Istoria del Concilio tridentino/Libro quarto/Capitolo VI

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Libro quarto - Capitolo VI (febbraio - agosto 1552)

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CAPITOLO VI

(febbraio-agosto 1552).

[Propositi del legato e dei nunzi di ultimare rapidamente il concilio. — Timoroso dell'appoggio dato ai protestanti in concilio da Carlo V, il papa inizia trattative col re di Francia. — I protestanti insodisfatti del nuovo salvocondotto. — Il concilio continua i lavori: trattazione del matrimonio. — Lagnanze dei protestanti all'imperatore, che ottiene si soprassieda da ogni azione conciliare. — Disapprovazione del papa, crucciato con Carlo V e Ferdinando anche per l’assassinio in Transilvania del cardinale Martinusio. — Sdegno dei protestanti per un sermone del Pelargo. — L’elettore di Treviri lascia Trento, in breve seguito da quelli di Colonia e Magonza e da parecchi prelati e inviati, intimoriti da voci d’un accordo fra i protestanti ed Enrico II contro Carlo V. — Giungono a Trento teologi tedeschi e l’inviato del re di Portogallo. — Vane insistenze dei protestanti perchè si proceda nei lavori. — Ribellione di Maurizio di Sassonia all’imperatore. — Breve papale trasmesso al legato per la sospensione del concilio. — Sessione decimasesta: viene proposta una sospensione per due anni.— Inutile opposizione degli spagnoli. — Critiche al decreto di sospensione. — Vicende della guerra favorevoli ai protestanti: liberazione dell’elettore di Sassonia e del langravio d’Assia. — Pace di Passavia.]

È cosa certa che li presidenti, dubbiosi dove le cose potessero capitare, volevano esser preparati, se il vento se gli mostrava prospero, di decidere tutt’in una sessione la materia dei sacramenti: e pertanto, avendo giá in pronto le cose spettanti alla comunione, alla messa e al sacramento dell’ordine, volevano aver digeste e ordinate quelle del matrimonio, per metterle in un fascio; e in un’altra sessione trattare succintamente del purgatorio, indulgenze, immagini, reliquie e altre tal cose minute (che cosí le chiamavano), e metter fine al concilio: e se alcuna cosa si fosse opposta a questo disegno, poter mostrare che da loro non era mancato. [p. 169 modifica]

Io veggo molti, leggendo questi successi, maravigliarsi, non vedendo nominato il papa, dal quale in cose di molto minor momento tutte le deliberazioni erano solite spiccarsi. Ma cesserá la maraviglia, sapendo che il pontefice fu, secondo il solito, avvisato di punto in punto de tutti li successi e desegni; e al primo arrivo delli virtembergici e alla nova che altri s’aspettavano avvisato, rispose alli suoi legati e nonci che li protestanti fossero trattati con maggior umanitá che fosse possibile; che sapeva bene esser necessario in simili avvenimenti sopportar qualche indignitá per condescendere; però in questo usassero la prudenza, accomodandosi alla necessitá, perché in fine cede in onore l’aver sofferito alcuna cosa. S’astenessero bene da ogni pubblico colloquio, o in scrittura o in voce, in materia di religione. Procurassero con gli uffici e con le speranze di guadagnar alcuno delli dottori protestanti, e non perdonassero a qualche spesa. Fu il papa avvisato dal legato di passo in passo che si andava facendo; non però li parve occorrer cosa che dovesse farli mutar proposito. E alle cose del concilio dopo questa sessione non pensava molto; perché, avendo preso qualche ombra dell’imperatore, ascoltava le proposte di alcuni francesi. Ma quando intese che li ambasciatori imperiali avevano dato a’ protestanti speranza di moderar la potestá pontificia, e detto che aspettavano di veder la porta aperta con la negoziazione loro, per dover poi secondare e introdur le cose che avevano disegnato, e che molti delli padri reputavano necessario restringer l’autoritá papale, avendo altri riscontri che di tal mente fossero tutti li spagnoli e che Cesare disegnava alzarsi piú con l’abbassar il pontificato, e pensava di fomentar li protestanti a questo, per mostrare che da sé non procedesse; alienato l’animo da lui per voltarlo al re di Francia, porgeva orecchie alla trattazione per nome del re dal Cardinal Tornone maneggiata, dalla esecuzione della quale ne seguiva senza sua opera la dissoluzione del concilio, e senza che esso si mostrasse desiderarla.

Fatta la sessione, li protestanti, se ben penetrarono che il [p. 170 modifica] salvocondotto non era ampliato come avevano chiesto, dissimulando di saperlo, l’addimandarono; e gli fu dagli ambasciatori imperiali, congregati per questo, consegnato un esemplare autentico per ciascuna ambasciaria. Essi, ritiratisi e letto il tenore, ritornati, si lamentarono che fosse loro mancato; ricercarono anco la risposta della sinodo alle esposizioni loro e alle instanze fatte sopra il modo di procedere in concilio. Gli imperiali li confortarono a procedere con desteritá, usando li medesimi concetti in mostrare che col tempo averebbono ottenuto tutto, ma, ricercando le cose acerbe e inanzi l’opportunitá, averebbono difficultato ogni cosa; che nel salvocondotto non era necessario esprimere che potessero esercitar la loro religione nelle case, poiché non essendo proibito, s’intende concesso; che nessuna cosa sia fatta in vituperio loro esser chiaramente espresso, quando se gli promette buono e real trattamento; e oltra questo si faranno anco pubbliche proibizioni a tutti, che faranno maggior effetto. Quanto alle ragioni d’allegar in concilio, in sostanza esser detto l’istesso che la Scrittura sia il fondamento; ma esser ben necessario, quando vi sará controversia nella intelligenzia della Scrittura, che sia giudice il concilio. La Scrittura esser muta e senz’anima, e, sí come le leggi civili, aver bisogno di giudice che la inanimi; e nella materia della religione questo esser il concilio, come dal tempo degli apostoli sinora è stato servato. Li protestanti riceverono il salvocondotto, ma con dechiarazione che non lo pigliariano, se non a fine di mandarlo alli loro principi.

Ma li presidenti, per esequir quanto era decretato di esaminar la materia del matrimonio, fatta congregazione generale, ed eletti li deputati, diedero fuori trentatré articoli in quella materia, per esser discussi da’ teologi; e ordinarono anco che li deputati formassero li canoni, secondo che li particolari s’andavano ventilando. Si fecero alquante congregazioni, e furono anco formati sino sei canoni. Ma avendo li protestanti fatto indoglianza con li ambasciatori imperiali, dicendo che ben li davano speranza che col tempo potessero ottener [p. 171 modifica] revisione delle cose decise, ma tuttavia quella co’ fatti gli era levata, perché contuttociò si camminava inanzi a nuove decisioni, mentre che li suoi erano aspettati, gli ambasciatori imperiali non potêro ottenere dai presidenti che si fermassero le azioni, le quali essi affrettavano con ogni sollecitudine, a fine che o vero li protestanti restassero d’andar a Trento, o vero andando ritrovassero tutto deciso; ché quanto alla dimanda di riesaminar le cose, erano giá risoluti il papa, tutta la corte e tutti li prelati di negarla constantemente. Pensavano anco che piú apparentemente si negarebbe la revisione di molte cose che di poche. Ma l’imperatore, alli fini del quale molto importava di ridur li protestanti in Trento, e niente gli toccava il riesaminar o no, avvisato dagli ambasciatori delle querele de’ protestanti e dell’impedimento che si opponeva alla loro andata al concilio, mandò persona a Trento con commissione di passar anco a Roma, per far ufficio che si differisse ogni azione per pochi giorni, mostrando che quella fretta precipitava le materie, rendeva sospetto a’ protestanti e difficoltava la reduzione loro; e ordinò che alli suoi fosse comandato di fermare le trattazioni, e alli pontifici, quando le persuasioni non giovassero, si passasse alle protestazioni. Questa risoluzione dell’imperatore, significata in Trento, fu causa che si fece una congregazione generale; e proposta questa considerazione, fu deliberato soprasseder da ogni azione conciliare, a beneplacito però della sinodo.

Ma il pontefice sentí dispiacere di quello che si era fatto; e sdegnato con l’imperatore anco per altri rispetti, scrisse a Trento che, continuando a tenere sospese le azioni quanto manco giorni potessero, per reputazione della sinodo riassumessero le azioni senza rispetto.

La causa che oltra questa aveva irritato il papa e li cardinali fu perché, desiderando Ferdinando occupare la Transilvania, che dall’altra parte era da’ turchi assalita, sotto pretesto di mantenerla per il picciolo figlio di Gioanni voivoda, Giorgio Martinuccio vescovo di Varadino, uomo di eccellente prudenza e di gran credito in quella regione, desiderava conservarla in [p. 172 modifica] libertá; e per ovviare al maggior pericolo, non potendo contrastare con turchi e austriaci insieme, elesse congiongersi con questi; con che, fatto contrappeso a’ turchi, teneva le cose in gran bilancia. Li austriaci conoscendo che col guadagnar questo prelato totalmente ottenevano la loro intenzione, oltra le altre cose che fecero a fine di restringerlo maggiormente nelli loro interessi, Ferdinando li promesse una pensione di ottanta mila scudi; e ottenne l’imperatore con grande instanza dal papa che lo creasse cardinale, e (cosa rare volte costumata) li mandasse il cappello e anco li concedesse di portar l’abito rosso, che non gli era lecito per esser monaco di san Basilio: cose che furono esequite in Roma nel mezzo di ottobre. Ma non essendo stata dal vescovo stimata questa apparenza di onore, né volendo anteporre li interessi austriaci a quei della sua patria, dalli ministri di Ferdinando fu alti 18 decembre proditoriamente e crudelmente trucidato, sotto pretesto che avesse intelligenza con turchi. Questo successo commosse maravigliosamente tutti li cardinali, che si reputano sacrosanti e inviolabili. Consideravano quanto importasse l’esempio che potesse esser ucciso un cardinale con finte calunnie, o ver anco per sospetti. E al papa, a cui da se medesimo dispiaceva l’istesso, aggionsero stimolo, mettendoli anco inanzi che quel cardinale era possessor d’un gran tesoro che aggiongeva ad un milione, e che quello doveva esser della camera, come di cardinale morto senza testamento. Per tutti questi rispetti il papa deputò cardinali sopra la cognizione dell’eccesso, e furono stimati incorsi nelle censure Ferdinando e tutti li suoi ministri di Transilvania; furono mandati commissari per far inquisizione a Vienna; e, per non tornar piú a parlare di questo, dirò qui anticipatamente che, raffreddandosi, come è di costume, li fervori, poiché non si poteva desfare quello che fatto era, per non metter a campo maggior moto, si processe con molta connivenza. E con tutto che fosse fatto il processo come a Ferdinando metteva conto, non si provò cosa alcuna delle apposte al defonto; e il pensiero di tirar la ereditá alla camera si mortificò, perché poco fu ritrovato [p. 173 modifica] a quello che si pensava, avendo il Martinuccio, che era uomo liberale, sempre speso in pubblico servizio tutto quanto aveva, e quello che s’era ritrovato essendo stato diviso fra li soldati. Il papa dechiarò Ferdinando, e tutti gli altri che non erano stati presenti alla morte, assoluti, con aggionta se le cose dedotte in processo erano vere. Di che dolendosi li ministri cesarei, come che fosse metter in dubbio la bontá di Ferdinando, il papa fece la sentenzia assoluta; e quei soli che furono autori della morte andarono a Roma per l’assoluzione, se ben con tal modo, come se fossero stati autori di opera lodevole; con tutto che cosí in Ongaria come in Roma si tenesse per certo che fosse assassinamento proceduto da mandato di chi ne aveva interesse, secondo il celebre detto che d’ogni conseglio occulto quello è autore che ne riceve giovamento. Ma questo eccesso non fu di beneficio alle cose di Ferdinando; anzi che per questa e per altre cause poco dopo egli fu totalmente di Transilvania escluso. Ma poiché non pertiene al proposito mio parlar di questo, ritorno alle cose che passavano in Trento.

Il giorno 7 di febbraro, in domenica precedente la settuagesima, leggendosi l’Evangelio della zizzania, fece il sermone Ambrosio Cigogna (che cosí è interpretato il suo cognome tedesco Pelargo), dominicano, teologo dell’arcivescovo di Treveri; il quale applicando il nome di zizzania alli eretici, disse che conveniva tollerarli, quando non si poteva senza pericolo di maggior male estirparli. Questo fu riferito alli protestanti, come se avesse detto che si poteva mancarli della fede data, e però nacque gran tumulto. Egli si defendeva dicendo che aveva parlato de eretici in genere, e non detto cosa di piú di quello che l’Evangelio medesimo propone: ma quando avesse anco detto che bisognasse estirparli con fuoco, ferro, laccio e in qualunque altro modo, averebbe fatto quello che comandò il concilio nella sessione seconda; aver parlato modestissimamente, né potersi far sermone sopra quell’Evangelio senza dir quel tanto che da lui fu detto. Il romore per opera del Cardinal di Trento e delli ambasciatori cesarei fu quietato, [p. 174 modifica] se ben con difficoltá, con tutto che constasse non aver il frate parlato di non servar la fede, né aver detto cosa che toccasse protestanti in speciale, ma eretici in universale. Questo però fu occasione che quell’elettore, giá risoluto di partire per qualche secreta intelligenza che teneva col re di Francia, trovato questo pretesto di partire, e aggionto il bisogno di ricuperar la sanitá, partí a mezzo febbraro, lasciato fama che era con beneplacito di Cesare, e promessa di presto ritornare. Però non passò per Ispruc, né s’abboccò con l’imperatore.

Il primo giorno di quaresima furono per affissione pubblicate in Trento le stazioni al medesimo modo che in Roma, per concessione del papa, a chi visitasse le chiese: che fu trattenimento alli padri e teologi, restati per l’intermissione delle congregazioni senza negozio; e quasi oziosi s’erano ben anco trattenuti per l’inanzi, riducendosi a congregazioni private, discorrendo variamente ora della dissoluzione, ora della continuazione del concilio, secondo le nove che erano portate.

Nel principio di marzo arrivarono lettere dall’elettor di Sassonia agli ambasciatori suoi, dove li commetteva proseguir le instanze in concilio, e avvisava che si metteva in ponto per andare in persona a Cesare; il che serenò l’animo di tutti. Ma pochi giorni dopo si sparse romor per tutto che fosse fatta confederazione del re di Francia con li principi protestanti per far la guerra a Cesare; e gli elettori di Magonza e di Colonia a 11 di marzo partirono; e passati per Ispruc, furono con Cesare a strettissima trattazione. E gli ambasciatori di Maurizio, dubitando di se stessi, occultamente uscirono di Trento e per diverse vie ritornarono a casa. Con tutto ciò dopo queste cose arrivarono quattro teologi di Virtemberg e doi di Argentina; e gli ambasciatori di quel duca insieme con loro immediate fecero instanza con li ambasciatori cesarei che dalla sinodo fosse data risposta alla proposizione giá fatta, e si dasse principio alla conferenza o trattazione. Al che il legato rispose che instando il 19 marzo, giorno destinato per la sessione, era necessario metter ordine a quella e trattar [p. 175 modifica] molte altre cose, de quali una sarebbe stata trovar forma di trattare. Imperò quel giorno si fece congregazione in casa del legato, e fu deliberato di prolongar la sessione fino al primo di maggio. In questa congregazione fu ricevuto l’ambasciator di Portogallo, il qual presentò il suo mandato e fece un ragionamento, e li fu risposto in forma solita con lodi e ringraziamenti al re, e con parole di complemento all’ambasciatore. Ma quelli di Virtemberg, vedendo che non si dava risposta alle proposte loro, e ancora che il legato teniva secreta la confessione da essi presentata, la qual da molti era ricercata né si poteva avere, avendone essi portate alcune copie stampate giá, le distribuirono a diversi; di che vi fu gran strepito, e da alcuni si diceva che meritavano castigo, perché quelli a chi vien concesso salvocondotto sono in obbligo di fuggir ogni offesa di chi glielo concede; e questa era stimata un’offesa pubblica. Pur finalmente il tutto si quietò.

Fecero piú volte li protestanti instanzia con li ambasciatori cesarei che si dasse principio all’azione, la qual tuttavia si differiva, ora sotto pretesto che il legato era indisposto, ora sotto diversi altri. Li ambasciatori cesarei facevano ogni ufficio per dar principio; operarono che li protestanti si contentassero di tralasciar la richiesta di risposta alle dimande loro presentate, poi anco di non ricercare che fosse esaminata la dottrina da loro esibita. Ma essendo sempre, ceduta una difficoltá da’ protestanti, eccitate delle altre dalla parte de’ presidenti, ora sopra il modo di trattare, ora sopra la materia dove incominciare, in fine si contentavano li protestanti, cosí persuasi dal Pittavio, d’incominciar dove gli altri volevano. Non per questo fu fatto ingresso. Il legato, se ben gravissimamente infermo per le gran passioni d’animo, era stimato cosí fingere per trovar pretesto di non dar principio. Li nonci erano irresoluti, e li vescovi non erano tra loro d’accordo; perché quelli che dependevano da Cesare, spagnoli e altri, mossi dagli ambasciatori imperiali, volevano che si camminasse inanzi; ma quelli che dependevano dal pontefice, [p. 176 modifica] insospettiti che il fine delli cesarei fosse di far capitar presto la trattazione alla riforma della corte romana, abbracciavano ogni occasione d’impedimento. E perché giá li vescovi tedeschi erano partiti per li moti di guerra, aspettavano la stessa occasione anco loro, e massime che continuavano gli avvisi delle arme del re di Francia e delli confederati di Germania contra Cesare, delle quali erano giá usciti protesti e manifesti, li quali portavano per cause la difesa della religione e la libertá di Germania. Il primo giorno d’aprile l’elettor di Sassonia messe l’assedio ad Augusta, la quale il terzo giorno si rese; e il sesto la nova gionse a Trento, e che tutto il Tirolo si metteva in arme per andar in Ispruc, essendo opinione che l’esercito de’ collegati disegnasse occupar li passi delle Alpi per impedir la gente forestiera d’entrar in Germania. Per il che gran parte delli vescovi italiani si misero in barca a seconda del fiume Adice per ridursi a Verona, e li protestanti determinarono di partire.

Essendo restati pochi vescovi, e il legato per la gravezza dell’infirmitá spesso vaneggiando, non potendo aver risoluzione consistente, li nonci, temendo che se si aspettava il primo di maggio secondo l’ordine dato, che dovessero trovarsi in Trento senza prelati, scrissero a Roma ricercando quello che in tanta angustia si dovesse fare. Il pontefice, che giá aveva col re di Francia concluso, né stimava piú quello che l’imperatore potesse fare, quando bene avesse superate le difficoltá che lo circondavano, fatta congregazione de’ cardinali, propose l’avviso delli nonci in consulta, né vi fu difficoltá al concorrere la maggior parte che il concilio si sospendesse. Fu formata la bolla e mandata a Trento, scrivendo appresso alli nonci che se gli mandava l’autoritá per la suspensione. Però quando vedessero urgente necessitá, cedessero a quella, e non mettessero in pericolo la dignitá del concilio, il quale ad altro tempo quieto si sarebbe redintegrato: però non lo disciogliessero intieramente, a fine di tener in mano quel capo per valersene alle occasioni, ma lo suspendessero per qualche tempo. La qual risposta avuta, tenendola secreta, [p. 177 modifica] consultarono con li ambasciatori e con li principali prelati, quali proponevano di aspettar ordine da Cesare, ed estenuavano il timore quanto potevano; però li prelati, se ben la maggior parte spagnoli, temendo delle persone loro per l’odio de’ protestanti, e non sperando che Cesare avesse tempo in tanta strettezza di pensar al concilio, consentirono ad una suspensione. Per il che li nonci intimarono la pubblica sessione per il 28 aprile; tanto era urgente il timore, che non li concesse aspettar due giorni il dí destinato alla sessione.

Alla qual convennero quei pochi rimasti; e dopo le ceremonie ecclesiastiche (perché quanto alle pompe quella volta furono tralasciate) fu dal noncio sipontino fatto leggere un decreto per il secretano, la sostanza del quale era: che la sinodo, presidenti li doi nonci per nome proprio e del Cardinal Crescenzio legato, gravemente infermo, è certa esser noto a tutti li cristiani che il concilio di Trento, prima congregato da Paulo, e doppoi restituito da Giulio a petizione di Carlo imperatore, per restituir la religione, massime in Germania, e per emendazione dei costumi; e che in quello essendo convenuti molti padri de diverse regioni, non perdonando a fatiche e pericoli, il negozio era incamminato felicemente, con speranza che li germani novatori dovessero andar al concilio disposti d’acquietarsi alle ragioni della Chiesa. Ma per astuzia del nimico repentinamente sono eccitati tumulti che hanno costretto ad interromper il corso, levata ogni speranza di progresso, anzi con timore che la sinodo fosse piú tosto per irritar le menti di molti che placarle. Per il che essa, vedendo ogni luoco, e specialmente Germania, ardere di discordie, e che li vescovi tedeschi, specialmente gli elettori, erano partiti per provveder alle loro chiese, ha deliberato non opporsi alla necessitá, ma tacer sino a tempi migliori; e pertanto suspendere il progresso del concilio per due anni, con condizione che se le cose saranno prima pacificate inanzi il fine di quel tempo, si intenda che il concilio ripigli il suo vigore e fermezza; e se li impedimenti non saranno cessati [p. 178 modifica] in capo li due anni, s’intendi che la suspensione sia levata, subito levati li impedimenti, senza nova convocazione del concilio, intervenendo a questo decreto il consenso e l’autoritá di Sua Santitá e della santa sede apostolica. E fra tanto la sinodo esorta tutti li principi cristiani e tutti li prelati, per quanto a ciascun s’aspetta, che faccino osservare nelli loro domini e chiese tutte le cose del concilio sino a quell’ora decretate.

Il qual decreto letto, fu dagli italiani approbato. Li spagnoli, al numero di dodici che erano, dissero che li pericoli non erano sí grandi come si facevano; che giá cinque anni fu da’ protestanti presa la Chiusa, e pur il concilio non si disciolse, con tutto che a difesa del Tirolo altri non vi fosse che il Castelalto; ora esser la persona di Cesare in Ispruc, per la virtú del quale quel motivo presto cesserebbe; che si licenziasse li timidi, come allora si fece, restando quelli che volevano; tra tanto che fosse avvisato l’imperatore, che, essendo tre giornate vicino, poteva dar presta risposta. Ma opponendosi gli altri popolarmente, li spagnoli protestarono contra la suspensione cosí assoluta; non ostante la qual protesta il noncio sipontino, benedetti li padri, li licenziò d’andar al viaggio loro. Partiti li nonci e li prelati italiani, finalmente partirono li spagnoli, e anco li ambasciatori dell’imperatore; e il Cardinal Crescenzio fu portato a Verona, dove morí.

In Roma per l’ultima parte del decreto fu imputato alli doi nonci a gran carico che la sinodo avesse decretata l’esecuzione delle cose constituite, senza averne prima chiesto conferma dalla sede apostolica, allegando che, essendo ciò stato da tutti li concili passati esquisitamente servato, questa era una grand’usurpazione e lesione dell’autoritá pontificia. Alcuni anco facevano scrupolo che tutti gl’intervenuti in quella sessione fossero incorsi nella censura del canone Omnes, distinctio XXII, avendo pregiudicato ad un privilegio della sede apostolica con pretendere che li decreti conciliari fossero di valore alcuno inanzi la conferma. Dicevano in sua difesa, non aver [p. 179 modifica] comandato, ma esortato all’osservanza: ma la risposta non sodisfaceva, perché osservare come legge presuppone ubbligazione; e nel decreto l’esortazione non si riferisce salvo che alli principi e prelati esortati a far osservare; che quanto agli osservatori si presuppone obbligo precedente, e poi quanto alla materia della fede, la risposta (dicevano) non poter aver luoco alcuno. Si potevano scusare con dire che ogni cosa era fatta dal papa e approvata prima che nelle sessioni fosse pubblicata; né questo averebbe satisfatto, poiché, quantunque fosse il vero, non però appariva. Questo diede occasione di maravegliarsi come tanta contenzione fosse passata tra la sinodo e li protestanti per le cose giá statuite, che questi volevano reesaminare, e quelli aver per concluse; poiché se non ebbero la perfezione e stabilimento inanzi la conferma, adunque potevano esser reesaminate. E, a discorrer sodamente, o vero il pontefice che doveva confermarle aveva da farlo con cognizione delle cause, o senza: se senza, la conferma è una vanitá, e sarebbe secondo il proverbio che uno pigliasse la medicina e l’altro si purgasse; se precedendo la cognizione, adonque ed esso pontefice dopo doveva esaminarle, e lo poteva anco far ognuno per riferirsi a lui. In somma se la fortezza delli decreti conciliari pende dalla conferma del papa, inanzi quella sono pendenti e possono esser revocati in dubbio e posti in maggior discussione, contra quello che sempre s’era negato a’ protestanti. La conclusione d’alcuni era che il decreto fosse una nullitá, de altri che fosse una dechiarazione di non aver bisogno di conferma. Li protestanti non pensarono a queste ragioni, quali quanto sono piú valide nella dottrina della sede romana, tanto piú il valersene sarebbe di detrimento alle pretensioni loro. Ma perché della validitá di questo decreto fu maggiormente parlato l’anno 1564, quando il concilio si finí, sará differito parlar del rimanente sino a quel tempo.

Ma con tutto che li protestanti fossero superiori nel maneggio della guerra, non restava Maurizio di trattare amichevolmente con Ferdinando, anzi per questo ancora andare nelli [p. 180 modifica] stati suoi a ritrovarlo, non richiedendo altro che la liberazione del lantgravio suocero, la libertá di Germania e la pace della religione. E nondimeno facendo continuo progresso le armi de’ protestanti, l’imperatore, quantonque non fosse in ordine di resistere, parendogli nondimeno d’aver ancora la Germania sotto il giogo, non si poteva accomodare a cedere in parte la dominazione assonta; se ben Ferdinando, dopo aver molto con Maurizio trattato, s’era transferito in Ispruc a persuadere il fratello. Ma accostandosi a quella cittá le armi nemiche, l’imperator fu costretto fuggire di notte con tutta la sua corte; e camminato alquanto per li monti di Trento, voltatosi, si ridusse a Villaco, cittá di Carinzia a’ confini de’ veneziani, con tanto spavento, che prese anco timore perché quel senato per sicurezza delli confini suoi spinse numero de soldati verso quel luoco, quantonque dall’ambasciator veneto fosse assicurato che quelle armi erano per suo servizio, se fosse stato bisogno. Inanzi la partita liberò Gioanni Federico duca di Sassonia della prigione, per levar la gloria a Maurizio che da lui fosse stato liberato; il che fu anco di molto piacere a quel principe, al quale metteva piú conto aver la grazia dal nemico superiore, che dal nemico pari ed emulo. Poche ore dopo la partita d’Ispruc, Maurizio arrivò la medesima notte, dove, non toccate le cose di Ferdinando né di quei cittadini, solo s’impadroní di quelle dell’imperatore e della corte sua. Da quella fuga vedendo li protestanti il loro vantaggio, mandarono fuori un altro manifesto, con significare in sostanza che, avendo preso le arme per la religione e libertá di Germania, sí come gl’inimici della veritá nessun’ultra mira ebbero se non che, oppressi li dottori pii, si restituissero gli errori pontifici e la gioventú in quelli si educasse; avendone parte posti pregione e agli altri fatto giurare di partirsi e non tornar piú, il qual giuramento, se ben essendo empio, non è obbligatorio; con tutto ciò li richiamavano tutti, gli comandavano di reassumer l’ufficio d’insegnare secondo la confessione augustana, e per levar ogni luoco alle calunnie, li assolvevano anco dal giuramento prestato. [p. 181 modifica]

Continuando tuttavia il trattato della pace, finalmente si fece l’accordo in Passau nel principio d’agosto sopra tutte le ditferenzie. E in quello che s’aspetta alla religione fu cosí ordinato: che fra sei mesi si congregasse una dieta, nella quale si dovesse trattar qual fosse il piú facile e comodo modo di compor le discordie della religione, per un concilio generale, o per un nazionale, o per un colloquio, o per una universal dieta dell’Imperio. Che in questa dieta si dovesse pigliar ugual numero di persone pie, placide e prudenti dell’una e dell’altra religione, dando loro cura di pensare e proponer li modi convenienti; e che tra tanto né Cesare né alcun altro potesse sforzar alcuno contra la sua conscienzia o volontá, né de facto né con forma di ragione, per causa di religione; né far cosa alcuna in vituperio e gravame d’alcuno per tal causa, ma lasciar viver ciascuno in quiete e pace; e che similmente li principi della confession augustana non potessero molestar li ecclesiastici o secolari della vecchia religione, ma lasciarli godere le loro facoltá, signorie, superioritá, giurisdizioni e ceremonie. Che nella camera fosse a ciascuno amministrata giustizia, senza aver risguardo di che religione fosse, e senza escluder quelli della confessione augustana dal l’aver la porzione spettante loro nel numero degli assessori; e fosse lasciata libera la formula di giurare agli assessori e alle parti, per Dio e per li santi, o vero per Dio e per li Evangeli. E quando bene non si trovasse modo di composizione nella religione, questa pace nondimeno e concordia ritenga il suo vigore in perpetuo. E cosí restò annullato l’Interim, il quale però in fatti ebbe in pochi luoghi esecuzione. Ma, accordate tutte le differenze, seguí la liberazione di Filippo lantgravio d’Assia, per virtú della concordia, onde tutte le difficoltá con Cesare furono composte; non però si cessò dalla guerra tra diversi principi e cittá dell’Imperio, in molte parti per un anno intiero. Con tutto ciò le cittá richiamarono li predicatori e dottori della confessione augustana, e restituirono le chiese, le scole e l’esercizio della religione: e se ben si credeva che, attesi li bandi e persecuzione passata contra li dottori e [p. 182 modifica] dicatori, fossero esterminati, né vi rimanessero se non alcuni pochi occultati sotto la protezione de’ principi, nondimeno quasi come per una rinascenza non mancò da provvedere a tutti li luochi. La guerra impedí l’adunanza della dieta disegnata, e la fece differire d’un anno in l’altro sino al febbraro del 1555: della quale al suo tempo si dirá.