Ippolito/Primo episodio

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Euripide - Ippolito (428 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Primo episodio
Parodo Primo stasimo


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La porta della reggia s’apre, e si vede giungere Fedra, sopra un giaciglio portato a braccia dalle ancelle. L’accompagna la vecchia nutrice.

corifea

Or vedi, alla porta dinanzi
questa vecchia nutrice, che reca
la signora qui fuori. Una nube
odïosa le cuopre le ciglia.
Il mio cuor di sapere ha vaghezza
qual male distrugge
la regina, e cosí la scolora.

nutrice

O sventura degli uomini, o morbi
odïosi! Che cosa per te
debbo fare? Che cosa non fare?
È questa la luce, dell’ètere
è questo il fulgore,
è fuor dalla casa il giaciglio
del morbo affannoso: ché questo

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badavi a ripetermi,
ch’io qui t’adducessi. E fra poco
tornar nelle stanze vorrai:
ché presto ti stanchi, e di nulla
t’allegri: ché quanto possiedi
non ti piace, e migliori ti sembrano
le cose lontane.
Meglio esser malati, che cura
aver di malati:
il malato, patisce soltanto:
chi lo cura, patisce e fatica.
È tutta un affanno la vita
degli uomini; e mai non ha requie
dalle pene; ma, pur se v’ha stato
della vita piú dolce, la tenebra
fra sue nubi l’asconde; e ardentissimo
amore ci vince di ciò
che brilla sovressa la terra,
perché sperïenza
non abbiam d’una vita futura,
né di quanto sotterra ci attende;
ma di vane parole siam preda.

fedra

La persona reggetemi, il capo,
amiche, reggetemi: tutte
mi sento mancar le giunture.
Le mie belle mani prendete,
ancelle: del capo la benda
sostenere m’è grave: toglietela:
lasciate che i riccioli
m’ondeggino sopra le spalle.

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nutrice

Fa’ cuore: con tanto fastidio
non devi agitarti, figliuola.
Piú facil sarà che il tuo morbo
sopporti restando tranquilla,
facendoti cuore: soffrire
destino è degli uomini tutti.

fedra

Ahimè!
Come attingere un sorso potrò
d’acqua pura da rorido fonte?
Quando mai mi potrò riposare
sotto i pioppi, fra l’erbe d’un prato?

nutrice

O figlia, ché gemi?
Dinanzi alla turba, parole
non dir che a follía siano cònsone.

fedra

Conducetemi al monte: alla selva
voglio andar, sotto i pini, ove, in traccia
di fiere, le cagne si lanciano
a ghermire i macchiati cerbiatti.
Vo’, pei Numi, la muta eccitare
coi miei gridi, ed in pugno la tèssala

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zagaglia stringendo, all’altezza
del biondo mio crine levando
la mano, scagliare
del dardo la cuspide aguzza.

nutrice

Figliuola, che vai delirando?
Di cacce che cosa t’importa?
Perché beveraggi sorgivi
vai cercando? Vicino alla reggia
è rorido il clivo
ove attingere linfe tu puoi.

fedra

Signora di Limna marina,
dei ginnasî sonori di scàlpiti,
Artèmide, oh, s’io mi trovassi
là dove i tuoi piani
si stendono, i veneti corsieri a domare!

nutrice

Insensata, che nuove parole
ti sfuggono? Or ora bramavi
cacciare le fiere pei monti,
ed ora i corsieri e le arene
immuni dai flutti desideri.
Bisogno c’è qui d’un oracolo
saggio assai, che ci dica qual Nume,
figlia mia, ti sconvolge la mente
cosí, cosí t’agita.

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fedra

O tapina, che ho fatto? Lontano
dal senno, ove mai
sviata mi sono? Io son folle,
son preda al castigo d’un Dèmone.
Ahimè, me tapina! Il mio capo
di nuovo, o nutrice, nascondi.
Mi vergogno di quello che ho detto:
nascondimi: rompono lagrime
dal mio ciglio, ed a scorno si volge
l’occhio mio: ché tornare a ragione
m’addolora. Un gran male è follia:
pur, meglio è morir, senza avere
del mal coscïenza.

nutrice

Ti cuopro. Ma quando la morte
coprirà le mie membra? Assai cose
il vivere lungo c’insegna.
Oh, quanto conviene che gli uomini
amicizie sol tepide intreccino
l’un con l’altro, e non tali che giungano
al midollo dell’alma. Gli affetti
del cuore, tali esser dovrebbero
che ognor si potessero
rallentare, serrare, disciogliere.
Ma se deve patire per due
sola un anima, come io patisco
per costei, troppo grave è il tormento.
Nella vita, lo zelo eccessivo
nuoce, dicono, piú che non giovi,

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è nemico a salute. E cosí,
non lodo l’eccesso
del «nulla di troppo».
Ed i saggi con me converranno.

corifea

O vecchia, o tu della regina Fedra
fida nutrice, io vedo questi eventi
tristi, ma il morbo quale sia, lo ignoro.
Chiederlo a te vorrei, da te saperlo.

nutrice

Glie l’ho chiesto, e non so: parlar non vuole.

corifea

Né sai donde gli affanni ebber principio?

nutrice

Tu torni al punto stesso: il tutto tace.

corifea

Come è debole, come s’è disfatta!

nutrice

E certo! Da tre dí cibo non prende.

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corifea

Pel morbo? O cerca, delirando, morte?

nutrice

La cerca: per morire essa digiuna.

corifea

Ed il suo sposo lo sopporta? È strano.

nutrice

La doglia asconde, il morbo ella non svela.

corifea

Ed ei non l’arguisce al sol vederla?

nutrice

Lungi da questa terra ora si trova.

corifea

E con la forza tu saper non tenti
quale il suo morbo, la follia qual è?

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nutrice

Tutto ho tentato, e a nulla io sono giunta.
Né dal mio zelo io pur desisterò,
sí che tu di persona assista, e possa
veder con gli occhi tuoi qual è il mio cuore
verso i signori sventurati. — Orsú,
dimentichiamo, cara figlia, entrambe,
i discorsi di prima; e tu piú mite
divieni, e spiana il sopracciglio, e cangia
il corso dei pensieri; ed io, se feci
qualche impronto discorso, or vi rinuncio,
e meglio parlerò. Se tu d’un male
intimo soffri, siamo qui noi donne
per curare il tuo morbo: ove sia tale
la doglia tua, che possa dirsi agli uomini,
dilla, e sarà significata ai medici. —
Ebbene? Taci? Perché mai? Tacere
non devi, o figlia, ma d’error convincermi,
se pure ho torto. Ma se dico bene,
tu dai miei detti esser convinta. Parla,
qui rivolgi lo sguardo. Oh me tapina!
Vane le nostre pene, o amiche, furono:
lungi siam come pria dal nostro assunto:
né detto allor poté molcirla, né
or si convince. Me ben sappi questo,
e poi, del mare piú inflessibil móstrati:
se tu morrai, sarai la traditrice
dei figli tuoi, li priverai dei beni
paterni, affè della regina Amàzzone,
di cavalli maestra, onde un padrone
nacque ai figliuoli tuoi, bastardo, eppure

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di legittimi sensi: lo conosci
bene: Ippòlito.

fedra

                              Ahimè!

nutrice

                                             Ti scuoti alfine?

fedra

O nutrice, m’uccidi! Ah, di quell’uomo,
ti prego per gli Dei, piú non parlarmi!

nutrice

Vedi? Comprendi; e comprendendo, al figlio
giovar, salvar la tua vita rifiuti.

fedra

Amo i figli; mi cruccia un altro turbine.

nutrice

Pure le mani hai tu di sangue, o figlia?

fedra

Pure ho le mani: è il cuor contaminato.

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nutrice

Per cordoglio? Un nemico a te l’infligge?

fedra

Anzi, un amico, a mio malgrado, e suo.

nutrice

Contro te, reo d’alcuna colpa è Tèseo?

fedra

Mai non sia detto ch’io gli rechi offesa.

nutrice

Quale ti spinge a morte orrido evento?

fedra

Lascia ch’io pecchi: contro te non pecco.

nutrice

Non di tuo grado: eppur tu mi fai torto.

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fedra

Che fai? Forza mi fai? La man m’afferri?

nutrice

E le ginocchia; e non ti lascerò.

fedra

Danno per te sarà, danno il sapere.

nutrice

Quale per me danno maggior, che il perderti?

fedra

Ne morrò ma tal cosa è che m’onora.

nutrice

T’onora: ed io ti prego, e tu lo ascondi?

fedra

Perché dalla vergogna il ben preparo.

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nutrice

Parla; e l’onore tuo sarà piú grande.

fedra

Per gli Dei, lascia la mia mano, lasciala.

nutrice

No, ché il dono bramato a me non desti.

fedra

Lo avrai: rispetto la tua mano supplice.

nutrice

E dunque, taccio; a te spetta parlare.

fedra

Di quale amore ardesti, o madre misera!

nutrice

Dici quello pel toro1? O quale, o figlia?

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fedra

Grama sorella2, e tu sposa a Dïòniso!

nutrice

Che dici, o figlia? I tuoi parenti oltraggi?

fedra

E come io, terza, son perduta, o misera!

nutrice

Mi pervade stupore. A che vuoi giungere?

fedra

Fin da quei tempi, e non da or, son misera.

nutrice

Nulla ancor so di quanto saper bramo.

fedra

Ahimè!
Quanto udir da me vuoi, ché tu non dici?

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nutrice

Profetessa non son, l’occulto ignoro.

fedra

Che cosa è ciò che amor chiamano gli uomini?

nutrice

È dolcissima cosa, e insiem dogliosa.

fedra

Dunque, la sola doglia io proverei.

nutrice

Che dici, figlia? Un uomo ami? E chi mai?

fedra

Quale ch’ei sia, quel figlio dell’Amàzzone....

nutrice

Dici Ippolito?

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fedra

                              Tu, non io lo dico.

nutrice

Ahimè, figliuola, che vuoi dire? Tu
mi dai la morte. Amiche, io piú non reggo,
viver non posso. Ah, maledetto giorno,
questo ch’io veggo, ah, maledetta luce!
Gittare voglio il corpo mio, morire,
lasciar la vita. Addio. Morta sono io.
A lor malgrado, pure si rassegnano
i saggi, ai mali; e non è Diva, Cípride,
ma piú che Diva, se si può: ché stermina
me, la signora mia, la casa tutta.
Parte disperata.

coro

Udisti, udisti i gemiti
della signora mia?
Mali orrendi ella soffre, inesprimibili.
Pur, non si compia il tuo desire! Pria
morir voglio, o diletta.
Ahimè, ahimè, misera te, che spasimi!
Ahimè, cordogli onde si nutron gli uomini!
Tu sei perduta: hai svelato l’obbrobrio!
Pria che declini il dí, che mal t’aspetta?
A novello si volge, a funesto esito

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la casa. Omai, di Cipride la mèta
è chiara, o figlia misera di Creta.

fedra

O donne di Trezène, a cui quest’ultimo
della terra Pelopia atrio è soggiorno,
nelle lunghe ore della notte, io spesso
ho meditato per che via si guasta
la vita dei mortali. A me non sembra
che la lor sorte pèggiorino gli uomini
per men di senno: in molti ínsito è il senno.
Conviene, invece, riflettendo, questo
concetto aver: che coscïenza e lume
abbiam del bene, e non lo pratichiamo,
chi per pigrizia, e chi perché prepone
qualche piacere al bene. Assai piaceri
offre la vita: l’ozïar, ch’è male
e insiem diletto; e la prolissa ciancia;
e il pudor v’ha, ch’è di due specie: l’una
trista non è, l’altra le case stermina;
ma se distinguer l’un dall’altro agevole
fosse, un sol nome entrambi non avrebbero.
Or, poi che tali verità conosco,
non c’è farmaco ond’io possa obliarle,
e ad altro segno la mia mente volgere.
E ti dirò qual via batte il mio spirito.
Poi che l’amore mi ferí, cercai
come potessi agevolmente piú
reggerne il peso. E cominciai da prima
a celare il mio morbo, a restar muta;
poiché fiducia nella lingua avere

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non puoi, che ammaestrar l’altrui pensiero
ben sa, ma gravi traversie procura
a sé stessa, da sé. Poscia, pensai
sopportar questa mia follia, domandola
con la saggezza. E quando infine vidi
ch’io non potea con ciò vincere Cípride,
deliberai d’uccidermi: consiglio,
chi negare lo può?, risolutissimo.
Deh, non sia ciò, che quando il bene io faccio
resti celato, e quando il male, m’abbia
copia di testimonii. Ed il mio stato
e la mia malattia, sapevo ch’era
vituperosa; e ch’io, femmina essendo,
l’odio sarei di tutti quanti. Oh, piombi
la mala morte su colei che prima
tradí lo sposo con estranei drudi.
E dalle case incominciò dei nobili
questa vergogna fra le donne a spargersi:
ché quando ai grandi alcuna turpitudine
piace, ben presto piace essa anche ai piccoli.
Ed anche quelle donne odio, che caste
sono a parole, e di soppiatto indulgono
a tristi audacie. O veneranda Cípride,
e come gli occhi alzar nel viso possono
al loro sposo? E il buio non paventano,
complice loro, e della casa i tetti,
che levino la voce? — Ecco che cosa,
amiche mie, mi spinge a morte. Oh, ch’io
mai non sia còlta a svergognar lo sposo,
né del mio grembo i figli. Oh, ch’essi vivano
liberi, e franca alzar la voce possano,
grazie al buon nome della madre, nella
celebre Atene: poiché servo è un uomo,

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anche d’ardito cuor, se coscïenza
ha d’un materno, d’un paterno fallo.
Sola una cosa ha pregio, a quanto dicono,
non minor della vita: aver bontà
e giustizia nel cuore. Al punto giusto
scopre il tempo i malvagi, ed uno specchio,
come ad una fanciulla, a loro innanzi
pone. Deh, ch’io non sia del loro numero!

corifea

Deh, come il senno in ogni luogo ha pregio,
e buona fama tra i mortali coglie! —
Torna la nutrice.

nutrice

La tua disgrazia, o mia regina, or ora
di terrore m’empie’ súbito, orrendo;
ma, ben lo vedo, una dappoco fui.
I primi impulsi non son mai per gli uomini
i piú saggi. Non è ciò che t’accade
straordinario e fuor d’ogni proposito.
La furia della Dea su te piombò:
innamorata sei. Che c’è di strano?
In compagnia tu sei di molte: e vuoi
morir per causa dell’amore? Duro
sarebbe amare od all’amore accingersi,
quando morir se ne dovesse. A Cípride
facil non è fare contrasto, quando
impetuosa piomba. Ella soave

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a chi cede s’appressa, e invece, quando
trova un superbo, un’anima orgogliosa,
che credi tu?, lo afferra e ne fa strazio.
E per l’aure si libra, erra del mare
tra i flutti, Cipri, e da lei tutto ha vita.
Essa è colei che semina, che infonde
d’amor la brama, e tutti abbiamo origine
da lei, quanti viviam sopra la terra.
E quanti san le antiche storie, e quanti
vivono fra le Muse essi medesimi,
sanno che Giove, di Semèle il talamo
desiderò, sanno che un giorno Aurora,
la radïosa, per amore, Cèfalo
rapí fra i Numi. E tuttavia, nel cielo
dimorano essi, e gli altri Dei non fuggono,
e ad esser vinti, credo, si rassegnano
dal loro fato: e tu non vorrai cedere?
Ad altri patti, e non umani, il padre
generarti dovea, sotto l’impero
d’altri Numi, se tu non vuoi piegarti
a queste leggi. Tu non sai quanti uomini
pieni di senno, la vergogna vedono
dei loro tetti, e d’ignorarla fingono.
E quanti padri ai figli lor che fallano,
non dànno aiuto a tollerare Cípride?
Ché fra i mortali saggia usanza è questa:
nasconder ciò che non è bello. E a troppa
perfezïon la propria vita volgere
l’uomo non deve: ché neppure i tetti
onde coperte ha le sue case, può
rifinir troppo sottilmente. Or tu,
che sei caduta in simile sciagura,
come speri salvarti? Orvia, se i beni

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nella tua vita superano i mali,
poi che mortale sei, felice ancora
esser potresti. O figlia mia, desisti
dai funerei pensieri e dagli oltraggi:
ché i Numi oltraggi, se presumi d’essere
da piú di loro. Fatti cuore, ed ama.
Un Dio lo volle. E poi che sei malata,
d’alleggerire il morbo tuo procura.
Incantesimi sono, e son parole
che leniscono il duolo: un qualche farmaco
si troverà di questo morbo: gli uomini
lo troverebber tardi assai, qualora
prive noi donne di scaltrezza fossimo.

corifea

Quanto dice costei, meglio conviene
al tuo caso presente; eppure, o Fedra,
le tue parole approvo; e la mia lode
è per te piú sgradita, è piú dogliosa
delle parole che costei ti volge.

fedra

Ecco che cosa le città degli uomini
popolose distrugge, e le famiglie:
il troppo ornato favellar: ché quello
dir non conviene che le orecchie molce,
ma quello onde s’acquista egregia fama.

nutrice

A che discorsi tanto eccelsi? Tu
non hai bisogno di parole belle;

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ma dell’uomo indagar convien la mente
quanto prima, e parlargli apertamente
dei casi tuoi. Ché se non fossi in tanta
calamità, se la ragione intatta
serbassi, credi tu che, per indulgere
ai tuoi piaceri, all’amor tuo, potrei
spingerti a tanto? Ma il cimento è grande,
ora: salvarti; e biasimo io non merito.

fedra

O parole esecrande! Il labbro serra:
non pronunciar piú mai turpi discorsi.

nutrice

Turpi, ma piú proficuï per te
dei virtuosi. I fatti che ti salvano,
meglio per te delle parole valgono
onde gloria con morte aver tu debba.

fedra

No, per i Numi, oltre non dir: ché belle
son le parole tue, ma disoneste.
E schiava è dell’amor l’anima mia;
e se bello a parole il mal mi fingi,
temo in esso cadere; ed io lo fuggo.

nutrice

Se cosí pensi, errar tu non dovevi.
Ma, poi ch’errasti, dammi retta, accordami

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un’altra grazia. Or mi sovviene. In casa
filtri posseggo che l’amor molciscono,
onde senza vergogna e senza danno
di tua ragione, sarà vinto il morbo
tuo, se tu non sei vile. Ora, dell’uomo
che brami, aver conviene un qualche simbolo,
una qualche parola, oppure un brano
del suo manto, e due vite in una fondere.

fedra

Da bere o da spalmare, è questo farmaco?

nutrice

Non so: cerca salute e non scïenza.

fedra

Temo che tu troppo per me sia scaltra.

nutrice

E tu pavida troppo: di che temi?

fedra

Al figlio di Tesèo non far parola.

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nutrice

Lasciami fare: io tutto disporrò
pel meglio. Solo tu, divina Cípride,
assisti l’opra mia. Dentro, agli amici
quanto altro penso basterà ch’io dica.


Note

  1. [p. 301 modifica]Dici quello pel toro? Allude alla nota favola di Pasifae innamorata del toro.
  2. [p. 302 modifica]La grama sorella è Arianna, abbandonata da Teseo nell’isola di Nasso; poscia raccolta e sposata da Dioniso.