Il giro del mondo in ottanta giorni/Capitolo XXII

Da Wikisource.
Capitolo XXII

../Capitolo XXI ../Capitolo XXIII IncludiIntestazione 27 dicembre 2022 25% Da definire

Capitolo XXI Capitolo XXIII
[p. 165 modifica]

CAPITOLO XXII.


NEL QUALE GAMBALESTA IMPARA CHE IL DANARO

È NECESSARIO ANCO AGLI ANTIPODI.


Il Carnatic, avendo lasciato Hong-Kong il 7 novembre, alle sei e mezzo di sera, si dirigeva a tutto vapore verso le terre del Giappone. Esso portava un carico completo di mercanzie e di viaggiatori. Due cabine di poppa rimanevano inoccupate. Erano quelle noleggiate per conto del signor Phileas Fogg.

La mattina seguente, gli uomini di prora potevano vedere, non senza qualche sorpresa, un passaggiero dall’occhio istupidito, l’andatura vacillante, la testa scarmigliata, che usciva dalla boccaporta dei secondi posti ed andava titubando ad assidersi sopra una dara.

Quel passeggiero era Gambalesta in persona. Ecco cos’era accaduto.

Alcuni istanti dopo che Fix ebbe lasciato la tabagìa, due camerieri avevano preso Gambalesta profondamente addormentato e l’avevano coricato sul letto riservato ai fumatori. Ma tre ore dopo, Gambalesta, perseguitato persino nei suoi incubi da un’idea fissa, si risvegliava e lottava contro l’azione stupefacente del narcotico. Il pensiero del dovere non adempiuto scuo[p. 166 modifica]teva il suo torpore. Egli lasciava quel letto d’ubbriachi, e traballando, appoggiandosi ai muri, cadendo e rialzandosi, ma sempre e irresistibilmente spinto da una specie d’istinto, egli usciva dalla tabagìa, gridando come in un sogno: il Carnatic! il Carnatic!

Il piroscafo era là, fumante, pronto a partire. Gambalesta non aveva che pochi passi da fare. Egli si slanciò sul ponte volante, oltrepassò la murata, e cadde privo di sensi a prora, al momento che il Carnatic scioglieva i suoi ormeggi.

Alcuni marinai, da gente avvezza a simili scene, discesero il poveraccio in una cabina dei secondi posti, e Gambalesta non si risvegliò che la mattina dopo, a centocinquanta miglia dalle terre della Cina.

Ecco il perchè, quel mattino, Gambalesta si trovava sul ponte del Carnatic, ove usciva ad aspirare con tutta la forza dei suoi polmoni le fresche brezze del mare. L’aria pura finì di levargli tutti i fumi dell’oppio. Egli cominciò a raccogliere le sue idee, e non ci riuscì senza stento. Ma, finalmente, si ricordò la scena del giorno prima, le confidenze di Fix, la tabagìa.

«È evidente, disse tra sè, che sono stato abbominevolmente ubbriacato! Che dirà mai il signor Fogg? Ad ogni modo, non ho perduto il battello: quest’è il principale.»

Indi pensando a Fix:

«Ah! colui! disse tra sè, spero bene che ne siamo sbarazzati: dopo ciò che mi propose non avrà certo osato seguirci sul Carnatic. Un ispettore di polizia, un detective alle calcagna del mio padrone, accusato di quel furto commesso alla Banca d’Inghilterra! Baje! Il signor Fogg è un ladro come io sono un assassino!» [p. 167 modifica]

Gambalesta doveva egli raccontare queste cose al suo padrone? Conveniva informarlo della parte avuta da Fix in quell’affare? Non sarebbe forse meglio aspettare il suo arrivo a Londra, per dirgli che un agente della polizia metropolitana lo aveva seguito intorno al mondo, e per riderne con lui? Sì, senza dubbio; ad ogni modo, era cosa da esaminare. Il più urgente era di andare dal signor Fogg e fargli accettare le sue scuse per quella inqualificabile condotta.

Gambalesta si alzò dunque. Il buon ragazzo, dalle gambe tuttora poco solide, arrivò alla bell’e meglio a poppa della nave.

Sul ponte, egli non vide nessuno che rassomigliasse nè al suo padrone, nè a mistress Auda.

— Ho capito! pensò egli, mistress Auda è ancora coricata a quest’ora; quanto al signor Fogg, egli avrà trovato qualche giuocatore di whist, e secondo la sua abitudine....

In così dire, Gambalesta scese nel salone. Il signor Fogg non c’era. Gambalesta non aveva che una cosa a fare: domandare al purser (contabile) quale camerino occupava il signor Fogg. Il purser gli rispose che non conosceva nessun passaggiero di questo nome.

— Ma sì, disse Gambalesta. Un gentleman alto, freddo, poco comunicativo, accompagnato da una giovane signora....

— Non abbiamo nessuna giovane signora a bordo, rispose il purser. E poi, ecco qui l’elenco dei passaggieri. Potete consultarlo.

Gambalesta consultò l’elenco.... Il nome del suo padrone non vi [p. 168 modifica]figurava!

Egli si sentì come un capogiro. Indi un’idea gli attraversò il cervello.

— Oh che! sono o non sono sul Carnatic?

— Sì, rispose il purser.

— In via per Yokohama?

— Per l’appunto.

Gambalesta aveva avuto per un istante il timore di essersi sbagliato di nave! Ma se egli era sul Carnatic, era certo che il suo padrone non vi si trovava.

Gambalesta si abbandonò sopra un seggiolone. Era un colpo di fulmine. E d’un subito la luce si fece in lui. Egli si ricordò che l’ora di partenza del Carnatic era stata anticipata, ch’egli doveva avvertirne il suo padrone, che non lo aveva fatto, e che era colpa sua se il signor Fogg e mistress Auda avevano mancato alla partenza!

Colpa sua, sì, ma ancor più colpa di quel traditore che, per separarlo dal suo padrone, per tener questi a Hong-Kong, lo aveva ubbriacato! Giacchè egli capì finalmente la manovra dell’ispettore di polizia. Ed ora il signor Fogg, certissimamente rovinato, la sua scommessa perduta, arrestato, incarcerato forse!... Gambalesta a questo pensiero si strappava i capelli. Ah! se Fix gli capitasse sotto la mano, che resa di conti!

Finalmente, Gambalesta dopo il primo momento di abbattimento ripigliò il suo sangue freddo e studiò la situazione. Poco invidiabile, in verità. Egli si trovava in via pel Giappone. Certo di giungervi, in che modo ne tornerebbe via? Aveva le tasche vuote. Non uno scellino, non un penny. Meno male che il suo passaggio e il suo vitto a bordo erano pagati. Egli aveva cinque o sei giorni dinanzi a sè per riflettere e pigliare una determinazione. Quel ch’ei mangiò e bevve in quel tragitto non si potrebbe descrivere. Egli mangiò [p. 169 modifica]pel suo padrone, per mistress Auda e per sè. Mangiò come se il Giappone, dove stava per approdare, fosse un paese deserto, sprovvisto di qualunque sostanza commestibile.

Il 13, con la marea del mattino, il Carnatic entrava nel porto di Yokohama.

Questo punto è un approdo importante del Pacifico, dove poggiano in porto tutti i piroscafi che fanno il servizio della posta e dei viaggiatori tra l’America del Nord, la Cina, il Giappone e le isole della Malesia. Yokohama è situata nella medesima baia di Yeddo, a poca distanza da quell’immensa città, seconda capitale dell’impero giapponese, già residenza del taikun, nel tempo in cui quell’imperatore civile esisteva, e rivale di Meaka, la grande città che abita il mikado, imperatore ecclesiastico e discendente degli dêi.

Il Carnatic andò a schierarsi al molo di Yokohama, vicino alle gettate del porto ed ai magazzini della dogana, in mezzo a buon numero di navi appartenenti a tutte le nazioni.

Gambalesta pose il piede senz’alcun entusiasmo su quella terra tanto curiosa dei Figli del Sole. Il meglio ch’ei potesse fare era di pigliarsi il caso per guida, e andare alla ventura per le strade della città.

Gambalesta si trovò dapprima in una città assolutamente europea, con case a facciate basse, ornate di verande sotto le quali si entrava in eleganti peristilii, e che copriva con le sue strade, con le sue piazze, co’ suoi docks, co’ suoi magazzini, lo spazio compreso dal promontorio del Trattato sino al fiume. Colà, come a Hong-Kong, come a Calcutta, formicolava un miscuglio di gente di tutte le razze. Americani, Inglesi, Cinesi, Olandesi, mercanti pronti a vende [p. 170 modifica]r tutto ed a comperare di tutto, in mezzo a’ quali il Francese si trovava tanto estraneo come se fosse stato gettato nel paese degli Ottentotti.

Gambalesta aveva bensì un espediente; quello di raccomandarsi agli agenti consolari francesi o inglesi stabiliti a Yokohama; ma gli ripugnava il raccontare la sua storia, così intimamente commista a quella del suo padrone, e prima di risolversi a ciò, egli voleva aver esaurito tutti gli altri mezzi.

Laonde, dopo aver percorso la parte europea della città, senza che la sorte lo avesse in nulla aiutato, egli entrò nella parte giapponese, deciso, all’occorrenza, di avanzarsi sino a Yeddo.

Quella porzione indigena di Yokohama è chiamata Benten, dal nome di una dea del mare, adorata sulle isole vicine. Ivi si vedevano ammirabili viali di abeti e di cedri, porte sacre di un’architettura strana, ponti nascosti in mezzo ai bambù ed alle canne, tempii riparati sotto la vôlta immensa e malinconica dei cedri secolari, bonzerie in fondo alle quali vegetavano i sacerdoti del buddismo e i settari della religione di Confucio, vie interminabili in cui si poteva raccogliere una messe di fanciulli dalla carnagione rosea e dalle guance rosse, piccoli fantocci che parevano intagliati da qualche paravento indigeno, e che si trastullavano in mezzo a cani barboni dalle gambe corte e a gatti giallastri, senza coda, molto pigri e molto carezzevoli.

Nelle vie, era tutt’un formicolìo, un andirivieni incessante: bonzi che passavano processionalmente picchiando i loro tamburelli monotoni, yakunini, ufficiali di dogana o di polizia, dai cappelli acuminati incrostati di lacca, e che portavano due sciabole alla cintura, soldati vestiti di cotonine azzurre [p. 171 modifica]a righe bianche e armati di fucili a percussione, uomini d’armi del mikado, insaccati nella loro giubba di seta, con giaco e saio di maglie, e un’infinità di altri militari di ogni condizione, poichè al Giappone la professione del soldato è altrettanto stimata quanto in Cina è sprezzata. Poi frati questuanti, pellegrini in lunghe vesti, semplici borghesi dalla capigliatura liscia e di un nero d’ebano, testa grossa, busto lungo, gambe gracili, statura poco elevata, carnagione colorita dalle cupe tinte del rame sino al bianco latteo, ma mai gialla come quella dei Cinesi da cui i Giapponesi differiscono essenzialmente. Finalmente, tra le carrozze, i palanchini, i cavalli, i portatori, le carriole a vela, i norimon a pareti di lacca, i cango soffici, veri letti in bambù, si vedevano circolare a piccoli passi col loro piedino calzato di scarpe di tela, di sandali di paglia o di zoccoli in legno lavorato, alcune donne poco belle, dagli occhi dipinti, dal petto depresso, dai denti anneriti secondo la moda del giorno, ma portanti con eleganza l’abito nazionale, il kirimon, specie di veste da camera incrociata da una ciarpa di seta, la cui larga cintura si risolveva di dietro in un nodo stravagante, — che le moderne Parigine sembrano aver tolto a prestito alle Giapponesi.

Gambalesta passeggiò per alcune ore in mezzo a quella folla variopinta, guardando anche le curiose ed opulente botteghe, i bazar ove s’ammucchia tutta la canutiglia dell’oreficeria giapponese, le restaurations adorne di banderuole e di bandiere, nelle quali gli era vietato d’entrare, e quelle case di thè dove si beve a tazza colma l’acqua calda e odorosa, e il saki, bevanda estratta dal riso in fermentazione, e quelle comode tabagìe dove si fuma un tabacco [p. 172 modifica]finissimo e non già l’oppio, il cui uso è quasi sconosciuto al Giappone.

Indi, Gambalesta si trovò nei campi in mezzo alle immense risaie. Ivi, si presentavano alla vista, con fiori che sfoggiavano i loro ultimi colori e i loro ultimi profumi, delle camelie sfarzose, non già sopra arboscelli, ma sopra veri alberi, e nei recinti i bambù, i ciliegi, i susini, i meli, che i Giapponesi coltivano più pei loro fiori che pei loro frutti, e che dei fantocci smorfiosi, degli arganelli striduli difendono dal becco dei passeri, dei colombi, dei corvi, ed altri volatili voraci. Non un cedro maestoso che non alberghi qualche grande aquila, non un salice piangente che non nasconda nel suo fogliame qualche airone, malinconicamente appollaiato sopra una zampa; insomma dovunque cornacchie, anitre, sparvieri, oche selvatiche, e gran numero di quelle grù che i Giapponesi trattano da Eccellenze, e che simboleggiano per essi la longevità e la felicità.

Errando così, alla ventura. Gambalesta scorse alcune violette tra l’erbe:

— To’! diss’egli, ecco la mia cena.

Ma avendole odorate, non trovò in loro alcun profumo.

— Fortuna avversa! pensò egli.

Vero è che l’onesto giovane aveva, in previsione, fatta la colazione più copiosa che avesse potuto, prima di lasciare il Carnatic; ma dopo una giornata di passeggiata, si sentì lo stomaco molto vuoto. Egli aveva pur notato che pecore, capre o maiali mancavano assolutamente alle mostre dei macellai indigeni, e, siccome sapeva che era un sacrilegio l’uccidere i buoi, unicamente riservati ai bisogni dell’agricoltura, ne aveva concluso che la carne fosse rara al [p. 173 modifica]Giappone. Non s’ingannava; ma in mancanza di carne da macello, il suo stomaco si sarebbe volentieri rassegnato ai pezzi di cinghiali o di daini, alle pernici od alle quaglie, al pollame od al pesce, di cui i Giapponesi si nutrono quasi esclusivamente in un col prodotto delle risaie. Ma dovette far buon viso a cattiva fortuna, e rimandò alla domane la cura di provvedere al suo vitto.

Venne la notte, Gambalesta rientrò nella città indigena, ed errò nelle vie in mezzo alle lanterne multicolori, guardando i gruppi di funamboli eseguire i loro prodigiosi esercizii, e gli astrologhi all’aria aperta che addensavano la folla intorno al loro cannocchiale. Indi egli rivide la rada, smaltata dai fianchi dei pescatori, che attiravano il pesce alla luce di resine infiammate.

Finalmente le strade si spopolarono. Alla folla succedettero le ronde di yakunini (specie di guardie di pubblica sicurezza). Quegli ufficiali, nei loro magnifici costumi e in mezzo al loro seguito, parevano tanti ambasciatori, e Gambalesta ripeteva tra sè piacevolmente, ogni volta che incontrava taluna di tali pattuglie risplendenti:

«Ci siamo! Ecco un’altra ambasciata giapponese che parte per l’Europa!»