Le Grazie (1856)/Inno secondo

Da Wikisource.
../Inno primo

../Inno terzo IncludiIntestazione 14 febbraio 2024 75% Da definire

Inno primo Inno terzo
[p. 230 modifica]

INNO SECONDO.


VESTA.1


I.
Tre vaghissime Donne, a cui le trecce
Infiora di felici itale rose
Giovinezza, e per cui splende più bello
Sul lor sembiante il giorno, all’ara vostra
5Sacerdotesse, o care Grazie, io guido.2
      Qui, e voi che Marte non rapì alle madri,
Correte, e voi che muti impallidite3

[p. 231 modifica]

Ne’ penetrali della Dea pensosa,
Giovinetti d’Esperia: era più lieta
10Urania un dì, quando le Grazie a lei
Il gran peplo fregiavano.4 Con elle
Qui Galileo5 sedeva a spiar l’astro
Della loro regina; e il disviava
Col notturno romor l’acqua remota,
15Che sotto a’ pioppi delle rive d’Arno
Furtiva e argentea gli volava al guardo.
Qui a lui l’Alba, la Luna e il Sol mostrava,
Gareggiando di tinte, or le severe
Nuvole sull’azzurra alpe sedenti,
20Ora il piano che sfugge alle tirrene
Nereidi, immensa di città e di selve
Scena, e di templi e d’arator beati;
Or cento colli, onde Appennin corona
D’ulivi e d’antri e di marmoree ville
25L’elegante città,6 dove con Flora
Le Grazie han serti e amabile idïoma.7
     Date principio, o giovinetti, al rito,
E da’ festoni della sacra soglia
Dilungate i profani.8 Ite, insolenti
30Genj d’Amore, e voi, livida turba

[p. 232 modifica]

Di Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete.
Qui ne oscena malía, nè plauso infido
Può, nè dardo attoscato: oltre quest’ara,
Cari al vulgo e a’ tiranni, ite, profani.
35Sacra tutela son le Grazie al core
Delle ingenue fanciulle. Uscite or voi
Da’ boschetti di mirto ove solinghe
Amor v’insidia, o donzellette, uscite:
Gioja promette e manda pianto Amore.
40Qui sull’ara le perle e le colombe
Deponete, e tre calici spumanti
Di latte inghirlandato; e, fin che il rito
V’appelli al canto, tacite sedete:
Sacro coro è il silenzio; e vi fa belle
45Più del sorriso. E tu che ardisci in terra
Vestir d’eterna giovinezza il marmo,
Or l’armonia della bellezza e il vivo
Spirar de’ vezzi nelle tre Ministre,
Che all’arpa, ai balli ed all’offerta io chiamo,
50Vedrai qui meco; e tu potrai lasciarle.
Immortali fra noi, pria che all’Eliso
Sull’ali occulte fuggano degli anni.
L’una disveli a noi come a beata
Molle armonia temprate, o Dee, gli affetti
55De’ mortali e i pensier: l’altra, danzando,
Scorrer quell’armonia faccia da tutto
Il suo bel corpo; e un guardo, un atto, un vezzo
Mandino agli occhi venustà improvvisa:
Rechi la terza il mèle, onde, per voi,
60A modestia, la Musa, a dolci studi
E a belle imprese persuade il mondo.9

[p. 233 modifica]

     Leggiadramente d’un ornato ostello,
Che a lei, d’Arno futura abitatrice,
I pennelli posando, edificava
65Il bel fabro d’Urbino, esce la prima
Vaga mortale, e siede all’ara;10 e il bisso
Liberale acconsente ogni contorno
Di sue forme eleganti; e fra il candore,
Delle dita s’avvivano le rose,
70Mentre accanto al suo petto agita l’arpa.
Scoppian dall’inquïete aeree fila,11
Quasi raggi di sol rotti dal nembo,
Gioja insieme e pietà; poi che sonanti
Rimembran come il ciel l’uomo concesse
75Al diletto e agli affanni,12 onde gli sia
Librato e vario di sua vita il volo;
E come alla virtù guidi il dolore,13
E il sorriso e il sospiro errin sul labbro
Delle Grazie; e a chi son fauste e presenti,
80Dolce in core ei s’allegri, e dolce gema.
     Pari un concento, se pur vera è fama,
Un di Aspasia14 tessea lungo l’Ilisso,
Di queste Dive allor sacerdotessa;
E intento al suono Socrate libava,
85Sorridente, a quell’ara; e col pensiero
Quasi a’ sereni dell’Olimpo alzossi.

[p. 234 modifica]

Quinci il veglio mirò volgersi obliqua,
Affettando or la via su per le nubi,
Or ne’ gorghi letéi precipitarsi
90Di Fortuna la rapida quadriga,
Da’ viventi inseguita; e quel pietoso
Gridò invano dall’alto: a cieco duce
Siete seguaci, o miseri! e vi scorge
Dove in bando è pietà, dove il Tonante
95Più adirate le folgori abbandona
Sulla timida terra; ove le mèssi
Calpestano gli alipedi di Marte.
Ardon l’Erinni di lor man le antique
Selve e le moli, opra de’ regi. L’ombre
100Magnanime d’Eroi fremon confuse
Fra lunga schiera di garzoni estinti
Fuor degli occhi paterni:15 il piè alla proda
Movono d’Acheronte, e gli occhi, errando,
Cercan fra le tenébre il solar raggio
105Anzi tempo smarrito. O nati al pianto
E alla fatica, se virtù v’è guida,
Dalla fonte del duol sorge il conforto.
     Ah! ma nemico è un altro Dio, di pace,
Più che Fortuna, e gli innocenti assale.
110Ve’ come l’arpa di costei ne geme!
Geme che a tante verginette il seno
Sfiori, e di pianto, in mezzo alle carole,
Le lor pupille invidïoso inondi.
per sè gode frattanto ella, che Amore,
115Per sè, l’altera giovine, non teme.
Ben l’ode, e sull’ardenti ale s’affretta
Alle vendette il Dio; ma a quelle note
Tosto l’arco terribile gli cade.
E i montanini Zefiri fuggiaschi,

[p. 235 modifica]

120Docili al suono, aleggiano più ratti
Dalle linfe di Fiesole e da’cedri
A rallegrare le giunchiglie, ond’ella
Oggi, o Grazie, per voi l’arpa inghirlanda,
E a voi quest’Inno mio guida più caro.
      125Già del piè, delle dita e dell’errante
Estro, e degli occhi vigili alle corde,
Ispirata, sollecita le note,
Che pinger san come Armonia diè moto
Agli astri, all’onda eterea e alla natante
130Terra per l’oceàno; e come franse
L’uniforme creato in mille volti
Co’ raggi e l’ombre, e il ricongiunse in uno:
E i suoni all’aere, e diè i colori al sole,
E l’alterno continuo tenore
135Alla Fortuna agitatrice e al Tempo;
Si che le cose dissonanti insieme
Rendan concento d’armonia divina,
E inalzino le menti oltre la terra.
Così quando più gajo Euro provóca
140Sull’alba il queto Lario, e a quel susurro
Canta il nocchiero, allegransi i propinqui
Liuti, e molle il flauto si duole
D’innamorati giovani è di ninfe
Sulle gondole erranti;16 e dalle sponde
145Risponde il pastorel colla sua piva:
Per entro i monti rintronano i corni

[p. 236 modifica]

Terror del cavriuol, mentre in cadenza
Di Lecco il maglio domator del bronzo
Tuona dagli antri ardenti:17 stupefatto
150Pende18 le reti il pescatore, ed ode.
Tal dell’arpa diffuso erra il concento
Per la nostra convalle; e mentre posa
La sonatrice, ancora odono i colli.
     Or le recate, o vergini, i canestri
155E le rose e gli allori a cui materne
Nell’ombrifero Pitti19 irrigatrici
Fur le Najadi etrusche, a far più vago
Il giovin seno alle mortali etrusche,
Emule d’avvenenza e di ghirlande;
160Soave affanno al pellegrin che inoltra
Improvviso ne’ lucidi teatri,
E quella intenta voluttà del canto,
Ed errare un desio dolce d’amore
Mira ne’ volti femminili; e l’aura
165Pregna di fiori gli confonde il cuore.
Recate insieme, o vergini, le conche
Dell’alabastro, provvido di fresca
Linfa e di vita, ahi breve! a’ giovinetti
Gelsomini, e alla mammola, dogliosa
170Di non morir sul seno alla fuggiasca
Ninfa di Pratolino,20 o sospirata
Dal solitario venticel notturno.
Date il rustico giglio; ei, se men alte
Ha le forme fraterne,21 il manto veste

[p. 237 modifica]

175Aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie
Di Bellosguardo, che all’amante suo
Coglie Pomona;22 e a’ garofani alteri
Della prole diversa e delle pompe;
E a’ fiori, che dagli orti dell’Aurora
180Novella preda a’ nostri liti addussero
Vittorïosi i Zefiri sull’ale,
E or, fra’ cedri al suo talamo imminenti,
D’ospite amore e di tepori industri
Questa gentil sacerdotessa edùca.
185Spiran soavi, e armonïosi agli occhi,
Come all’orecchie il suon, splendono i serti
Che di tanti color tesse e d’odori:23
Ma il fior che altero del suo nome han fatto
Dodici Dei ne sceglie, e il dona all’ara
190Pur sorridendo, e in cor tacita, prega.24
Con lei pregate, o donzellette, e meco
Voi, garzoni, miratela. Il secreto
Sospiro, il riso del suo labbro, il dolce
Foco esultante nelle sue pupille,
195Faccianvi accorti di che preghi, e come
L’ascoltino le Dive. Or forse impetra
Che di loro l’amabile consiglio
Per lei s’adempia. I pregi che dal cielo,
Per pietà della terra, han le divine
200Vergini caste, non a voi li danno;
Li danno a’ vati, e artefici eleganti,
Ed a qual più gentil donna le imita.
A lei correte, e di soavi affetti

[p. 238 modifica]

205Spiratrici e d’imagini leggiadre
Sentirete le Dee; — ma vi rimembri
Che inverecondo le spaventa Amore!
II.
Torna, deh! torna al suon, donna, dell’arpa;
Mira la tua bella compagna; e viene
210Seconda al rito, a circondar l’altare
Di liete danze, ed a guidar le ninfe.
Pur l’insubre città, cui tanta valle
Le Najadi fan pingue, e cui feconde,
Di mille pioppe aeree al susurro,
215Le mandre ombrano i campi, or la richiama
Fra lo splendor de’ suoi balli notturni,
E alle cene ospitali, e in mezzo agli orti
Freschi di frondi e intorno aurei di cocchi,
Lungo i rivi d’Olona.25 E già tornava
220Questa gentile al suo molle paese,
Chè al Tebro, all’Arno, ov’è più sacra Italia,
(Così imminente omai freme Bellona!26)
Non un’ara trovò, dove alle Grazie
Rendere il voto d’una regia sposa.
225Ma udi ’l canto, udì l’arpa; e vêr noi move
Agile come in cielo Ebe succinta.27
Sostien del braccio un giovinetto cigno,28
E togliesi di fronte una catena
Vaga di perle a cingerne l’augello.
230Quei lento, al collo suo del flessuoso
Collo s’attorce, chè di lei contempla
Neri sulle sue lattee piume i crini

[p. 239 modifica]

Scorrer diffusi; e più lieto la mira,
Mentr’ella scioglie a questi detti il labbro:
235Grata agli Dei del reduce marito
Da’ fiumi algenti ov’hanno patria i cigni,29
Alle virginee Deità consacra
L’alta Regina mia candido un cigno.30
     Accogliete, o garzoni, e sulle chiare
240Acque vaganti intorno all’ara e al bosco
Deponete l’augello, e sia del nostro
Fonte signore; e i suoi atti venusti
Gli rendan l’onde e il suo candore, e goda
Di sè, quasi dicendo a chi lo mira:
245Simbol son io della beltà! Sfrondate
Ilari carolando, o verginette,
Il mirteto e i rosai lungo i meandri
Del ruscello: versate sul ruscello,
Versateli; e al fuggente nuotatore,
250Che veleggia con pure ali di neve,
Fate inciampi di fiori; e qual più ameno
Fiore a voi sceglia col puniceo rostro,
Vel ponete nel seno. A quanti alati
Godon l’erbe del par, l’aere ed i laghi
255Amabil sire è il cigno; e coll’impero
Modesto delle grazie i suoi vassalli
Regge, ed agli altri volator sorride,
E lieto la superba aquila ammira.31
Sovra l’omero suo guizzan securi
260Gli argentei pesci, ed ospite leale32
Il vagheggiano s’ei visita all’alba

[p. 240 modifica]

Le lor ime correnti, desïoso
Di più freschi lavacri, onde rifulga
Sovra le piume sue nitido il Sole.
265Fioritelo di gigli. Al vago rito
Donna l’invia, che nella villa amena
De’ tigli (amabil pianta, e a’ molli orezzi
Propizia, e al santo coniugale amore)33
Nudrialo afflitta; e a lei dal pelaghetto
270Grato accorrea, agitandole l’acque
Sotto i lauri tranquille.34 — O nuova speme
Della mia Patria, e di tre nuove Grazie
Madre, e del popol tuo; bella fra tutte
Figlie di regi, e agl’Immortali amica!35
275Tutto il cielo t’udia quando al marito
Guerreggiante a impedir l’Elba ai nemici
Pregavi lenta l’invisibil Parca
Che accompagna gli Eroi, vaticinando
L’inno funereo, e l’alto avello, e l’armi
280Più terse, e giunti alla quadriga i bianchi
Destrieri eterni a correre l’Eliso.36
Tutto il cielo t’udia quando tendesti
Le rosee braccia, e de’ tuoi figli al padre
Men crude le funeste ire pregavi

[p. 241 modifica]

285Di Borea, e il gel che pel solingo cielo
Dal carro l’imminente Orsa rovescia
Sulla scitica terra, orrida d’alte
Nevi e sangue ed armate ombre insepolte.
Solo frattanto il giovinetto Eroe
290La barbarica tenne onda di Marte.37
Così, quando Bellona entro le navi
Addensava gli Achei, vide sul vallo
Fra un turbine di dardi Aiace solo
Fumar di sangue; e ove dirùto il muro
295Dava più varco a’ Teucri, ivi a traverso
Piantarsi; e al suon de’ brandi onde intronato
Avea l’elmo e lo scudo, i vincitori
Impaurir col grido, e rincalzarli:
Fra le dardanie faci arso e splendente
300Scagliar rotta la spada, e trarsi l’elmo,
E fulminare immobile col guardo
Ettore che perplesso ivi si tenne.38
Sdegnan chi a’ fasti di Fortuna applaude
Le Dive mie, e sol fan bello il lauro
305Quando sventura ne corona i prenci.39
     Ma più alle Dive mie piace quel canto,
Che d’egregia beltà l’alma e le forme
Colla pittrice melodia ravviva.40
Nė invan per l’altre età, se l’idïoma
310D’Italia correrà puro a’ nepoti,
(È vostro, e voi, deh! lo serbate, o Grazie)
Tento ritrar ne’versi miei la sacra

[p. 242 modifica]

Danzatrice, men bella allor che siede,
Men di te bella, o gentil suonatrice,
315Men amabil di te quando favelli,
O nudrice dell’api; ma se danza,41
Vedila! tutta l’armonia del suono
Scorre dal suo bel corpo, e dal sorriso
Della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo
320Mandano agli occhi venustà improvvisa
Che diffondon le Grazie. Io la discerno
Per mille aspetti mille volte bella;42
Pur chi pinger la può? Mentre a ritrarla
Pongo industre lo sguardo, ecco m’elude,
325E la carola che lenta disegna
Alterna rapidissima, e s’invola
Sorvolando su’ fiori; appena veggo
Il vel fuggente biancheggiar fra’ mirti,
Quasi nembo che un Nume avvolge e fura.
330Agitate da’ Zeffiri, le vostre
Chiome, o Grazie, cosi mutano anella,
E mostran varj ognor biondeggiamenti,
Si che a senso mortal ne sfugge il vero.
E non già la febea fulgida lampa,
335Non la face che ad Espero la Sera
Inghirlanda di rose, e non il lume
Che Cinzia versa placido dal carro
Di madreperla; ma di Vesta il foco,
Di si gentil varietà le trecce
340Di queste Dee colora: a me l’Olimpo
Ne invia la fama, ed io la narro al mondo.43
Solinga nell’altissimo de’ cieli,
Inaccessa agli Dei, splende una fiamma

[p. 243 modifica]

Per proprio fato eterna; e n’è custode
345La veneranda Deità di Vesta.
Vi s’appressa, e deriva indi una pura
Luce che, mista allo splendor del Sole,
Tinge gli aerei campi di zaffiro,
E i mari allor che ondeggiano al tranquillo
350Spirto del vento, facili a’ nocchieri;
E di chiaror dolcissimo consola
Con quel lume le notti; e a qual più s’apre
Modesto fiore a decorar la terra
Molte tinte comparte, invidiate
355Dalla rosa superba. Anco talora
Di quel candido foco una scintilla
Spira la Dea nell’anime gentili,
Che, recando con sè parte di cielo,
Sotto spoglia mortal scendon fra noi.
360Di quel candido foco ardono i petti,
Pronti al perdono, al beneficio, e pronti
A consolare i miseri col pianto.
Pria ne’ Greci spirolla; e da quel giorno,
Dolce un incanto si sentian nell’alma,
365Lucido in mente ogni pensiero; e tutto
Ch’udian essi e vedean, vago e diverso
Li dilettava: ad imitarlo industri
Prendeano a prova, e divenia più bello.
Quando l’Ore e le Grazie di soavi
370Lumi, passando, coloriano i campi,
E gli augelletti le seguiano, e lieto
Facean tenore al gemere del rio
E de’ boschetti al fremito, il mortale
Emulò que’ colori; e mentre Marte
375Fra l’armi, o l’agitò Nereo fra’ nembi,
Mirò ’l fonte e i boschetti, udi gli augelli,
E si beò della pace de’ campi.44

[p. 244 modifica]

Allor fu bella la fatica; e l’Arte
Diede eleganza alla materia; e il bronzo,
380Quasi foglia pieghevole d’acanto,
Ghirlandò le colonne; e ornato e legge
Ebber travi e macigni, obbedienti
Al voler delle Dee. - Ma più felice
Tu che primiero la tua donna in marmo
385Effigiasti! Amor da prima in cuore
T’infiammo del disio che disvelata
Volea bellezza, e profanata agli occhi
De’ mortali: ma a te venner le Grazie;
E tal diffusero, al tuo fianco assise,
390Avvenenza in quel volto, e leggiadria
Su quelle forme; e al lor divin concento
Si gentili spirarono gli affetti
Della giovine nuda, che l’amica
Tu ritraesti e Venere in quel marmo. —
395E quando sparve la celeste fiamma
Che la Diva recato avea sul Tebro,
Canta la Fama che le Grazie un giorno
Vider l’Onore andar fuggiasco, in veste ’
Di dolente eremita, e sovra l’urne
400Muto prostrarsi degli antiqui Eroi;
E seco starsi, in abito d’errante
Pellegrino, la sacra e da’ mortali
Mal conosciuta Libertà.45 Pietose
Le tre sorelle addussero per mano
405Il Pellegrino e il tacito Eremita
Ne’ queti orti de’ Vati, e nell’umile
Tetto, ove, ignoti a’ re, lieti i Scultori
Veston d’eterna giovinezza il marmo;
Dove i Pittori col divin sorriso
410De’ color vari irraggiano le menti
Ottenebrate. - A noi dolce è il dolore
E la fatica, onde affrettar gl’ingegni

[p. 245 modifica]

A eternarsi co’ Numi. A inerte e mesta
Vecchiezza, e detestata anco alle Grazie,
415Devote sono, o a prematura morte
Le umane vite: unico vive eterno
L’ingegno, e spande in terra aure celesti.
E l’ingegno, d’origine celeste,
Non fortuna o favor levan da terra,
420Ma il proprio igneo vigore. E l’aureo Sole,
Quando sormonta il clivo arduo dell’erta
Eoa, la lena a’ suoi destrieri incuora,
Non della speme del trifoglio eterno,
E non del grido, e de’ spumanti morsi
425Al comandar, nè della sferza al fischio:
De’ dardi al tintinnir dentro il turcasso
Fatale i vanni affrettano gli alipedi
Al ciel, meta del Dio. Quindi dechina;
Poi riede, e l’opre sue lieto contempla.46
III.
430Ora Polinnia,47 alata Dea, che molte
Lire a un tempo percote, e più dell’altre
Muse possiede orti celesti, esulti:
Ch’io pur de’ fiori suoi colti in Italia,
Nel giardino d’Europa, ornerò l’inno.
435Ornerò lieto il canto, ora che terza
Sacerdotessa vien bella una donna,

[p. 246 modifica]

Fresco portando alle mie Dive un favo,
(Nostro, e non dato ad altre genti, è il rito)
Per memoria del mèle onde alle Grazie
440Con soave ronzio fanno tesoro
L’eterne Api di Vesta: e chi n’assaggia,
Caro a’ mortali ed agli Dei favella.48
     O grazïose Dee, gioja degl’inni,
Per voi la bella donna oggi ha in sua cura
445Quelle alate angelette; e le frondose
Indiche piante onde i suoi lari ombreggia
Apprestano diporti alle vaganti
Schiere; e le accoglie ne’ fecondi orezzi
Un armonico speco, invïolate49
450Dal gelo e dall’estiva ira de’ nembi.
La bella Donna di sua mano i lattei
Calici dell’arancio, e la più casta
Delle vïole, e il timo, amor dell’api,
Educa, e il fior delle rugiade implora
455Dalle stelle tranquille: e l’Api a lei
Tesoreggiano; e amabile il sorriso
Spunta fra’ detti arguti, onde i procaci
Genj d’Amore e le virtù severe,
Adulando, rattempra.50 Ora costei
460Dal felsineo51 pendio, donde Appennino
Mira l’Orsa che indarno erra cercando
Le fonti di Neréo,52 mosse, ed a voi

[p. 247 modifica]

Questo eletto tra’ favi offre sull’ara.
     Cantando Febo pieno d’inni un carme,53
465Vaticinò, ch’egli lo spirto, e varia
Daranno a’ Vati l’armonia del plettro
Le sue caste Sorelle, e Amore il pianto
Che lusinghi a pietà l’alme gentili;
E il giovine Lïeo scevra d’acerbe
470Cure la vita, e Pallade i consigli,
Giove la speme, e i patrii Numi eterno
Poscia l’alloro; ma le Grazie il mèle
Persuadente a grazïosi affetti,
Onde pia cogli Dei torni la terra.54
475E cantando, vedea lieto agitarsi,
Esalando profumi, il verdeggiante
Bosco d’Olimpo; e rifiorir le rose;
E scorrere di néttare i torrenti;
E risplendere il cielo; e delle Dive
480Raggiar più bella l’immortal bellezza;
Però che il Padre sorrideva, e, in lui
Con gli occhi intenta l’aquila posava.55
     Dite, garzoni, a chi mortale, e voi,
Donzelle, dite a quai fanciulle un giorno
485Più di quel mèl le Dèe furon cortesi. —
N’ebbe primiero un Cieco; e sullo scudo
Di Vulcano mirò moversi il mondo,56

[p. 248 modifica]

E l’alto Ilio dirúto, e per l’ignoto
Pelago la solinga itaca vela,
490E tutto Olimpo gli s’apri alla mente,
E Cipria vide e delle Grazie il cinto.57
E quando quel sapor venne a Corinna58
Sul labbro, vinse tra l’elee quadrighe
Di Pindaro i destrier, benchè Ippocrene
495Li dissetava, e li pascea dell’aure
Eolo, e prenunzia un’Aquila correa,
E de’ suoi freni li adornava il Sole.59
Di quel mèl la fragranza errò improvvisa
Sul talamo all’eolïa Fanciulla,
500E il cor furente le gemè e la lira:
Ed aggiogando i passeri, scendea
Venere dall’Olimpo, e delle sue
Ambrosie dita le tergeva il pianto.60
Così opimo tesor su greche labbra
505Ponean l’Api febee! Ma indarno Ilisso
Le richiama dal dì che a fior dell’onda
Egea,61 beate volatrici, il coro
Delle Muse seguiro, obbedïenti
All’elegia del fuggitivo Apollo.
510Però che quando sull’ascrea convalle,
Disfrenando le tartare poledre,
Marte afflisse ogni pianta, e le sacrate
Ossa de’ Vati profano un superbo.62

[p. 249 modifica]

Nepote d’Ottomano, allor l’Italia
515Alle Muse ricetto, e fu giardino
Alle Pecchie esulanti: e se al Penéo63
Fuggiano i lai della invisibil Ninfa,
Che ognor delusa d’amorosa speme,
Pur geme per le quete aure diffusa,
520E ’l su’ altero nemico ama e richiama;
Tanta dolcezza infusero le Grazie,
Per pietà della Ninfa, alle sue voci,
Che le lor Api, immemori dell’opra,
Oziose in Italia odono l’Eco
525Che al par de’ carmi fe dolce la rima.64
Del nuovo ospizio a vista, il drappelletto
Fabro del mèl si diparti in due schiere.
L’una, al lito approdando ove Po d’acque
Tanta preda riporta all’Oceàno,65
530Vide agresti fioretti, e lungo il fiume
Gran ciel prendea con negre ombre una selva
Strana d’allori, a imago di bizzarra
Gotica reggia i rami alti intrecciando,
Acutissimi in arco. Ivi una Fata,.
535Delle sorti presaga, avea quel bosco
Piantato per incanto, e assai novelli
Fiori ad arte cosparsi, onde allettate
L’Api sacre ponessero a lor prole
Quivi il primo alvear.66 Sovra que’ tronchi
540Scriveva Atlante i fasti di Ruggiero;
E donne innamorate, e vagabondi

[p. 250 modifica]

Spettri di cavalieri ivan col Mago
Aspettando il Cantor, che poi, trovati
Deposti i favi, si mietea con essi
545Tutti gli allori. Se non che d’Orlando
Cantò pur anco un lepido Poeta,67
E al suo labbro involò parte de’ favi.
     Ma non men cara l’Api amano l’ombra
Dell’eterno cipresso, ove appendea
550La sua cetra Torquato,68 allor che Amore,
Signor severo all’anime sublimi,
Forsennato il traea per le foreste,
«Sì che insieme movea pietade e riso
Nelle gentili ninfe e ne’ pastori;
555Nè già cose scrivea degne di riso.»69
Pianse il Poeta all’altrui pianto, e allora
I suoi mali obliò. Deh! perchè il piede
Torse, o Grazie, da voi liete in udirlo?
Cantò alla Patria il pio sepolcro e l’armi;
560Cantò d’Erminia; e in sè trovò e dipinse
Di Tancredi l’altera alma gentile:
Nė disdegnò di voi; ma più fatale
Nume alla reggia il risospinse e al pianto.
     Cotal ventura prescrivea la Fata
565A quante all’Adria riposaro il volo
Angelette pimplee. L’altro drappello

[p. 251 modifica]

Che, per antico amor Flora seguendo,
Tendea per la tirrena onda il viaggio,
Trovò, simile a Cerere, una Donna70
570Sulla foce dell’Arno; e lo attendea,
Portando in man purpurei gigli e fronde
Dell’arbor che le avea novellamente
Palla donato: avea, riposo al fianco,
Un’etrusca colonna71, e a sè dinanzi
575Di favi desïoso un alveare.
Molte intorno a’ suoi piè verdi le spighe
Spuntavano, e perian molte immature
Fra sorgenti papaveri.72 Mal nota,
Benchè fosse divina, era la Donna
580Alle Pecchie immortali. Essa agli Dei
Non tornò mai, dacchè scendea ne’ primi.
Di noiosi dell’uomo: e il riconforta,
Ma le presenti ore gl’invola: ha nome
Speranza, e meno infida ama i coloni.73
585Già negli ultimi cieli iva compiendo
Il settimo de’ grandi anni Saturno
Col suo pianeta, dacchè a noi la Donna,
Precorrendo le Muse, era tornata.74

[p. 252 modifica]

Per consiglio di Pallade, recando
590L’ara fatale ove scolpite in oro
Le brevi rifulgean libere leggi,
Un dì madri dell’Arti:75 e a somma l’ara
Ralluminò il gentil foco di Vesta,
Che inestinto vagò per la profonda
595Barbara notte, e la rompea talvolta:76
E le risse civili, e le riarse
Ire di parte andò temprando; e i toschi
Animi a generose opre rivolse.
Ecco prostrata una foresta, e fianchi
600Orridi d’alpe, e masse ferree, immani
Al braccio de’ Ciclopi, a por delubro77
Che tardo ceda a’ muti urti del Tempo.
E al suono che invisibili spandeano
Le Grazie intorno, assunsero nell’opra
605Nuova speme i viventi; e l’Architetto,
Maravigliando della sua fatica,78
Quasi nubi lievissime, dal suolo
Ferro e abeti vedea sorgere e marmi,
A sua legge arrendevoli; e sublimi
610Curvarsi in arco aereo, imitanti
Il firmamento. Attonite le Muse,
Come vennero poscia, alla divina
Mole il guardo levando, indarno altrove
Cercando gìan col memore pensiero,
615Se Palla avesse argive Arti o latine
Spirato mai a sì fatto portento.
     Coll’alvear lietissimo dell’Api
Veleggia intanto, e l’áncora nel fiume

[p. 253 modifica]

Gitta la Donna, ove una reggia all’Arti,
620Su dorïensi gemine colonne,
Alzar poscia doveva, ed alle Grazie,
Il Dedalo d’Arezzo; e già fu santa
Dell’imagine tua, Venere bella,
Che a noi dal brando fu rapita, e noi
625Riaverla speriam sol co’ lamenti.79
Tosto le Pecchie sbucano, correndo
A un’indistinta di novelle piante
Soavità, che intorno al tempio oliva.
Della civil cultura onde Minerva
630Fu pria cortese al terren tósco, un mirto,
Che suo dall’alto Beatrice ammira,
Verdeggiava immortale; e da’ suoi rami
Battea le penne un’Aquila sdegnosa,
Cieli e abissi cercando, e popolato
635D’anime in mezzo a tutte l’acque un monte, 635
E l’ïeri vedea, l’oggi e il domani.
Poi, tornando, spargea folgori e lieti
Raggi e speme e paura e pentimenti
Ne’ mortali; e verissime sciagure
640All’Italia cantava.80 Appresso il mirto
Fiorian le rose che le Grazie ogni anno
Ne’ colli euganei van cogliendo, e un serto
Molle di pianto, il di sesto d’Aprile,
Ne recano alla Madre.81 E l’Api intorno
645Dolcemente ronzarono, e sentiro
Come forse d’Eliso era venuto
Ad innestare il cespo ei che più ch’altri
Libò il mèl sacro sull’Imetto,82 e primo

[p. 254 modifica]

Fe del celeste Amor celebre il rito.
     650Or quelle Ninfe, che fra noi di Tempe83
Co’ loro amanti accorsero, gentili
Dello sciame custodi, hanno abbellito
Alla famiglia di lor piante il nuovo
Ospizio, e l’aere intepidito e i rivi,
655Sì che pur sempre la natia fragranza
All’opra le sviate Api lusinghi:
E molti fiori olezzan qui, non visti
Pria negli orti materni; e più recente
Mèl ne deriva, e più gradito al labbro,
660Non più amabile al core.84 Invidi gli altri
Pur dell’esilio, abbandonano all’aura
Vizze le foglie sì vivaci un tempo;
E, se non fosse che son fiori eterni,
Lo stelo invan ne cercheresti, o il nome.85
665Fiorite, esuli piante; ecco io v’innaffio:
Torneran l’Api vostre. Io lascio intatto
Solo il ligustro onde cingea la cetra
Anacreonte. In su quel fiore un’Ape
Ronzava, e tal n’uscía suon delle fila,
670Che da Cupido avea baci spontanei
Il vecchierel. Negò ridarla a Febo,
E l’appendeva delle Grazie all’ara.86
E quel ligustro le Napee, seguaci
E custodi dell’Api, han co’ Silvani,

[p. 255 modifica]

675Dove più dolcemente Eco si duole,87
Trapiantato in Italia. E qui verdeggia,
Qual più fu cara pianta alle agnellette
Del siculo Pastore;88 e il fortunato
Mortal, che, spazïando entro quegli orti,
680Cantar ode i Silvani, e il canto impara,
Invoglia altrui di pace. — Oh, meco alberghi
Chi i Numi agresti e le Napee conobbe!
Non son Genj mentiti: io dal mio poggio
Quando tacciono i venti fra le torri
685Della bella Firenze, odo un Silvano,
Ospite ignoto a’ taciti eremiti
Del vicino Oliveto.89 Ei sul meriggio
Fa sua casa un frascato, e a suon d’avene
Le pecorelle sue chiama alla fonte:
690Chiama due brune giovani la sera;
Nè piegar l’erba mi parean ballando.
Esso mena la danza. E le vedesti,
Fabre, tu che sì vive le dipingi;90
Ma se alla fiesolana erta affannato
695Vai, poggiando, a incontrarle, ad oriente
Ti s’apre al guardo una tonda convalle,
Che da sei montagnette ond’è ricinta
Dechina, a imago di teatro acheo.91
Dalla vista allettato e da una vaga
700Memoria, fornirai snello il cammino.
     Udito ho dir che, a’ preghi delle Ninfe,
Affrico, allegro ruscelletto, accorse
Zampillando dal monte, e la fe in mezzo
Splendida d’un freschissimo laghetto

[p. 256 modifica]

705Tra’ querciòli, i frutteti e le vendemmie
Ch’or tu miri dal balzo. Ivi Fiammetta,
Che nulla ancora avea de’ Genj inteso,
Spesso, all’orezzo delle sere estive,
Fra’ giovani sedea per novellare
710Con Elisa, a diporto, e le gentili
Compagne, che venian pur novellando
«Di donne e cavalier, d’affanni e d’agi
Che ne invogliano amore e cortesia.»92
Ben Valle delle Donne oggi è nomata
715Da chi la sa: molte Amadriadi alberga
Fors’anco; ma obbedisce oggi all’aratro.
Le rinnega i bei rivi, e per le balze
Tornò ramingo il Fiumicel da quando
Fur delle Ninfe gl’imenei palesi.
720Però che a Dioneo,93 re del drappello,
Offerse l’aura il vel, donde, invaghito,
Vedea pur dianzi biondeggiar le ciocche
De’ capelli d’Elisa. Ei contro all’aura
Corre, e le vesti a un cespo trova: immersa
725Godeva ella dell’acque, nel secreto
Suo cor cantando Amore al rugiadoso
Estivo raggio della Luna. E forse
L’ardito amante avria mirato Elisa
Dentro le cristalline onde più bella;
730Se non che quivi un pèsco protendea,
Curve da’ pomi, bagnando, le frondi
Sul flutto: ed ella vi s’occulta, e scorge
Spiar le rive il giovine d’intorno;
E più volte alle vesti e presso al pèsco
735Recar l’orme frettose: ad alte grida
Parea volesse, e non ardia, chiamarla.
Quando lo trasse un susurrar che uscia
Indi non lunge da una grotta. Elisa
Gli si tolse tremando, e più non venne,

[p. 257 modifica]

740Se non con tutte le compagne, al lago.
Intanto Dioneo dalla frondosa
Soglia dell’antro sterpò un ramo, e acerbo
Di silvestri colombe una vegghiante
Frotta assaliva, flagellando: quelle
745Gli si affollano intorno, e gli fann’ombra
Più sempre agli occhi; finchè, vinte, all’aure
Fuggon con penne trepidanti. A un tratto
L’antro profondo empie la Luna, e svela,
Sovra un mucchio di rose addormentata,
750Ad un Fauno confusa una Napea.94
Gioì procace Dioneo, sperando
Di sedur coll’esempio della Ninfa
La ritrosa fanciulla; e pregò tutti
Allor d’aita, e i Satiri canuti,
755E quante invide Ninfe eran da’ balli
E dagli amori escluse: e quei maligni
Di scherzi e d’antri e d’imenei furtivi
Ridissero novelle; ed ei ridendo
Vago le scrisse, e le rendea più care:
760Ma ne increbbe alle Grazie. Or vive il libro
Dettato dagli Dei: ma svenţurata
Quella fanciulla che mai tocchi il libro!
Tosto smarrite del pudor natio
Avrà le rose: nè il rossore ad arte
765Può innamorar chi sol le Grazie ha in cuore.

Note

  1. * Vesta è deità virginale, e custode del fuoco eterno che anima i cuori gentili. (F.).
  2. 4-5. Dalla Grecia antica, primo paese ingentilito dalle Grazie, il Poeta si trasporta all’italia de’ suoi giorni, e istituisce sull’ara di Bellosguardo, accennata nell’Inno primo, une solennità festeggiata da tre Donne italiane, nelle quali rappresenta l’azione e gli effetti dell’armonia, della beltà corporale, e dell’amabilità dell’ingegno. (F.)
  3. 7-9. Nota l’intristirsi degl’ingegni, quasi tutti assorti oggimai dalle scienze geometriche con danno delle Arti belle e delle Lettere; e raccomanda l’amenità dello stile nelle materie astruse. (F.)
  4. 10-11. Urania, Deità dell’Astronomìa e delle scienze geometriche. Descrivesi solitaria e vestita di un manto azzurro. — Platone, che raccomanda di sacrificare sempre alle Grazie, era ispirato dal loro nume a rappresentare le idee astruse con fantasie eleganti e con eloquenza di stile. Pochi fra gli antichi non lo imitarono: bensì pochi lo hanno imitato in Italia. (F.)
  5. 12. Galileo, sommo filosofo e scrittore elegante ritiravasi ed attendeva agli studj a Bellosguardo. (F.) – Che ivi abitasse nella villa degli Albizzi fa indubitata fede la seguente iscrizione, dettata da Vincenzo Antinori, e che in essa villa si legge:
           A Galileo Galilei – Nelle maraviglio del creato — Luce degli intelletti — Padre della Filosofia sperimentale — Legislatore del moto — Di nuovi mondi – Già per distanza o piccolezza celati - Ritrovatore — Che — In questa villa dal 1617 al 1631 – Di frequente abitando — L’aureò Saggiatore — Dettava - Dell’aniverso per le sue scoperte dilatato — Il sistema illustrava — Ond’ebbe da’ contemporanei cui dava libertà di pensiero — Schiavità di persona Che talora a sollievo dell’operosa mente — La contigua terra lavorò di sua mano — Amerigo degli Albizzi — A venerazione del sommo concittadino — L’anno 1835 — p. q. m.
  6. 17-25. Firenze e i suoi contorni si presentano alla vista da Bellosguardo quali sono qui rappresentati. (F.) — Ed io ho udito dire dalla Donna gentile, che ella avea visto Ugo sovente vagbeggiarli a lungo dal muro, che da settentrione ad oriente circonda la ripida balza su cui siede la rammentata villa degli Albizzi, ov’egli pure abitava.
  7. 26. Allude a’ fiori ed all’atticismo di Firenze. (F.)
  8. 29-34. Esclude la lascivia, la maldicenza e l’adulazione, come contrario alle Grazie. (F.) El è profondamente vero ed arguto il concetto dell’ultimo verso Istrumenti principalissimi di servitu furono sempre gli scrittori impudichi, i maledici e gli adulatori; cari però al volgo, materia di ogni tirannide, o togata, o in armi, o coronata, o in berretto.
  9. 53-61. In quest’Inno particolarmente ho tentato di verseggiare ciò che ho osservato io medesimo nelle amabili donne, che, senza saperlo, mi mandarono, prima al cuore, e poscia all’ingegno alcune imagini delle Grazie; ed io per gratitudine ho voluto, se non altro, tentare che i giovinetti italiani imparino, leggendo il mio Inno, a sentire e a discernere le Grazie, e ad adorarle con versi più accetti, perchè dettati da un Poeta che, dopo avere sacrificato alle Sacerdotesse ed alle emulatrici di quelle dilicate Divinità, si è ritirato pria d’invecchiare, per non offenderle con versi impudichi. (F.)
  10. 62-66. Nobile donna fiorentina, abitatrice di una casa architettata da Raffaello.
  11. 71. Qui l’Autore tratta della musica media, come in seguito di quella alta.
  12. 74-75. L’armonia dell’universo, di che il Poeta parla esplicitamente poi, e di cui gli uomini tutti hanno un sentimento secreto, benchè non possa esprimersi, è diffusa anco nella vita dell’uomo. (F.)
  13. 77. Verissimo e nobilissimo concetto, inerendo al quale l’Autore avea composto un Inno alla Dea Sventura, in cui avea consacrato, sono sue parole, l’utilità dell’avversa Fortuna e la celeste virtu della compassione, unica virtù disinteressata nei petti mortali. Non sappiamo però se gli fosse dato di colorire intieramente il suo disegno: è certo che tra i fogli conservatici dal venerando Canonico Riego non ne apparisce indizio. Perchè i cieli ci hanno invidiato i sublimi conforti di questo novello suo canto! L’illustre Pellico a noi ne scriveva in questi termini: Ugo ne aveva lunghi frammenti. Non ho serbato memoria de’ versi, ma del patetico nobilissimo che vi regnava.
  14. 82-88. Aspasia nacque in Mileto città della lonia, e recossi ad Atene (il Poeta dice lungo Ilisso, fiume dell’Attica sacro alle Muse), ove lenne scuola di eloquenza. Amabilissima di persona e d’ingegno, fu sposa a Pericle e marstra al divino Socrate, che si gloriava di essere debitore a lei d’ tutta la sua potenza a persuadere. Nè Socrate fu promulgatore soltanto di altissimi veri filosofici, ma ancora ardente cultore del Bello. Prima di darsi alla filosofia, era stato scultore famoso, e la storia celebra particolarmente le sue tre statue delle Grazie come modelli degni di Fidia. Quindi l’opportuno concetto del Poeta di rappresentarlo baud.tore di umanità e di virtù dappresso all’ara delle Doe, anco da vecchio.
  15. 99-102. Qui l’Autore ha avuto il pensiero ad un bel tratto di Virgilio nel principio della descrizione dell’Inferno (Eneid., lib. 6); ma sembra che l’abbia migliorato. Noterò una cosa sola: Virgilio parla di giovani posti sul rogo avanti agli occhi de’ genitori: — Impositique rogis juvenes ante ora parentum; — il che desta maggior pietà pei superstiti che per gli spenti, contro il diritto intento del Poeta. Nella espressione foscoliana la cosa procede al contrario, e vi ha maggior convenienza.
  16. 139 e seguito. I Latini nomavano Larium quello che ora si chiama lago di Como, formato, come ognuno sa, dalle stagnanti acque dell’Adda. Di esso, e dell’amenissimo paese intorno fa ampia descrizione un altro sacro ingegno, il Manzoni, nelle prime pagine de’ Promessi Sposi. — Per ciò che spetta a questa similitudine foscoliana, ci sembra che pochi altri tratti di poesia antica o moderna le sieno eguali in quella perfezione che resulta da stile elaborato ed eletto. — Qui occorre aggiungere, che fra le molte copie autografe di questo squarcio da noi esaminate ve ne ha una che contiene un verso di più, posto fra il 144 e il 145, e dice:

    Lietissimo specchiandosi nell’onde.


    Noi però, dopo lunghe riflessioni, non abbiamo voluto ammetterio nella nostra lezione, per tema che, oltre la ridondanza della imagine, la triplice desinenza sponde, onde, risponde, ancorchè cercata a bella posta dall’Autore, accennasse a certa intemperanza che offendesse i lettori di squisito gusto; e però inducesse un difetto, piuttosto che una nuova bellezza. Principalissima virtù nell’Arte è quella di cogliere il giusto punto; e il gran Cantore delle Grazie la possedeva a meraviglia. Quindi la perpetua religione in noi di non accettare verso o parola, quantunque ben suoi, quando potessimo credere ch’ei li avrebbe rifiutati.

  17. 147-149. Allude alle molte fucine, e fonderie di ferro e di rame che sono nella industre terra di Lecco, posta alla estremità del corno meridionale del lago.
  18. 150. Pendere in significato attivo per calare, metter penzoloni, trovasi usato anco da buoni scrittori antichi. (Vedi Manuzzi, Dizionario della Crusca.)
  19. 156. Intendi l’ameno giardino di Boboli, attiguo al palazzo Pitti. Fu disegnato dal Tribolo nel 1550.
  20. 171. Pratolino fu già villa medicea, celebre in particolar modo pei giuochi d’acqua, ordinátivi con mirabile effetto da Bernardo Buontalenti. Quei meccanismi divenuti guasti ed inattivi, e la villa bisognosa di restauri, fu riputato più arguto consiglio distrugger tutto. Ora è regio parco, «ameno per gli ombrosi viali, per le fresche grotte e per alcuni laghetti, ad uno » dei quali sovrasta il colosso che l’Ammannati immaginò a rappresentare l’Appennino.» (Pietro Thouar, Notizie e Guida di Firenze.)
  21. 173-175. L’Iride fiorentina, planta amabile per la vaghezza del fiore, il gentile odore della radica, le memorie del luogo di cui è indigena. — Le mura della patria di Dante e del Ferruccio sono tuttavia «Inghirlandate dell’antico giglio,» come cantava il mio onorevole amico E. Mayer. (Vedi La Rosa di Maggio 1841.)
  22. 178. Pomona, Dea tutelare de’ giardini, e delle piante fruttifere. Fu amata da molti, ma essa riamò soltanto Vertunno.
  23. 186-188. Nota la triplice corrispondenza degli odori, de’ colori e de’ suoni, derivante dal principio unico dell’Armonia, inteso soltanto dall’uomo, come avverte Cicerone negli Uffizj. (Lib. 1, cap. 3.)
  24. 189-190. La rosa, alludendo ad un passo di Anacreonte nell’Ode 53, del quale ecco la traduzione. — Quando dalla spuma del mare ceruleo emerse rugiadosa Citerea, e dalla fronte di Giove uscì la guerriera Minerva; allora pure la terra diè vita con ammirabile parto al nuovo fiore della Rosa. Al nascer suo, i congregati Dei dell’Olimpo l’aspersero di néttare, e altero dallo spinoso cespo sorse il fiore immortale di Lieo.
  25. 219. Il fiume Olona scorre presso Milano, l’insubre città superiormente accennata.
  26. 222. Bellona, Dea della guerra presso i Romani, dai Greci fu nomata Enio. Non vuole esser confusa con Minerva, ancorchè più d’uno lo abbia fatto.
  27. 226. Chi non conosce la divina coppiera de’ Numi, la Dea della giovinezza, particolarmente dopo che il Canova l’ebbe veduta scendere dal cielo a recargli una tazza di nèttare, l’ebbe ritratta in marmo? — Ed il Poeta nostro la vide, e la ritrasse perfettamente in questo verso.
  28. 227-231. Questo amabile augello, caro a Venere ed alle Grazie, suole esprimere la sua benevolenza attorcendo carezzevolmente il lungo collo attorno all’oggetto della sua affezione. (Ionston.)
  29. 236. Quantunque il cigno abiti i fiumi di corso sinuoso e placido in qualanque regione, pare sembra che la vera sua patria sieno i paesi settentrionali. (Buffon.)
  30. 238. La Principessa Amalia Augusta di Baviera, che nel 1805, dopo i trionf d’Austerlitz, venne sposa ad Eugenio Beauharnais, vicerè in Italia per Napoleone.
  31. 253-258. Il «cigno» dice il Buffon «regna sulle acque con tutti i titoli che sono base di pacifico impero, la grandezza, la maestà, la dolcezza.» Negli ultimi due versi il Poeta sembra dilicatamente alludere alla mite e benigna natura del Principe Eugenio, nonchè alla sua ammirazione verso la grandezza paterna.
  32. 259-260. Esiodo nello Scudo d’Ercole descrive i pesci tranquillamente nuotanti attorno ad un cigno; il che indica come presso gli antichi prevalesse la opinione che questo volatile non suolesse cibarsene. La maggior parte dei Naturalisti moderni, particolarmente in Francia, dietro la scorta del Buffon, è stata di contrario avviso: ma il prof. Titius, ragguardevole scionziato di Germania, confermò la sentenza degli antichi colle sue Osservazioni che, tradotte dal tedesco, furono stampate nel Giornale Enciclopedico, anno 1775, tomo VIII, pag. 514.
  33. 266-269. La villa Buonaparte in Milano, presso i passeggi pubblici. Ivi tuttavia si vedono bellissimi tigli, e cigni, che rallegrano le acque di quel luogo ameno, prediletta dimora della Principessa di cui parla il Poeta.
  34. 270. Il Cigno accorre a chi lo chiama. (Salerne citato dal Buffon.)
  35. 271-274. Riferisco qui una variante che trovo nel MS., sperando che ciò non sarà discaro ai lettori. Questi versi, scritti certamente dopo il 1815, sieno nuova testimonianza della soave memoria che lasciano di sè ne’ Popoli, e negli intemerati scrittori, degni rappresentanti de’ Popoli, quei mortali, che, collocati in alto dalla Fortuna, usano del favore di essa a beneficare il genere umano.
    La variante è questa:
    .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .    — O di clementi
    Virtù ornamento nella reggia insubre,
    Finchè piacque agli Dei! O agl’infelici
    Cara tutela, e di tre regie Grazie
    Genitrice gentil; bella fra tutte
    Figlie di regi, e, al par delle celesti
    Dive, diletta al sire alto d’Olimpo!
    E mi giova aggiungere che il Poeta, il quale con questi versi rendeva omaggio al vero relativamente alla Principessa di cui è parola, intorno a cosa che pur la riguarda non avea dubitato di schernire la moltiplice turba degli adulatori, e il fasto del più potente degli uomini coll’arguto componimento che trovasi a pag. 176 di questo volume.
  36. 276. Ciò avvenne durante l’ultima guerra sostenuta da Napoleone in Germania, uno de’ cui principali fiumi è l’Elba, nel 1814.
  37. 284-290. Il Poeta, per consultare al maggior effetto lirico, non tien conto dell’ordine cronologico. Nella precipitosa ritirata di Russia Eugenio tenne riuniti gli avanzi della grande armata, partecipando a tutti i patimenti, ai disastri, alle privazioni de’ soldati, e non abbandonandoli mai. Al Ney la Francia, ad Eugenio l’Italia debbono quanto delle reliquie di quel famoso esercito fu salvato. — È notabile la concisione eloquentissima degli ultimi due versi, particolarmente posta incontro all’omerico paragone che succede.
  38. 291-302. La forza e la terribilità di questo quadro superano tutto ciò che Omero stesso ci ha narrato degli scontri fra Aiace ed Ettore; e l’imagine de’ tre ultimi versi sale a tanta sublimità, a quanta non credo che arrivasse mai alcun poeta. Chi può leggerla senza brivido, getti via il libro. Per lui non scriveva chi con questo mirabile squarcio mostra, che non per poetica menzogna o vanità cantava altrove: — Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge. Questo squarcio trovasi pure nell’Ajace, atto III, sc. 3, ma qui produce molto maggiore effetto.
  39. 303-305. Questi tre versi soli valgono più che tutte le centinaia di quelli splendidamente adulatorii del Monti.
  40. 306-308. Nota il maestrevole garbo con cui torna a cantare delle Grazie.
  41. 315-316. Questa terza sacerdotessa si mostrerà in seguito. Intanto il Poeta con lirica franchezza fa si che già il lettore cominci a idoleggiarla in sua fantasia.
  42. 317-322. Dans un être animé la liberté des mouvements fait la belle nature. (F.)
  43. 330-341. Gli antichi attribuivano una singolar bellezza ai capelli delle. Grazie. Omero nel 17 libro dell’Iliade, per tutta lode alle chiome d’Euforbo, dice che somigliavano quelle delle Grazie. — Nel descrivere il biondeggiare dei capelli delle tre Dive il Poeta si è servito di alcuni versi da lui stesso riportati nelle note alla sua traduzione della Chioma di Berenice, sotto la non vera indicazione di frammenti greci tradotti. Del rimanente, questo passaggio dal colore dei capelli delle Grazie al fuoco di Vesta è uno de’ più arditi e felici che io conosca nell’Arte.
  44. 369-394. Tutto questo vaghissimo tratto si riferisce alla gran questione dell’ideale nelle Arti belle. Il Poeta ne stabilisce la necessità, fondandola sopra la ragione della scelta da farsi nelle cose reali esistenti in natura. A questo principio pure mirava Dante quando cantava di Beatrice, modello ideale di perfezione:

    Che sue bellezze son cose vedute.

  45. 395-403. Tocca di quei tempi infelici dell’età di mezzo, in cui quel- poco di civiltà che rimaneva al mondo erasi rifugiato nei monasteri, ed in cui gli animi che conservavano qualche scintilla dell’antica libertà romana vagavano fuggiaschi sulla terra.
  46. 418-429. Comprende tutta intiera la teoria del Genio, che non si leva da terra per favore di potenti o per capriccio di fortuna, ma per proprio vigore innato. Nè occorre a sostenerlo nell’arduo suo corso la ignobile lusinga dei beni terreni, o il desiderio di compiacere altrui, o la tema di qualsivoglia cruccio o possanza. Libero e signore di sè, egli movesi per una forza immortale, si sente allettato alle grandi imprese da faviti che il volgo non intende; egli, dopo lunghe e generose fatiche, coglie l’unico premio a cui aspiri, cioè il vagheggiare coll’occhio della mente il bene venuto, o che verrà un giorno dalle opere sue al genere umano.
  47. 430. Polinnia, come accenna il suo nome composto di due vocaboli greci, che significano moltiplice canto, è la Musa inventrice dell’armonia, e più specialmente la ispiratrice degli estri lirici. Negli antichi monumenti si rappresenta coronata di fiori, avente nella destra la lira, e con tutta la persona avvolta di candidissimo peplo, che pare le tien celata la sinistra. Molte parole hanno speso gli Archeologi onde spiegare questa ultima e singolare particolarità; ma niuno ha pensato che essa, come caratteristica a lei, la quale nella sua prima qualità governa e rappresenta tutte le Muse, potrebbe significare un alto insegnamento, il disdegno di qualsivoglia mercede. — Comunque sia, a ragione ella vicne invocata sul principio di qnosta terza parte dell’Inno II, che è più variata delle altre, sì d’imagini e sì d’armonia; e ognuno vede perchè il Poeta le attribuisca le ali.
  48. 441-42. Nell’antro Ditteo ove fu nutrito Giove era uno sciame d’api, le quali contribuirono ad alimentare il divino fanciullo. Però egli poscia le fece immortali, e le diede in cura a Vesta, anco perchè l’ape dagli antichi fu riputata schiva di nozze. Rispetto alla dolcezza del mèle, le api presso i Greci furono simbolo della eloquenza persuasiva; e su questo concetto il Foscolo va poetando per tutto il rimanente di quest’Inno.
  49. 449. Le api fuggono i luoghi ove risuona l’eco: ubi concava pulsu. — Saxa sonant, vocisque offensa resultat imago. (Virgil., Georg., 1. 4.) Ma queste api divine non li fuggono, particolarmente in Italia. Vedi la nota seguente, verso 517-25.
  50. 459. L’adulazione, per lo più, parla soavemente, ma tende lacci insidiosi: quindi il Poeta usa qui il verbo adulare per esprimere come la leggiadra coltivatrice di fiori, mentre tempera coll’amabile sorriso e coll’arguto e soave favellare gli animi inverecondi e gli scabri, ambedue avversi agli affetti gentili, con quegli stessi mezzi suscita loro dolcissimi perigli. Ministra delle Grazie pertanto, ammorza le violente ed inurbane, accende le mansuete e dilicate passioni.
  51. 460. Dai colli che sovrastano a Bologna, chiamata con antico appellativo Félsina da Félsino Re etrusco, che sembra ne fosse il fondatore. (Vedi Demster., Etrur. regal.)
  52. 461-62. La più bella costellazione del polo artico, la quale all’Europa non tramonta mai, o, come dicono i Poeti, non si attuffa mai nel mare, la fonte di Nereo deità marina. Arctos oceani metuentes æquore tingi. (Virgil., Georg., 1.)
  53. 464. In un frammento antichissimo presso Ateneo trovansi, quasi a definizione della Poesia lirica, queste parole — cantiamo Inno che sia uno, e degno de’ Numi, e pieno d’inni. (F.)
  54. 465-74. Veramente di arcana e celeste sapienza è ripieno il canto di questo Dio delle Arti e degl’ingegni. Comprende i più solenni documenti circa alle doti del Poeta civile: lo meditino i giovani. Apollo dà l’entusiasmo; le Muse, che vogliono sempre conservarsi intemerate, la squisitezza e la varietà dei numeri; Amore, l’attitudine a destare in altrui le tenere commozioni; il sempre giovine Dio del vino, la serenità dell’animo, affinchè l’uomo posse darsi tutto all’Arte; Minerva, il senno, che è il sapere principalmente raccomandato da Orazio; Giove, la speranza di vita immortale presso i posteri, dono rarissimo che viene dal cielo, a pochi, mentre il continuo aspetto della caducità di ogni cosa mortale scuora le anime ingenerose, che sono le più; i Numi della Patria, il serto non perituro di verace Poeta civile; le Grazie, l’amabile incanto della flessanimità e della persuasiva, che conduce gli uomini alla più alta meta cui possano mirare le arti d’imitazione, cioè a far sentire l’armonia che passa fra il mondo dei sensi e quello dell’intelletto.
  55. 475-82. Questa omerica pittura dei plausi dell’Olimpo al canto di Febo contiene de’ versi, che, con qualche variante, l’Autore pubblicava come traduzione di alcuni frammenti greci nelle note alla Chioma di Berenice, fino dal 1803.
  56. 486-87. Omero nel 18 canto dell’lliade descrive lo scudo che Valcano, alle preghiere di Teti, fabbricò ad Achille. Gio. Battista Vico sul conto di esso scudo dice nella Scienza nuova, lib. 2. — Nello scudo... d’Achille si contiene la storia del mondo.
  57. 488-91. Allude all’Iliade, all’Odissea, al sistema teologico trattato da Omero, non tanto nei detti maggiori suoi Poemi, quanto negl’Inni a lui attribuiti. — Del Cinto di Venere fabbricato dalle Grazie vedi la descrizione nel 14 dell’Iliade.
  58. 492. Corinna, figlia d’Archelodoro e di Pocrazia nacque in Beozia, nella città di Tanagra presso a Tebe. Fa celebre per beltà e poetico ingegno. Nei pubblici certami della Grecia cinque volte riportó la palma sopra Pindaro. Narrano che lasciasse ben cinquanta libri di Odi e di Epigrammi, di cui restano pochi e brevi frammenti. (Pausan., lib. 9. Statius Silvar. lib. 5, sil. 3.)
  59. 494-97. L’impeto, il fuoco, la sublimità e la pompa del maggior lirico antico vengono designati in questi versi degnissimi del soggetto.
  60. 499-503. La povera Saffo di Mitilene, città dell’Isola di Lesbo, è celebre pei suoi infelici amori verso Faone, e per le sue poesie erotiche, le più ardenti che mai sieno state composte. Il Foscolo in questo tratto allude al pietoso Inno della Poetessa a Venere, in cui questa Dea è dipinta in atto di scendere dal cielo sul suo carro tirato dai passeri, per consolarla ne’ suoi dolori. Fior) Saffo circa secento anni prima dell’era volgare. (Vedi Erodoto, Suida, Ateneo ec.).
  61. 507. L’Arcipelago fu nomato da’ Greci mare egeo da Egeo padre di Teseo, che vi annegò. (Vedi Plutarco in Teseo.)
  62. 510-15. La Grecia fu conquistata dagli Ottomani nella prima metà del secolo 15º: Costantinopoli fu espugnata da Maometto II il 20 maggio 1453. Coi Greci faggiaschi dalla patria caduta in servità, i loro codici, la loro lingua, la loro letteratura passarono in Italia, e particolarmente in Firenze, ove avevano ricevuto grata ospitalità anco quattordici anni prima, quando vi fa tenuto il celebre Concilio per riunire la Chiesa greca colla latina. (Tiraboschi, Storia della letteratura italiana.)
  63. 516. Il Peneo è fame della Tessaglia, e che ha origine dal monte Pindo. Qui è posto per la intiera Grecia.
  64. 517-25. La ninfa Eco, amante spregiata da Narciso, per dolore si strusse e si converse in voce. — Il Poeta leggiadramente tocca della origine della rima nelle lingue moderne, e l’attribuisce all’eco, di cui dice non essere schive le sacre Api di Vesta rifugiate in Italia.
  65. 528-39. Intende della poesia romanzesca, levata a grande onore in Italia da Matteo Maria Boiardo gentiluomo ferrarese, ed autore dell’Orlando innamorato. Il Boiardo fiorì verso la metà del secolo 15º (Ginguené, Stor. della letter. ital.). Ferrara è situata non lungi dall’Adriatico, presso le foci del Po.
  66. 540-45. I mirabili fatti del Mago Atlante e di Ruggiero possono leggersi nell’Orlando furioso di Lodovico Ariosto, il quale recò all’ultima perfezione il Poema romanzesco, e, proseguendo la tela avviata dal Boiardo, si assise fra le prime fantasie del mondo. L’Ariosto nacque in Reggio; scrisse in Ferrara, ed ivi morì nel 1533. (Ginguené, Stor. ec.)
  67. 546-47. Francesco Berni da Bibbiena in Casentino rifece l’Orlando innamorato del Boiardo, adornandolo di originalissime lepidezze, e d’infinite grazie di lingua e di stile, invidiabili dallo stesso Ariosto. Morì, verso il 1536, avvelenato per ordine di Alessandro de’ Medici, tiranno della repubblica fiorentina, per aver rifiutato di commettere un eguale delitto contro il cardinale Ippolito cugino di lui. (Ginguené, Stor. ec.)
  68. 549. Allude ai pietosissimi versi con cui il Cantore della Gerusalemme chiude un sonetto allo Stigliani, col quale lo eccita a salire sull’aspro Elicona
    «Ivi pende mia cetra ad un cipresso:
    Salutala in mio nome, e dalle avviso
    Ch’io son dagli anni e da Fortuna oppresso.»
  69. 553-55. Questi versi son tolti dall’Aminta di Torquato Tasso; versi profetici con cui quel divino vaticinava in parte le solenni sventure che poi lo travagliarono. E di esse sventure sarebbe stato degno narratore il nostro Poeta in un Racconto storico che egli aveva immaginato, ed anco adombrato in parte, se egualmente dulorose, ancorchè più nobili vicende, non ne avessero agitato perpetuamente la vita.
  70. 569. È la Speranza, como più sotto il Poeta fa manifesto. — Cerere figlia di Saturno, Dea delle biade.
  71. 574. Notano gli Archeologi che questa Dea, onorata maggiormente dai Romani che dai Greci, per lo più veniva rappresentata con qualche caratteristica etrusca, o nelle vesti, o nei simboli.
  72. 576-78. Quantunque anco i Mitologi le pongano in mano spighe di frumento e papaveri, notisi con quanta opportunità questi due simboli si adattino alla fiorentina repubblica, lieta in quel tempo di prosperità materiale, ma ingombra di quel civile oblio, che seppero indurre ne’ savi cittadini le arti sottilmente ingannevoli di Cosimo de’ Medici il vecchio. Molte delle spighe periano immature fra sorgenti papaveri, perchè le costui fraudi dittatoriali, checchè ne dicano i letterati e gli artisti da lui stipendiati, furono funeste allo svolgimento della Libertà, anzi prepararono l’aperta tirannide de’ suoi successori e congiunti.
  73. 583-84 Gli ordinamenti repubblicani delle Comuni italiane dopo il mille non costituirono Libertà verace per molte cagioni, ma particolarmente per questa, che non ebbero a fundamento l’unità assoluta e la indipendenza della italiana nazione. Ben furono prova o pegno e speranza della vera Libertà, che sul sentimento della unità nazionale sarà un giorno per inaugurarsi felicemente in tutta la Penisola.
  74. 585-88. Saturno, figlio di Cielo e padre di tutti i Numi, dai mitologi ebbe il governo del pianeta dello stesso nome. Siccome questo, uno dei più distanti dal nostro sistema solare, compie la sua rivoluzione nello Zodiaco, secondo l’Harris, nel periodo di trenta dei nostri anni, così il Poeta con tal modo di parlare astronomico viene ad accenuare con sufficiente precisione l’epoca in cui Firenze e le altre città toscane stabilirono le loro libertà municipali. Ciò avvenne nel primo ventennio dopo la morte della contessa Matilde, che mancó ai vivi li 24 luglio del 1115. Ora dall’epoca della emancipazione della Toscana alla caduta dell’impero greco corrono circa 210 anni, ossia sette anni Saturno. (Vedi Pivati, Diz. Scientif. — Pignotti, Storia della Toscana.)
  75. 590-92. I primi documenti di civiltà ai popoli ne’ tempi teocratici furono segnati sulle Are. (Vico, Scienza Nuova.)
  76. 595. Le lettere e le arti non perirono affatto in Italia nemmeno durante la più profonda barbarie del medio evo.
  77. 599-601. Descrive la costruzione del tempia di Santa Maria del Fiore.
  78. 606. Chi ha veduto la meravigliosa testa del Brunellesco scolpita dall’illustre Pampaloni, troppo presto rapito alla gloria delle arti ed alla Italia, in atto di guardare l’opera incomparabile del suo genio, si sente tentato a credere che il pensiero dello scultore fosse animato da questo verso bellissimo; il che però non sembra possibile. Ma uno è il principio dell’Arti d’imitazione. — Fatica per opera si trova anco negli antichi scrittori. (Vedi Manuzzi, Dizionario della Crusca.)
  79. 619-25. La fabbrica degli Uffizi d’ordine dorico, inalzata da Giorgio Vasari aretino nel 1560. Nel 1677 vi fu collocata la Venere Medicea, che nell’anno medesimo era stata trasportata a Firenze dalla villa Medici in Roma. — Essa statua, nel 1800, per le vittorie bonapartiane passò a Palermo, e due anni dopo a Parigi, ove stette finchè, non gl’inutili lamenti degl’Italiani, ma la grau ruina di Waterloo fece sì che fosse restituita all’antica sede nel 1816. (Reumont, Tavole cronologiche ec. della Storia Fiorentina.)
  80. 630-40. 1 versi di Dante, che è l’Aquila sdegnosa.
  81. 641-44. I versi del Petrarca, che poetò, pianse e morì ne’ colli Euganei. — Il sesto d’aprile 1327 fa il giorno in cui per la prima volta vide Laura, e quello in cui la perdè ventun anno appresso. (Baidelli, Vita di F. Petrarca.)
  82. 647-49. Platone, nativo d’Atene e discepolo sopra tutti carissimo a Socrate. Per la sua eloquenza fu nominato l’Omero de’ filosofi. Sono celebri le sue idee metafisiche sull’Amore.
  83. 650. Tempe, valle amenissima della Magnesia, provincia della Tessaglia, gratissima ad Apollo, alle Muse ed ai loro cori.
  84. 652-60. La letteratura italiana nei secoli 15º e 16º assunse il colorito della greca, ed allora si arricchì di produzioni che la Grecia stessa vorrebbe per sue, come le Stanze del Poliziano, l’Aminta ec. È vero peraltro che gl’Italiani non seppero, nè potevano dare ai Poemi ispirati loro dalla Musa greca tutta quella grazia ingenua e primitiva che fu propria soltanto di quella nazione, e per cui la loro poesia è d’ogni altra la più amabile al core. Il Chiabrera, che certo aveva diritto di giudicarne, quando voleva indicare alcuna cosa eccellente in superlativo grado, soleva dire: ella è poesia greca.
  85. 661-64. La imitazione di alcuni generi della poesia greca fu infelicemente tentata dagl’Italiani. L’oro d’Omero divenne peggio che piombo fra le mani del Trissino. Tutte le tragedie, ancorchè calcate sul modello dei Greci, che cosa mai furono prima di Scipione Maffei? E così d’altro.
  86. 665-72. Augura il ritorno degl’Italiani allo studio della maniera greca, e sè dice iniziatore di tal ritorno. — Dichiara peraltro che non tenterà di far rifiorire fra noi l’inimitabilo scuola del voluttoso Anacreonte. — Questi fu di Teo, città della Jonia, e contemporaneo di Solone. Caro a Policrate tiranno di Samo, ei lasciò molte odi vaghissime, ma il cui perpetuo tèma sono l’amore e il vino. In esse egli parla di sè come d’un vecchio.
  87. 675. Lo stile anacreontico vuole la più gran morbidezza di locazione e di colorito.
  88. 678. Teocrito siracusano, che fiorì circa tre secoli prima dell’èra volgare. Egli è pel genere pastorale ciò che è Omero per l’epico.
  89. 686-87. Oliveto, colle amenissimo vicino a Bellosguardo e a Firenze, lungo la via livornese. La Badia di Monte Oliveto fa fondata sulla fine del secolo 13º da una divota Congregazione. Poco dopo vi si annidarono i Monaci Olivetani. (Thouar, Guida di Firenze.)
  90. 693. Vedi a pag. 193.
  91. 696-98. Sotto Fiesole, presso la villa di Schifanoia o De’ tre visi, già della famiglia Palmieri, fu «la incantatrice valletta delle donne celebrata dal Boccaccio, e nella quale narra che Elisa condusse le compagne a diporto. Essa è forse l’angusto piano per cui l’Affrico scorre, sotto l’antico convento della Doccia, ove si crede essere già stato un laghetto, che » diede origine alla Fonte all’erta.» (Thouar, Guida di Firenze.)
  92. 712-13. Dante, Purgatorio, canto XIV.
  93. 720. Dioneo, uno dei novellatori del Boccaccio, e fra loro il più vispo, per non dire il più licenzioso. Vaolsi che l’autore del Decamerone in Dioneo abbia voluto ritrarre sè stesso.
  94. 741-50. Mi narrava la Donna gentile che, nel tempo della ultima dimora d’Ugo in Toscana, un giorno andarono insieme visitando per diporto alcune delle ville circonvicine a Firenze, e che in una di esse (non rammentava quale) trovarono un bel quadro, credo dell’Albano, rappresentante presso a poco la scena che qui si descrive. Il Poeta l’osservò lungamente, e pel resto della passeggiata fu pensoso, nè volle manifestarle il perchè. Due giorni dopo le disse: quella pittura che vedemmo insieme ieri l’altro, e che mi colpì tanto, spero che mi avrà dato una buona ispirazione per le mie Grazie.