La poesia cavalleresca e scritti vari/La poesia cavalleresca/II. I romanzi cavallereschi

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II

I ROMANZI CAVALLERESCHI


Abbiamo visto nella lezione precedente come il secolo quindicesimo, in apparenza muto, inattivo, fosse una lunga preparazione, una faticosa elaborazione alla quale successe il secolo sedicesimo, secolo di creazione. Cosí l’uomo dapprima raccoglie materiali, si crede tutto ciò che legge; è passivo e riceve tutte le impressioni dal di fuori, poi si ripiega sopra quello che legge, ed acquista tutta la libertà d’impressione, insino a che a sua volta può creare anche lui.

Il secolo decimosesto non nasce come un fungo, ma è preparato da’ lunghi oscuri lavori del secolo precedente. Quello che trovate nel secolo preparatorio, troverete nel secolo creativo, solo il modo di lavorare è differente: nel primo si lavora da erudito, nel secondo da poeta, da storico.

Nel secolo decimoquinto vi sono due indirizzi: il primo che può chiamarsi classico è una tendenza degli spiriti a restituire gli antichi manoscritti, a commentarli, a professare sulla letteratura e sulla civiltá greca e latina. Il secondo è proprio della gente rozza e incolta che si appassionava pe’ romanzi spagnuoli francesi ed inglesi. Questi due indirizzi sono riprodotti o per meglio dire continuati nel secolo decimosesto. Vi sono de’ scrittori continuatori e imitatori del passato, e degli autori, se pur meritano questo titolo raffazzona tori di romanzi forestieri. Fra questi sorgono alcuni ingegni creatori, i quali s’impossessano del [p. 10 modifica]nuovo contenuto e lo sollevano a quel grado di perfezione di forma, per cui lavori di subietto non italiano solo in Italia hanno ricevuto il marchio dell’eternitá. Capo della prima classe di scrittori era un uomo d’importanza, un cardinale di Santa Chiesa, Pietro Bembo, che spese tutta la vita a diffondere i buoni studi, facendo quel che a’ tempi nostri han fatto il Puoti in Napoli, il Cesari nelle Romagne, il Giordani nell’Italia centrale. Fu il purista del suo tempo. Fermò che il primo poeta italiano fosse Petrarca, il primo prosatore Giovanni Boccaccio, il primo scrittore latino Cicerone, e petrarcheggiò nelle sue poesie italiane, boccacceggiò nelle sue prose italiane, ciceroneggiò, se lice usar la parola, nelle sue prose latine. Prese questi tre modelli e ne fece l’esemplare immobile che propose all’ammirazione ed all’imitazione degli italiani. Fra tutti gli autori di secondo ordine nessuno è stato tanto lodato a’ suoi tempi, nesssuno ha avuto tanta influenza ed una fama che durasse tanto. Se v’accadesse di togliere alle tignuole ed alla polvere uno dei suoi volumi, e aveste l’eroica pazienza di leggerlo o meglio di cominciarlo a leggere, voi esclamereste senza dubbio: è questo quel Bembo tanto famoso che fu posto accanto al Caro, all’Ariosto? Le rime sue sono l’anatomia del Petrarca: tutte le frasi, tutti i pensieri, tutte le parole del Petrarca vi sono accozzate: vi è lo scheletro senza l’animo, e’ somiglia l’imperatore romano che si credeva pari ad Alessandro perché vestiva come lui. E quando avreste trovato che questo secondo Boccaccio, che questo secondo Cicerone è un grandissimo seccatore e tanto in latino quanto in italiano, vi affrettereste a riporre il libro nella polvere.

Debbo qui, o giovanetti, tentar di guarirvi dal disprezzo, tendenza facile dell’etá vostra. Sentendo il professore biasimare un autore, spesso esagerando il suo biasimo voi affettate un sorriso superiore e parlate col disprezzo sulle labbra di un autore e delle sue opere. Vi è una doppia specie di pedanteria, la pedanteria della lode e la pedanteria del biasimo. Furono pedanti i contemporanei che esaltarono tanto il Bembo; sareste (adopero il condizionale, non è che un caso ipotetico), sareste pedanti anche voi come il Baretti, se non faceste la parte [p. 11 modifica]del lodevole. La maggior colpa del Bembo fu il non avere una giusta estimazion di sé stesso; la natura non l’aveva fatto poeta e volle scriver poesie, la natura non l’aveva fatto romanziere e volle scrivere romanzi. Andò al di là di quello che poteva. Ma merita la nostra venerazione, la nostra riconoscenza per aver spesa tutta la vita alla ristorazione de’ buoni studi. Uomo potente, ricco, fu il protettore di tutti i giovani e poveri letterati, fu il promotore di tutte le edizioni classiche.

Bembo ebbe una lunga serie di continuatori fra’ quali sono da annoverare il Varchi, lo Speroni, il Trissino. E come il regno de’ pedanti è lungo e quello del genio breve, la pedanteria del Bembo s’è andata continuando fino a’ princípi del secolo, ed anche fino a’ nostri giorni. Anche adesso in Italia sonvi molti che giurano nelle opinioni del Bembo. Nondimeno, vedete come si giudica per lo più, generalmente tutti i critici moderni che parlano del secolo XVI lo chiamano pedante, gli rinfacciano d’esser noioso, ed i suoi periodi interminabili e le sue frasi contorte. Alfieri, che aveva un ingegno umoristico e sacrificava talora una verità per fare un epigramma, volendo determinare il carattere de’ vari secoli della letteratura italiana, dice che il Cinquecento chiacchierava. Ma non debbe giudicarsi un secolo da scrittori mediocri imitatori e continuatori, ma bensí da’ grandi che si aprono nuove vie.

La seconda classe de’ scrittori del secolo decimosesto erano traduttori e raffazzonatori di romanzi forestieri: uomini che non conoscevano né il greco né il latino, che non avevano letto né DantePetrarca; che volevano far danari e trovavano ogni mezzo buono per raggiungere questo nobilissimo scopo del guadagno. I romanzi cavallereschi erano allora in voga, essi li traducevano e raffazzonavano. Se volete un esempio vivo, non avete che a guardare a tutta la pestilente frotta de’ traduttori moderni di romanzi francesi inglesi e tedeschi, che senza intelligenza di nessuna delle due lingue, frantendono, mutilano, dando cattiva idea de’ forestieri agl’italiani e degl’italiani a’ forestieri. [p. 12 modifica]

La più parte di que’ romanzi erano anonimi; pare che in quel tempo ci fosse più pudore che oggigiorno. Questi romanzi sono dimenticati: sono materia d’eruditi. Volete sapere i nomi di alcuni? La Spagna storiata, il Buovo d’Antona, la Regina Ancroja. La più parte de’ quali udrete probabilmente nominare ora per la prima volta, e son degni di non esser mai uditi nominare da voi.

Fra’ commentatori e i continuatori da una banda e i traduttori e raffazzonatori dall’altra, sorgono gli uomini superiori, i quali, addottrinatissimi nelle lingue antiche, espertissimi dell’italiana, si fecero un gran concetto dell’arte, presero la forma sul serio e non ristettero che non ebbero condotto all’ultima perfezione quel rozzo contenuto. Vi ho parlato delle due prime classi per darvi un’idea compiuta del movimento di quel secolo: è inutile che io spenda più parole intorno ad esse; il genio del secolo è negli uomini di genio. Come acquistare un concetto compiuto di questi pochi ma grandi? Racconterovvi io il contenuto delle loro opere? In Napoli, nella piazza del Molo, sogliono esservi de’ lazzaroni che spiegano agli altri lazzaroni loro fratelli le avventure di Orlando e di Rinaldo. Metterommi io qui a fare il lazzarone sul Molo? Il mio scopo dev’essere un altro: di darvi un criterio affinché siate in istato di giudicarlo e d’ispirarvi il gusto, perché possiate sentirne la bellezza e provare quel puro piacere che dicesi godimento estetico. Vi esporrò la natura del contenuto: lo sviluppo de’ diversi elementi, e la forma datagli da’ grandi scrittori italiani.

Vi erano tre generazioni di romanzi: gl’inglesi che celebravano il re Artú vissuto nel sesto secolo ed i dodici cavalieri della Tavola rotonda; i francesi che celebravano Carlomagno e i suoi dodici paladini e le sue guerre contro i Saraceni; i spagnuoli che avevano per tema Amadigi di Gaula e il suo battagliar contro i Saraceni ed i pagani. Tutti e tre penetrarono e furono volgarizzati in Italia; ma i francesi divennero ben presto popolari. E la ragione è ovvia. Carlo scese in Italia, domò i Longobardi, si fece coronare imperatore di occidente, fu non solo un eroe francese, ma anche italiano. Vi erano in Italia tradizioni vive di [p. 13 modifica]lui, anche prima che i romanzi francesi divenissero popolari. Sulla porta del Duomo di Firenze sono scolpiti Orlando e Carlomagno; sulle porte della cattedrale di Verona che rimontano al decimoprimo secolo sono effigiati Orlando ed Oliviero; anzi, prima di Dante, era stato tradotto e divulgato un libro, de’ Reali di Francia, che è una storia delle dinastie francesi che risale fino a Carlomagno. Si aggiunga la parentela tra la lingua italiana e provenzale, i commerci giornalieri, i passatempi che si davano spesso i francesi di venire in Italia disinteressatamente, come dicevano, e per distruggere questo o quel tirannotto, ma in realtà per impossessarsi di questa o quella provincia, e nessuno sarà sorpreso che entrato il gusto de’ romanzi tutti si appigliassero a’ francesi.

Vi sono alcune qualità comuni a tutti questi romanzi, vi sono alcuni fatti convenzionali, inalterabili, giacché una cronaca delle gesta di Carlomagno attribuita a Turpino era il testo amplificato e ricamato da’ romanzieri: ed i principali lineamenti ne rimasero intatti: guerra contro i Sassoni ed i Saraceni, calata in Ispagna, cacciata de’ Saraceni di Francia e di Spagna; tradimento di Ganellone, la morte di Orlando, Oliviero e ventimila cristiani sorpresi nelle gole di Roncisvalle da cinquantamila Saraceni e la vendetta che ne trasse Carlo sterminando tutti i pagani.

Ma quante vicissitudini d’episodi! Imprese di Carlo Martello attribuite a Carlomagno, costumi de’ tempi dello scrittore attribuiti a’ paladini, fatti dell’Oriente e dell’antica Roma mischiati a quelli dell’Occidente. Fu tolta la serietà storica; non vi fu più limite alla fantasia, qualità formidabile pe’ grandi ingegni, favorevole a’ mediocri. Assoluta libertà d’immaginazione ne’ fatti e ne’ caratteri. Alcuni nomi de’ personaggi rimangono in tutti i romanzi; e mutano i caratteri che sono l’essenziale di un’opera d’arte. Orlando nella cronaca di Turpino è un uomo serio, grave, esempio d’ogni virtù cristiana e cavalleresca; esemplare di castità: è vergine; ed è notato espressamente che quantunque menasse moglie non usasse mai con lei. Nel Pulci conserva ancora questo carattere: è il vero cavaliere compito. [p. 14 modifica]Il Boiardo se ne impadronisce, gli toglie le verginità, e lo trasforma in un pazzo innamorato di un Africante, e dá per titolo al suo romanzo Orlando Innamorato. Ariosto ne fa un pazzo da catena. Orlando Furioso. Folengo, ossia Merlin Coccajo, non contento di questo fa nascere da lui un piccolo Orlando ch’e’ chiama Orlandino, che è la caricatura, il Don Chisciotte del padre. Cosi vedete come si modificano questi personaggi secondo i differenti scrittori ed il cammino che fa il pensiero poetico d’un secolo e d’un popolo.

Cosi del fine che si propongono i cavalieri. Quelli di Arturo affrontano ogni periglio, si espongono ad ogni repentaglio per conquistare il Sangrall ossia la scodella su cui Cristo avea mangiato nell’ultima sua cena. Quelli di Carlomagno propongonsi uno scopo più alto più nobile od almeno più epico, l’espulsione de’ Saraceni dalla loro patria, il salvar la civiltà europea. Questi fini generali rimangono intatti.

Ma che varietà di scopi secondari ne’ cavalieri! chi pianta là Carlo per acquistare una spada, per conquistare un cavallo; chi per seguire una bella in Oriente; chi per andare in un’isola a disincantare un palazzo incantato; chi per uccidere un gigante, ché in fin de’ conti il poeta ha piena facoltà d’inventar di pianta i fatti i caratteri ed i fini.

È questa assoluta libertà una condizione favorevole alla poesia? Vi è un limite in essa? Furono questi limiti riconosciuti e rispettati?

Sarà ciò che vedremo nella prossima lezione.

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Abbiamo visto come nel romanzo cavalleresco rimangano fissi certi lineamenti generali ne’ fatti, certi caratteri, certi fini generali: ma come al disotto siavi completa libertà nell’invenzione intreccio e sviluppo de’ fatti, nella determinazione de’ caratteri e de’ fini.

Questa libertà è favorevole o dannosa all’arte? Ecco una domanda che ha la propria risposta in sé stessa. Il regno della libertà è il regno dell’arte. L’ingegno artistico non lavora nel vuoto ma su materiali che gli vengono provveduti dalla realtà [p. 15 modifica]e dalla scienza, dal reale sia della natura sia dell’uomo collettivo sia dell’uomo individuo (realtà naturale e storica); la scienza è la spiegazione del reale secondo lo stato in cui si trova l’intelligenza più o meno perfetto.

Supponete che la realtà sia tanto determinata dalla storia e dalla scienza da prendere una forma fissa, che non solo sia così compiutamente determinata ma anche la spiegazione ne sia stata ricavata, allora non trovate più materiali liberi da lavorare a vostra posta. La storia e la scienza non sono più materiali della poesia, ma limiti ma muri che le dicono; non andrai più in là. Quindi non è possibile la poesia epica se il contenuto non è poco penetrato dalla storia e dalla scienza.

Se consultiamo la storia dell’arte scorgiamo che i più grandi monumenti poetici sono stati tutti eretti quando la storia e la scienza erano ancora fanciulle. A mano a mano che queste divengono adulte il campo della poesia si restringe. Per esempio ove un poeta volesse rappresentar Giulio Cesare tutti i fatti del quale sono determinati dalla storia e sono accettati da tutti come gli hanno presentati gli storici, egli scenderà nell’interno dell’animo suo, ne rappresenterà i pensieri, le passioni. Non vi è più l’arte pura, ma una transazione con la storia; non vi è più il poema, ma il poema storico, non vi è più romanzo, ma romanzo storico, non vi è più tragedia, ma tragedia storica, finché venga un tempo in cui l’arte non sia più gustata e sparisca senza morire per risorgere sotto altre condizioni.

Applichiamo questi principi al tempo che analizziamo. Il romanzo cavalleresco è uno dei soggetti che lasciano pili libera l’immaginazione. In que’ tempi non che i fatti molto remoti ma di un secolo addietro non erano fissati. Non vi erano storie ma magre cronacacce latine che conservavano il fatto principale senza nessun particolare; questi venivano tramandati per tradizione: la materia veniva trasmessa a’ romanzieri così guasta ch’essi potevano facilmente maneggiarla a modo loro.

Non solo il romanzo cavalleresco era poetico in quanto non era penetrato dalla realtà, ma anche perché la scienza lasciava nelle tenebre tutti i fatti importanti e storici. Non potendo spiegare i fatti naturali e storici per mezzo delle leggi della natura [p. 16 modifica] e dell’umanità ricorrevano volentieri alle forze sovrannaturali e quindi ad una materia vastissima per sé succedeva un campo anche più vasto. Cosi gli antichi non sapendo rendersi ragione del sole dicevano che era un dio in un cocchio, ed anche adesso per poco che addentriate lo sguardo ne’ bassi fondi della società troverete esempli di questa propensione.

Mi ricordo che quando fu aperto il primo chemin de fer in Napoli, molti del volgo vedendo quelle carrozze camminar senza cavalli (giacché pel volgo carrozza e cavalli sono idee inseparabili), vedendo quel fumo, udendo que’ sibili conchiusero che nella locomotiva dovesse esser chiuso un demonio che tirasse tutti i vagoni. Ed i preti subito soggiunsero: dunque è opera dell’inferno.

Ebbene tale è la doppia libertà della materia romanzesca: essa è in pari tempo libera dalle determinazioni storiche e dalle scientifiche. Ma questo non basta. S’io do ad un poeta una materia intatta dalla storia e dalla scienza e gli dico: sii libero, basterà questo? Non già. Non è solo necessario che il contenuto sia libero ma che sia ancora di sua natura poetico per corrispondere al lavorio che vi debbe imprimere l’ingegno artistico. S’io vi dessi un contenuto matematico dicendovi di lavorarlo a vostra posta, voi mi rispondereste: riprenditi la libertà che vuoi darci: da una proposizione matematica possono ricavarsi numeri cifre figure ma non affetti. Non basta che il contenuto sia libero in quanto lascia illimitata la fantasia del poeta ma che sia poetico eziandio. Un contenuto non è una tabula rasa’, ha leggi, ha condizioni intrinseche; se è ribelle alla poesia invano il poeta vi si travaglierà intorno, vi si porrà coll’arco della schiena.

Prendete la società romana primitiva; il poeta può lavorare come vuole; la storia non è ancor sorta; tutto è libero; ma invano il poeta lavorerà perché gli elementi non si prestano. Vi è una società legale con leggi ferree, con consuetudini ferree e tanto più osservate quanto meno scritte; individui senza iniziativa, lo spirito loro è lo spirito di tutti. Se v’ha qualcosa di poetico è ne’ frammenti, è negli individui che si ribellano, è nella lotta [p. 17 modifica]fra l’immobile fato della legge sociale e la volontà che le contrasta e si ribella: in Coriolano, in Appio, in tutti quelli che sono mossi dall’ambizione, dall’avidità, dalla lussuria, dalla brama di ricchezze, dalla vanità, dagli onori a sconvolgere lo stato. Non è epico perché non vi si trova una società poetica, ma è drammatico; v’è materia per Ennio e per Lucano, non per Omero e per Virgilio. Dunque non basta che il contenuto sia libero ma bisogna che sia poetico; che la società sia libera e che gl’individui siano liberi.

Guardate la società cavalleresca. La libertà è una delle condizioni che la fa più poetica.

Al di sotto vi è la vile moltitudine, la plebe che se comparisce, comparisce solo perché i cavalieri mostrino la loro forza e la loro prodezza a spese delle loro teste, delle loro braccia e delle loro gambe, non esiste che per esser tagliata domata uccisa da loro.

Al di sopra pare che vi sia una gerarchia; vi è un papa, un imperatore, da cui pare che tutto debba dipendere.

Ma l’imperatore disarmato non aveva forza alcuna che pe’ principi pe’ re pe’ marchesi pe’ baroni, pe’ feudatari insomma; era una semplice comparsa da teatro che tanto valeva in quanto era obbedito.

Cos’è Carlomagno, il quale anche storicamente fu il maggior uomo de’ suoi tempi, in questi romanzi? È l’imperadore; ed infatti se si tratta d’una processione, d’una festa egli sta nel mezzo e gli altri fannogli corona. Ma se si tratta d’operare, allora questi sudditi fedelissimi si mostrano bastantemente indocili; chi lo ingiuria, chi lo schiaffeggia, chi lo pianta: non è che l’unità nominale della poesia cavalleresca intorno alla quale aggruppansi i cavalieri che ne sono il nocciolo, la sostanza.

Ne’ cavalieri vi è una doppia qualità. Hanno grandi forze e grandi passioni e la dimostrazion libera di esse. Non basta che sian liberi ma è d’uopo che abbino ancora la forza necessaria per recare in atto i loro intendimenti. Non vi è nulla più ridicolo di chi vuole e non può. Don Chisciotte non è che la rappresentazione di questo contrasto della volontà contro la limitata libertà e l’impotenza delle forze. [p. 18 modifica]

Quali erano i loro mezzi di azione? Se io ti pongo i ferri a’ piedi e ti dico: se’ libero: dirò, è vero, giacché la libertà dipende dalla mente. Ma in un poema epico bisogna che vi sia non la rappresentazione lirica della libertà, ma la rappresentazione degli effetti della libertà.

Il loro mezzo d’azione era la forza fisica; sproporzionata, esagerata, resa così straordinaria da render ragione di tutti i fatti straordinari.

Certamente la virtù, l’ingegno sono per l’uomo qualità più apprezzabili della forza fisica, e la virtù la castità l’ingegno più apprezzabili per la donna che la bellezza la grazia e la venustà. Ma la forza fisica nell’uomo e la bellezza e la venustà nella donna sono le qualità che destano principalmente l’interesse poetico. Nessun personaggio è più epico di Achille, tipo della forza fisica. In tempi più civili e spirituali, il concetto morale surroga il concetto estetico. Allora si hanno il pio Enea e il pio Goffredo, personaggi freddi e sprovvisti di sublimità. Ciò che dunque è più interessante nell’epica è nell’uomo la forza fisica, nella donna la bellezza; giacché la materia della poesia è la forma; e la forza fisica è immediatamente plastica; i sensi e l’immaginativa afferrano subito i fatti materiali, mentre l’ingegno è una forza interna e spirituale. Finché nell’estimazione dell’uomo dura prima la forza fisica, dura la poesia epica ed il regno degli eroi. Ora non solo nel romanzo cavalleresco vi è la forza fisica, ma è tanto sollevata da spiegare tutti i più maravigliosi avvenimenti. La forza è gigantesca. Il Carlo magno di Turpino che professa di scrivere una cronaca e non un romanzo avea otto piedi d’altezza, e notate, dice il cronachista, otto piedi de’ piedi suoi che erano straordinariamente lunghi; aveva la fronte larga un piede, il naso lungo un palmo, gli occhi come carbonchi ardenti, tanto che niuno poteva sostenerne lo sguardo; era tanto forte che poteva sollevare di terra sulla palma fino al livello della sua fronte un guerriero armato di ferro; egli mangiava (uomini così forti dovevano scuffiar bene) non del pane, ma un montone, o due coste di porco o due galline. Questi particolari che vi fanno sghignazzare sono narrati dal cronachista [p. 19 modifica]con la serietà di chi crede. Eppure la forza fisica ha limiti e le azioni meravigliose su cui è fondato il romanzo cavalleresco non ne hanno, rimangono sempre in disproporzione le azioni e la forza, giacché questa per quanto si supponga grande è sottoposta alle leggi del finito. Carlomagno con tutti i suoi otto piedi non poteva volare, non poteva in un giorno andar dall’Europa in Africa, o distruggere un esercito lui solo.

Quindi ricorsero a forze sconfinate, illimitate, direi quasi infinite, e procedenti non solo dagli Angeli, da’ Demonii, da Dio, che la teologia limita, ma dalla magia tanto orientale quanto occidentale con tutte le sue operazioni, parte graziose, parte orride, parte comiche.

Qual campo non si offre all’immaginazione! Società libera, uomini liberi, potenti per forza propria o soprannaturale! Eppure non vi son per anco tutte le condizioni epiche. Quali sono i motivi che dirigono questi cavalieri? Qual’è l’uso della loro libertà, l’obietto delle loro passioni? Se tutta l’energia rozza barbara de’ cavalieri fosse impiegata per raggiungere de’ fini materiali come quei che sono perseguiti da tanti uomini moderni, denari titoli posti vanità, voi trovereste in essi tanta piccolezza, tanta prosa che tutto il resto non varrebbe ad innalzarli. Ci vogliono de’ fini superiori a cui sacrifichino questi fini del volgo.

Vi ricorderò un aneddoto del Don Chisciotte che come sapete è la caricatura de’ cavalieri che ne conserva ancora tutta la parte nobile. Don Chisciotte dice a Sancio Panza che rappresenta la plebe: i cavalieri erranti o non mangiavano mai o mangiavano ben di rado, giacché non trovo mai accennato questo loro pranzare ne’ romanzi, sicché io come cavaliero e tu come scudiero dovremmo digiunare per non so quanti giorni e quante notti. Non è a dire come Sancio Panza, il quale consentiva a mille altre stravaganze quando le costole del padrone ne andavano di mezzo, protestasse in questo caso.

Questo è uno de’ tratti più notabili de’ poemi romanzeschi. I cavalieri non solo sono al disopra de’ fini ignobili e prosaici, ma sono anche sottratti a’ bisogni terreni, li sacrificavano. Non [p. 20 modifica]c’è cavaliere che parli di denaro, ma sono tutti pronti a sacrificare finanche la loro fama per fini più nobili, per principii che non erano scritti in nessun codice che non erano prescritti da nessuna legge e nondimeno erano inviolabili pe’ cristiani e pe’ pagani sotto pena di essere chiamati felloni. Questi principi costituiscono gli elementi interni della società cavalleresca; nobilitano i cavalieri; danno loro un fine generoso; assegnano uno scopo poetico e superbo a quanto fanno di basso, e sono anche un limite a questa assoluta libertà.

Questo limite è la condizione di questa poesia che rende in pari tempo poetica quella società.