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Impressioni e ricordi di Bayreuth

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Giulia Turco Turcati Lazzari

1897 Indice:Turco - Impressioni e ricordi di Bayreuth.djvu Teatro/Musica/poesia Letteratura Impressioni e ricordi di Bayreuth Intestazione 4 agosto 2022 25% Da definire


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IMPRESSIONI E RICORDI DI BAYREUTH


L’itinerario più diretto dall’Italia a Bayreuth tocca due città della Germania così mirabili per le opere d’Arte che contengono, così attraenti per la loro forte vita intellettuale, che forse indarno si cercherebbe altrove un mezzo più efficace a preparare degnamente lo spirito per l’audizione dei drammi musicali di Wagner. Una di queste città è Monaco che anche in estate, quando le sale filarmoniche e i teatri principali sono chiusi, ci fa gustare, nei suoi concerti popolari, con ottime orchestre, le più belle pagine di musica che siano state scritte, che ci offre il destro di studiare, nella sua pinacoteca ricchissima, l’Arte antica germanica e fiamminga, e in due interessanti esposizioni (il Glaspalast e la Secession) i tentativi, gl’intendimenti e i progressi della moderna pittura internazionale: l’altro è la medioevale Norimberga, la Cronaca murata ove Hans Sachs cantò, ove Alberto Duro seguendo la scuola di Wolsemuth divenne più grande del grande maestro, ove lo scalpello di Adam Kratft e di Veit Stoss e le superbe fusioni di Peter Vischer eternarono complicate fantasie di nordici ingegni, ove le cattedrali gotiche richiamano al pensiero le produzioni simfoniche e le fontane, le cappelle, le tombe sembrano emulare il sapiente intralciamento dei contrappunti musicali quasi fossero ispirazioni di Bach irrigidite nel legno, nel marmo, nel metallo.

La mente addestrata dallo studio di questi elementi estetici, dinnanzi al Biilhnenfestspiel di Bayreuth ch’è il più largo e più geniale derivato di essi, si sente innalzare liberamente a volo in un campo luminoso.

Iean Paul deplorava, un giorno, con profetico animo, che non fosse ancor sorto l’uomo capace di essere il poeta della propria musica, e a Bayreuth, nel tranquillo ritiro da lui prescelto per gli anni cadenti della vecchiaia, doveva trovare la sua apoteosi il duplice artista già da tanti letterati illustri sognato.

Se l’ambiente artistico dei srandi centri era forse stato una volta l’aspirazione di Wagner, il caso, facendogli eleggere la vecchia città dei margravi, qual gelosa custode a tante speranze, favorì tuttavia un intimo istinto che gli faceva desiderare il suo teatro lontano dalle distrazioni, circondato da un raccoglimento austero e profondo.

Dal momento in cui la grande idea prese forma, dal-Giorno memorando in cui, sotto gli auspici gloriosi della nona Sinfonia, la prima pietra dell’edifizio fu collocata sulle alture ormai celebri della Hohe Warte, uno stuolo di fidi amici e discepoli si strinse intorno al maestro, meditando, in quella quiete claustrale, l’opera sua, lottando per essa con nobile disinteresse, con sincero entusiasmo come da una inespugnabile fortezza.

È allegra la piccola città bavarese e abbellita da palazzi e da giardini; durante il tempo delle rappresentazioni wagneriane, le sue vie spaziose sono animatissime per il lieto andirivieni dei forestieri, ma al visitatore essa non offre che lo spettacolo interessante di quella singolare società cosmopolita che un solo scopo attrae ed affascina, l’ombra tranquilla dei parchi che cingono le sue ville del Settecento, e la bellezza ricreatrice d’un largo paesaggio ondulato di facili colli verdeggianti e, chiuso all’orizzonte dai pittorici Fichtelgebirge, il vanto dell’alta Franconia.

Il pensiero, da null’altro mai allettato o distolto, sì concentra su quella collina vestita di boschi e dominata da una colonna commemoratrice della guerra franco-prussiana ove sorge da vent’anni, imponente nelle sue limitate proporzioni, nella sua attica semplicità il teatro con cui il maestro alemanno ha potuto realizzare, almeno in parte, il suo nobile concetto del dramma musicale, coadiuvato in giusta misura dalle Arti sceniche ed imitative.

Gl’infiniti e dolorosi ostacoli che S’opposero così accanitamente a quella realizzazione, il crescente convincimento che, nel mondo intellettuale soggiogato, tiene dietro ora all’aspra battaglia, rivelano colla tarda ma sicura gloria, la grandezza dell’idea ribelle alle meschine tirannie del convenzionalismo, presaga forse di «tivoluzioni sociali che dovranno modificare o mutare lo scopo dell’Arte. Al genio solo serba l’umana vita tali lotte e tali vittorie.

La moda, la vanità, il desiderio dell’insolito potranno forse attrarre a Bayreuth una piccola parte del numeroso pubblico che vi accorre, colla fede di chi compie un pellegrinaggio nelle più elevate regioni del bello. il rimanente degli spettatori si compone di artisti d’ogni nazione, di letterati, di Galnieio ch ammiratori ferventi, di personaggi altolocati.

Quando, nel pomeriggio dei giorni estivi, il sole, ancor alto all’orizzonte, ride tra le frondi dei tigli e degl’ippocastani, prestando uno [p. 242 modifica] speciale diletto all’interminabile sfilata delle carrozze, nella sua lenta ascesa dalla città alla collina, e alcuni suonatori di trombe e di tube, facendo il giro del teatro, annunziano nell’ora insolita, con poche battute tipiche del dramma, che lo spettacolo sta per cominciare, la gente s’affretta verso gli atrii ed alle varie porte somiglianti a vomitorii, che danno accesso agli scaglioni della platea costruita come una sezione d’arena, e un fremito d’impazienza sembra correre sulla folla ansiosa, un desiderio ardente lampeggia daglisguardi, tutti si danno premura di raggiungere ilproprio seggio, forse già fissato da più mesi.

Nel primo momento, uno sguardo ai pochi palchi che dominano il pubblico e la scena e si vanno rimpiendo di personaggi illustri, una occhiata fuggevole alla sala gremita di sente e illuminata dall’alto delle colonne che ne adornano le nude pareti laterali, un freddo scambio di saluti col vicino o colla vicina,i quali non vedono in noi che un possibile, se non sicuro, ostacolo al loro raccoglimento, nulla più: le porte si chiudono, le lampade si spengono e l’attenzione è incatenata per intero dal palco scenico ove una luce proveniente dall’invisibile orchestra rischiara appena i nobili arabeschi dorati della tela che fra breve s’aprirà a guisa di cortinaggio. Gli spettatori (circa 1650) si concentrano in un silenzio profondo, quel silenzio che nelle chiese precede il compimento dei divini misteri. E sembra difatti che il più sacro rito dell’Arte sì compia, nella più complessiva, nella più ideale delle sue manifestazioni.

La mente preparata da lungo studio e da una sicura conoscenza dei leifmotivesenza della quale la sua comunione col dramma riescirebbe imperfetta, giunge, mercé la sottigliezza penetrante della, musica e la straordinaria efficacia della scena alle più acute percezioni e si lascia affascinare e indurre al sogno, come se l’irreale le stesse dinnanzi, come se nel momentaneo oblio d’ogni terrena cura, assorgesse alla contemplazione di cose nuove. Ciò non toglie che Wagner sia profondamente umano, mal’umano in lui diventa sublime perchè risale alle forze primitive della vita.

Sarebbe vano l’attendersi dall’opera sua una sodisfazione esclusivamente musicale, la dolcezza del diletto melodico. Chi ha questa parziale aspirazione deve rivolgersi all’Italia che fu e sarà sempre l’impareggiabile terra del canto. La musica in Wagner non è che una mediatrice della volontaà1. Tuttavia, lo scopo dell’Arte non fu forse mai raggiunto in forma così potente come in quei drammi che sdegnando la missione comune d’allettare e divertire eleggono a principale loro scopo l’altissimo insegnamento che ci deriva dalla manifestazione complessiva e poetica del bello e del buono e ci elevano al disopra di noi stessi con efficacia rigeneratrice.

Il sentimento morale non va mai disgiunto dalle creazioni di ‘Wagner, nemmeno fra le licenze del mito che, assolte in principio da virtù soprannaturali, finiscono per soggiacere all’inevitabile castigo; l’idea del bene ha sempre ispirato il suo genio e la musica, più valente interprete della parola, ne va ricercando, non indarno, l’eco, nelle più intime fibre dell’essere nostro.

Il nobilissimo intento raggiunse la sua più forte espressione col Parsifal, nel quale s’incarna l’idea cristiana, donde ci deriva, con azione purificante, con evidenza luminosa un raggio celeste di verità, ovesembra che l’anima grande del poeta e del musicista già intravveda l’infinito, l’eterno. Ma se il Parsifal e quel Tristano che gli sgorgò di getto dalla mente liberissima, hanno raggiunto forse una maggiore perfezione, la Trilogia dell’Anello del Nibelungo vanta nella sua concettosa essenza, nella sua mirabile unità un’insuperata grandezza. Essa è come un immenso, intangibile, monumento di granito, che s’erge nel secolo nostro a massima gloria dell’umano ingegno.

Vent’anni or sono, il teatro di Bayreuth si inaugurava colla Trilogia. Protetto da un re geniale, festeggiato da molti fidi amici, assistito da tanti indefessi esecutori che avevano portato il culto fino alla più generosa abnegazione di loro stessi, dimenticando le fatiche delle lunghe quasi insuperabili prove, stimandosi altamente onorati della parte che ciascuno rappresentava nel grande insieme, Wagner vide realizzarsi, in quel giorno il più contrastato dei suoi desiderj e il più vitale, benché il fatto, unico nella storia dell’Arte, non fosse per lui il completo trionfo dei suoi principii ma un semplice iniziamento di essi.

Difatti, nella sua ardimentosa sfida contro il convenzionalismo i cui apostoli non gli risparmiarono né il sarcasmo né i libelli più mordaci, egli disse ai suoi ammiratori; in quel tempo ancora scarsi, ma tanto più ardenti: «Ora voi avete un’Arte tedesca, vedete ciò che si può fare, sappiate dunque volere... » e queste due affermazioni, lungi dal tradire lo smisurato orgoglio che 1i suoi nemici si compiacevano di attribuirgli, rivelano nella sicura coscienza di sè che è una delle prime forze del genio, non già il convincimento d’avere esaurito la manifestazione delle proprie teorie, ma il desiderio di fondare una nuova scuola che illustrasse la patria, ed hanno per ciò una grande importanza nazionale alla quale la Germania non ha potuto a lungo restare insensibile.

In verità, benchè le prime fonti dell’Arte wagnerlana si debbano cercare nell’ellenismo, essa ritrae molto della terra nordica ov’è sorta:

certi mezzi che qualche volta rendono ingenua la grande semplicità del mito; certi espedienti di apparizioni soprannaturali e metamorfosi stranissime; il libretto ove il poeta, non di rado sublime,anzi chè curarsi che il dramma si svolga rapido e snello al suo fine, si trattiene quando [p. 243 modifica] gli occorre, ed esaurirne inesorabilmente la situazione, costringendo la musica a dilungarsi in melopee forse un po’ faticose; la lingua che la necessità di scandere bene le sillabe, per la chiarezza della parola, rende ancor più aspra e per noi, gente latina, quasi rude; finalmente l’esecuzione che nella sua inappuntabilità meravigliosa è schiva d’entusiasmo e d’abbandono.

Ciascheduno degli esecutori deve concorrere in egual misura all’unità del tutto, fondendosi con giusto equilibrio nell’armonico insieme, la virtuosità dell’artista è bandita, la sua personalità annullata, il pubblico per lui non esiste.


Disdegnoso di qualsiasi effetto molle e plateale, Wagner ha messo su quelle esecuzioni un velo di fierezza, di dignità quasi superba. Chi ascolta deve avere una sottile intuizione del bello, senza che l’orchestra o il cantante glielo impongano coll’efficacia d’un esagerato accento. Questa specie di ritegno severo, questa sobrietà nell’eseguire, voluta, non derivata da difetto d’anima, sorprendono un poco, alla prima, poi convincono e s’impongono come una virtù essenziale di un’Arte aristocratica e grave, la quale, se impedisce qualche volta a certi gioielli musicali di risplendere in tutto il loro fulgore, di rivelare per intero il loro significato ad una data specie di pubblico, presta invece all’opera wagneriana la castità della bellezza immortale e diffonde su tutta la parte sua più umana un raggio affascinante d’idealità.

Nell’estate del 1896 Bayreuth celebrò solennemente colla riproduzione successiva di alcuni cicli della Trilogia, il ventesimo anniversario dell’inaugurazione del suo teatro. Il geniale poeta e altissimo musicista che in quel tempo aveva diretto egli stesso, con ardore giovanile, le prove e la messa in scena, non è più; il suo sguardo che vedeva tant’oltre nei misteri della bellezza, s’è spento in una terra alla bellezza sacra, ma molti fidi di allora, alcuni esecutori, lo stesso direttore Hans Richter hanno avuto la fortuna di prender parte e di contribuire alla festa artistica conservando con intelligente affetto la tradizione del loro venerato maestro.

Quattro giorni preziosi e memorabili questi in cui sì rappresenta in un prologo e tre parti l’Anello del Nibelungo in cui ci è dato assistere alla grande epopea ispirata dalla Saga scandinava [e Germanica!]

Più breve delle altre parti l’Oro del Reno, il Prologo, non è diviso da alcun intervallo ma si svolge di seguito, in quattro scene che contengono i rudimenti tipici di tutto il dramma e perciò le forme fondamentali dell’azione musicale. Gl’interpreti dei fattori del dramma, i primi leitmotive ai quali per necessità psicologica della teoria wagneriana, s’aggiungono nuovi temi a mano a mano ch’esso si spiega e le situazioni si complicano, mantenendo sempre intatta l’unità, portando alla fine la densità musicale ad una potenza prodigiosa, fanno pensare ad un fiume che partendo dalla sorgente e nutrendosi di continui affluenti, scorre sempre più maestoso e più ricco, nel suo prefisso cammino, finchè dilaga e si perde nell’immensità sublime del mare.

Le due battute tipiche che caratterizzano Donner, il dio del tuono, hanno risuonato più volte presso gli atrii, la gente s’è raccolta, il teatro è colmo, l’attesa intensa, un’omogenea oscurità, necessaria alla perfetta illusione scenica, è scesa sugli spettatori, con un senso di raccoglimento profondo. Il grande dramma comincia, il concetto su cui s’impernia è questo: La redenzione del mondo dalla servitù dell’egoismo; mercé la forza rinunziante dell’amore2.

E, dall’orchestra invisibile che Grétry un tempo aveva sognata, da quel golfo mistico ove ciascuna categoria d’istrumenti, gli ottoni, i legni, gli archi, le arpe, porta alla sonorità dell’insieme il valore centuplicato di tanti suoni fusi in un sol suono compatto e potente, ì primi accordi di tonica e quinta s’innalzano, annunziando qualchecosa di grande nella loro semplicità: è un’armonia grave ma serena che aumenta, incalza, s’insegue in tutte le tessiture sviluppandosi in un ritmo caratteristico e persistente nella placida tonalità di mi bemolle. Essa ci descrive il lento fluttuare dell’acqua del Reno, la quiete beata dell’elemento primitivo in cui tacquero sempre i desiderj, ove non è peranco sorto affanno di passione o di colpa, poi, a grado a grado il movimento ondeggiante delle mitiche fanciulle destinate alla custodia dell’oro.

S’apre la tela e sotto il velo vaporoso della luce azzurrina, una scena incantevole ci appare, il fondo o, per meglio dire, lo spaccato del Reno col suo letto irto di scogli e la luce dell’alba a fior d’acqua. E la limpida voce di Woglinda, una delle tre Ondine che nuotano lesgiadramente librate nell’azzurro, interrompe con una dolcissima frase in la bemolle, la imponente continuità di quell’accordo, e l’aerea figura, il soave balbettio di sillabe vaghe, accennando alla comparsa dell’umano o del semiumano nell’elemento primitivo, suscita nell’anima un’intensità d’emozione estetica, il nobile turbamento che danno le alte cose.

La raggiungono tosto le vaghe sorelle Wellgunda e Flossilde; il canto delle tre fanciulle sì fonde e s’intreccia insinuante e giocondo, tanto da attrarre il nano Alberico della stirpe dei Nibelungi, che sorge dalle viscere della terra per rimirarle.

Le scherzose Ondine vezzeggiano a vicenda col mostricciattolo, beffeggiandolo, poi, rassicurate dalle sue velleità galanti e scevre di sospetto, quando l’oro, prima in istato passivo, [p. 244 modifica] per virtù del sorgente sole, comincia a rifulgere sopra uno scoglio, e l’irritato nano, desiste dalla collera del suo insuccesso, per contemplarne la luce sfavillanteatraverso lo spessore dell’acqua, gli rivelano ingenuamente il potere arcano che esso nasconde, gli narrano che soltanto colui il quale avrà per sempre rinunziato alla poesia ed all’amore, potrà rapirlo e costringerlo a tramutarsi in un magico anello.

Ormai disingannato sulle proprie attrattive, Alberico non esita a mettere a profitto l’insegnamento e, arrampicatosi con destrezza sullo scoglio, mentre le inconscie fanciulle si ridono di lui, maledice con un grido diabolico l’amore, strappa, imprecando, il tesoro dalla roccia e rapido scompare. Le tenebre invadono la scena, le onde si agitano e s’accavallano nere, sinistre ma è vano il lamentevole rimpianto delle ineperte ed inefficaci custodi, il nano è fuggito sehignazzando, come un demone, e nell’orchetra è un tumulto di cose che si sprofondano, travolte nell’abisso.

Già qui comincia a risplendere il simbolo, sotto il velo fantastico del mito, la lotta fra lo spirito e il senso e, nell’egoistico predominio del senso la rinunzia alle cose ideali della vita. Una cupa formola musicale, che allaccia anche il motivo dell’anello, caratterizza questa rinunzia che porterà seco in retaggio a più generazioni affanni, sventura e morte finché il mondo, presso a perire, ne sarà redento dal nobile sacrifizio della Valchiria.

A poco a poco la fitta nebbia si schiarisce, si dirada, si scioglie e lascia intravvedere un ridente paesaggio, un altipiano di montagna ove il monocolo Wotan, il Giove nordico, il dio e lo schiavo dai suoi patti, dorme con Fricka (Giunone) sopra un tappeto di fiori, attendendo che i Giganti abbiano compiuto, per suo ordine, la reggia, il Walhalla.

Già la fiera rocca s’erge altissima da lontano, nella luce del mattino, e il ritmo maestoso con cui s’apre questa scena, ne annunzia l’olimpica grandiosità,ma Wotan ha promesso ai Giganti in premio delle loro fatiche, Freia la bionda dea della luce e dell’amore e questo patto fatale, che Fricka disapprova, è il soggetto del dialogo dei due conjugi corrucciati, al destarsi dal lungo sonno, è l’ostacolo che si frappone alle delizie della nuova dimora.

Freia stessa, seguita poi dai fratelli Donner e Froh, non tarda a sopraggiungere chiedendo aiuto contro le insidie dei Giganti.

L’arrivo di Loge, lo scaltro dio del fuoco, che aveva percorso il mondo in traccia d’un compenso degno di sostituirsi a Frela, sembra portar consiglio alla perplessità di Wotan, suggerendo la conquista dell’oro del Reno.

Wotan però esita ancora, e resiste alle seducenti insinuazioni di Fricka che spera poter meglio dominare fra le gioje del Walhalla l’irrequieto spirito del suo infido consorte. I Giganti Fasolt e Fafner, due colossi vestiti di ruvide pelli e armati di tronchi d’albero, bramosi della pattuita. mercede, rapiscono Freia, ma colla bionda dea scompare l’elemento dell’eterna giovinezza: il paesaggio s’intorbida, i fiori s’illanguidiscono, il martello cade dalle mani di Donner, un’improvvisa mestizia senile scende sugli sparuti dei.

Colpito da sì funesti eventi Wotan finalmente si decide a seguire Loge nelle viscere della terra, soggiorno dei Nani, s’avvia con esso in una caverna e vi svanisce fra i vapori sulfurei che invadono poi gradatamente l’altipiano, e si tramutano in dense nubi nere, mentre Nibelheim la sotteranea dimora lenta ascende e si fa visibile.

Anche in questa scena molti nuovi leitmotive, risuonano e i già accennati s’affermano, si rincorrono, si sovrappongono, s’intrecciano ora tronchi, ora magistralmente svolti come le fila più importanti d’un magico tessuto. Sempre altamente psicologica, la musica non ha altro scopo che quello d’interpretare lo stato d’animo dei personaggi del dramma, nel loro rapporto coi fatti, e ove i fatti si condensano essa pure si piega, si modifica e si moltiplica per riflettere le diverse emozioni, come un diamante dalle sue varie faccette riverbera la luce.

Il leggiadro motivo di Freia ricorda la giovinezza, la poesia, gli slanci dell’anima, la parola lusinghiera di Fricka assetata d’amore fa scaturire di tratto in tratto uno sprazzo di limpida e toccante melodia; è geniale il racconto di Loge, sulle sue peregrinazioni per il mondo ove nulla potè trovare da sostituirsi alla bionda dea, e gli andamenti cromatici dell’orchestra, mirabili interpreti al volubile spirito del dio del fuoco, fanno continuo contrasto col tema pesante dei givanti, Il ritmo delle incudini dei Nibelungi che accompagna Wotan nel suo sotterraneo viaggio e che domina tutta la scena terza, ha la potenza beethoveniana, e produce sull’animo un senso di meraviglia quasi paurosa come si stesse dinanzi ad una mole gigantesca, come si leggesse un canto dell’Inferno.

In questa scena, la più fantastica del dramma, una figura nuova ci appare, superbamente disegnata ed efficace: il Nano albo Mime, re dei Nibelungi, specie di gnomo insidioso e vile che il malvagio e prepotente Alberico, suo fratello, ha conquiso e soggiogato col magico potere dell’anello, costringendolo continuamente a fondere nell’oro del Reno oggetti preziosi e talismani. L’ultimo suo lavoro é un elmo magico che trasforma; che rende invisibili e il servile artefice ne subisce gli effetti con delle sferzate che gli vengono nel vuoto da incognita mano.

Ma la scaltrezza di Loge vince tutti gl’incantesimi e in presenza di Wotan, profittando delle metamorfosi strane nelle quali Alberico si compiace, s’impadronisce di lui sotto la forma di rospo, gli strappa l’elmo e lo trascina, esasperato, nel mondo superiore al cospetto degli dei ansiosi.

La scena quarta riconduce perciò lo spettatore, all’altipiano, collo stesso mezzo delle [p. 245 modifica] nubi, ma in senso inverso. Il fremente Alberico è costretto ad evocare dalle viscere della terra, col magico potere dell’anello, uno stuolo di Nani recanti tuttii suoi tesori, ma serba tuttavia per seè quel sicuro talismano che potrà indicargli nuovi filoni di metallo, che potrà renderlo ancora padrone del mondo.

Wotan glielo strappa dalle mani e il Nibelungo scaglia sull’infausto oggetto quella maledizione che dovrà poi fruttare sciagura e morte.

Il motivo delle Norne, delle tre profetesse, non dissimile da quello delle Ondine, risuona Teatro di Bayreuth. ed Erda, loro madre, sorgendo luminosa e fantastica apparizione dal suolo e presagendo guai a tutti i possessori dell’anello, esorta Wotan ad abbandonarlo agli avidi Giganti che il tesoro, ammassato dinanzi a Freia onde ne sia nascosta la vaga immagine, mai non appaga, che intravvedono ancora in un interstizio, fra gli oggetti preziosi, il suo occhio scintillante.

Wotan segue il consiglio della dea dell’acque e della saggezza eterna, cui sono noti i destini dell’umanità scontante le sue pene, cede l’anello e subito il triste presagio di Erda si compie; prima vittima di quella fatale magia, Fasolt cade per mano fratricida.

Sollevati finalmente gli dei dal cruccio della dovuta mercede, redenta Freia, si dispongono a prendere possesso del Walhalla, ma la rocca è inaccessibile.

Donner, il dio del fuoco, suscita a colpi di martello, una formidabile bufera, e Wagner la dipinge in un meraviglioso quadro musicale. Come un turbine s’incrociano nell’infuriare della tempesta gli ondeggianti arpeggi degli archi ai quali subentrano le arpe e i legni, dolci interpreti alla quiete del sopravveniente arcobaleno, lanciato nell’aria da Froh per congiungere l’altipiano col nordico Olimpo.

Il tema festoso del Walhalla echeggia, ma interrotto, intralciato da altri temi accennanti alla necessità di creare una forza vincitrice che ridoni agli dei il potere scemato nella perdita dell’aureo simbolo.

Al suono di una gioconda fanfara orchestrale, s’avviano lentamente gli dei verso il ponte aereo e variopinto dell’arcobaleno per raggiungere la loro sontuosa dimora, ad onta del sarcasmo significante di Loge, ad onta del flebile lamento che mandano da lontano le afflitte figlie del Reno, come una minaccia di sterminio.

Quando si esce dal teatro ed è a notte inoltrata lentamente si scende dal poggio onde raggiungere la propria dimora nella casa di qualche onesto cittadino di Bayreuth non si avvertonoidisagi di quell’alloggio che nordiche usanze rendono più ospitale che confortevole:

e la mente incapace di tornar subito alla realtà quotidiana, rifusge con violenza da qualsiasi volare distrazione, non cerca che il raccoglimento per poter gustare ancora colla ricordanza il benefizio d’un ineffabile diletto spirituale che a nessun altro s’agguaglia.

Non a torto una nostra celebre attrice ebbe a dire che‘a Bayreuth ella provò le più alte sodisfazioni dello spirito.

Altre potenti manifestazioni artistiche, ad [p. 246 modifica] esempio, un dramma di Shakespeare o gli affreschi della Cappella Sistina sapranno dare, a seconda delle facoltà e delle sensibilità individuali, impressioni più forti; così intense e così intere mai, e nemmeno una Sinfonia di Beethoven o una Messa di Palestrina, perchè laddove manca quellamusica che si fa così sottile mediatrice delle percezioni psichiche, da acuirle fino alla sofferenza, l’efficacia d’una opera d’Arte, non agendo essa su di noi mediante tutti i sensi estetici, non è completa, come non può esserlo, quando la musica predomina, lasciando libero il campo al pensiero, o quando essa s’accoppia alla parola con intendimenti più artistici che psicologici.

L’indomani di quella prima giornata, nel tacito vagabondare del mattino (Bayreuth non a tutti consente lo studio o la lettura), i primi passi si volgono istintivamente verso la Richard Wagnerstrasse, e un riverente desiderio muove alla ricerca della villa modesta ove il grande maestro amò concedere riposo e pace, all’attivo e ardente suo spirito, come dicono il bel nome di Wahnfried e l’iscrizione sulla facciata principale. Poi, un desiderio ancor più vivo ci fa dilungare oltre la cinta di quel prato chiuso da pergolati, di quel piccolo intimo giardino che circonda la tranquilla dimora, verso l’entrata del Volksgarten, la passeggiata pubblica, tagliata da un canale, ombreggiata da alberi secolari che serbano nel cuore dell’estatela freschezza del verde primaverile. Le rubiconde bambine bavaresi vi si trattengono all’uscire dalla scuola e vi si sollazzano lavorando e leggendo sulle panche di pietra corrose dal tempo, colla compostezza propria alle razze nordiche, qualche coppia solitaria percorre lentamente i viali, uno strillone vende fotografie e la lista interessante dei forestieri, il gajo cicaleccio degli uccelli predomina nella dolce quiete mattutina.

In una siepe del parco vi è il piccolo cancello che un vecchio servitore apretutti i giorni alle dieci e che permette di penetrare ancora nei pressi della villa. Ivi nell’ombra familiare ed amica dei platani, protetta da una leggera cancellata, sta latombadi Wagner: una grande pietra quadrangolare coperta d’edera, sulla cui perenne e cupa verdura porta ogni giorno una novella ghirlanda il profumo di freschi fiori, nulla più.

Ivi giace la spoglia terrena: quali luminosi spazii si saranno schiusi allo spirito immortale?...

Wotan, sempre inquieto per la sorte degli dei, e impotente a stornarne le minacce era sceso sulla terra per consiglio di Erda, e sotto la forma di Velso aveva procreato da una donna mortale i due gemelli Sigmundo e Siglinda, nella speranza di dar vita ad un eroe che riscattasse l’anello e compisse l’opera redentrice.

Ma la stirpe dei Velsi, non immune anch’essa dal fatale retaggio della maledizione d’Alberico, era già votata al dolore e allo sterminio.

Perita tragicamente la madre, la sorella sua fatta preda e riluttante compagna di Hunding, un uomo selvaggio e brutale, l’infelice Sigmundo, nella certezza che il padre, pur esso, fosse morto, fuggiva le rovine della propria casa, dandosi ad una vita errante. Senonchè, Wotan avendo infisso, un giorno, nel verde tronco del frassino che reggeva e sormontava il tetto della capanna di Hunding, una magica spada, il Velso, portato dall’istinto in traccia dell’arma vincitrice, trova, con essa, un feroce nemico della paterna stirpe e la sacrificata sorella.

La più alta poesia risplende su questo primo atto della Valchiria, dal momento in cui Sigmundo giunge trafelato e stanco nella capanna per chiedervi ristoro, e Siglinda, mossa da tenera e presaga compassione, glielo porge con un nappo d’idromele, fino alla loro fuga a traverso la foresta, negl’incanti della notte lunare.

Un destino superiore, nel comune istinto di riedificare l’abbattuto ceppo dei Velsi, spinge, ancora ignari della loro parentela, con tenerezza più che fraterna, i due gemelli, i due semidei, nelle braccia uno dell’altro.

La venuta di Hunding, colla sua ospitalità diffidente, coi suoi cupi sospetti, fatti poi irosa certezza, intorno all’origine del malinconico viandante che il tipo tradisce, turba le prime, quasi inconsapevoli dolcezze del loro colloquio.

La leggenda stende un momentaneo velo di pietà sulla duplice colpa di quell’amore che più tardi vendicherà la morte.

E la musica, al principio quasi paurosa, titubante, spezzata, neritrae fedelmentelo sviluppo, dall’improvvisa rivelazione dello sguardo, all’irruente, indomita passione, alle cui ebbrezze soavemente dolorose, una folata di vento, abbattendo una parete della capanna e lasciando intravvedere un’incantevole foresta illuminata dalla luna, aggiunge le seduzioni della notte primaverile.

Poco dopo l’incontro di Sigmundo con Siglinda, in quella scena che ricorda la grande semplicità delle narrazioni bibliche, i violoncelli accennano dolcemente al motivo della compassione amorosa a cui non è estraneo quello della rinunzia d’Alberico, poichè i Velsi anch’essi dovranno privarsi dell’amore ma un altro pensiero ancor più dolce gli subentra e fra le allusioni musicali e i presentimenti, quale crescendo meraviglioso, qual fecondo germogliare dei temi come d’una pianta nata da robusto seme che rapida si sviluppa, verdeggia e protende i suoi rami onde vi sbocci la fioritura, impetuosa, superba! Siglinda ha additato all’ospite suo l’elsa della:spada di Wotan chei più forti, ipiù coraggiosi non hanno saputo svellere dal tronco e che vi sfavilla come una gemma, Sigmundo ne la strappa, [p. 247 modifica] e, chiamandola col nome leggendario di Notung3, la cui fanfara raggiante echeggia.

L’eroismo si fonde coll’amore, i fratelli si riconoscono ma non possono piú svincolarsi dal loro quasi soprannaturale destino e nel fascino irresistibile della natura che infiamma l’affetto d’estasi nuove, la patetica scena è portata a un delirio d’entusiasmo e di tenerezza infinita, mentre l’orchestra, nei misteriosi suoi cenni già parla di dolore e sacrifizio.

Passato il prim’atto, questa seconda giornata dell’Anello del Nibelungo èédominata dalla nobile e tragica figura di Brunilde, fra nove la figlia pr ediletta diWotan, la primogenita delle Valchirie ch’egli procreò con Erda, onde percorressero il mondo e dai campi di battaglia gli recassero al Walhalla, pendenti dalle selle dei loro focosi destrieri, ‘il fiore degli. eroi,a sostegno del minacciato potere.

La guerriera fanciulla ci appare nel second’atto, sull’alto d’una rupe, in tutta la sua verginale e cavalleresca alterezza, rivestita di corazza e coll’elmo alato, mentre le irrompe dal petto il grido selvaggio delle Valchirie.

Hunding insegue i Velsi e Wotan impone a Brunilde di sostenere Sigmundo nell’inevitabile pugna, ma Fricka, fiera custode della fede coniugale, irritata ed imperiosa, lo induce a distogliere la sua protezione dai colpevoli amanti, onde Wotan al riapparire della Valchiria con Grane il suo fido cavallo, dopo lunghe confidenze sull’asprezza del destino che lo lega colle proprie leggi, che lo vincola colle divine indissolubilità delle cose, che lo rende lui dio, «men libero di tutti» mutando avviso, le ingiunge a malincuore di pugnare per Hunding.

Lo sfogo di Wotan colla figlia ha un’epica grandezza che potrà rimanere incompresa alle prime audizioni ma che finirà per imporsi.

I fuggiaschi non tardano a giungere: tormontata dai rimorsi e delirante, Siglinda cade svenuta fra le braccia del suo compagno. Col tema dell’interrogazione al destino che riapparrà poi molte volte, Brunilde esce da una caverna, armata di scudo, di lancia e con una mano appoggiata al collo del fido Grane e, avanzandosi altera, s’affaccia al tragico gruppo per annunziare a Sigmundo la morte e il glorioso destino che serba il Walhalla agli eroi.

La bella apparizione, la sibilla del fato, grave ma serena porta seco il fascino delle immutabili eterne cose e la musica si sublima insieme alle sue parole. Ma il Walhalla ove Siglinda non può essere ammessa, non esercita alcuna seduzione sull’anima amante di Sigmundo, egli disdegna le eterne ebbrezze che la sua fedele non potrà dividere, pronto, se la sorte debba essergli infida, a piaritarle in seno la spada che due vite colpirebbe. La Valchiria, inesorabile dianzi, presa ora da pietà profonda per quell’infelicissimo amore, e diventando, per la pietà, umana e soavemente donna, si drizza coraggiosa contro il volere paterno e promette la sua egida al Velso.

Già s’odono lontani squilli di corno, Hunding Ss’appressa con una feroce chiamata, Sigmundo adagia dolcemente sopra un masso la sua donna assopita e muove alla pugna. Il cielo s’oscura, guizzano i lampi, serosciano i tuoni, la folgore desta Siglinda, un bagliore illumina, sopra una vetta, i due combattenti, verso i quali ella tenta indarno di’slanciarsi; la Valchiria protegge col suo scudo il Velso, ma Wotan al colmo della collera interviene, fa volare in ischeggie la spada di Siomundo che tosto soggiace, poi con una parola disdegnosa atterra anche Hunding, mentre Brunilde seguita dalle acerbe e frementi parole del padre, fugge traendo seco la desolata Siglinda.

Cosí si compie anche sui colpevoli fratelli, per il torto primo del loro padre, il necessario effetto della maledizione d’Alberico. Al terz’atto la tela s’apre dinnanzi ad un roccioso culmine alpestre, il colle delle Valchirie. Otto fanciulle guerriere che, si finge, debbano giungere sui cavalli alati fra le nubi lampeggianti, vi si riuniscono a poco a poco chiamandosi le une colle altre per recarsi al Walhalla. Armate di scudo e di lancia, stanno in virile e fiero atteggiamento. L’orecchio alquanto pago di monodie, ne accoglie con trasporto il canto simultaneo e selvaggiamente armonico, dominato da un tema orgoglioso, interrotto spesso dalle loro risa vibrate, dal loro grido esultante, mentre l’orchestra descrive, con imponente efficacia, lo spirito turbolento delle mitiche creature, le loro scorrerie vorticose nell’aere ‘agitato dalle bufere.

Brunilde sola mancava al convegno, ma anch’essa è ricomparsa, recando seco in sella non già un eroe, bensí la tramortita Siglinda. E non vedendo altro scampo alla salvezza di lei, dopo averle consegnato i frantumi della spada di Sigmundo, dopo averla esortata ad essere forte, coraggiosa per il grande eroe che porta in seno e ch’ella si compiace di nomare Siegfried, l’avvia verso la selva di Fafner, sicuro borgo contro l’ira di Wotan, Il tema eroico del Velso Sigfrido ha risuonato per la prima volta in orchestra; la fuggente ha pronunziato le parole d’addio: «Te benedice il dolore di Siglinda» il cielo s’oscura, la bufera s’appressa, Brunilde aspetta, con angoscia, in mezzo alle trepidanti sorelle, il padre aspramente corrucciato che la vien cercando sull’ali dei.venti.

Wotan annunzia alla Valchiria costernata il suo ripudio, la sua cacciata dal Walhalla. Indocile figlia, divelta dal ceppo immortale, ella sarà condannata a sottomettersi all’uomo, a sacrificargli la propria bellezza a subirne il capriccio e gl’insulti. Addormentata in magico sonno sopra una roccia apparterrà a quel ra[p. 248 modifica] mingo viandante che saprà destarla. Brunilde atterrita stramazza a terra e le Valchirie che hanno osato difenderla, minacciate da eguale severità, si raccolgono, per fuggire, nel bosco vicino e scompajono a cavallo fra le nubi.

Lungi dall’ottenere l’effetto dei mirabili macchinismi nella prima parte dell’Oro del Reno, che da una sí forte illusione di realtà, l’arte scenica nella famosa cavalcata, in questo squarcio musicale straordinario, pressochè sovrumano, non ha potuto o saputo innalzarsi fino all’imponente grandezza della concezione wagneriana e lungi dal coadiuvare la musice ne scema quasi l’efficacia. Nondimeno quella strana apoteosi musicale del cavallo induce in uno stupore profondo, dal quale però non tardano a destarci nuove e violenti comozioni.

Wotan e Brunilde sono rimasti soli. Il padre fremente minaccia ed impone, la figlia desolata implora, pur non venendo meno alla sua nativa alterezza, altro lenimento non chiedendo al proprio castigo se non la grazia di non doversi sottomettere al capriccio d’un vile, ma di potere attendere sopra una roccia circondata di fiamme, la conquista d’un eroe.

Questa scena é fra le piú patetiche che Wagner abbia scritte poiché tanti diversi affetti e patimenti vi trovano la loro espressione. E un insuperabile poema di strazii e di tenerezze. L’interessante figura di Wotan vi gigantegcia non meno di quella della Valchiria e il nensiero, a tratti, ricorre a Virgilio. Sodisfatto di trovare Brunilde, anche nella colpa, cosí nobile ed altera, cosí degna sempre d’immortale destino, Wotan ne trae conforto alla amarezza del necessario castigo; la collera lotta in lui colla compiacenza paterna e nel doloroso trasporto della predilezione, gli irrompono dalle abbra;le belle e tristi parole::«Questi occhi che un giorno ho tanto accarezzati, in compenso al tuo valore, questi occhi che sfavillavano a traverso le tempeste, mi consolino ancora con un bacio nell’estremo addio!... Essi risplenderanno come stelle ad un uomo fortunato, per me infelice, eterno, si chiudono per sempre. Col mio bacio, l’immortalità da te si parte». Poi, onde compiacere al desiderio della reietta, della ripudiata, egli adagia Brunilde sopra una roccia muscosa, entro la sua candida veste, coll’elmo alato in testa e lo scudo sul petto, e dopo averla soavemente baciata, l’addormenta con tenero atto, al suono d’una dolcissima e cullante melodia. E giunto il momento in cui l’invocata potenza di Loge deve prestare l’opera sua. Dagl’inquieti cromatismi onde il volubile dio è sempre accompagnato, sembrano guizzar scintille, l’incantesimo si compie, il fuoco irrompe da un trillo violento, la fiamma divampa, scoppietta, accerchia, investe la bella dormiente dell’incendio nuziale. Su questa scena meravigliosa, fra le squisitezze della musica domina sovrana la poesia.

E sempre ancora ondeggia la dolce e tenera melodia del sonno, e Wotan che prima avrà esclamato: «Conquiderla deve soltanto colui che sia piú libero di me, che sia un dio!» ora, nel crescente rimpianto dell’amata figliuola, nell’angoscia di quel distacco che lo priva di metà di sè stesso, fierissimo prorompe: «Chi teme la punta della mia spada, il fuoco non affronti mai!» Il motivo di Sigfrido, dell’eroe che Brunilde ha pietosamente protetto prima della sua nascita; che ella sognerà nel lungo sopore, sorge imponente dal fondo dell’orchestra coi suoni maestosi delle trombe e delle tube, come una risposta ineluttabile, ma nelle ultime note echessgia, nondimeno ancora, simbolo d’eterno mistero, la malinconica interrogazione di Wotan al fato; poi, abbandonando con dolore la Valchiria al suo fallace destino, il dio sconsolato, scompare tra le fiamme.

Quando la tela si richiude su quel palco scenico incantato, sembra avere vissuto, con un sogno divino, nella grandezza primitiva delle trascorse età, e per un naturale fenomeno delle facoltà mentali, portate in alto con sí dolce violenza altre gioje d’arte ci tornano alla memoria, altre visioni di senii ci si affacciano accrescendo il nostro rapimento. Ma la profonda rispondenza psichica dell’essere nostro ci annunzia, conemozioni dianzi ignorate, che l’Arte la quale ci sta dinanzi e che tante cose in sé allaccia, ha un seducente e arcano potere, un nuovo ed altissimo scopo.

I boschi che si distendono oltre il teatro, sulla collina; offrono durante i lunghi riposi che dividono gli atti, un ristoro piacevole allo sguardo, un luogo di ritiro opportuno per chi ama isolarsi meditando per non disperdere in mezzo alla folla l’intensità delle impressioni; il giardino da cui si domina il largo paesaggio ridente della città alletta anch’esso le sionore e le fanciulle che seggono arcadicamente sull’erba, leggendo lo spartito del dramma o una qualche guida tematica di esso. Ma, se questi prolungati intervalli sono mecessarii perché la mente troppo non s’affatichi, se presentano nell’ora insolita della rappresentazione una certa attrattiva, nulla havvi invece di piú pesante di quella consuetudine bayreuthiana che costringe a pranzare o cenare nei pressi del teatro, entro quei baracconi di legno ove la ressa della gente e l’insufficienza del servizio, mutano le volgari necessità dello stomaco, in una battaglia e in una difficile conquista.

Eppure, in mezzo a tanta prosa, in quei momenti proprio ripugnante allo spirito, quei restaurants primitivi, già celebri per i discorsi inaugurali che Wagner vi tenne, ci serbano una gradita sorpresa. Il pubblico che nel teatro ha sempre frenato il. proprio entusiasmo, e anche al chiudersi della tela e alla fine del dramma ha applaudito indarno, poichè nessuno risponde mai, saluta ivi, di tratto in tratto, con fervideacclamazioni l’entrata d’un qualche personaggio distinto, onde vediamo sfilarci dinanzi, cantanti, suonatori, direttori d’orchestra, letterati e critici, principi e principesse che s’inchinano deferenti agli artisti.

La presenza cosí vicina degli esecutori non [p. 249 modifica] nuoce, come potrebbe parere, all’illusione del dramma, perché la loro personalità sulla scena essendo annullata, in teatro noi non abbiamo alcun diretto rapporto con essi. La comparsa della famiglia di Wagner sembra aumentare d’un nuovo palpito le nostre emozioni.

Ricordo con vivo piacere la figura veneranda della «signora Cosima» come sogliono chiamarla a Bayreuth, la sua bella fisonomia spirante un acuto e virile intelletto, penso con ammirazione alla donna che tanto contribuí alla realizzazione d’un sogno ideale, che fu una fedele e confortatrice compagna nei lunghi e tristi giorni della battaglia, l’apostolo piú convinto di quell’arte di cui oggi continua religiosamente le tradizioni dinanzi alle genti conVertite. La sala. Nel prim’atto del Sigfrido riappare e si completa la sozza figura delNemo Mime. Egli ha trovato nella selva di Fafner la morente Siglinda, ne ha adottato il figliuolo, le ha tolto dalle mani le scheggie della magica spada.

Scaltro educatore egli non ha saputo però trasmettere nel giovinetto le sue perfidie e le sue viltà: l’indocile Sigfrido cresce ingenuo, animoso, ignaro della paura.

Non vi fu mai piú bella incarnazione musicale di quella gioconda e trionfante giovinezza sbocciato nei liberi silenzi della natura, in mezzo alle domate fiere, né mai si trovò piú spiccata antitesi di quella che ci presenta il tipo umanamente ideale del futuro eroe e il tipo diabolicamente insidioso del Nibelungo.

Il preludio, in cui sempre predomina il ritmo delle maendine offre nel suo sapiente intreccio di motivi, una mirabile chiarezza psicologica.

Mercé la teoria. dei motivi la musica esplica spesso la situazione con maggiore evidenza della parola, e facendo taluna volta l’ufficio del coro greco, riesce ad esprimere e spiegare con antiveggente sottigliezza quello che certi personaggi del dramma ancor non sanno.

Luminosa è la prima apparizione di Sigfrido che viene dalla foresta nell’officina di Mime, traendo seco un orso addomesticato.

Il Nano indietreggia con spavento e gli mostra la spada che stava temprando per lui; Sigfrido prova la spada sull’incudine e al primo colpo essa si spezza.

Fattosi ormai un inquieto sognatore, il fanciullo della selva intuisce dal confronto della propria immagine, intravvista in un ruscello, colla grottesca ficura di Mime che non esiste fra loro parentela alcuna e strappa al gnomo il segreto della sua nascita e il nome di Siglinda.

O quando Mime gli mostra le scheggie della spada che la morente gli lasciò qual «tenue compenso» alle sue cure, tosto comprende che soltanto da quelle preziose reliquie si potrà costrurre un’arma degna di lui e colla quale egli possa avventurarsi sicuro nel mondo per non tornar mai piú. E, ingiungendo al Nano di rifondere tosto i frantumi, si slancia ancora di corsa, con un’allesra canzone fra i misteriosi incanti della foresta. [p. 250 modifica]

Wotan, che dopo l’amara perdita di Brunilde ha rinunziato al potere per diventare un passivo e malinconico viandante della terra penetra e si trattiene, ancorché male accolto, nella caverna di Mime e messo a pegno per tre enigmi il proprio capo, poi in rivincita quello del Nibelungo, facendogli grazia dell’ultimo insoluto indovinello, glielo spiega egli stesso, con profonda intenzione: «Temprare la spada di Sigmundo potrà soltanto colui che ignora la paura» Mime angustiato dalla prossima minaccia, tenta indarno, al ritorno del giovinetto, d’infondergli nell’animo la viltà, onde non esserne vinto, e dipingendogli con una viva descrizione musicale i tremiti, i sussulti della paura gliene suscita in cuore il desiderio, come di cosa nuova, e lo eccita a recarsi nell’antro ove Fafner in forma di drago immane veglia il suo tesoro e meglio d’ogni altro della paura potrà essergli maestro.

Sigfrido accetta la proposta ma a condizione di portar seco l’arma paterna e come Mime è impotente a ridurla allo stato primo, egli stesso vi si accinge con lena febbrile.

In questa scena ove spiccano come gemme le due canzoni di Sigfrido quella della fusione e quella dell’incudine, v’ha una bellezza, una semplicità antica. Ardono i carboni e il giovane fabbro agita rapido il mantice, il metallo si fonde, il fuoco divampa, e la verga arroventata si vien riformando sotto il sicuro e sapiente martello del geniale artefice.

Mime intanto, aggirandosi per l’officina, con quel suo passo incerto e barcollante che la musica ha già sì bene imitato, prepara una venefica bevanda della quale si varrà per isbarrazzarsi del giovinetto, appena ottenuti gli avidi suoi intenti.

Ma già l’arduo problema è sciolto, il lavoro é presso a compiersi, la spada memorabile che Sigmundo trasse dal tronco di frassino col fatidico nome di Notung è ricomparsa nella sua prima forma, l’ardente entusiasmo di Sigfrido erompe in festosi accordi, egli solleva trionfante l’arma temprata e ne colpisce l’incudine del Nibelungo che si spezza e rotola con gran fracasso al suolo. Il paesaggio del second’atto rappresenta una fitta boscaglia, dinanzi all’antro di Fafner. Accovacciato sopra una roccia, Alberico sta cupamente meditando nel buio della notte.

Un bagliore, un ritmo speciale nell’orchestra ci annunziano la presenza di Wotan. Difatti il dio s’avvicina, sempre ancora sotto le spoglie di viandante, ed è tosto riconosciuto dal Nibelungo che gli scaglia contro le piú feroci invettive, ma senza mai smentire la sua calma olimpica, la sua ‘missione d’osservatore non d’attore, egli rabbonisce il sinistro avversario e lo rende accorto che, se un eroe é presso a vincere Fafner, quello che agognerà all’oro, non darà già l’uccisore del drago, bensì il suo astuto fratello Mime che congiura nell’ombra. Anzi egli desta Fafner dal suo letargico sonno, e, avvertendolo del pericolo che gli sovrasta, gli offre il soccorso d’Alberico se a questi vorrà cedere il tesoro.

Il soporoso Gigante si rifiuta chiedendo pace a Wotan se ne ride e scompare con un buffo di vento. Alberico si nasconde per origliare e alla luce dell’alba nascente entra Mime conducendo seco Sigfrido nel quale tenta ancor sempre, ma indarno, d’infondere la paura, e che disgustato della sua tempra insidiosa, finisce per iscacciarlo col massimo disprezzo.

Rimasto solo, per attendere, il giovinetto si compiace di trattenersi nella silvestre solitudine e il suo spirito si mette in comunione diretta colla natura che gli rivela i suoi piú intimi segreti. E qui comincia, per diffondersi su gran parte dell’atto, come il fremito d’una foresta magica, quella potente descrizione musicale detta Woldweben che Wagner, per il primo, produsse staccatamente con altri brani della Trilogia e che ora spesso ingemma anche i nostri migliori concerti.

Né poeta, nè pittore ebbe familiari come il grande artista alemanno i misteri del creato, nessuno ritrasse con maggiore evidenza. la poesia degli elementi.

Ammiratore entusiasta della natura, ascoltatore ed osservatore profondo, egli ha veduto con occhio penetrante il valore dei colori nella grande armonia dell’insieme, egli ha percepite con orecchio sottile le multiple voci che formano l’universale accordo, dal gorgheggio d’un uccellino, allo serosciare del tuono, dal leggero bisbiglio della brezza, all’infuriare dei venti. Egli ha compreso il murmure dei ruscelli, la vita misteriosa dell’acque, la grandezza delle bufere, s’è intenerito dinanzi alla delicata tenuità dei fiori. Seduto all’ombra d’un immenso tiglio, Sigfrido ascolta le voci della foresta che gli rivelano cose nuove, che lo fanno pensare alla madre sconosciuta e col tenero ricordo gli suscitano nella vergine anima un timido desiderio della donna e dell’amore. La musica interpreta e spiega le rimembranze vaghe, le aspirazioni nascenti del giovinetto; il tema delle Valchirie e la dolce melodia del sonno evocano l’immagine di Brunilde della dormente vergine che aspetta sulla roccia circondata di fiamme un ardimentoso liberatore. E ancora cresce, per dilagare poi in una potente sonorità istrumentaleil largo fremito della foresta.

Sempre piú acute si fanno le percezioni di Sigfrido, adesso è il semplice canto d’un uccello che lo colpisce nei sapienti trilli del flauto, e che gli sembra contenere un alto significato. Nella speranza di comprenderlo meglio, coll’imitazione, egli taglia una canna alla sorgente, costruisce uno zufolo e tenta rivaleggiare coll’alato cantore, ma la prova non riesce e, sec[p. 251 modifica] cato, dà di piglio al suo corno e suona con al legri squilli, una canzone che caratterizza la sua natura di figlio della selva e di futuro eroe.

Un rumore insolito accenna all’uscita di Fafner dalla caverna in forma piú che di drago, di sauro immane, un’apparizione antidiluviana che sorprende, e qui segue la scena fantasticamente comica della breve lotta del giovane eroe col mostruoso gigante che finisce per soggiacere ad una mortale ferita, non senza averlo avvertito, colla sua voce cavernosa, che chi l’aveva spinto all’impresa meditava la sua morte.

Nell’estrarre la spada dal cuore di Fafner, Sigfrido si macchia le dita di sangue, per lenirne l’acuto bruciore le porta alle labbra, e subito intende il linguaggio dell’uccello. Ma anche per noi non è piú un gorgheggio di flauti e la voce di un fanciullo che dall’alto del tiglio insegna:

«È tuo. o Sigfrido, l’oro dei Nibelungi, esso si giace nella caverna, potrà darti l’elmo magiche ebbrezze, ma se conquidi l’anello diverrai signore del mondo».

Sigfrido s’avvia, scompare nella caverna e subito segue una scena rissosa e delle piú caratteristiche fra Mime ed Alberico che si disputano la conquista dell’oro, ma lì divide e li mette in fuga il ritorno del Velso recante l’elmo e l’anello.

Il profetico uccellino lo consiglia a non fidarsi di Mime e quando l’astuto Nano ricompare colla bevanda avvelenata, dopo uno spiritoso colloquio, invece di prendere la fiala traditrice ch’esso gli porge, il giovane esaltato lo stende morto al suolo, lo getta nell’antro di Fafner, e chiude l’entrata col cadavere del gigante.

Sulla nuova vittima torna a risuonare il tema della maledizione.

Ma l’uccello non desiste dai suoi suggerimenti, e addita all’entusiasmo, all’ardore giovanile del Velso lo scoglio di Brunilde, onde al voluttuoso incantesimo della foresta s’aggiunge quello del fuoco, coi cromatismi di Loge; poi l’uccello predominante accompagna ancora l’ardentissimo eroe alla ricerca di quell’ignoto che già lo turba e che deve appagare l’ingenuo.suo sogno d’amore. Al principio del terz’atto infuria la bufera in una regione solitaria al piede d’una montagna. Appare il viandante ed evoca per l’ul tima volta con una solenne chiamata, l’apparizione di Erda, della Wala, dell’increato.

La dea della saggezza sorge dalla terra in un nimbo di luce azzurrognola coi lunghi: capelli scintillanti di brina. Ma la sua sapienza é esaurita ormai, impotente a consigliarlo, Erda lo esorta di rivolgersi alle Norne, poi a Brunilde, e udendo chela Valchiria fu condannata dal padre, si confonde, si smarrisce, nell’intelletto evanescente e tosto si sprofonda nelle viscere della terra.

Un giorno ell’aveva detto a Wotan che se Alberico, pur rinunziando all’amore, riesciva ad allevar prole, quel figlio formerebbe la rovina degli dei, e il nume, corrucciato contro Fricka che esigeva la morte di Sigmundo, aveva benedetto nel suo sconforto, come desiderata fonte di sterminio, quel futuro Nibelungo. Ora invece egli pensa a Brunilde, e concentra sovra essa e sovra Sigfredo le forze redentrici del mondo, pronto ad abbandonare loro anche il regno, dinanzi alla minacciante rovina del Wal halla. Svanita l'apparizione, Wotan presente il prossimo arrivo di Sigfrido e si dispone solenne ad attenderlo. Guidato sempre dall’anello il giovane si presenta animoso e l’incognito viandante gli taglia la via. «Io sono il custode del colle» dice egli «io vi tengo chiusa l’eletta vergine, chi potesse svegliarla e farla sua m’avrebbe vinto in eterno!» Questa resistenza altro non vale che a provare il coraggio del Velso. Ardito e non curante degli ostacoli egli si fa innanzi, riconosce finalmente, da una parola, l’uccisore di suo padre, gli si avventa contro e gl’infrange la lancia colla sua spada. Wotan cede il passo al suo voluto erede e scompare accompagnato dalle armonie velate del Crepuscolo degli dei.

Un vivo chiarore illumina la scena, divampa, si stende in un mare di fuoco. Suonando col corno la sua allegra cantilena, Sigfrido si getta giocondo tra le fiamme; l’orchestra ne ritrae il crepitio selvaggio, poi ricorda l’oro del Reno, la melodia del sonno e annunzia col motivo di Sigfrido ch’egli è presso al termine della sua ardimentosa impresa.

A poco a poco, i vapori incandescenti svaniscono come rosse nebbie, e nella scena rasserenata, sul tranquillo altipiano, Sigfrido ci riappare in presenza dell’amore dormente. Il motivo di Freia si ripete nei dolci suoni delle arpe. Invaghito dell’alpestre solitudine l’eroe guarda intorno a sé, scorge prima Grane, il fido corsiero assopito al piede d’un abete, poi nell’ombra di esso una giacente figura che prende per un guerriero. Egli s’appressa peritoso, le toglie l’elmo e lo scudo, poi la corazza che gli rivela una donna in bianca veste, e dinanzi alla luminosa visione un turbamento indefinibile lo coglie, che assomiglia ai tremiti dianzi ignoti della paura, e il ricordo della madre perduta ritorna, tenerissimo, come per implorare da lei il perduto coraggio. Dopo lunga esitanza il giovane si china sulla Valchiria, la bacia ardentemente, lungamente,poi, atterrito dal proprio ardire, si ritrae in trepidante attesa sopra una rupe.

L’assopita fanciulla si desta salutando serenamente la vita novella. E qui comincia il meraviglioso duetto d’amore, d’un infinito; sopranaturale amore.

Dolcemente sorpresa, alla prima, e rapita di entusiasmo per l’apparizione liberatrice, Brunilde si sovviene a poco a poco della divinità perduta, della sua verginale fierezza di Valchiria, e dell’aspro destino che la condannò, e [p. 252 modifica] si drizza superba e dolorosa contro l’implorante Sistrido.

«Ero eterna e sono eterna!» esclama ella, respingendolo e paventando una sorte mortale e la soggezione all’uomo, mentre nella musica l’elemento ippico e fiero delle Valchirie contrasta col grido di vittoria dell’eroe ormai sicuro del suo coraggio. Il sentimento ch’era già nato in lei, dalla pietà per i Velsi, finisce per ammaliare l’altera sua anima, ma indarno ella tenta indurre Sigfrido alle pure gioie d’un affetto spirituale ed eterno. Già la musica accenna alle inquietanti ebbrezze della passione terrena, la volontà dell’uomo prevale e, soggiogata e vinta, nella magnanima dedizione da se stessa, la giovane dea gli cade, immolandosi, estasiata tra le braccia colle gravi parole: «Luminoso amore, morte gioconda!».

L’ultima parte del duetto, a base fugata, in cui Brunilde, nel suo eccessivo esaltamento amoroso dà un perpetuo addio alle gioie del Walhalla e ne desidera il tramonto è d’una insuperabile potenza che cresce, trascina e si esala nei lunghi trilli esultanti dell’orchestra.

Siamo giunti alla quarta giornata, al Crepuscolo degli dei, al grande epilogo, alla parte piú concettosa forse piú affascinante del grande dramma.

Il prologo ci presenta ancora la scena nel l’ultimo atto del Sigfrido: il colle delle Valcherie. Fa buio e nel fondo pare che lampeggi: sono i bagliori delle fiamme che circondavano Brunilde e gli sfavillanti accordi coi quali ella salutò la rinascente vita eccheggiano ancora coi dolci suoni dell’arpe. Ma presto la tristezza predomina colla notte. A mala pena si discernono nell’ombra le tre Norne, le figlie di Erda, le parche della nordica saga, che cantano e filano tentando d’annodare ad un abete il robusto stame d’oro. Piú non vale l’antica quercia a reggerlo dal di che Wotan ne se il germoglio primo, onde formarne l’asta della sua lancia ed incidervi i suoi runi;; il tronco disseccò.

Grave è il canto delle Norne e presago, di nuovi eventi poichè un fatale destino pesa anche sulle tre poetiche filatrici. Lo stame, all’improvviso, si spezza, «finisce la sapienza eterna» e con questo rimpianto esse si sprofondano nel suolo.

Albeggia e un hell’intermezzo dell’orchestra che descrive «il sorgere del giorno», precede un nuovo duetto di Sigfrido e di Brunilde che escono insieme da una stanza scavata nella roccia.

Presso ad intraprendere un viaggio che appaghi il suo desiderio d’azione, il Velso lascia in ricordo alla sposa il fatale anello mentr’ella gli affida il suo diletto cavallo. E ardente ancora il loro amore, ma trasformato e piú umano.

Dal giovinetto è sorto l’uomo, la Valchiria ha acquistato una certa grazia matronale: ad interpretazione del loro animo mutato si modificarono i temi musicali;egli si è fatto sempre piú valoroso per gli insegnamenti avuti dalla saggia figlia degli dei, ella, cedendo la sua saggezza è divenuta sempre piú umana e mentre per Sigfridola musica assume accenti piú eroici, la dolce femminilità di Brunilde è espressa da un motivo soavissimo che predomina nel tenero e commovente colloquio d’addio.

Uno splendido squarcio orchestrale, spesso ripetuto nei concerti, narra il viaggio di Sigfrido. Egli affronta di nuovo le fiamme, naviga del Reno e s’appressa ardito e giocondo alla reggia dei Gibelungi ove vive il figlio d’Alberico, nato senza l’amore, per seduzione dell’oro.

È l’atrio di questa reggia situata sulle rive del Reno che ci presenta il prim’atto. Gunther il re, la sorella sua Gutruna e il loro fratellastro Hagen, il truce Nibelungo, vi. stanno raccolti a consiglio.

È illustre il ceppo, ma non ha discendenti e l’insidioso Hagen,il predestinato da Wotan quale ministro del finale sterminio, suggerisce a Guntherdi conquidere la Valchiria, suppone che Sigfrido, l’eroe errante in traccia di gloriose avventure, potrebbe facilmente ammaliare il cuore della vergine Gutruna. Ma, nulla varrebbe a sedurre il Velso fuori del magico filtro da esso recato in famiglia che, qualora s’accosti una donna a chi lo ha assaporato, ogni altra donna fa porre in oblio.

Sigfrido sopraggiunge chiedendo ospitalità per lui e per il fido Grane.

Vergognosa da prima e renitente, Gutruna finisce col porgergli l’insidiosa bevanda, simbolo mirabile dell’umana fralezza e mutabilità, ove l’eroe assorbe a larghi sorsi la dimenticanza dell’amata sposa.

I vezzi di Gutruna già sorridono al Velso che piú Brunilde non ricorda, e nel totale oblio del passato amore, egli stringe coi GibiGungi il patto delle doppie nozze: egli impalmerà Gutruna, e mercé la virtú trasformatrice dell’elmo indurrà Brunilde a sposare Gunther. I due futuri cognati si giurano fratellanza bevendo dal corno alcune goccie del loro sangue miste col vino, e Hagen, estraneo al vincolo, spezza tacitamente colla spada il corno onde hanno bevuto. Essi s’allontanano insieme per recarsi poi al colle delle Valchirie, Gutruna si ritira piena di dolci trepidanze e il Nibelungo armato di scudo e lancia si colloca dinnanzi all’atrio per vigilare in attesa degli eventi.

Una tenda si chiude al proscenio e dopo breve intervallo orchestrale si riapre sul solito colle delle Valchirie, ove si vede Brunilde assorta in un’estetica e voluttuosa contemplazione dell’anello ch’ella bacia ardentemente.

Indizii di tempesta avvertono in orchestra l’arrivo d’una Valchiria, della sorella Waltradite, venuta a recarlenotizia del padre e della tristezza che domina il Walhalla dopo ch’egli vi è tornato dal suo pellegrinaggio sulla terra [p. 253 modifica] recando seco i frantumi dell’asta infranta. La descrizione del costernato olimpo è d’una bellezza meravigliosa. Waltrapte narra poi come Wotan abbia fatto atterrare la quercia divina onde usufruirne per il rogo finale, come abbia spedito nel mondo i suoi corvi onde gli rechino il desiderato annunzio del fine. Un solo rimedio, dice, vi sarebbe a tanto duolo: la restituzione dell’anello alle Ondine.

Ma Brunilde non intende separarsi dal suo dolce pegno d’affetto che gli è piú caro di tutto il Walballa. «All’amore non rinunzierò mai!» esclama ella, ma la musica contraddicente alle parole ricorda la maledizione dell’amore.

Waltraite se ne parte sconsolata, con profezie di sventura. Al tumulto cavalleresco della sua partenza succede il fiammeggiante incantesimo del fuoco; s’ode da lontano il corno di Sigfrido e, passando attraverso gl’ignei bagliori, l’eroe erompe baldanzoso sulla scena.

L’elmo calato lo rende irriconoscibile e sotto le spoglie di Gunther egli s’impone all’atterrita Brunilde, che tenta però ancora difendersi col magico potere dell’anello,, ma l’infido Velto riesce a toglierle dalle dita il fatale talismano e priva di questo sostegno, l’intelicissima donna resa debole ed impotente schiava, deve subire gli effetti della trista malia. Ella si ritrae annichilita e vacillante nella caverna e Sigfrido la segue dopo aver messo a pegno la sua spada che mai non tradirebbe la fraterna fede.

L’alto significato di questa scena sinistra ne rende ancor piú penetrante il tragico strazio. Il castigo di Wotan si compie e Brunilde imparando la fallacia dell’umana vita, si prepara col sacrifizio all’opera redentrice.

Nel second’atto vediamo un lembo di spiaggia dinnanzi alla regia dei Gibilungi. È notte, una notte tetra, spettrale. Un raggio di luna illumina all’improvviso un gruppo, il dormente Hosen che Alberico, accovacciato ai suoi piedi, contempla.

Nel dialogo seguente di cui l’orchestra sì bene esprime colle sue sincopi sinistre il contenuto diabolico e che finisce con un giuramento da parte di Hagen, il Nibelungo impone al figlio di riconquidere l’anello e di tentare con ciò la finale rovina dei Velsi e degli dei. Egli s’allontana quindi e svanisce fra le nebbie del mattino e subito dopo sorge il sole e si specchia, mirabile quadro, nelle onde azzurre del Reno. E Hagen sempre attende, dantesca figura che medita l’universale sterminio.

Il corno echeggia precedendo il ritorno di Sigfrido che narra come abbia vinta Brunilde sotto le spoglie di Gunther che seco conduce la sposa in una navicella.

Gutruna esce dalle sue stanze incontro al fidanzato e, udite le liete nuove, s’avvia festosa con esso a raccogliere le ancelle per la cerimonia nuziale. Hagen dal suo canto sì volge alla campagna e suonando un grande corno taurino convoca il popolo, e la sua chiamata anzichè annunziare la gioia sembra un grido feroce d’allarme e di battaglia. Accorre tosto dalla valle e dal monte uno stuolo di selvaggi armati che manifestano con impeto la contentezza delle annunziate nozze, e all’apparire della navicella s’affrettano di trarla alla spiaggia. Al suono di una festosa marcia, fra il rumore dell’armi, n’esce Gunther colla pallida Brunilde che s’inoltra affaticata e a capo chino e, sul limitare della reggia a cui egli la guida, s’affaccian loro Sigfrido e Gutruna col seguito delle ancelle.

Alla vista di Sigfrido, la Valchiria indietreggia, con orrore, lo fissa, vacilla e, atterrita dalle sue fredde spiegazioni, gli cade semisvenuta fra le braccia. «Non mi conosci piú?» Mormora ella con flebile accento. Indi scorge l’anello in dito all’eroe, il suo dubbio si muta in certezza, la certezza in furore. La sua disperata invocazione agli dei è della piú alta efficacia.

Gunther tenta calmarla ma ella non riconosce che Sigfrido, e al colmo dell’esasperazione rivela l’inganno agli astanti.

Solo un giuramento può redimere l’eroe dall’accusa, Hagen presenta la punta della sua lancia e, sempre di tutto dimentico, Sigfrido glura.

Brunilde erompe furibonda fra gli uomini che circondano il Velso, gli strappa l’asta di mano e pronunzia anch’ella il giuramento contraddicente, tempestoso e solenne. Il popolo eccitato è presso a sollevarsi.

Sigfrido tranquillo, quasi impassibile, esorta Gunther a concedere un po’ di riposo alla Val chiria esaltata da qualche arte maligna, e cingendo baldanzosamente il fianco di Gutruna s’allontana con essa e col seguito rincorato.

Nel crescente interesse dell’azione, nell’addensarsi dei fatti, s’addensano sempre piú le formole musicali nel loro prodigioso intreccio. Il concetto della vendetta predomina questa grande scena che s’apre col motivo della maledizione, che tocca un punto culminante nell’appassionata preghiera: «Insegnatemi a soffrire come nessuno sofferse!», che raggiunge nel giuramento dell’esasperata donna una forza tragica, raccapricciante.

Immensamente doloroso e umano è il disinganno di Brunilde.

Rimasti soli dopo la giuliva partenza degli sposi che il popolo acclama, Gunther, Hogen e la Valchiria meditano col fatto la vendetta che già prima annunziava l’orchestra, e il cupo Nibelungo s’offre quale esecutore di essa.

«Tu!» esclama Brunilde, «ma un solo suo sguardo farà tremare il tuo coraggio!»

Hogen insiste onde gli consigli un mezzo efficace ed ella rivela allora come nel rendere invulnerabile il corpo del suo sposo, con un in[p. 254 modifica] cantesimo, abbia negletto il dorso, perché mai «egli avrebbe volte le spalle al nemico».

«Ivi colpirà la mia spada!» esclama il feroce figlio d’Alberico.

E, vinta l’esitazione del mite e dubbioso Gunther, fissata per Gutruna la scusa d’un fatale accidente di caccia, i tre congiurati cantano un terzetto finale, con una preghiera vendicatrice. La loro momentanea fratellanza e tutti i desiderii, tutte le passioni dolorose o selvagge che vi sì annettono, sono estrinsecateda motivi musicali già antecedentemente apparsi, e quando esce dalla reggia il corteo di nozze portando in trionfo Sigfrido e Gutruna incoronati di foglie di quercia e di fiori, e la festosa allegrezza degli ottoni irrompe, con esso, sulla scena, il diabolico tema della congiura riprende il suo diritto per pronunziare minaccioso l’ultima parola.

Il terz’atto, che rappresenta un’aspra selva e una valle dirupata presso il Reno, comincia con una scena luminosamente poetica: la ricomparsa delle tre Ondine che folleggiano a fior d’acqua nell’azzurro fiume.

Un allegro squillare di corni precede nel preludio, la dolce serenità musicale dell’elemento primitivo, gli accordi e la fanfara dell’oro, il vivace e graziosissimo terzetto delle mitiche fanciulle.

Perduta la pesta del cinghiale, sviato da un cacciatore, Sigfrido scende solo nella valle, suonando il suo fido istrumento. Le Ondine, allegre e un po’ beffarde, lo chiamano per indurlo a restituire l’anello che porta in dito. Ma l’eroe non cede nè alle loro astuzie, né alle loro profezie. «Se dovessi cingere la mia vita e la mia persona coi freddi vincoli della fama, ne farei minor caso di questa terra!» esclama egli prendendo una zolla e gettandosela a tergo. Le figlie del Reno finiscono per ritirarsi con un richiamo a Brunilde che «darà piú sicuro ascolto».

Il loro canto geniale ha un’insuperata leggiadria e dall’[?...] moto cromatico che caratterizza il loro beffardo spirito, scende velatamente nell’anima una straziante tristezza.

Il Velso si trattiene immoto a seguirle collo sguardo e col desiderio, e solo i corni da caccia lo destano dalla sua estatica contemplazione.

Gunther e Hogen sopraggiungono con molti uomini recanti la preda, otri di vino e corni a calice.

Il Nibelungo ordina che sia apprestata la mensa durante la quale poi domanda a Sigfrido se fosse vero ‘che egli sapeva comprendere il linguaggio degli uccelli. «L’ho dimenticato» risponde l’eroe, dopo che mi fu dato udire la voce della donna. Indi, per distrarre Gunther dai suoi torbidi pensieri egli narra i ricordi della trascorsa giovinezza. E, nella poetica sintesi del racconto il «Sigfrido» ci passa dinnanzi musicalmente, dalla scena dell’officina fino alla morte di Mime;-ridestate quindi dal succo di alcune erbe magiche che Hogen gli spreme nel vino, le rimembranze dell’eroe si fanno piú chiare e piú vive, la memoria ritorna sicura, intera e, quasi parlando con sè stesso, egli accenna dinnanzi agli astanti stupefatti, all’incantesimo del fuoco, alla dormente Valchiria, al bacio che la destò.

Due corvi, i misteriosi messaggeri di Wotan, sì librano sulla testa di Sigfrido e s’involano.

» Illinguaggio dei corvi, t’è noto anch’esso?» chiede di nuovo Hagen e, mentre Sigfrido si volge per guardare agli uccelli, gli caccia ferocemente la lancia nel dorso.

Il motivo della maledizione ha risuonato. L’eroe solleva con ambe le mani lo scudo, per difendersi, ma lo scudo gli sfugge, ed egli vi stramazza sopra mortalmente colpito. Le sue ultime parole sono per Brunilde il cui saluto alla vita rinascente,le arpe ricordano e il motivo dell’interrogazione al destino accompagna l’estremo addio.

Un corteo s’improvvisa; annotta, e la luna rischiara la tetra scena.

Il funebre convoglio s’avvia verso la montagna, e un magnifico intermezzo drammatico interpreta a guisa di marcia, la tragica situazione.

Dalle nebbie che hanno invasola scena, sorge nuovamente l’atrio della reggia. Gutruna vi attende i cacciatori, ma il corno di Sigfrido non squillo. Arriva Hagen annunziando con parole sibilline il triste ritorno; nel sinistro chiarore delle faci e dei tizzoni infocati appare il funerale, con un seguito di uomini e di donne piangenti. Gutruna, al colmo della desolazione si getta sul corpo esanime di Sigfrido.

Hogen attribuisce la morte dell’eroe al caso, ma Gunther rivela l’uccisore, i due fratellastri si azzuffano, Hogen domandaper sè l’anello e nella breve lotta trafigge il re dei Gibieungi, poi s’avvicina alla salma per depredarla del fatale talismano e ne atferra con atto brutale la destra, ma essa si solleva minacciosa e lo fa indietreggiare colla vibrata fanfara della spada.

In questo momento solenne entra Brunilde, lamentando che non si dedichi all’eroe piú grave e degno lutto. Colla rivelazione delle proprie sventure ella allontana la inorridita Gutruna che va vacillando a cadere presso il morto fratello suo.

Sola dominatrice della lugubre scena, sempre grande, eroica figura, Brunilds ordina agli uomini di erigere il rogo e di condurle il suo fido cavallo onde anch’esso, in onore di Sigfrido, vi possa perire con lei.

Tenere ricordanze le si affacciano, nella convinzione che Sigfrido sia rimasto vittima d’una qualche insidiosa malia, e rivolgendosi a Wotan, ella dice son grandezza Wakespeariana: «Egli mi doveva tradire, perch’io avessi coscienza d’essere donna!» Poi «Abbi pace, abbi pace o dio!» conclude in un breve sintetico squarcio musicale, come rispondendo alle antiche brame del padre.

Ma già stringono gli eventi, il dramma volge [p. 255 modifica] alla fine. Collocata, ad un suo cenno la salma di Sigfrido sul rogo che le donne hanno adorno di fiori e di veli, Brunilde s’impossessa teneramente dell’anello per restituirlo, colla morte, purificato dal fuoco alla sua fonte prima; af- ferra quindi un poderoso tizzone e dopo aver indicato ai due corti sopraggiunti le gravi novelle da recarsi al Walhalla, lo scaglia con fierezza nella catasta, come se accendesse con quel funebre fuoco la reggia degli dei. L’incantesimo di Loge presiede al primo crepitio del rogo e domina coi suoi cromatismi tutta la scena: all’apparire di Grane vi s’intreccia il tema eroico delle Valchirie.

Brunilde accarezza il fido corsiero e lo incoraggia ad affrontare la morte che a lei sorride con duplice scopo, l’eterna riunione con Siofrido e l’espiazione redentrice del mondo. Le ultime sue parole sono state una nobile apologia dell’amore, e la bellissima melodia della redenzione ha regnato un momento come una aura di pace soprafiaturale e di perenne libertà, sul tumulto tragico di quell’ora estrema. La Valchiria balza a cavallo e con atto eroico si slancia impetuosa sul rogo ardente che divampa e riempie l’atrio di fiamme, facendo rifuggire il popolo atterrito verso il proscenio. Ma presto il fuoco si spegne disperdendosi in una rosea nuvoletta, il Reno ha straripato, le Ondine s’agitano sui flutti, Hagen si getta nella corrente per impadronirsi dell’anello, ma Woglinda e Wellgunda lo allacciano e lo trascinano nell’abisso mentre Flossilde si solleva esultando dalle acque, coll’aureo cerchietto in mano.

Un falgore appare nel cielo rosseggiante, il Walhalla anch’esso s’incendia; crolla la reggia dei Gibilungi, sì scorge da lontano, come una visione; l’ultimo consesso degli dei che con eroismo sopranaturale rinunziano volontariamente al potere; echeggia sui movimenti ondeggianti dell’orchestra il tema maestoso e superbo del Walhalla, s’ode ancora una volta il motivo di Sigfrido, ma il Crepuscolo prevale coi suoi digradanti accordi e la melodia della redenzione s’innalza al fine soavemente fra i suoni peregrini dell’arpe, come l’amore svincolato da ogni terrena servitù tende liberissimo al suo fine ideale.

Il dramma si è svolto, la tela s’è chiusa, l’anima si sente in preda ad un’invincibile emozione. Il grande quadro ci riappare dinnanzi nella sua interezza, nella sua meravigliosa unità, e fra i numerosi esecutori che ce lo fecero apprezzare coi loro mezzi vocali, col loro talento, colla loro indispensabile coltura e che non sono tutti egualmente degni della parte che rappresentano, alcuni veraci artisti s’impongono con un senso di ammirazione e di gratitudine al nostro pensiero e alla-nostra memoria. Non posso a meno di rammentare la ben nota Rosa Sucher, soprano, un’efficacissima Siglinda, Ernestina Schumann Heirik (Erda e Weltratate) riputata il primo contralto della Germania, Lilli Lehmann-Kalisch, insuperabile Valchiria per la bellezza della voce, per l’intonazione perfetta, per le sue attitudini drammatiche non disgiunte dall’affascinante limpidezza del canto, e fra gli uomini, Hans Breuer di Bayreuth, tenore allievo di quell’ottima scuola di canto, un Mime caratteristico, ammirevole Hennrich Vogl, (Loge) altro tenore di sicura rinomanza e il Basso Grengg che incarna con verità la figura sinistra di Hagen.

Il giorno seguente, quando il treno si allontana dalla stazione di Bayreuth e la verdeggiante collina della Hohe Warte scompare rapidamente, col suo teatro, dal nostro sguardo, sembra che il cuore si stringa nel rimpianto d’un sogno dilettoso che sfugge. Rimane tuttavia il conforto della ricordanza, sentiamo che qualche cosa d’insolito è penetrato nell’anima nostra, una voce nuova ha parlato dall’alto; l’Arte ci è apparsa sotto una luce diversa dalla solita, la musica ha assunto una missione più grave, quanto abbiamo veduto e udito è un possesso che nessuno ci potrà rapire, è la divina e purificante vittoria dell’ideale, nel regno tempestoso del pensiero.

Jacopo Turco.

  1. Nietzsche la chiamò “Ancilla dramaturgica„
  2. Wolzogen.
  3. Notung da Not: necessità — affanno — pericolo.