La poesia cavalleresca e scritti vari/Scritti vari/III. Pagine sparse/Lorenzo Borsini. Lettera a Luigi di Larissé

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III. Pagine sparse - Lorenzo Borsini. Lettera a Luigi di Larissé

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LORENZO BORSINI

Lettera a Luigi di Larissé.


È quasi un mese, mio carissimo, che ti sono debitore di una risposta. E, mentre prendo la penna, ecco qua Lorenzo Borsini, che mi grida: — E me, dunque: dove lasci me? Ricordati il mio cantico — . Rispondiamo, dunque, a Lorenzo Borsini. Ma ecco ficcarsi per terzo un altro pensiero: — Bravo! e l’appendice? sono due settimane giá! — . Che farò? qualche altra versione dal tedesco?— Oh! oh!, mi par di sentire attorno; sempre lo stesso! il pubblico se ne è annoiato, e forse il direttore alza anch’egli le spalle. —

Smettiamo, dunque, e teniamo in serbo le altre versioni a miglior tempo. Che farò? Non puoi immaginare, mio caro, che cosa formidabile sia questo «che farò»?: spesso, perdi due o tre giorni con un «che farò» negli orecchi senza far nulla. Pensa e ripensa, finalmente mi sono appigliato a questa strana risoluzione. Voglio con una fava prender tre colombi; voglio scrivere a te di Lorenzo Borsini nel Piemonte: cosí fo due lettere ed un’appendice.

— Chi è Lorenzo Borsini? — mi chiederai tu. La storia è curiosa. Immaginati, mio caro, il tuo amico con venti anni di meno in sulle spalle, un tisicuzzo, giallognolo, smilzo, allampanato, con certi occhi spaventati, con certe braccia penzoloni da non sapermene che fare, diritto e tutto di un pezzo.

Allora io era qualche cosa di mezzo tra lo scolaro e il maestro: andava a scuola da Basilio Puoti, e faceva giá le mie [p. 276 modifica]lezioncine per campare la vita: fin d’allora io era giá in uggia alla Fortuna, che poi me ne ha fatte delle grosse: veramente, io non ho saputo mai cattivarmela. Il marchese Puoti aveva raccolte tutte le sue passioni in una, educare la gioventú alla buona lingua. E dico passione, perché aveva posto quivi l’unico scopo di sua vita, e di quivi procedevano le sue ire, le sue predilezioni, i suoi giudizi e pregiudizi. Guai, se ti veniva detto qualche gallicismo in sua presenza: un anno di studi ostinati nel dizionario e nella grammatica non valeva a farti evitare la tempesta.

L’avea molto co’ notari e gli avvocati, né ci era lezione che non ne toccassero delle buone: li chiamava carnefici della lingua. Ma co’ giornalisti sentiva una stizza, che mai la maggiore. Era giá qualche tempo, che il Governo tollerava i giornali letterari, sotto la paterna vigilanza della polizia. Quale tentazione pe’ giovani, che potevano mandare a papá o allo zio il loro nome stampato! Era una fede di grande uomo! — Ha stampato, — si diceva ne’ paesi, e tutto era detto. Acquistavano facilitá di scrivere, ma a scapito della purezza: «inde irae». Il marchese avea proibito, solennemente, a’ suoi giovani di scrivere nei giornali. Ogni di rabbuffi a’ giornalisti; e costoro, che non sono la gente piú mansueta del mondo, a frizzare, a mordere, a bandirgli la croce.

Un giorno, viene a me un giovane, e con un’aria tra il trepido ed il misterioso mi dá a leggere un lavoro. Era un insipido racconto, tirato giú come Dio vel dica. Mi pregava volessi aiutarlo de’ miei consigli, perché, ed abbassava la voce, come se il marchese stesse li a sentirlo, perché un amico di un suo amico gli aveva promesso di farlo stampare in un giornale. Impallidii, ed egli impallidí del mio impallidire: — E se lo sapesse il marchese? — dicevano i nostri volti. Pure, dálli e dálli, mi lasciai persuadere, e ci chiudemmo in camera, agitati come due malfattori. Quel lavoro usci di sotto le nostre due penne un miracolo di pendanteria, con certi periodoni alla Cinquecento, con certe anticaglie alla Trecento, una infilzata di frasi stiracchiate in certi giri affannosi, cucite con certi [p. 277 modifica]«conciossiaché» da far paura: ne parve un capolavoro. Come ci batteva il cuore a tutti e due! Con che impazienza aspettavamo il gran di! E venne, finalmente: il mio amico fu per venirne matto. Non poteva staccar gli occhi dal suo lavoro messo in istampa; lo compitava, lo vagheggiava lettera per lettera; non gli era parso mai cosí bello, e gli pareva che la fama dovesse portarlo in tutti e quattro i canti d’Europa. Qualche volta ci ripetevamo costernati: — E se lo sapesse il marchese? — . Piú spesso dicevamo: — Che ne diranno i giornali? — . Aspettavamo lodi, applausi, conforti... crudele fortuna! Il di appresso, ecco un villano articolo, che ti gitta nella polvere il tanto sudato lavoro. Diceva a un di presso cosí: «L’autore dee essere un purista, della scuola del marchese Puoti; ha stemperato in un diluvio di frasi vuote e sonore ciò che andava detto in appena due periodi». E facendosi di giudice maestro, riduceva in effetti in meno che mezza pagina tre pagine di racconto, con molta naturalezza e con piú spirito. Ohimè! Ohimè! Addio, sogni di gloria! il mio amico furibondo gittò l’occhio in piè della pagina e lesse sottoscritto: Lorenzo Borsini. Infame Borsini! Scellerato Borsini! quante bestemmie, quante imprecazioni contro l’odiato nome! Tu avevi distrutto, inconsapevole Lorenzo, cento sogni dorati. Non te la perdonò piú; ti giurò un odio eterno; avrebbe voluto... non trovava un supplizio bastante, stava nell’attitudine tragica del quos ego... La sera andammo alla lezione, pensa con qual cuore: — Che dirá il marchese? — . Avevamo la faccia di due condannati. Entrando ci pareva che tutti gli occhi fossero sopra di noi, che gli occhi del marchese gettassero fiamme; ciascuna volta che apriva la bocca, ci sembrava che pronunziasse la nostra sentenza. Ci eravamo rassicurati alquanto, allorché il marchese esce in una delle sue contro i giornalisti, e ciascuno a dire la sua. Tremavamo come foglie. Ed eccoti uno stordito entrare in iscena e raccontare l’orribile caso. Fu uno scompiglio, una tempesta di esclamazioni, di proteste, un guardarsi in viso. — Chi è stato? — Chi è? — Ti pare? — Io per me... — Ne’ giornali io? — Io ne’ giornali? — Ciascuno se ne lavava le mani, anche noi, ben inteso; [p. 278 modifica]ma che batticuore! quanti colori sul volto! La cosa fini, quando piacque a Dio, con una doppia ammonizione del marchese, che non bisogna scrivere ne’ giornali, e che non si dice «giornali», ma «efemeridi».

Ecco, mio caro Luigi, quali curiose rimembranze mi ha ridestato un cantico di Lorenzo Borsini, capitatomi pochi giorni fa, dal Cairo. Lo sapevo scrittore faceto, pieno di spirito e di brio; me l’immaginavo armato di un riso sardonico, con un ghigno da Mefistofele, l’indice teso verso di me, ripetendo con una cera denunziatrice: — L’autore è un purista, uno scolaro del marchese Puoti — . Ma ohimè! «quantum mutatus ab illo!». O, per dir meglio, quanto siamo tutti mutati! Mi par quasi di esser morto e rinato con altre condizioni di vita, con altri destini. Chi ce l’avrebbe detto? Quel povero mio amico si trova con ventiquattro anni di ferri in sulle spalle, Lorenzo Borsini nel Cairo, ed io a Torino. Vi è qualche cosa di funebre in quel passato, non potendo riposare la mente che sopra rovine. Dov’è piú il marchese Puoti? e tanto fiore di gioventú? e tante speranze? e tanti sogni? E i nostri cari? Altri uccisi, altri in prigione, altri raminghi, altri rimpiattati in qualche paesucolo per obliare ed essere obliati! Quando io ho letto: «Adele Chini, nata di Lorenzo Borsini, mori di colera in Cairo, e sciolse all’urna un cantico l’inconsolabile padre suo»; io mi son domandato attonito: — È ben lui? La sventura, dunque, ha potuto agghiacciare il riso di Lorenzo Borsini? La natura sembrava averlo privilegiato di un’anima serena; pareva nato a ridere ed a far ridere. E la Fortuna ha avvelenato il dono della natura: «la sua cetra è rivolta in pianto, ed in voce di dolore la sua lira» — . Povero Lorenzo! Ti ho letto un pezzo incredulo: — Sta a vedere, diceva, che gli scapperá qualche facezia, e si rivelerá l’uomo antico — . Oh tu sei ben mutato; tu piangi, tu invochi la morte! Tu dei ben sospirare, come io, quei tempi felici, quell’avvenire ancora intero, quella giovinezza cosí speranzosa, quando era, per me, il piú grande infortunio che lo sapesse il marchese. Noi non sapevamo, ancora, che cosa fosse infortunio!

T’invio, mio carissimo, questo cantico, e se hai talora riso, [p. 279 modifica]leggendo qualche scritto faceto di Lorenzo Borsini, puoi, ora, misurare la grandezza di un dolore, che ha avuto virtú di trasformarlo in un poeta elegiaco. È un’elegia, che su di me ha fatto una grande impressione; poiché io l’ho congiunta con tante memorie, con tanti particolari. Non sará il medesimo di te e degli altri, ne son certo; perché la poesia non desta in voi quelle stesse idee, che in me o nel padre. Onde avviene che certi versi fanno piangere me, che lasciano freddo altri, o perché io mi trovi in una certa disposizione d’animo tutta propria, o perché mi destino certe memorie malinconiche. In alcuni punti non è difficile indovinare che il padre ha scritto piangendo: ciascuna parola doveva suscitare in lui tutta una vita spezzata per sempre. Questo gli ha dovuto fare illusione: ma ciò che basta a lui, non basta al lettore. Non ha saputo egli alzarsi sopra il suo dolore, come fa stupendamente il Leopardi, e contemplare il suo argomento con artistica serenitá. Quella stanza, quel volto, quelle persone, quei ragionamenti, tutti gli accidenti del tristo caso, sono da lui riprodotti tal quale, in versi: la sua poesia è una copia, non una creazione.

Chi è Adele Chini? Costei ben vive nel cuore del padre, ma è morta nella fantasia del poeta. Oh le giovanette del Byron e del Leopardi! Abbiamo innanzi un essere astratto con qualitá astratte. Al poeta non basta dire che una donna sia bella, leggiadra, virtuosa; epiteti generali, che non lasciano alcuna orma nella fantasia. Dee mostrarmela in azione, nell’atto di vivere; la qualitá deve divenire parola, fatto, sentimento. Questo lavoro d’individuazione, in che è tutta la poesia, è, qui, assai fiacco. Eccone un esempio:

     Godea perché contenta e a un tempo stesso
Soffria, temendo che tanto gioire
Troncassesi per lei; ma poi che seppe
Sé feconda, stimandosi beata
Nella speranza di futura prole.
Credè colmo veder di gioia il nappo,
E col diletto... anco il terror s’accrebbe!
Fatai presentimento, che può meglio
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Mostrar d’ogni lezion, che in questa bassa
Terra non vi è felicitá per l’uomo.
Finché la cerca in le create cose!

Vedi un osservatore, uno storico, un moralista, non un poeta; vi è l’analisi di un carattere, non la sua rappresentazione. Ella dee operare, dee mostrare in atto questo diletto misto a terrore, sicché noi possiamo cogliere il sentimento nel concreto, com’è nella vita, e non in una forma generale. Udite Stolberg;

     Ti ricordi: una volta
Colsi due fiori, due giovani fiori,
E lá dove piú limpida s’increspa
L’acqua del rio, io li gettai. L’un d’essi
Disparve giú, l’altro rimase presso
Alla sponda del rio. Tu mi guardasti;
E ne’ gonfi e velati occhi ti vidi
Tremolare una lacrima. T’intesi,
E lo stesso pensier mi strinse il core:
Forse, il destino un giorno
Noi pur dividerá, come quei fiori.
Cosi spesso al piacer misto è il dolore,
E accanto al mirto germoglia il cipresso!

Vi è, a un dipresso, lo stesso pensiero; ma qui individuato, vivente. L’osservatore può trarne, per conseguenza, che le gioie dell’amicizia erano, in quei due, turbate dal sinistro presentimento della loro separazione. Nel cantico del Borsini si trovano le osservazioni, ci manca la rappresentazione: togli il verso, e ciò ch’egli dice è discorso o narrazione, non fantasia di poeta.

Il medesimo parmi del sentimento. Egli ragiona ed analizza quello che sente, e spesso si sforza di dimostrare che è «ragionevole» ch’egli senta a questo o a quel modo, per queste e quelle ragioni: sono discorsi morali e religiosi su’ propri sentimenti. Sta per abbandonarsi alla disperazione:

E disperò... ma valida
Sorse una man dal cielo,
Che in piú spirabil aere
Pietosa il trasportò.
[p. 281 modifica]Manzoni ti porge innanzi le immagini serene di un mondo celeste. Borsini ti fa un articolo di catechismo sul dovere di por freno a’ nostri affetti.

Questo difetto nell’immagine e nel sentimento, si può vedere, ad esempio, ne’ seguenti versi:

     Adele mia, non mai da me disgiunta
Che i brevi di dal ricevuto anello
Non schifò mai di comparir seguace
Di Cristo e professare il suo divino
Vangelo ed ubbidire a Chiesa Santa.
Ella di vivo spirito fornita
Giungeva in raro nodo al brio nativo
Semplicitá della colomba, e seppe
Serbar sé pia, né ad altri esser gravosa.
In mente, quindi, non mi cadde ch’essa.
Del periglio avvertita, avrebbe a sdegno
Morir qual visse, o che l’indurla ad atti
Che le fur sempre familiari, pena
Costar dovesse mai; non era il senso
Religioso d’incertezze sorgente,
Era l’orror d’inopinata morte;
Era il vederla in un balen, dal fiore
Di gioventú, di vita e di salute,
Da’ casti amplessi di riamato sposo.
Dalla pace domestica divelta
A forza e per lo crin da ferrea mano
Trascinata alla tomba e d’un sol urto
Precipitatavi dentro. Ecco la fonte
Delle angosce e de’ palpiti nel mio
Animo derelitto...

Vedi da una parte le qualitá religiose di Adele numerate astrattamente, quasi una serie di cifre, e dall’altra una prosaica spiegazione del suo rammarico. E se a questo aggiungi, che la naturalezza dello stile, qualitá principalmente vagheggiata dall’autore, non di rado, diventa volgaritá negligente, ti accorgerai perché questa poesia ti lascia freddo, salvo in certi punti felici. [p. 282 modifica]nei quali il contrasto tra la passata felicita e la miseria presente è rappresentato non senza vivacitá.

Ti parrá, mio ottimo Luigi, ch’io abbia giudicata severamente questa poesia. Ma tu, che mi conosci da presso, sai bene che è questa la piú nobile testimonianza di stima che io possa dare ad un uomo. Ho parlato di un lavoro serio, seriamente; ne ho parlato come farei di una cosa del Leopardi o del Manzoni: il Borsini non mi pare atto a questa specie di lavori. E poiché io sento cosí, dico cosí, non essendo uso a questa codarda ipocrisia sociale, con la quale noi dissimuliamo di continuo i nostri sentimenti per accattivarci le persone. Il Borsini è uomo schietto e di spirito, degno ch’io gli parli a questo modo; e spero che non vorrá disdegnare l’amicizia di un uomo leale, ch’io gli offro di tutto cuore.

E a te, mio carissimo, quante cose vorrei, dovrei dire! Ti attendo con impazienza, non senza una segreta speranza di poterti dire, abbracciandoti: — Sei venuto troppo presto! ed io sciocco, che ti aveva scritto una lettera nel Piemonte! una lettera stampata, quando tu sei giá tra noi! — . Non importa; ella sará pubblica testimonianza del bene che ti voglio.