Il podere (Tozzi)/XXV
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XXV.
La mattina dopo egli non si sentiva disposto a riparlare per il primo a Berto; non aveva dormito ed era debole e stanco. Meglio che passassero alcuni giorni: intanto, voleva vedere come si sarebbe comportato! Ma Berto si voltava sempre da un’altra parte, e Cecchina lo salutava da adirata. Allora, ebbe il bisogno che qualcuno gli volesse bene, qualcuno che si degnasse di rincorare la sua coscienza.
Andò a una specie di nascondiglio, che s’era trovato su la greppa della Tressa; come dentro un letto di erba; dove con il corpo aveva fatto ormai una buca.
Sopra l’acqua limpida, un velo di sudicio si spezzava; trascinato via dalla corrente: un velo biancastro, che bucavano e tagliavano certi insetti galleggiando con la punta delle zampe alte. In mezzo a un prato, dall’altra parte della Tressa, c’era steso in terra il tronco di un melo, nero e marcio; che però aveva messo alcune foglie stente e di un verde patito. Mentre, larghe prese di granturco luccicavano su per il poggio; e le ombre delle nuvole, rapide come se avessero fretta, passavano sopra l’erba e sopra le groppe di una mandria di bovi; salendovi come se le saltassero.
La rugiada bagnava ancora le piante. I ciuffi dell’erba, specie del setolino, erano gremiti d’insetti; su le cime dei pioppi, facendole tentennare, le passere andavano via e tornavano a brancate fitte. Una fattoria era tutta chiusa e segregata dai suoi cipressi.
Egli stava per assopirsi, quando Ilda, salita sopra un poggetto, parandosi il sole con le mani, lo chiamò. Alzandosi, le rispose:
— Che vuoi?
— Hanno portato una lettera.
Gliela mandava l’avvocato Mino Neretti, per dirgli che andasse subito a Siena; per la causa della Cappuccini.
La matrigna, rosa dalla curiosità, gli domandò:
— È del tuo avvocato? Ho visto, dietro la busta, il suo nome a stampa.
— Sì; è sua.
Ma questa risposta non l’appagava: temette che lo avesse mandato a chiamare per l’ipoteca. E, quasi per mortificarlo di non dire tutto da sè, girandogli attorno, gli domandò anche:
— Perchè devi andare a Siena così di fretta?
— C’è un’udienza al tribunale, credo.
Ella finse di meravigliarsi, per farselo dire un’altra volta:
— Di già?
— Anche io me n’ero scordato!
Si sentì subito sollevata; e, senza volere, mostrò la sua contentezza. Egli le disse:
— Che Giulia riesca a farsi dare ottomila lire, oltre tutte le spese del processo, non gliene importa?
Luigia arrossì:
— Me ne importa, perchè dovrai cavarle, in un modo o in un altro, dalla Casuccia.
Quand’egli ebbe fatto un poco di strada, camminando lesto per non giungere tardi, lo arrivò Bùbbolo in calesse. Guidando con una mano sola, mise di passo il cavallo; e gli chiese:
— Perchè non sale con me? C’è posto anche per lei! Si metta qui! Guardi: qui; ci sta bene! Se non accetta, mi offenderebbe!
Remigio diceva di no; ma Bùbbolo cominciò perfino a bestemmiare:
— Santa Madonna, nè meno a dirle di venire in calesse, lei mi risponde come dovrebbe! Non le faccio sporcare le scarpe, e non si stanca! Venga su! Madonna dei sette dolori! Non mi faccia stizzire di mattinata! Non vede che ho tenuto il cavallo a posta, benchè io abbia fretta?
Allora, Remigio salì sul calesse.
— Oh, ora, ha avuto giudizio! Lo vuol comprare lei questo cavallino? Glielo do per pochi fogli da cento, con il calesse e tutto! Badi come è bravo!
Lo toccò con la punta della sferza, e il cavallo, sbruffando e dimenando la coda mozza, si mise a trottare; benchè ci fosse molta salita.
Vicini alla Porta Romana, Bùbbolo disse:
— Vuol vedere come fa anche questo pezzo di erta? Vai, Lillino!
Il cavallo mise giù la testa ai ginocchi e obbedì. Era baio e lucente, con le coscie tonde e corte; e siccome cambiava il pelo, fece impelare tutto il vestito di Remigio e di Bùbbolo; che disse:
— Ora, quando arriviamo alla stalla, le do io una spazzola: e si pulisce. Stia tranquillo, così lei può andare dove vuole. Dove deve andare? Ha piacere che ce lo accompagni io? Per me, è lo stesso: invece di voltare il cavallo alla stalla, andiamo dove mi dice lei. O Chiocciolino l’ha più visto? È buono sa! Creda a me! E un poco imbroglione — e, qui, confuse la voce dentro una risata di gola — come bisogna essere noi sensali; ma le garantisco che ha un cuore d’oro. E lei se lo dovrebbe tenere amico. Io a lui gli voglio bene come a un fratello.
Remigio, vinto il primo senso d’importunità, divenne di buon umore; e andò a trovare l’avvocato con la faccia quasi ridente. L’avvocato, che era arrabbiato, gli disse; con violenza:
— Il presidente del tribunale t’ha condannato a pagare tutte le ottomila lire alla Cappuccini e le spese del processo.
— Non c’era un’altra udienza, stamani?
— Chi te l’ha detto?
— M’era parso che fosse scritto nella tua lettera.
— Non sai nè meno leggere. Lo sapevo che non capisci niente. E te lo avevo detto che avresti perduto la causa. Ti sta bene! Così, imparerai a vivere.
— Ma tu la prendi con me!
L’avvocato lo guardò con scherno, allungò il passo; per lasciarlo.
Remigio gli andò dietro e gli chiese, quasi raccomandandosi, perchè gli parlasse con meno collera:
— Come faccio a dare ottomila lire alla Cappuccini?
L’avvocato gli rispose:
— Vieni al mio studio, tra una mezz’ora.
— Lo sai da te che io non ho denaro.
Il Neretti si fece affabile; e gli disse, sorridendo; — Se tutti i clienti fossero come te, mi metterebbe un bel tornaconto!
Remigio, credendo di rammentargli una ragione bastante, gli disse:
— Ma io ti sono amico!
Il Neretti gli dette la mano, e lo accontentò:
— Torna fra una mezz’ora allo studio. Ci penseremo insieme.
Remigio si sentiva portare via la testa, e camminava senza sapere dove andasse. Gli pareva di fare un chilometro ad ogni passo; e, quando gli veniva all’orecchio qualche parola anche di gente sconosciuta, si sarebbe fermato, come per istinto, a raccontare tutto.
Questa volta, non poteva sperare di nulla; e si abbandonava completamente al suo sentimento. Perchè non era scappato la notte che la mucchia bruciava? Perchè era tornato a Siena, se suo padre voleva morire senza farglielo sapere? Perchè doventare il padrone della Casuccia quasi di sotterfugio? Egli, aveva paura di una cosa ignota, più consistente del suo animo. Ma, benchè non avesse più pensato a Dio da tanti anni, non poteva credere che Dio volesse annientarlo a quel modo. Che cosa aveva fatto di male? Perchè non poteva esistere anche la sua volontà? Ricordò, allora, la sorgente dell’orto, sottile come un filo, quando da ragazzo si divertiva a chiuderla con un poco di argilla: bastava che vi pigiasse sopra il pollice. Pensò anche a tutta la gente che conosceva ed era morta senza che gliene fosse importato nulla. Anch’egli, ora, poteva morire, e nessuno lo avrebbe rimpianto. Dopo qualche anno, nessuno se ne sarebbe più ricordato. Mentre la Casuccia, a ogni primavera, ridoventava verde e fresca; e i pioppi della Tressa si innalzavano sempre di più. Ora, sentiva la sua miseria!
L’avvocato, vedendolo così avvilito, gli disse con una chiarezza che poteva rianimarlo:
— Se tu vuoi dare retta a me, dovresti fare subito un’ipoteca con il Credito Fondiario del Monte dei Paschi. Tu hai già due cambiali da scontare e sono sicuro che non avrai il denaro per tutte le scadenze. Guarda quanto è tutto insieme il denaro che devi dare, e fai un debito solo. È meglio. Così, ogni sei mesi, potrai pagare le rate; che non sono molto grosse. In tutto, mi pare che tu abbia una passività di quasi quattordicimila lire. Devi calcolare, poi, le dugento lire per il sensale e altre spese che ti possano capitare prima che il podere cominci a fruttarti. Si arriva, direi, a quindicimila lire. Bisogna, però, che la tua matrigna acconsenta a cedere il suo diritto di prima ipotecaria al Credito Fondiario. Questa è la condizione indispensabile. Credi che la tua matrigna acconsentirà?
— Io non lo so.
— Glielo domanderai più presto che è possibile. Se vuoi che la convinca io, mandala da me. Ma bada che anche il mio conto cresce. Ora vai a casa e non perdere tempo.
Senza volere, il Neretti sorrideva della sua aria sbigottita; ma egli stesso non sapeva come consigliarlo meglio e vedeva che sarebbe stato costretto a fargli vendere o prima o dopo, la Casuccia.
La sorte anche di tanti altri, che gli erano capitati!
Remigio raccontò tutto alla matrigna; che rispose con il garbo di un’istrice:
— Io, così alla sprovvista, non so quel che pensare. Domani, se tu sei proprio deciso, andrò dal mio avvocato; e sentirò quel che mi dice.
Egli le chiese quasi con terrore, per rimproverarla:
— E se l’avvocato le dicesse di no, che dovrei fare io? Dove trovo i denari?
— Io agirò anche secondo la mia coscienza. Tu credi che io non pensi a quel che è necessario, ma non è vero. Ilda, tu non devi ascoltare. Pulisci l’insalata e voltati di là!
Remigio disse:
— Non voglio nè meno io. La mandi fuori dell’uscio: alla conca.
Ilda prese i cesti dell’insalata, li mise nello zinale; ed escì.
— Non vorrei che ci fossero nè meno i muri!
— Ora siamo, soli, e possiamo parlare quanto vuoi! Ma, quel che vorrei dirti, che sento dentro di me, lo sa soltanto il Signore!
Remigio taceva. Allora Luigia gli disse:
— E se io acconsento anche a farti fare questa ipoteca, me ne sarai riconoscente?
Remigio gridò:
— Perchè me lo domanda?
— Non t’arrabbiare. Ormai sono presa anch’io con il laccio al collo e devo fare quel che vuole il destino. Te l’ho domandato, perchè avevo bisogno di sentirtelo dire anche con la tua voce.
— Basta! Io non voglio commovermi. Lei lo sa da sè. Vado nel campo, perchè ho bisogno di distrarmi.
— Perchè non resti con me? Pensi soltanto a distrarti per te? Credi che io non stia altrettanto male? Non mi lasciare sola!
— È meglio che io vada a vedere quel che fanno gli assalariati.
La matrigna fece il viso da piangere. Remigio le prese una mano e gliela strinse; dicendo:
— Non capisce che se io l’ho subito tenuta in casa con me vuol dire che intendo di volerle bene?
Un singhiozzo quasi la fece sbalzare:
— Pensa che faresti un azione, che io non mi merito!
Egli rispose, chinando la testa:
— Ha sempre paura!
E andò nel campo; quasi allegro. Parlò con tenerezza agli assalariati; e credette di aver fatto pentire Berto, perchè non rispondeva nè meno una parola.
Nell’aria era come un incendio; le galline, accovacciate sotto la parata, crocchiolavano di rado; quasi non avessero più voce. Sembrava che dovessero doventare incapaci a moversi di lì; come il muro dell’aia; come le pietre. Egli si lasciava prendere dal desiderio di sentirsi buono, e sognava che anche i pioppi della Tressa lo sapessero.
La mattina dopo, era domenica; e mentre la gente passava per andare alla messa stava appoggiato a un pilastro del cancello. I contadini pigliavano anche attraverso i campi, per i viottoli; e alcuni dovevano guadare la Tressa. La chiesa di Colle, in cima a un poggetto aguzzo, tra quattro cipressi alti, con le fronde soltanto in punta, come pennacchi rotondi, suonava.
La campagna dinanzi alla Casuccia era coltivata; ma senza case. Soltanto un poderuccio; che pareva ficcato dentro un cucuzzolo di creta. Punte di cipressi, in fila, si vedevano dietro un lungo poggio.
La terra lavorata era violacea e grigia: nel grembo della valle, fino alla Tressa, quasi verde. Poi, salendo e allontanandosi, si inazzurrava sempre di più; a strisce: e il cielo era di una tinta più sbiadita.
Cecchina, per timore di fare tardi, escì frettolosa dalla Casuccia; ma Gegia la rincorse, preridendola a braccetto per scherzo;
— Non mi volete con voi? Ho la gamba buona anche io!
Portavano tutte e due il cappello di paglia con i nastri di seta bianca, larghi e scendenti sul vestito nero, più giù dei fianchi; e chiacchierarono, ridendosi, fino alla chiesa. Le ragazze si tenevano per mano, a quattro o cinque per volta; i giovanotti le facevano sghignazzare; ma, poi, quand’era troppo, camminavano più piano perchè quelli passassero avanti e le lasciassero stare.
Dinda portò con sè Moscino; Lorenzo e Tordo erano andati a Siena. Berto arrivò, secondo il solito, fino alla chiesa; ma senza entrare.
Picciòlo, che prima aveva voluto portare la semola al vitellino, fece tardi; e si abbottonava le maniche della camica camminando. Poi, infilandosi la giubba, disse a Remigio:
— E lei perchè non viene mai?
Remigio si sentì prendere da un sentimento, al quale non aveva mai voluto dare retta; e desiderò di credere. Avrebbe voluto rispondere: «aspettatemi» ; ma, invece, sorrise impacciato, e basta.
Picciòlo, vedendo la sua indecisione, gli disse un’altra volta:
— Venga con me!
— Ormai, no.
— Crede che non le farebbe bene venire alla messa? Dopo, ci si sente meglio! Via! Non si lasci prendere dalla svogliatezza! Non crede in Dio?
— Non vengo!
Picciòlo, credendo che si fosse avuto a male della insistenza, gli disse parlando lentamente; per dare risalto alle parole:
— Mi perdoni se mi son permesso di consigliarla così! Ma dal tetto in su nessuno sa quanto ci sia.
— Anzi, avete fatto bene.
E gli porse la mano. Picciòlo s’era dimenticato di mettersi dritto il cappello; e camminava mezzo sciancato; dondolando le braccia avanti e indietro. A forza di vangare, un ginocchio cominciava a volergli rimanere piegato; e anche le mani gli si erano storte. Altri vecchi, che passavano per andare alla messa, s’erano conciati anche peggio, sempre di più; con la testa in avanti, per lo stare curvi a zappare.
Le donne, invece, pareva che si scorciassero; con le mani e i fianchi deformi. Avevano la faccia del colore delle mele cotte, e parecchie con una gamba più corta e una più lunga.
Passarono anche la moglie e la cognata del padrone di San Lazzaro, che dal grasso potevano a pena moversi; con un ombrellino di fuori bianco e di sotto verde; e la serva, dietro, a due passi di distanza, con le mani sul ventre.
Escirono dal cancello anche Luigia e Ilda.
L’azzurro brillava; i poggi e i cocuzzoli di argilla, un poco glauchi e un poco cinerei, abbaglianti, s’ammucchiavano sempre più alti e più chiusi, verso Siena; tutta rossa; fatta con i mattoni di quell’argilla cotta.