L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo X

Da Wikisource.
Parte prima - Capitolo X

../Capitolo IX ../Capitolo XI IncludiIntestazione 27 giugno 2023 75% Da definire

Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
Parte prima - Capitolo X
Parte prima - Capitolo IX Parte prima - Capitolo XI
[p. 95 modifica]

CAPITOLO X.


Un’invenzione dell’ingegnere — La questione che inquieta Cyrus Smith — La partenza per la montagna — La foresta — Terra vulcanica — I mufloni — Il primo altipiano — L’attendamento per la notte — La cima del cono.

Alcuni istanti dopo i tre cacciatori si trovavano innanzi al focolare che scoppiettava. Cyrus Smith ed il reporter erano là. Pencroff li guardava entrambi senza dir parola col suo cabiaj in mano. [p. 96 modifica]

— Ebbene sì, esclamò il reporter, fuoco, fuoco vero, che arrostirà a meraviglia questa selvaggina che ci regaleremo fra poco.

— Ma chi l’ha acceso?... domandò Pencroff.

— Il sole.

La risposta di Gedeone Spilett era esatta. Era il sole che aveva fornito quel calore che tanto meravigliava Pencroff. Il marinajo non voleva credere ai propri occhi, e tanto era sbalordito che non pensava nemmeno ad interrogare l’ingegnere.

— Avevate dunque una lente, signore? domandò Harbert a Cyrus Smith.

— No, fanciullo mio, rispose costui, ma ne ho fatto una. E mostrò l’apparecchio che gli aveva servito di lente.

Erano semplicemente i due vetri tolti all’orologio del reporter ed al suo. Dopo averli riempiti d’acqua e fattili aderire con un po’ di creta, aveva così fabbricato una vera lente, la quale, concentrando i raggi solari sopra un musco ben secco, aveva cagionato la combustione. Il marinajo considero l’apparecchio, poi guardò l’ingegnere senza proferir parola. Il suo sguardo ne diceva abbastanza. Se per lui Cyrus Smith non era un dio, era certo più che un uomo. Finalmente gli ritornò la favella, ed esclamò:

— Notate questo, Spilett, notate questo sul vostro tacuino.

— È notato, rispose il reporter.

Poi coll’ajuto di Nab il marinajo preparò lo spiedo, e non andò molto che il cabiaj arrostì come un porcellino da latte sopra una fiamma chiara e scoppiettante. I Camini erano ridivenuti più abitabili, non solo perchè i corridoj si scaldavano al fuoco del focolare, ma perchè erano stati ricostrutti i tramezzi di sassi e di sabbia. Come si vede, l’ingegnere ed il suo compagno avevano impiegato bene la giornata. Cyrus Smith aveva quasi interamente ricuperate le forze e si era provato [p. 97 modifica]a salire sull’altipiano superiore, d’onde l’occhio suo, avvezzo a valutare le altezze e le distanze, si era fissato lungamente su quel cono, alla cima del quale voleva giungere al domani. Il monte, situato a sei miglia circa a nord-ovest, gli parve misurare 3500 piedi sul livello del mare, laonde lo sguardo d’un osservatore posto sulla vetta doveva poter percorrere l’orizzonte in un raggio di cinquanta miglia almeno. Era dunque probabile che Cyrus Smith potesse facilmente risolvere questo quesito: “Isola o continente?” a cui egli dava, a ragione, la precedenza su tutti.

Si cenò assai bene. La carne del cabiaj fu trovata eccellente. I sargassi e le mandorle di pinocchio compierono questo pasto, durante il quale l’ingegnere, inquieto del disegno del domani, parlò poco.

Una o due volte Pencroff manifestò qualche idea su quel che convenisse fare, ma Cyrus Smith, che era evidentemente uno spirito metodico, si accontentò di crollare il capo.

— Domani, ripeteva egli, sapremo che pensare ed agiremo in conseguenza.

Terminato il pasto, nuovi fastelli di legna furono gettati sul focolare, e gli ospiti dei Camini, compreso il fedele Top, caddero in profondo sonno. Nessun incidente turbò quella tranquilla notte, ed il domani, 29 marzo, tutti si svegliarono, pronti ad intraprendere l’escursione che doveva decidere della loro sorte.

Tutto era pronto per la partenza. Le reliquie del cabiaj potevano nutrire per ventiquattr’ore ancora Cyrus Smith ed i suoi compagni, i quali, del resto, speravano di rinnovare le provviste per via. Siccome i vetri erano stati rimessi negli orologi dell’ingegnere e del reporter, Pencroff bruciò un po’ di tela che doveva servire d’esca; quanto al silice non doveva mancarne in quei terreni di origine plutoniana. Erano le sette e mezzo del mattino quando gli esploratori, [p. 98 modifica]armati di bastoni, lasciarono i Camini. Stando al consiglio di Pencroff, parve ben fatto di prendere la via già percorsa attraverso le foreste, salvo a tornare per un’altra via. Quella era pure la strada più diretta per giungere alla montagna. Si fece adunque il giro dell’angolo sud, si seguì la riva sinistra del fiume, che fu abbandonata nel punto in cui piegava a sud-ovest; si trovò il sentiero già aperto sotto gli alberi verdi, ed alle nove Cyrus Smith ed i suoi compagni giungevano al lembo occidentale della foresta.

Il terreno, fino allora poco accidentato, prima acquitrinoso, poi secco e sabbioso, formava un leggiero pendio che risaliva dal litorale verso l’interno della regione. Alcuni animali paurosi erano stati intraveduti sotto le piante; Top li faceva levare, ma il padrone lo richiamava subito, non essendo ancor venuto il momento di inseguirli. Più tardi si vedrebbe, ma l’ingegnere non era uomo da lasciarsi distrarre dalla sua idea fissa; non avrebbe neanco errato chi avesse affermato che egli non osservava il paese, nè la sua configurazione, nè le sue produzioni naturali. Suo solo obbiettivo era quel monte su cui pretendeva d’arrampicarsi, e vi movea difilato. Alle dieci si fece una fermata di pochi minuti. All’uscir dalla foresta il sistema orografico della regione si era mostrato agli sguardi. Il monte si componeva di due coni; il primo, tronco ad un’altezza di 2500 piedi circa, era sostenuto da capricciosi contrafforti che sembravano ramificarsi come gli artigli di un’immensa zampa applicati sul suolo. Fra quei contrafforti si sprofondavano altrettante strette vallate, irte d’alberi i cui ultimi gruppi s’elevavano fino alla troncatura del primo cono. Peraltro la vegetazione sembrava essere meno ricca nella parte della montagna esposta al nord-est, e ci si vedevano profondi solchi che dovevano essere corsi di lava, [p. 99 modifica]

Sul primo cono ne riposava un secondo, lievemente arrotondato alla cima ed alquanto obliquo. Pareva un ampio cappello tondo, piegato sull’orecchia, ed era formato d’una terra nuda, qui e là trapassata da macigni rossicci.

Era alla vetta di questo secondo cono che bisognava giungere, e la costa dei contrafforti doveva offrire la miglior via per arrivarvi.

— Siamo sopra un terreno vulcanico, aveva detto Cyrus Smith, ed i suoi compagni seguendolo cominciarono ad elevarsi a poco a poco sul dorso del contrafforte che, per una linea sinuosa, e per ciò più facile, metteva al primo altipiano. Numerose erano le asperità in quel suolo cui le forze plutoniche ave vano evidentemente travagliato.

A gruppi isolati sorgevano le conifere, che alcune centinaja di piedi più sotto, in fondo alle strette gole, formavano selvette quasi impenetrabili ai raggi solari.

In questa prima parte dell’ascensione sui gradini inferiori, Harbert fece notare impronte che indicavano il passaggio recente di grossi animali, probabilmente di belve.

— Codesti animali non ci cederanno forse di buon grado il loro dominio, disse Pencroff.

— Ebbene, rispose il reporter, che avea già cacciato la tigre nelle Indie ed il leone in Africa, vedremo di sbarazzarcene, ma frattanto stiamo sull’avvisato.

Si andava su a poco a poco. La via allungata dalle giravolte e dagli ostacoli, che non potevano essere superati direttamente, era lunga; talvolta pure il terreno mancava subitamente, ed i viaggiatori si trovavano sull’orlo di profondi crepacci, di cui bisognava fare il giro. Dovendo ritornare indietro per seguire sentieri praticabili, si perdeva tempo e si faceva fatica. Al mezzodì, quando il piccolo drappello s’arrestò [p. 100 modifica]per far colazione a’ piedi d’un gruppo di abeti, presso ad un ruscelletto che se ne andava in cascatelle, si trovava ancora a metà strada del primo altipiano, a cui probabilmente non si poteva giungere che al cader della notte.

Da questo punto, l’orizzonte del mare si svolgeva più ampio; ma, a dritta, lo sguardo, arrestato dal promontorio aguzzo del sud-est, non poteva determinare se la costa si congiungesse, con una brusca giravolta, a qualche terra più lontana: a mancina il raggio visuale guadagnava qualche miglio al nord; ma nel nord-ovest, nel punto occupato dagli esploratori, era tagliato nettamente dalla cresta d’un contrafforte di bizzarre forme che formava come la poderosa palafitta del cono centrale. Non si poteva adunque presentire ancora nulla del quesito che Cyrus Smith voleva risolvere.

All’una fu ripresa l’ascensione. Bisognò camminar di sbieco verso il sud-ovest, e cacciarsi di nuovo nel fitto dei boschi, dove, sotto la vôlta degli alberi, svolazzavano molte coppie di gallinacci, della famiglia dei fagiani. Erano tragopan adorni d’un fanone carnoso che pendeva loro sotto la gola e di due cornetti cilindrici piantati dietro i loro occhi.

Fra quelle coppie, delle dimensioni d’un gallo, la femmina era uniformemente bruna, mentre il maschio risplendeva per le sue penne rosse punteggiate di bianco. Gedeone Spilett, con una sassata lanciata abilmente, ammazzò uno di quei tragopan, che Pencroff, messo in appetito dall’aria sottile, guardò con una certa bramosia.

Dopo d’aver lasciato il bosco, i viaggiatori, montando l’uno sulle spalle dell’altro, s’arrampicarono per cento piedi sopra una scarpa ripidissima, e giunsero ad un altipiano superiore poco fornito d’alberi, ed in cui il terreno pigliava aspetto vulcanico. Si trattava allora di tornare verso l’est, descrivendo gi[p. 101 modifica]ravolte che rendevano i pendii più praticabili, poichè erano allora ripidissimi, e ciascuno doveva scegliere attentamente il luogo in cui poneva il piede.

Nab ed Harbert venivano innanzi. Pencroff in coda; fra essi stavano Cyrus ed il reporter. Gli animali che frequentavano quelle alture, e non ne mancavano traccie, dovevano necessariamente appartenere a quelle razze dal piede sicuro, dalla schiena pieghevole, camosci od isardi. Se ne vide in fatti qualcuno, ma non fu già questo il nome dato loro da Pencroff, il quale, ad un certo punto, esclamò:

— Montoni!

Tutti si erano arrestati a cinquanta passi da una dozzina di animali dalle robuste corna rivolte all’in dietro, schiacciate sulla punta, dal vello lanoso, nascosto sotto lunghi peli morbidissimi di color fulvo. Non erano già montoni ordinarî, ma una specie sparsa molto nelle regioni m montagnose delle zone temperate, ed Harbert le diede il nome di mufloni.

— Hanno essi degli arrosti e delle costolette? domandò il marinajo.

— Sì, rispose Harbert.

— Ebbene, sono montoni! disse Pencroff.

Codesti animali, immobili fra i macigni, guardavano con occhio sbigottito, come se per la prima volta avessero visto bipedi umani, poi, messi d’un subito in paura, sparvero saltelloni fra le roccie.

— Arrivederci! gridò loro Pencroff con accento così comico che Cyrus Smith, Gedeone Spilett, Harbert e Nab non poterono trattenere le risa. Continuarono l’ascensione. Si potevano vedere di soventi, in certi declivi, traccie di lave striate assai capricciosamente. Piccole solfature tagliavano talvolta la via, e però si era costretti a costeggiarne gli orli. In certi punti lo zolfo aveva deposto, sotto la forma di concrezioni cristalline, in mezzo a quelle materie che di solito precedono le eruzioni di lava, pozzolane a grani ir[p. 102 modifica]regolari o molto torrefatte, ceneri biancastre, fatte d’una infinità di cristalluzzi felspatici.

Nell’avvicinarsi al primo altipiano formato dalla troncatura del cono inferiore, le difficoltà dell’ascensione furono gravi. Verso le quattro l’estrema zona degli alberi era stata superata. Più non rimanevano, qua e là, se non pochi pini smorfiosi e magri che dovevano aver la vita dura se resistevano, a tant’altezza, ai forti venti di mare.

Fortunatamente per l’ingegnere e per i suoi compagni il tempo era bello, l’atmosfera tranquilla, poichè un impetuoso vento all’altezza di tremila piedi avrebbe imbarazzato le loro evoluzioni. La purezza del cielo allo zenit si sentiva attraverso la trasparenza dell’aria. Una perfetta calma regnava intorno ad essi. Non vedevano più il sole allora nascosto dal cono superiore che mascherava mezzo l’orizzonte dell’ovest, e la cui ombra enorme, allungandosi fino al litorale, cresceva mano mano che l’astro radioso s’abbassava nella sua corsa diurna. Alcuni vapori, nebbie meglio che nuvole, cominciavano a mostrarsi all’est, e si tingevano di tutti i colori dell’iride sotto l’azione dei raggi solari.

Cinquecento piedi solamente separavano allora gli esploratori dall’altipiano a cui dovevano giungere, affine di porvi un attendamento per la notte; ma quei cinquecento piedi crebbero fin oltre due miglia, per le giravolte che bisognava descrivere. Il terreno mancava, per così dire, sotto i piedi. I pendî presentavano spesso un angolo così aperto che si scivolava sui corsi di lava quando le scanalature consumate dall’aria non offrivano un punto d’appoggio sufficiente.

Scendeva la sera a poco a poco, ed era quasi notte, quando Cyrus Smith ed i suoi compagni, stanchi di un’ascensione di quasi due ore, giunsero all’altipiano del primo cono. [p. 103 modifica]

Si trattò allora di preparare l’attendamento, di rimettersi in forze cenando prima, dormendo poi.

Questo secondo piano della montagna s’elevava sopra una base di roccie, in mezzo alle quali si trovò facilmente un ricovero. Il combustibile non era abbondante, pure si poteva ottenere del fuoco per mezzo di muschi e di cespugli secchi che facevano irte certe parti dell’altipiano. Intanto che il marinajo preparava il suo focolare sopra sassi, che dispose a questo fine, Nab ed Harbert pensarono ad approvvigionarlo di combustibile. Nè andò molto che tornarono col loro fascio di legna.

Fu battuto l’acciarino, la tela bruciata raccolse le scintille del silice, e, sotto il soffio di Nab, un allegro fuoco si svolse in pochi istanti. Quel fuoco era solo destinato a combattere la temperatura un po’ fredda della notte, e non fu adoperato a cuocere il fagiano, che Nab riserbava per il domani. Gli avanzi del cabiaj, e qualche dozzina di mandorle di pino-pinocchio, furono gli elementi della cena. Non erano ancora le sei ore e mezzo, tutto era già terminato.

Cyrus Smith ebbe allora il pensiero di esplorare nella penombra quella larga assisa circolare che sopportava il cono superiore della montagna. Prima di riposarsi voleva sapere se per quel cono si potesse fare il giro alla base, nel caso i suoi fianchi, troppo scoscesi, lo rendessero inaccessibile sino alla vetta.

Questo quesito lo inquietava, essendo possibile che dalla parte in cui si inclinava il cono, vale a dire verso il nord, l’altipiano non fosse praticabile. Ora, se non si poteva giungere alla cima della montagna da un lato, e se dall’altro non si poteva fare il giro della base del cono, diveniva impossibile esaminare la parte occidentale della regione, lo scopo dell’ascensione veniva in parte a mancare.

Laonde l’ingegnere, non tenendo conto delle proprie fatiche, lasciando Pencroff e Nab ad allestire i [p. 104 modifica]letti, e Gedeone Spilett a notare gl’incidenti del giorno, incominciò a seguire l’orlo circolare dell’alti piano, dirigendosi verso il nord. Harbert lo accompagnava.

La notte era bella e tranquilla, l’oscurità poco profonda ancora. Cyrus Smith ed il giovinetto camminavano l’uno presso all’altro senza parlare. In certi luoghi l’altipiano s’apriva largamente innanzi ad essi, onde potevano passare senza inciampi; in altri, ostruito dalle frane, offriva solo uno stretto passo, sul quale due persone non potevano camminare di fronte. Accadde anzi che dopo una camminata di venti minuti, Cyrus Smith ed Harbert dovettero arrestarsi. Quind’innanzi le scarpe dei due coni erano a livello; non v’era più spalla che separasse le due parti della montagna. Farne il giro sopra pendii inclinati a circa settanta gradi era impossibile cosa.

Ma se l’ingegnere ed il giovinetto dovettero rinunciare a seguire una direzione circolare, in compenso fu loro data la possibilità di fare direttamente l’ascensione del cono. In fatti, dinanzi ad essi s’apriva un profondo cavo nel masso. Era la bocca del cratere superiore, la canna, se così si vuole, per cui sfuggivano le materie eruttive liquide al tempo in cui il vulcano era in azione. Le lave indurite, le scorie incrostate, formavano una specie di scalinata naturale, dai gradini largamente disegnati, che dovevano facilitare l’accesso alla vetta della montagna.

Bastò un’occhiata a Cyrus Smith per riconoscere codesta disposizione, e senza esitare, seguito dal giovinetto, si cacciò nell’enorme crepaccio in mezzo alla crescente oscurità.

Rimanevano ancora ben mille piedi da superare; i declivi interni del cratere erano essi praticabili? Rimaneva a vedersi. L’ingegnere era disposto a continuare l’ascensione fino a tanto non fosse arrestato. [p. 105 modifica]

Per buona sorte quei declivi, molto allungati e sinuosissimi, descrivevano un largo passo all’interno del vulcano, e favorivano la salita. Quanto al vulcano medesimo non si poteva dubitare che fosse del tutto spento. Non isfuggiva fumo da’ suoi fianchi, nelle sue cavità profonde non si celava alcuna fiamma; non si udiva niun brontolío, non un sussulto usciva da quel pozzo oscuro che si sprofondava, forse, fino alle viscere del globo. L’atmosfera medesima, nell’interno del cratere, non era satura di alcun vapore sulfureo; era, più che il sonno d’un vulcano, la sua completa estinzione.

Il tentativo di Cyrus Smith doveva riuscire. A poco a poco Harbert ed egli risalendo sulle pareti interne, videro il cratere allargarsi sopra il loro capo. Il raggio di quella porzione circolare del cielo, incorniciata dagli orli del cono, s’accrebbe sensibilmente. Ad ogni passo, per così dire, nuove stelle entravano nel campo della visione. Splendevano le magnifiche costellazioni di quel cielo australe. Allo zenit brillavano d’un puro splendore la fulgida Antaures dello Scorpione e non lungi quella ß del Centauro, che si crede essere la stella più vicina al globo terrestre; poi, mano mano che s’allargava il cratere, apparve Fomalhaut del Pesce, il Triangolo australe, ed infine, quasi al polo antartico del mondo, quella scintillante Croce del Sud che sostituisce la Polare dell’emisfero boreale.

Erano quasi le otto, quando Cyrus Smith ed Harbert posero il piede sulla cresta superiore del monte, sulla vetta del cono.

L’oscurità era allora completa e non permetteva allo sguardo d’estendersi per un raggio di due miglia. Il mare circondava quella terra incognita, oppure la terra si congiungeva nell’ovest a qualche continente del Pacifico? Non si poteva ancora riconoscerlo. Verso l’ovest una striscia nuvolosa, nettamente disegnata all’orizzonte, cresceva le tenebre, e l’occhio mal [p. 106 modifica]sapeva discernere se il cielo e l’acqua si confondessero in una medesima linea circolare.

Ma in un punto di quell’orizzonte apparve d’un tratto una incerta luce che discendeva lentamente mano mano che la nuvola saliva allo zenit. Era la falciola della luna già presso a sparire, ma la sua luce bastò a segnare la linea orizzontale, allora staccata dalla nuvola, e l’ingegnere potè vederne l’immagine tremolante riflettersi un momento sopra una liquida su perficie.

Cyrus Smith afferrò la mano del giovinetto, e con voce grave:

“Un’isola!” disse all’istante in cui il riflesso lunare si spegneva nelle onde.