
          i volti vari cosí anco gli animi
          sono». E, benché tutti a un fin tendino,
          non di manco il proceder non è simile.
          Ognun la ’ntende a suo modo e biasima
          l’altro; ed a nessun par in error essere.
          Io son un di que’ che molti dannano,
          dicendo che vie piú che ’l necessario
          mi sto intorno a casa; e mi chiamano
          sospettoso. I’ mi sia; lascia pur essere.
          Gli è meglio esser cosí che a dir s’abbia
          che io sia straccurato di si tenera
          cosa quanto è l’onor: di cui se perdita
          si fa, mai si raquista. Io non ho moglie,
          che si mori, debb’esser giá un dodici
          anni. Ma non è manco d’importanzia
          il guardar una figliuola che truovomi
          in casa, di vent’anni, senza tritolo
          di dota. I’, per me, non posso ma’ chiudere
          occhio. E so quel ch’i’ fo. Infin alle rondine
          vieto l’entrar in casa, che giá lettere
          si truova c’han portate, non ch’a uomini.
          Non creder giá che zanaiuoli o simili
          uomini intorno alla casa m’abbaino.
          No, no: i’ porto da me a me. E similemente
          né velettai né rivendagnole.
          Guarda la gamba! Discosto pur stiano

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          da questa casa. Qui non son domestici,
          salvo che una fante che ho tenuta,
          giá son vent’anni; ed anco poco fidomi
          di lei. La vo’ chiamar: e far la predica
          che, talor ch’i’ vo fuor, farli son solito.

SCENA III

Cambio, Menica fante.

          Cambio.  Menica!
          Menica.  Messere!
          Cambio.  Non odi? Menica!
          Menica.  Messere, dico!
          Cambio.  Vien giú, ora; e spacciati.
          Menica.  Ecco ch’i’ vengo.
          Cambio.  E bene? Una testuggine
          mi pari, a’ passi.
          Menica.  I’ non son giá per mettere
          l’ale! Basta ch’i’ vengo.
          Cambio.  Tu m’hai fracido.
          Menica.  Oh guarda cosa! Come gli è fantastico,
          stamani! Ch’ara vist’andar per aria
          qualche uccellino, ch?
          Cambio.  Non piú, cornacchia!
          T’abbiamo inteso.
          Menica.  E’ convien pur rispondere.
          Cambio.  Non piú, dico, cicala! La Lucrezia
          dove è?
          Menica.  In casa, su, nell’anticamera.
          Cambio.  Giá so che non è fuor,.
          Menica.  Perché domandine,
          vecchio ritroso?
          Cambio.  Borbotta, la striggine!
          Che fa?
          Menica.  S’acconcia il capo.

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          Cambio.  Il capo? Credolo.
          Mai ci è altro che far che ’l capo.
          Menica.  Domine
          che l’abbia a star anche com’una bestia!
          Cambio.  I’ so quel ch’i’ mi dico e quel che ’mportano
          queste cose. Le case che s’imbiancano
          si voglion o appigionar o vendere.
          Menica.  Oh! Pensa se l’adoperassi liscio!
          Cambio.  Eh? liscio? Che liscio o non liscio? Guardisene:
          che io l’ucciderei colle mie proprie
          mane.
          Menica.  Ognun ha pur consuetudine
          d’acconciarsi.
          Cambio.  La può star anche in cuffia.
          Chi l’ha a vedere? E, piú tosto, attendere
          a lavorar. Bisogna altro che favole
          a regger questa casa!
          Menica.  Uh Signor!
          Cambio.  Massime
          che qui né contadin né altri capita
          che l’empia a tutte l’ore. Dalla piccola
          cosa alla grande mi è necessario
          prò veder.
          Menica.  Di chi colpa?
          Cambio.  Ch’i’ son povero.
          Menica.  Orsú! Che domin fia? Fu anco povero
          messer Domenedio. Pazienzia!
          Cambio.  Ma ti vo’ ben dir questo: s’i’ son povero
          di roba, de l’onor voglio richissimo
          essere.
          Menica.  Fate molto bene.
          Cambio.  Intendimi
          tu?
          Menica.  V v’intendo; ed avete grandissima
          ragione.
          Cambio.  Or i’ vo fuor per tornar subito.

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          Non ti discostar mai dalla Lucrezia
          e fa’ che la non esca mai di camera...
          Menica.  Oh! Se gli bisognassi ire...?
          Cambio.  Oh! Intendesi.
          Ogni cosa a ragione.
          Menica.  Oh! Cosí piacemi.
          Cambio.  ...e che, sopr’ogni cosa, mai non facciasi
          alla finestra.
          Menica.  I 1 gliel dirò.
          Cambio.  Dignene.
          Che s’io lo posso mai spiare e intendere,
          guai a lei!
          Menica.  State pur di buon animo,
          che ella non vi s’è per far minuzzolo.
          Cambio.  E, se alcun pichiassi, non vo’ l’uscio
          mai si apra. Aspetti pur tanto ch’i’ capiti
          qui; e sia chi si vuol.
          Menica.  Se qualche povero
          non pichia, che ricerchi la limosina...
          Cambio.  Mandali via. Non posso far limosine.
          Io ho limosine troppe.
          Menica.  Non bazzica
          mai, qui, persona.
          Cambio.  Orsú! Fa’ ch’i’ non abbia
          a dolermi. E basta.
          Menica.  Va’, che rompere
          possa la bocca! E’ sarie me’ col diavolo
          praticar che con un geloso e massimamente
          quando gli è vecchio e fantastico
          come costui: che, se non che è amorevole
          la Lucrezia piú ch’alcun’altra giovane
          che sia a Firenze, i’ staria prima a patti
          di morirmi di fame ch’ai servizio
          suo stare; che mai non ci lascia vivere,
          né di né notte; e sempre cerca causa
          di gridarci; e talor ci dá ad intendere

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          d’ir fuori e poi, di piatto, usa nascondersi
          o sotto la scala o nel necessario
          o sotto il letto e poi, quando nien credesi,
          ci si scuopre a ridosso com’un fistolo.
          Ma noi n’abbiam, per la consuetudine,
          giá fatto il callo; e sempre stiamo in ordine,
          come se fusse presente: onde truovaci
          come lasciònne. E, benché tante storie
          faccia e sia tanto in osservarci cauto,
          U non ha ei però fatto tanto, el povero
          uomo, che non si sia pur la Lucrezia
          preso uno innamorato che ne spasima.
          E, se non fusse ch’andar bisognevole
          gli è stato a Roma, i’ credo senza dubbio
          ch’a quest’ora saria con esso itane
          in dileguo; e farallo, se mai tornaci.
          ! E, s’ella el fa, dará a tutti ad intendere
          che quanto piú le fanciulle si guardano
          dagli uomin tanto n’hanno maggior voglia:
          che quelle cose che tanto si vietano,
          per una usanza, sempre si desidrano.
          Ma uh! sciagurata a me! Se ei rivolgesi
          indietro, e che mi vegga ancor a l’uscio,
          Signor! e’ non ci fia sacco in che mèttello.
          Gli è dunque me’ ch’i’ torni alla Lucrezia»

SCENA IV

Alamanno giovane.

          Io ho, dalla finestra, visto Cambio
          uscir di casa. E ave’ a punto la lettera
          scritta che mandar voglio alla Lucrezia:
          onde ne son venuto fuor di subito.
          Or resta sol ch’i’ trovi uno che portila
          in modo tal che non ne nasca scandolo.

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          Gianni non è mai tornato. Chi domine
          ho io a mandar che tal ufficio sappia
          far? S’i’ mando un fanciullo? Eh! Fia difficile
          trovarn’uno a proposito. E s’i’ mandovi
          un zanaiuol? Andrá. Ma potrebb’essere
          che non volessi pigliarla; che Cambio,
          ch’è sospettoso, debbe ragionevolemente
          aver comandato ch ’un simile
          uomo, per conto alcuno, non ascoltino.
          Ah! Or avrei bisogno di consiglio!
          E quel che s’ha da fare senza indugio
          bisogna far; che, se poi torna Cambio
          a- casa, per tutto oggi, saria agevole
          cosa che non uscissi. Ma io dilibero
          mandar al tutto un zanaiuolo. S’elleno,
          senza dir altro, accetteran la lettera,
          ben è. Quando che no, vo’ che dica essere
          a lor mandato da Bernardo Spinola
          da Genova; che, se ode la Lucrezia
          nominar chi sopr’ogni altro desidera,
          sará cortese, ancor che con pericolo
          suo sia. Adunque, ciò far sará el meglio,
          senza pensarci piú su. Preso subito
          il partito, cessa l’affanno. Faccisi.

SCENA V

Fazio vecchio solo.

          Io ho penato due ore a risolvermi
          se a Viterbo mandar debbo Albizo
          mio figliuolo o no. E mi tenevano
          due cose: l’una, che gli è troppo giovane,
          né, ’nfino a qui, perdut’ha mai la cupola
          di veduta, ed è anco poco pratico,

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          ed a tal cose saria necessario
          un uomo esperto el qual fussi solito
          ir fuori e avessi, si com’è ’l proverbio,
          «pisciato in piú d’una neve»; e tenevami,
          secondariamente, il grandissimo
          amor che io li porto, che difficilemente
          mi lascia che in alcun pericolo
          incorrer lo permetta. Ma, in ultimo,
          piú ha potuto in me questa gran perdita
          che l’amor e ’l timor, bench’assa’ possino.
          Dumila scudi non son una favola.
          Che, s’i’ potessi con questo rimedio
          recuperargli, arei una grandissima
          posta tirata; e, se non fía possibile,
          è forza ch’i’ ne resti sempre povero.
          Per questo, resoluto son mandarlo:
          e, con lui, Bolognin ch’è molto pratico.
          E gne ne ho detto; e molto vòlto trovolo
          a far questo viaggio, perch’è giovane
          volonteroso e non pensa al pericolo
          che porta chi va a torno. Pazienzia!
          Bisogn’or far cosi. E’ disse d’essere
          qui ’ntorno ed aspettarmi, acciò che possili
          dar i danar che fa mestier e a ordine
          metterlo di tutto punto. E non veggiolo.
          Dove sará ei fitto? Oh! Ecco Cambio
          Ruffoli mio vicin. Da lui vo’ intendere
          se l’avessi riscontro, in qua venendone.

SCENA VI

Fazio, Cambio vecchi.

          Fazio.  I’ vogli’ andarli incontro. Buon di, Cambio.
          Donde si vien?
          Cambio.  Buon di e buon anno, Fazio.

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          Di mercato ne vengo, dove ho compero
          questo per desinar.
          Fazio.  Non era ei meglio
          pigliar un zanaiuol che tu medesimo,
          cosí scoperte, portar tante bazziche?
          Cambio.  Che zanaiuolo? Per niente! Paioti
          uomo da zanaiuoli, io? Truovomi
          una fanciulla grande, vo’ che sappia.
          E bisogno non ho di darli biasimo,
          ben sai; perch’oggidí, siamo in termine
          che con fatica e a pena si maritano
          quelle che han buon nome.
          Fazio.  E che biasimo
          danno i zanaiuoli? Io pur similmente
          ho la fanciulla; e sempre servomi
          di lor ne’ mia bisogni: e’ qua’ trovatomi
          ho fedeli.
          Cambio.  Tant’è: quanti son uomini
          tante son anche l’oppinion varie.
          Se tu la ’ntendi cosi, io intendola
          altramente.
          Fazio.  Se se’ di cotest’animo,
          pigli’ almanco un garzone e di lui serviti;
          e non ti alachinar cosi.
          Cambio.  Iddie me ne
          guardi! Garzone, ch? M’acconceresti
          per le feste, ti so dir.
          Fazio.  Perché domine?
          Cambio.  Come «perché»? E qual sorte ci è d’uomini
          che faccin piú faldelle, ove si truovano,
          ch’e’ famigli? Ti mostri poco pratico,
          Fazio, credimi.
          Fazio.  Orsú! In quello scambio,
          to’ la fante. Veggi amo.
          Cambio.  Anche non piacemi.
          Fazio.  Perché?

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          Cambio.  Perché non vo’; né ragionevole
          è ancora ch’i’ lasci in casa, libera
          e sola, la fanciulla.
          Fazio.  Oh! Troppo cauto
          sei in guardarla!... se giá non hai causa. .
          Cambio.  Causa non ho io. Ma ben considero
          quanto sia cosa grande e malagevole
          aver cura di quel che tanti cercano
          di tòrti: ch’oggidí, per essercizio,
          s’han preso molti (e tengonsi e piú nobili
          e piú galanti) contaminar femine
          d’altrui; ch’è abusion certo non piccola
          e da porci riparo.
          Fazio.  Gli è verissimo
          cotesto. Ma lasciam andar. Aresti tu
          a caso, per la via, riscontro Albizo
          mio figliuolo?
          Cambio.  Non giá ch’io vedutolo
          abbia; ma che bisogno n’hai?
          Fazio.  Grandissimo;
          ch ’a dirti il ver, mi truovo in gran travaglio.
          Cambio.  Non giá maggior del mio.
          Fazio.  Dio te ne liberi!
          Perché, per quanto io veggio, è il tuo stimolo
          di guardar la tua figliuola. E non niegoti
          che sia grande. Pur, non hai ancor perdita
          di le’ fatta: com’io, che sempr’ogni opera
          ed ogni studio ho messo e diligenzia
          in guardar un capital che trovavomi;
          or l’ho perduto.
          Cambio.  Perduto? Oimè! Duolmene
          assai. Ma che somma?
          Fazio.  Una favola!
          Dumila scudi.
          Cambio.  Cacasangue!
          Fazio.  E truovomi

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          nel grado ch’udirai: ch’altro rimedio
          non ho che mandar Albizo a pericolo
          della vita; e Dio ’l sa, se fia utile
          questa sua gita!
          Cambio.  E dove?
          Fazio.  A casa ’l diavolo:
          a Viterbo; lá dove quel mio giovane,
          ch’i’ tengo in casa, mi è detto che trovasi
          ferito e e’ mia danar, ch’avea, toltogli
          sono stati.
          Cambio.  Da chi?
          Fazio.  Da ladri publici;
          d’assassini.
          Cambio.  E trovar si potrebbero?
          Fazio.  Forse che si, se Dio volessi.
          Cambio.  Mandalo,
          mandalo a ogni modo.
          Fazio.  Cosí penso
          fare.
          Cambio.  Fallo. Ma colui che domine
          va cercando? o dove va?
          Fazio.  Se qui stiamoci
          un po’, el vedrem.
          Cambio.  Fermiamoci, di grazia.

SCENA VII

Zanaiuolo, Cambio, Fazio.

          Zanaiuolo.  Non saccio se ei disse lo quart’uscio essere,
          o ’l terzo, quel dov’ho bussar. Co’ diavolo
          si domanna costui che vi abita?
          Me l’ho scordato e non saccio com’abbia
          a saperlo. Ma gli è scritto in la lettera:
          me lo diranno questi gentiluomini.

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          Messer, tieni un po’ qui; leggi, di grazia,
          e dove sta costui saccimi dicere.
          Cambio.  Mostra qua. Oh! E’ bisogna ch’i’ adoperi
          gli ochiali.
          Fazio.  Dalla a me, ch’ancor servonmi
          gli occhi.
          Cambio.  To’, che la mia sare’ lung’opera.
          Fazio.  «Domino Cambio Ruffoli, Florentie».
          Questa viene a te.
          Cambio.  Si, pare a me. Da’ mela.
          Fazio.  To’ qui.
          Zanaiuolo.  Che dice?
          Cambio.  Chi ti manda?
          Zanaiuolo.  Un giovano.
          Ma questo che t’importa? Sa’mi dicere
          dove ho a bussare?
          Fazio.  Non è necessario
          bussare. Non potevi meglio abbatterti.
          Questo è a punto colui che tu cerchi.
          Zanaiuolo.  No, diavol! Dammi pur qua in man la lettera,
          che l’ho a lasciar ad altri.
          Cambio.  Che di’, bestia?
          Se la dai a chi la va, non ti è bastevole?
          Zanaiuolo.  No, Dio! Dália qua; che saria scandalo.
          Fazio.  Che scandal? Non va ella a Cambio Ruffoli?
          Zanaiuolo.  Che ne saccio io? A una fante debbola
          lasciare, non a un uomo. Intiennimi
          tu?
          Cambio.  Che fante o non fante? che m’hai fracido.
          La lettera vien a me; ed io leggere
          la debbo, nuovo pesce!
          Zanaiuolo.  Or va’ e ’mpiccati:
          che non l’ho a dar a te; che questo imposemi
          chi me la diede, che io in man d’uomini
          non la lasciassi.
          Fazio.  E chi è questo giovane
          che te la dette?

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          Cambio.  Com’ha nome? Disselo?
          Zanaiuolo.  Madesi che lo disse. Un tal da Genova...
          Ah! Me n’aricordo or: Bernardo Spinola.
          Fazio.  Oh! Che dice costui? Di grazia, leggila:
          ch’i’ mi consumo.
          Cambio.  Si. Ma prima mandisi
          via il zanaiuol; che non è ragionevole
          ch’e’ fatti nostri da ognun si sappine
          Fazio.  Orsú, zana! Va’ via; che questa lettera
          s’è data a chi s’avea a dare.
          Zanaiuolo.  Diavolo!
          Anche che io non saccia a chi doveala
          dare!
          Cambio.  Deh! Vanne via, dico; e spacciati.
          Zanaiuolo.  Non me ne voglio annar. Dammi la lettera
          qua, ed andronne.
          Fazio.  Deh! Pon’mente storia
          che è questa!
          Cambio.  Non te la vo’ dar.
          Fazio.  Deh! Vattene.
          Levatici dinanzi.
          Zanaiuolo.  Vo’ la lettera,
          ti dico; che non te l’ho a dar.
          Cambio.  S’tu stuzziqhi,
          tu vai cercando el male come i medici.
          Zanaiuolo.  Che male me puoi far?
          Cambio.  Fazio, soccorrimi;
          che mi vuole sforzar.
          Fazio.  Doh poltroni asino!
          S’i’ chiamo il famiglio, ti farò correre
          ad altro suon che di tromba.
          Cambio.  Deh! Chiamalo;
          ch’altro verso non veggio da potercelo
          levar dinanzi.
          Zanaiuolo.  O andate, che lo diavolo
          ne porti l’uno e l’altro!

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          Cambio.  E te in anima
          e ’n corpo; che ma’ piú improntitudine
          vidi tale.
          Fazio.  Né io. Or apri, e leggila
          a tu’ agio.
          Cambio.  I’ piglio gli ochiali, e leggola.
          Zan aiuolo. Che degg’io or dire a questo giovane?
          Dirò d’averla data a chi e’ dissemi:
          ch’altramente mi saria forza il rennerli
          li danar che mi dette; e saria il diavolo!
          Cambio.  Oimèi! oimè! Traditor pessimo!
          A questo modo, a questo mo’ si trattano
          gli uomini da bene?
          Fazio.  Che hai? che domine
          t’ha e’ fatto? Di’ sii.
          Cambio.  Oimè, Fazio!
          Oh Fazio! Tu ed io traditi siamo.
          Fazio.  Da chi?
          Cambio.  Da questo tuo Bernardo Spinola.
          Fazio.  Oh Dio! E’ mia danari!
          Cambio.  Tien qui; e leggila
          da te; e ’ntenderai da te, leggendola,
          lá mia vergogna e ’l tuo danno.
          Fazio.  Dio, aiutami!
          «Tuo, piú che servidor, Bernardo Spinola».
          Gli è ei che scrive. Io conosco benissimo
          la mano. Ma perché tanto s’umilia?
          Cambio.  Leggi, di grazia, se vuo’ ’l tutto intendere.
          Fazio.  «Carissima, e da me, piú che la propria
          vita, amata, a te, quanto è possibile
          mi raccomando». A chi scriv’ei?
          Cambio.  Deh! Leggila
          infino al fin: che so che tu ha’ ’ntendere
          cosa che t’ha, non men che me, affliggere.
          Fazio.  Iddio m’aiuti. «Staman, colla grazia
          d’Iddio, giunsi a Firenze di buon animo...».
          Oh! Costui è pur tornato.

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          Cambio.  Deh! Seguita.
          Fazio.  «... e piú che mai contento perché truovomi
          dumila scudi contanti. E, benché erano
          del mie’ padron, son mia...». Oh ribaldo!
          S’ha fatto sua e’ mia danar. «... che ’l salario
          monta assai piú; che l’ho servito dodici
          anni». E’ ne mente, il tristo, per la pessima
          gola; per ciò che, assai piú che non merita
          il suo servizio, l’ho pagato.
          Cambio.  Seguita
          pure.
          Fazio.  «Ed, acciò che non mi truovi facilemente,
          mi sto rinchiuso in una camera
          d’un oste...». Oh traditore! «... e, com’ho l’animo
          tuo saputo, uscirò fuori. Ora pregoti,
          se ti vuoi meco per sposa coniungere...»
          Gli scrive alla tua figliuola?
          Cambio.  Vedilo.
          Fazio.  «... che mei dimostri in questo, che a far facile
          ti fia: cioè che, letta questa lettera
          (intendendo, però, se fuori è Cambio
          tuo padre), un pannolin bianco subito
          ponga alla tua finestra, fuor, per segno;
          e l’uscio tuo socchiuda si che, a spignere
          solamente, si apra. Io, che di subito
          ne sarò avisato, arò tanto animo
          ch’uscirò fuori. E fa’ che la tua camera
          terrena sia aperta, che, piacendoti,
          ivi me ne enterrò: dove quietissimo
          mi starò infin che tuo padre sia itone
          a letto. Allora tu, com’amorevole
          che sempre mi sei stata, giú verra’tene.
          Li parleremo alquanto insieme: e, datoci
          la fede l’uno a l’altro, la medesima
          notte, te ne merrò per sposa a Genova;
          ed uscirai di si fatta miseria

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          nella quale ora sei; e me contentissimo
          farai sopra tutti quanti gli uomini.
          Né altro accade dire. Sol ricordoti
          ch’io son piú tuo che mio e non desidero
          altro se non mantenermi in tuo’ grazia.
          Sta’ sana. Addi ventidue di febraio.
          Tuo, piú che servidor, Bernardo Spinola».
          Cambio.  Che te ne pare?
          Fazio.  I per me, mi trasecolo
          di questa cosa e non ritruovo el bandolo.
          Cambio.  Parti che sia ferito?
          Fazio.  Ladro perfido!
          Ferito ha egli noi.
          Cambio.  E con che pessime
          armi!
          Fazio.  Non ci poteva far ingiuria
          di piú importanza.
          Cambio.  Tu di’ ’l vero. E massimamente
          a me.
          Fazio.  Io dico a me, che toltomi
          ha i danari.
          Cambio.  Anzi a me, che tóccomi
          ha nell’onor. Che potev’ei far peggio?
          Fazio.  Io ho perduto i danari; e tu perdita
          non hai ancor fatta.
          Cambio.  Io ho fatt’una perdita
          maggiore della tua; che questa lettera
          lo mostra, Fazio. Questa è una pratica
          che non è d’oggi e d’ieri.
          Fazio.  I’ vorre’ essere
          nel grado tuo piú tosto che mancassero
          dumila scudi alla mia borsa.
          Cambio.  E i’ essere
          vorre’ nel tuo: ch’e’ danari son facili
          a guadagnarsi; e l’onor è dificile,
          quand’è perduto.

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          Fazio.  Ve’ con quant’astuzia
          e con che falso modo mi fé’intendere
          ch’era stato ferito e che toltogli
          eran suti i danari!
          Cambio.  Che disegno
          era ’i suo?
          Fazio.  Come e’ s’avea le suo’ voglie
          cavate della tua figliuola, fingere
          d’esser tornato qua e darmi a credere
          quel che giá ave’ incominciato.
          Cambio.  Oh nequissimo!
          Gli ordiva prima e po’ voleva tessere
          la tela della sua propria tristizia
          che or s’è scoperta.
          Fazio.  E però vo’ la lettera
          nelle man, se ti piace: acciò, scoprendosi
          mai o in alcun luogo ritrovandolo,
          possa del mio valermi, intendi?
          Cambio.  Tientela:
          con questo, che, se non ti è necessario,
          mai non la mostri.
          Fazio.  Tel prometto.
          Cambio.  Oh poveri
          noi!
          Fazio.  Lasciamo il lamentarci, Cambio.
          Pensiam, piú tosto, a trovar il rimedio
          a questi nostri mal.
          Cambio.  Fazio, consigliami.
          Fazio.  Mal posso consigliarti; e’ ho la bussola
          smarrita, come tu. Pur, quel che occorremi
          dirò: ch’a te ed a me par salutifero
          el porre alla finestra el contrasegno,
          come ei richiede tua figliuola.
          Cambio.  Diavolo
          che tu voglia ch’i’ faccia una simile
cosa!

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          Fazio.  Tu non mi lasci dire. Ascoltami.
          E lascere’lo incorrer nella trappola
          da sé a sé. E poi farei d’essere
          quivi con buona gente, che non possono
          mancarti amici e parenti; e fare’gnene
          sposar per forza; e tutti i danar rendere
          a me. E certo e’ non si può far meglio
          per amenduoi.
          Cambio.  á dirti il vero, io dubito
          che ciò non sia un publicamente mettersi
          le corna ch’or ho ascoste.
          Fazio.  Anzi, è consiglio
          miglior che pigliar possa. Chi riprendere
          ti potrá, se mariti cosí facilemente
          la tua figliuola senza spendere
          un soldo? e da’ la a un che non è ignobile?
          Cambio.  Die ’l sa!
          Fazio.  Come «Die ’l sa»? La casa Spinola
          è oggi delle nobili di Genova.
          Quanti sarien che stimerien grandissima
          ventura questa! Foss’io a tal termine
          che tu! che sto de’ mia danari in dubbio!
          Cambio.  I’ mi voglio attener al tuo consiglio.
          Ma ve’ non mi mancar.
          Fazio.  Mancare? Dubiti
          tu di me? che sai ben quanto m’affliggono
          e’ mia danar perduti.
          Cambio.  Or be’, su! Faccisi.
          Cerchiam d’amici e parenti. E non dicasi
          la cosa a punto, per non esser favola
          d’ognun. Chiamiamgli a un nostro negozio,
          senza dir piú questo che quello.
          Fazio.  Intendesi.
          Cambio.  Orsú! I’ vogli’ andar di queste bazziche
          a scaricarmi e serrar la Lucrezia,
          per ogni buon rispetto, in una camera.

[p. 346 modifica]

          Po’ verrò fuori a trovar Lippo Ruffoli,
          mie’ cugino, e qualch’altro; e, ’ritorno a vespero,.
          vi porrò ’l contrasegno. Tu fa’ d’essere,
          col tuo famiglio, qui, al tempo.
          Fazio.  Credi tu
          eli’ i’ manchi? Queste cose a me importano
          quanto a te. Usaci pur diligenzia.
          I* mi vo’ consigliar un po’ con Noferi,
          in questo caso: acciò che, bisognandone,
          il suo favore e ’l suo aiuto prestine.