Le Mille ed una Notti/Lettera del califfo Aaron-al-Raschid a Mohammed Zinebi re di Siria

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Lettera del califfo Aaron-al-Raschid a Mohammed Zinebi re di Siria
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LETTERA

DEL CALIFFO AARON-AL-RASCHID

A MOHAMMED ZINEBI RE DI SIRIA.


««Cugino, serve la presente a parteciparvi che un mercante di Damasco, chiamato Ganem, figliuolo di Abu Aibu, sedusse la più amabile delle mie schiave, per nome Tormenta, e quindi prese la fuga. È mia intenzione che, ricevuta la mia lettera, facciate cercare e prendere il detto Ganem. Quando sarà in vostro potere, lo farete caricar di catene, e dargli per tre giorni consecutivi cinquanta nervate. Sia poi condotto per tutti i quartieri della città, preceduto [p. 209 modifica] da un Banditore che gridi a lui davanti: Ecco il più leggiero de’ castighi che il Commendatore de’ credenti fa infliggere a chi offende il suo signore, e seduce una delle sue schiave. Quindi me lo manderete sotto buona scorta. Non basta: voglio che facciate saccheggiare la sua casa, ed atterratala, ordinerete che se ne trasportino i materiali fuor della città in mezzo alla campagna. Inoltre, se ha padre, madre, sorelle, mogli, figliuoli od altri parenti, fateli spogliare ignudi, esponeteli per tre giorni di seguito alla vista di tutta la città, e scacciateli poi, con proibizione, sotto pena della vita, di dar loro ricovero. Spero che non frapporrete alcun ritardo all’esecuzione di quanto vi raccomando.

«Aaron-al-Raschid


«Il califfo, scritta la lettera, ne incaricò un corriere, comandandogli di sollecitarsi, e portar seco alcuni colombi, ond’essere più prontamente informato di ciò che fatto avrebbe Mohammed Zinebi.

«I colombi di Bagdad hanno la particolarità, che in qualunque lontano luogo siano recati, appena lasciati in libertà, tornano a quella capitale, specialmente quand’hanno i pulcini. Si attacca loro sotto l’ala un biglietto piegato, e con tal mezzo si hanno presto le notizie dal luogo d’onde si vogliono sapere. (1)

«Il corriere camminò giorno e notte per corrispondere all’impazienza del padrone, e giunto a Damasco, corse dritto al palazzo del re Zinebi, il quale sedè sul trono per ricevere la lettera del califfo. Avendogliela il corriere presentata, Mohammed la prese, e conosciutone il carattere, alzossi per rispetto, baciò [p. 210 modifica] la lettera e se la pose sul capo, per dimostrare d’esser pronto ad eseguire con sommissione gli ordini che potesse contenere. L’aprì quindi, e quando l’ebbe letta, scese dal trono, salì senza dilazione a cavallo coi primari officiali della sua casa, facendo avvertire il giudice di polizia, il quale subito accorse, e seguito da tutti i soldati della guardia, si recò alla casa di Ganem.

«Dacchè quel giovane mercadante era partito da Damasco, sua madre non ne aveva ricevuto alcuna lettera. Tuttavia, essendo di ritorno gli altri mercanti che avevano fatto con lui il viaggio di Bagdad, le dissero tutti d’aver lasciato il suo figliuolo in perfetta salute; ma siccome non tornava mai, e trascurava di darle egli stesso proprie notizie, non ci volle di più per far credere a quella tenera madre che fosse morto. E se ne persuase in guisa, che vestì il lutto, piangendo Ganem come se lo avesse veduto morire, e chiusigli in persona gli occhi. Giammai una madre mostrò tanto dolore, e lungi dal cercare di consolarsi, compiacevasi nel nutrire la propria afflizione. Fece erigere in mezzo alla corte della sua casa una tomba sotto la quale mise una figura che rappresentava il figlio, e la coprì colle proprie mani d’un velo funebre; passava sotto a quella tomba quasi sempre i giorni e le notti a piangere, come se vi fosse sepolto il corpo di lui, mentre la bella Forza de’ Cuori, sua figliuola, le teneva compagnia, alle sue mescolando le proprie lagrime.

«Era già qualche tempo che s’occupavano ad affliggersi così, e che il vicinato, udendono le grida ed i lamenti, compiangeva quelle dolorose, quando Mohammed Zinebi venne a bussare alla porta, la quale apertagli da una schiava di casa, entrò egli bruscamente, domandando ove fosse Ganem, figliuolo di Abu Aibu.»

La sultana, svegliata dalla sorella più tardi del solito, non potè per quella notte fare un più lungo racconto; l’indomani, lo ripigliò ella in questi sensi: [p. 211 modifica]

NOTTE CCLXXIV


— Sire, quantunque la schiava non avesse mai veduto il re Zinebi, giudicò non per tanto, dal suo seguito, ch’esser dovesse uno de’ primari uffiziali di Damasco, e: — Signore,» gli diss’ella, «quel Ganem che cercate è morto. La mia padrona e sua madre, trovasi attualmente nella tomba che vedete, a piangervi la sua perdita.» Il re, senza fermarsi all’asserzione della schiava, fece praticare dalle sue guardie un’esatta ricerca di Ganem in tutti gli angoli della casa; inoltratosi quindi verso la tomba, vide la madre e la figliuola sedute sur una semplice stuoia, vicino al simulacro che rappresentava Ganem, ed i loro volti gli sembrarono bagnati di lagrime. Quelle povere donne coprironsi de’ loro veli allorchè videro un uomo alla porta; ma la madre, che riconobbe il re di Damasco, alzossi, e corse a prosternarsi a’ suoi piedi. — Mia buona signora,» le disse il principe, «cercava vostro figlio Ganem; è egli qui? — Ah, sire,» sclamò essa; «è molto tempo ch’egli non è più! Volesse Iddio che lo avessi almeno sepolto colle mie mani, e potessi avere la consolazione di possedere in questa tomba le sue ossa! Ah, figlio mio! mio caro figlio!...» Voleva proseguire, ma ne fu impedita dal vivo dolore onde fu colta.

«Zinebi ne rimase commosso. Era quel principe d’indole dolcissima, ed assai pietoso pei mali degl’infelici. — Se Ganem è solo colpevole,» disse fra sè, «perchè punire la madre e la sorella che sono innocenti? Ah, crudele Aaron-al-Raschid! di qual barbaro ufficio m’incaricasti, facendomi ministro della tua [p. 212 modifica] vendetta, ed obbligandomi a perseguitare persone che non ti hanno offeso! —

«Le guardie che il re aveva incaricate di rintracciar Ganem, vennero a riferirgli d’aver fatto inutili ricerche; ne rimase egli persuasissimo, non permettendogli i pianti delle due donne di dubitarne. Era nella massima disperazione di vedersi nella necessità di eseguire gli ordini di Aaron-al-Raschid, ma malgrado la compassione onde sentivasi penetrato, non osava risolversi a deludere il risentimento del califfo. — Mia buona signora,» disse alla madre di Ganem, «uscite di questa tomba, voi e la figliuola vostra: non vi sareste sicure.» Uscirono, ed in pari tempo, per difenderle da ogni insulto, si cavò la sopravveste, ch’era larghissima, e le coprì amendue, comandando loro di non allontanarsi da lui. Ciò fatto, ordinò di lasciar entrare la plebaglia per dar principio al saccheggio, che si fece con estrema avidità, e con grida dalle quali la madre e la sorella di Ganem furono tanto più spaventate, in quanto che ne ignoravano la cagione. Portaronsi via i mobili più preziosi, forzieri pieni di ricchezze, tappeti di Persia e delle Indie, cuscini coperti di stoffe d’oro e d’argento, porcellane: tutto, in una parola, fu asportato, non lasciando della casa che i nudi muri; fu uno spettacolo ben doloroso per quelle sventurate di vedere posti a sacco tutti i loro beni, senza sapere perchè venissero trattate in sì crudel guisa.

«Mohammed, dopo il saccheggio della casa, ordinò al giudice di polizia di farla demolire colla tomba; e mentre vi lavoravano, condusse nel proprio palazzo Forza de’ Cuori e sua madre. Ivi raddoppiò l’afflizione loro, dichiarando la volontà del califfo. — Ei vuole,» disse alle misere donne, «che vi faccia spogliare, e vi esponga così nude agli occhi del popolo per tre giorni. È con somma ripugnanza che mi tocca far eseguire questo crudele ed ignominioso [p. 213 modifica] decreto.» Pronunciò il re tali parole con accento dimostrante com’ei fosse in fatti pieno di dolore e di compassione. Sebbene il timore d’essere detronizzato gl’impedisse di seguire i moti della sua pietà, non lasciò di raddolcire in qualche modo il rigore degli ordini di Aaron-al-Raschid, facendo fare per la madre di Ganem e per Forza de’ Cuori due grosse camicie senza maniche, d’un grossolano tessuto di crini di cavallo.

«All’indomani, le due vittime della collera del califfo vennero spogliate degli abiti e coperte colle camicie di crini; si levarono loro anche le acconciature, cosicchè i capelli sparsi svolazzavano sugli omeri. Forza de’ Cuori li aveva del più bel biondo, e le cadevano fino ai piedi. In tale stato furono mostrate al popolo. Il giudice di polizia, seguito dalla sua gente, le accompagnava, e le fecero girare per tutta la città, precedute da un pubblico banditore, che tratto tratto gridava ad alta voce: Tale è il castigo di chi si è attirato l’indignazione del Commendatore de’ credenti.

«Mentre esse procedevano di tal guisa per le vie di Damasco, colle braccia ed i piedi ignudi, coperte di sì strano abbigliamento, e procurando di nascondere la loro confusione sotto le folte capigliature con cui coprivansi il volto, tutto il popolo struggevasi in lagrime.

«Le donne specialmente, guardando attraverso le gelosie quelle innocenti, ed impietosite particolarmente dalla gioventù e bellezza di Forza de’ Cuori, facevano risuonar l’aria di grida spaventevoli, a misura che passavano sotto le loro finestre. I fanciulli stessi, impauriti da quelle grida e dallo spettacolo che le cagionava, mescolavano i loro pianti alla desolazione generale, accrescendovi nuovo orrore. In fine, quando pure nella città di Damasco fossero penetrati [p. 214 modifica] i nemici, ed avessero messo tutto a fuoco ed a sangue, non vi sarebbe regnata maggior costernazione.

«Era quasi notte quando l’atroce scena finì, e si ricondussero la madre e la figliuola al palazzo del re Mohammed. Non avvezze a camminare a piedi nudi, si trovarono, giungendovi, tanto stanche, che rimasero a lungo fuor de’ sensi. La regina di Damasco, vivamente commossa della loro sciagura, ad onta dell’espresso divieto del califfo di non soccorrerle, mandò alcune delle sue donne per consolarle, con ogni sorta di rinfreschi, e vino per rimetterle in forza.

«Le donne della regina le trovarono ancora svenute, e quasi fuor di stato di approfittare del soccorso che ad esse recavano. Intanto, a forza di cure, si fecero rinvenire, e la madre di Ganem ringraziolle della loro cortesia. — Mia buona dama,» le disse una delle donne della regina, «siamo sensibilissime ai vostri mali; e la regina di Siria, nostra padrona, ci fece un vero piacere incaricandoci di soccorrervi. Possiamo assicurarvi che questa principessa s’interessa alle vostre disgrazie, al pari del re suo consorte. —

«La madre di Ganem pregò le donne della regina a voler fare mille ringraziamenti a quella principessa da parte propria e da parte di Forza de’ Cuori sua figliuola, e volgendosi poi a quella che aveva parlato: — Signora,» le disse. «il re non mi ha detto perchè il Commendatore de’ credenti ci faccia soffrire tanti oltraggi; istruitemene, di grazia, e ditemi quali delitti abbiamo noi commessi. — Mia buona signora,» rispose la donna della regina, «l’origine della vostra sventura proviene da vostro figliuolo Ganem; egli non è morto come voi credevate. Lo accusano di aver rapito la bella Tormenta, la più diletta, fra le favorite del califfo; ed essendosi con pronta fuga [p. 215 modifica] sottratto all’ira di quel principe, il castigo è ricaduto su voi. Tutti biasimano il risentimento del califfo, ma tutti lo temono, e voi vedete che il re Zinebi medesimo non osa contravvenire a’ suoi ordini nella tema di dispiacergli. Perciò, tutto quello che possiamo fare è di compiangervi, ed esortarvi alla pazienza.

«— Conosco mio figlio,» rispose la madre di Ganem; «io l’ho educato con gran cura, e nel rispetto dovuto al Commendatore de’ credenti. Egli non ha certo commessa la colpa che gli viene apposta, e rispondo della sua innocenza. Cesso dunque di mormorare e lagnarmi, poichè soffro per lui, e so ch’egli non è morto. Ah, Ganem!» soggiunse, trasportata da un movimento misto di tenerezza e di gioia, «mio caro figlio, è mai possibile che tu viva ancora? Non deploro più i miei beni; ed a qualunque eccesso giunger possano gli ordini del califfo, gliene perdono tutto il rigore, se il cielo m’ha conservato il figliuolo. Non v’ha che mia figlia, la quale mi affligga: i suoi mali soli formano tutto il mio affanno. La credo però abbastanza buona sorella da seguire il mio esempio. —

«A quei detti, Forza de’ Cuori, ch’era parsa fin allora insensibile, si volse alla madre, e gettandolo le braccia al collo: — Sì, mia cara madre,» le disse, «io seguirò sempre il vostro esempio, a qualunque estremità condurvi possa il vostro amore per mio fratello. —

«La madre e la figlia, confondendo così i sospiri e le lagrime, rimasero a lungo in quel commovente amplesso. Intanto le donne della regina, intenerite da sì pietoso spettacolo, non dimenticarono d’impegnare la madre di Ganem a prendere qualche ristoro; ella mangiò un boccone per contentarle, e Forza de’ Cuori fece altrettanto. [p. 216 modifica]«Siccome gli ordini del califfo ingiungevano che i parenti di Ganem fossero esposti in pubblico nella condizione che abbiam detto per tre giorni consecutivi, Forza de’ Cuori e sua madre servirono alla domane di spettacolo, per la seconda volta, dalla mattina alla sera; ma quel giorno e nel seguente le cose non avvennero nella medesima guisa; le vie, che prima erano piene di gente, diventarono totalmente deserte; i mercatanti, sdegnati del trattamento che si faceva alla vedova ed alla figliuola di Abu Aibu, serrarono le botteghe e si tennero chiusi in casa: le donne, invece di guardare dalle gelosie, ritiraronsi nelle parti più remote delle dimore; in conclusione, non si trovò un’anima nelle pubbliche piazze per le quali le sventurate dovevano passare, e pareva che gli abitanti di Damasco l’avessero abbandonata.

«Il quarto giorno, il re Mohammed Zinebi, il quale voleva eseguire fedelmente gli ordini del califfo, sebbene non li approvasse, mandò banditori per tutti i quartieri della città a pubblicare un rigoroso divieto ad ogni cittadino di Damasco o straniero, di qualunque condizione fosse, sotto pena della vita e d’essere, dopo la morte, abbandonato in pascolo ai cani, di dar ricovero alla madre ed alla sorella di Ganem, o somministrar loro un tozzo di pane, nè una sola goccia d’acqua; in breve, di prestar loro la minima assistenza, e d’avere con esse veruna comunicazione.

«Quando i banditori ebbero eseguite le ingiunzioni del re, comandò questo principe che si scacciassero fuor dal palazzo madre e figliuola, lasciando loro la libertà d’andare dove meglio volessero. Appena furono viste comparire, tutti se ne allontanarono, tanta impressione aveva fatta sugli animi la proibizione pubblicata. Si avvidero le miserelle di venire scansate; ma ignorandone il motivo, ne rimasero estremamente sorprese, ed il loro stupore aumentò [p. 217 modifica] viemaggiormente, quando, entrate nella via dove, fra molte persone, incontrarono alcuni de’ loro migliori amici, videro scomparire anche questi con altrettanta precipitazione degli altri. — Ma come!» sclamò allora la madre di Ganem; «siamo appestate? Il trattamento ingiusto e barbaro che ci fu fatto, ci deve rendere odiose ai nostri concittadini? Andiamo, figliuola,» proseguì ella, «usciamo al più presto di Damasco; non fermiamoci più in una città nella quale facciamo orrore agli stessi nostri amici. —

«Sì dicendo, quelle infelicissime s’avviarono ad una parte remota della città, ritirandosi in una capanna per passarvi la notte. Colà, alcuni musulmani, spinti da spirito di carità e di compassione, vennero, appena calata la sera, a ritrovarle, loro recando varie provvisioni; ma non ardirono fermarsi per consolarle, nella tema di essere scoperti e puniti come disobbedienti agli ordini del califfo.

«Frattanto il re Zinebi aveva rilasciata la colomba per informare Aaron-al-Raschid della sua esattezza, partecipandogli tutto ciò ch’era accaduto, e scongiurandolo a comunicargli ciò che gli piacesse ordinare riguardo alla madre ed alla sorella di Ganem. Sollecita n’ebbe per la medesima via la risposta del califfo, il quale gl’ingiungeva di esiliarle per sempre di Damasco. Tosto dunque il re di Siria mandò alcune guardie alla capanna, coll’ordine di prendere la madre e la figlia, condurle a tre giornate da Damasco, ed ivi lasciarle, facendo loro divieto di tornare in città.

«Le guardie di Zinebi adempirono alla commissione, ma meno esatte del padrone ad eseguire punto per punto gli ordini di Aaron-al-Raschid, diedero per pietà a Forza de’ Cuori ed a sua madre alcune picciole monete, ed un sacco per ciascheduna da mettersi al collo, onde riporvi il vitto. [p. 218 modifica]«In questa deplorabile condizione, giunsero le afflitte al primo villaggio. Si radunarono le paesane intorno ad esse; e siccome, ad onta del loro travestimento, scorgevasi facilmente ch’erano persone di qualche riguardo, fu loro chiesto cosa le astringesse a viaggiare così, sotto un abbigliamento che pareva non essere il loro naturale. Invece di rispondere all’interrogazione, si strussero in lagrime; lo che non servì se non ad accrescere la curiosità delle contadine, e ad ispirar loro viva compassione. La madre di Ganem raccontò quindi quanto avesse sofferto colla figliuola; le buone villane ne rimasero intenerite, e procurando di consolarle, le aiutarono anche per quanto permise loro la propria povertà. Le fecero spogliare delle camicie di crini di cavallo, che assai le incomodavano, per prenderne altre cui ad esse donarono, con un paio di scarpe, e di che coprire la testa per conservarsi i capelli.

«Da quel villaggio, dopo avere ben ringraziate le caritatevoli paesane, Forza de’ Cuori e sua madre inoltraronsi a picciole giornate alla volta di Aleppo. Solevano ritirarsi vicino alle moschee od in quelle, passandovi la notte sulle stuoie, quando n’era coperto il pavimento; altrimenti coricavansi sul nudo terreno, oppure andavano ad alloggiare ne’ luoghi pubblici destinati a servir di ricovero ai viaggiatori. Quanto al cibo, non ne mancavano, incontrando di frequente que’ luoghi dove si distribuiscono gratuitamente ai viaggiatori, che ne domandano, pane, riso cotto ed altre vivande.

«Finalmente giunsero ad Aleppo, ma non vollero fermarvisi, e proseguendo il cammino verso l’Eufrate, passarono quel fiume, ed entrato nella Mesopotamia, l’attraversarono fino a Mussul, di là, per quanti stenti avessero già sofferti, recandosi poscia a Bagdad. Era quello il luogo ove tendevano i loro voti, nella [p. 219 modifica] speranza di trovarvi Ganem, benchè non dovessero lusingarsi ch’egli abitasse in una città dove il califfo faceva la sua dimora, ma pure lo speravano perchè lo bramavano. La loro tenerezza per lui, ad onta di tutte le sciagure, cresceva piuttosto che diminuire: i loro discorsi volgevano solitamente intorno a lui, domandandone anche notizia a tutti quelli che incontravano. Ma lasciamo Forza de’ Cuori e sua madre per tornare a Tormenta.

«Stava questa sempre rinchiusa strettamente nella torre oscura, fin dal giorno stato sì funesto a Ganem ed a lei. Tuttavia, per quanto molesta le fosse la prigione, n’era molto meno dolente che della disgrazia di Ganem, la cui sorte incerta cagionavale un’inquietudine mortale, non essendovi momento che non lo compiangesse.

«Una notte che il califfo passeggiava solo nel ricinto del palazzo, lo che accadevagli di sovente, essendo egli il principe più curioso del mondo, e cui talvolta, nelle sue notturne passeggiate, venivano a cognizione certe cose che accadevano nel palazzo, le quali senza di ciò non gli sarebbero mai state note; una notte dunque, passeggiando, passò presso alla torre oscura, e credendo di udir parlare, si fermò; avvicinossi alla porta per ascoltar meglio, ed intese distintamente queste parole, che Tormenta, sempre in preda alla memoria del giovine mercadante, a voce alta pronunciava: — O Ganem! troppo sfortunato Ganem! dove sei adesso? In qual luogo ti ha condotto il deplorabile tuo destino? Aimè! son io che ti ho reso infelice! Perchè non mi lasciasti perire miseramente, invece di prestarmi il tuo generoso soccorso? Qual tristo frutto hai tu raccolto delle tue cure e del tuo rispetto? Il Commendatore de’ credenti, invece di ricompensarti, ti perseguita in premio d’avermi considerata mai sempre come persona [p. 220 modifica] riservata al suo talamo; tu perdi tutti i tuoi beni, e sei costretto a cercar salvezza nella fuga! Ah, califfo, barbaro califfo! che cosa dirai in tua difesa quando ti troverai con Ganem davanti al tribunale del sovrano giudice, e che gli angeli faranno in tua presenza testimonianza della verità? Tutta la potenza che oggi possiedi, e sotto cui trema quasi tutta la terra, non impedirà che tu sia condannato e punito dell’ingiusta tua violenza.» Cessò a queste parole Tormenta, poichè i sospiri e le lagrime le impedirono di proseguire.

«Non occorse di più per obbligar il califfo a rientrare in sè medesimo. Comprese egli tosto che se le cose udite fossero vere, la sua favorita era innocente, e che aveva dati ordini contro Ganem e la di lui famiglia con troppa precipitazione. Per accertarsi d’una cosa, nella quale pareva interessata l’equità della quale si piccava, tornò subito all’appartamento, ed incaricò Mesrur d’andare alla torre oscura e condurgli Tormenta.

«Il capo degli eunuchi giudicò, da quell’ordine, e più ancora dall’aspetto del califfo, che il principe volesse perdonare alla favorita e richiamarla presso di sè; e ne fu consolatissimo, poichè amava Tormenta ed erasi molto interessato alla sua disgrazia. Volò sull’istante alla torre, e: — Signora,» diss’egli alla favorita, con accento denotante la sua gioia, «abbiate il disturbo di seguirmi; spero non tornerete più in questa brutta torre tenebrosa; il Commendatore de’ credenti vi vuol parlare, ed io ne ho buon augurio. —

«Tormenta seguì Mesrur, che la introdusse nel gabinetto del califfo. Tosto si prosternò essa davanti al principe, e rimase in tale posizione col viso tutto bagnato di lagrime. — Tormenta,» le disse il califfo senza invitarla ad alzarsi; «mi sembra che tu [p. 221 modifica] m’accusi di violenza e d’ingiustizia: chi è dunque colui che, malgrado i riguardi e la considerazione ch’ebbe per me, si trova in uno stato sì miserabile? Parla; sai quanto io sia buono per indole ed ami di rendere giustizia. —

«Comprese la favorita da tal discorso che il califfo l’aveva udita; e profittando di sì bella occasione per giustificare il suo diletto Ganem: — Commendatore de’ credenti,» rispose, «se mi sfuggiva qualche parola che non suoni grata alla maestà vostra, vi supplico umilmente di perdonarmelo. Ma l’uomo di cui volete conoscere l’innocenza e la miseria, è Ganem, l’infelice figliuolo di Abu Aibu, mercadante di Damasco. Egli fu che m’ha salvata la vita, concedendomi asilo in propria casa. Confesserò che, appena mi vide, egli formò forse il pensiero di dedicarsi a me e la speranza d’indurmi a tollerare le sue attenzioni: così giudicai dalla premura che dimostrò nel trattarmi, e rendermi tutti i servigi de’ quali avea d’uopo nella condizione, in cui mi trovava. Ma quando seppe aver io l’onore d’appartenervi: — Ah! madama!» mi disse; «quanto appartiene al padrone, è vietato allo schiavo.» Da quel momento, devo questa giustizia alla sua virtù, la di lui condotta non ismentì le sue parole. Eppure voi sapete, Commendatore de’ credenti, con qual rigore lo trattaste, e ne risponderete davanti al tribunale di Dio. —

«Non si adontò il califfo della libertà usata in quel discorso. — Ma,» ripigliò egli, «posso io fidarmi alle assicurazioni che tu mi dai della ritenutezza di Ganem? — Sì,» rispose quella, «sì, lo potete: non vorrei, per nessuna cosa al mondo, mascherar la verità; e per provarvi che sono sincera, vi farò una confessione che forse vi dispiacerà, ma onde chieggo preventivamente perdono a vostra maestà. — Parla, figliuola,» disse allora [p. 222 modifica] Aaron-al-Raschid; «ti perdono tutto, purchè tu nulla mi nasconda. — Or bene,» replicò Tormenta, «sappiate che l’attenzione rispettosa di Ganem, unita a tutti i buoni offici che m’ha prestati, mi fecero concepire per lui molta stima. Passai anzi più oltre. Voi conoscete la tirannia dell’amore: sentii nascere nel mio cuore teneri sentimenti; egli se ne avvide, ma lungi dal cercare di trar profitto dalla mia debolezza, e ad onta del fuoco di cui sentivasi tutto acceso, egli si mantenne sempre fermo nel suo dovere; e tutto ciò che la sua passione potè strappargli di bocca, furono le parole che già dissi a vostra maestà: «Ciò che appartiene al padrone, è vietato allo schiavo

«Tale ingenua dichiarazione avrebbe forse inasprito ogn’altro fuor del califfo, ma fu invece quella che finì di raddolcire il principe. Comandò a Tormenta di alzarsi, e fattosela sedere vicino: — Raccontami,» le disse, «la tua storia dal principio alla fine.» Allora ella se ne disimpegnò con moltissima abilità e spirito, passando leggermente su ciò che risguardava Zobeide, estendendosi vie più sulle obbligazioni che doveva a Ganem, sulla spesa sostenuta per lei, ed in ispecial modo vantandone la discrezione, per aver così luogo a far comprendere al califfo d’essersi trovata nella necessità di tenersi nacosta in casa di Ganem all’uopo di deludere Zobeide. Terminò poi colla fuga del giovane mercante, alla quale diss’ella, senza dissimulare al califfo, di averlo essa medesima costretto, per sottrarlo alla di lui collera.

«Finito ch’ebbe di parlare, il principe le disse: — Credo tutto ciò che mi avete narrato; ma perchè tardaste tanto a darmi vostre notizie? Era mestieri attendere un mese intero dopo il mio ritorno, per farmi sapere dov’eravate? — Commendatore de’ credenti,» rispose Tormenta, «Ganem usciva di casa sì [p. 223 modifica] di rado, che non dovete maravigliarvi se non siamo stati de’ primi a sapere il vostro ritorno. Inoltre, Ganem, ch’erasi incaricato di far tenere il mio viglietto ad Alba del Giorno, stette molto tempo senza poter trovare il momento favorevole di consegnarlo in proprie mani.

«— Basta così, Tormenta,» ripigliò il califfo; «riconosco il mio fallo, e voglio espiarlo colmando di benefizi quel giovane mercadante di Damasco. Guarda dunque cosa possa io fare per lui; domandami quanto vorrai, che te lo concederò.» A simili parole, la favorita gettossi colla faccia al suolo appiè del califfo, e rialzandosi: — Commendatore de’ credenti,» disse, «dopo aver ringraziata vostra maestà per Ganem, la supplico umilmente a far bandire ne’ vostri stati, che voi perdonate al figliuolo di Abu Aibu, e ch’egli non ha se non a venire a presentarsi. — Farò di più,» ripigliò il principe; «per averti salvata la vita, e riconoscere la considerazione avuta per me; onde indennizzarlo della perdita de’ suoi beni, e finalmente risarcirlo del torto da me fatto alla sua famiglia, te lo concedo in isposo.» Non seppe Tormenta trovare espressioni abbastanza energiche per ringraziare il califfo della sua generosità. Si ritirò poscia nel medesimo appartamento che occupava prima della sua crudele avventura, i cui addobbi erano ancora intatti, non essendo mai stati toccati. Ma ciò che le fece maggior piacere fu di vedervi i forzieri e le balle di Ganem, che Mesrur erasi preso cura di farvi trasportare.»

— Veggo con piacere,» disse il sultano delle Indie, «che il califfo abbia finalmente reso giustizia a quel buon giovane. Qual rammarico non avrà provato il principe d’aver trattato con tal rigore una famiglia innocente! — Sire,» soggiunse Scheherazade, «il califfo non si limitò a riconoscere il proprio [p. 224 modifica] errore; ma dimostrò in tal occasione una grande generosità, come sarò per narrarvi la notte ventura.»


NOTTE CCLXXV


— Sire, alla domane, Aaron-al-Raschid diede ordine al gran visir di far pubblicare per tutte le città de’ suoi dominii, ch’egli perdonava a Ganem, figliuolo di Abu Aibu; ma tale pubblicazione riescì inutile, essendo trascorso assai tempo senza udir parlare del giovane mercatante. Tormenta credè allora che senza dubbio non avesse potuto sopravvivere al dolore d’averla perduta. Una terribile inquietudine venne a straziarle l’anima; ma siccome la speranza è l’ultima cosa che abbandona gli amanti, supplicò il califfo di volerle per mettere di far ella medesima ricerca di Ganem; avutone licenza, prese una borsa di mille pezze d’oro dal suo scrigno, ed uscì una mattina dal palazzo, montata sur una mula delle scuderie del califfo, sfarzosamente bardata. Due eunuchi neri l’accompagnavano, tenendo da ciascun lato la mano sulla groppa della mula.

«Tormenta andò di moschea in moschea a far largizioni ai divoti della religione musulmana, implorando il soccorso delle loro preghiere pel compimento d’un affare importante, dal quale dipendeva, diceva ella, il riposo di due persone; passò così la giornata, facendo elemosine nelle moschee colle sue mille pezze d’oro, e verso sera tornò al palazzo.

«Il giorno appresso prese un’altra borsa della medesima somma, e nello stesso equipaggio si recò al ricinto de’ gioiellieri, dove, fermatasi davanti alla porta, e senza smontare, fece da uno de’ suoi eunuchi neri chiamar il sindaco, il quale, uomo caritatevole e che [p. 225 modifica] impiegava più di due terzi delle sue rendite per soccorrere i poveri stranieri, quando fossero infermi, o sfortunati ne’ loro altari, non fece aspettar Tormenta, cui dall’abbigliamento riconobbe per una dama del palazzo. — Mi rivolgo a voi,» gli diss’ella, mettendogli in mano la borsa, «siccome ad un uomo di cui qui si vanta la pietà. Vi prego di distribuire quest’oro ai poveri forestieri cui assistete, non ignorandolo che fate professione di soccorrere gli stranieri che ricorrono alla vostra carità. So ancora che prevenite i loro bisogni, e non esservi cosa più grata per voi quanto il trovar occasione di alleviare la loro miseria. — Signora,» rispose il sindaco, «eseguirò con piacere quanto mi ordinate; ma se desideraste esercitare la vostra carità da per voi medesima, abbiate l’incomodo di venire fino a casa mia, ove troverete due donne degne della vostra pietà. Le incontrai ieri mentre giungevano in città: erano in un compassionevole stato, ed io ne fui tanto più commosso, perchè mi parvero persone di riguardo. Sotto i cenci che le coprivano, malgrado l’alterazione che la sferza del sole aveva impresso sui loro volti, notai un’aria nobile che non hanno di solito i poveri, cui assisto. Le condussi entrambe a casa mia, e le consegnai a mia moglie, che alla prima fu anch’essa dello stesso mio sentimento; e fece loro preparare dalle sue schiave un buon letto, mentre si adoperava in persona a lavar loro il volto e farle cambiar li vestiti. Non sappiamo ancora chi siano, volendo noi lasciarle prendere un po’ di riposo prima di stancarle colle nostre interrogazioni. —

«Tormenta, senza saperne il motivo, si sentì la curiosità di vederle, ed il sindaco si accinse ad accompagnarla a casa sua; ma essa non volle che si prendesse tale disturbo, e vi si fece condurre da uno schiavo ch’egli le diede. Giunta alla porta, smontò, e seguì lo schiavo del sindaco, ch’era corso innanzi [p. 226 modifica] ad avvertire la padrona, la quale trovavasi nella stanza di Forza de’ Cuori e di sua madre, essendo di queste appunto che il sindaco aveva parlato alla favorita.

«Avendo la moglie del sindaco inteso dallo schiavo che una dama del palazzo trovavasi in casa sua, volle uscire dalla stanza per andarla a ricevere; ma Tormenta, che seguiva da vicino lo schiavo, non gliene lasciò il tempo ed entrò. La moglie del sindaco si prosternò davanti a lei per dimostrarle il proprio rispetto per tutto ciò che apparteneva al califfo. Tormenta, rialzatala, le disse: — Mia buona signora, vi prego di farmi parlare alle due forestiere giunte ier sera a Bagdad. — Madama,» rispose la moglie del sindaco, «sono coricate in que’ due letticciuoli che vedete l’uno accanto all’altro.» Tosto la favorita si accostò a quello della madre, e considerandola con attenzione: — Mia buona donna,» le disse, «vengo ad offrirvi il mio soccorso. Non sono senza credito in questa città, e potrei esser utile a voi ed alla vostra compagna. — Madama,» rispose la madre di Ganem, «dalle cortesi offerte che ci fate, veggo che il cielo non ci abbandonò ancora. Eppure avevamo motivo di crederlo, dopo le disgrazie accaduteci.» Ciò detto, si mise a piangere tanto amaramente, che Tormenta e la moglie del sindaco non seppero trattenere le lagrime.

«La favorita del califfo, asciugate le sue, tornò a dire alla madre di Ganem: — Istruitemi, di grazia, de’ vostri guai, e raccontateci la vostra storia; non sapreste fare una tal narrazione a persone più di noi disposte a tentare tutti i mezzi possibili di consolarvi. — Signora,» rispose l’afflitta vedova di Abu Aibu, «una favorita del Commendatore de’ credenti, una dama chiamata Tormenta, è la cagione di tutte le nostre sciagure.» A simili parole, la favorita del [p. 227 modifica] califfo parve come colta dal fulmine; ma dissimulando il proprio turbamento e l’agitazione, lasciò parlare la madre di Ganem, la quale proseguì in codesta guisa: — Sono vedova di Abu Aibu, mercante di Damasco; aveva un figliuolo chiamato Ganem, il quale, venuto a trafficare a Bagdad, fu accusato d’aver rapita questa Tormenta. Il califfo lo fece cercare dovunque per farlo morire, e non avendolo potuto trovare, scrisse al re di Damasco di far saccheggiare e demolire la nostra casa, ed esporme, colla figliuola, per tre giorni di seguito, affatto ignude, agli occhi del popolo, e quindi bandirci perpetuamente dalla Siria. Ma per quanto indegnamente ci abbiano trattate, io me ne consolerei, se mio figlio vivesse ancora e potessi ritrovarlo. Qual gioia per sua sorella e per me di rivederlo! Dimenticheremmo, abbracciandolo, la perdita de’ nostri beni, e tutti i mali che abbiamo per lui sofferti. Aimè! son persuasa ch’ei non ne sia se non l’innocente cagione, e che non è più colpevole verso il califfo di sua sorella e di me. — No, senza dubbio,» interruppe la favorita a questo passo, «egli non è più colpevole di voi. Io posso assicurarvi della sua innocenza, poichè quella Tormenta, della quale avete tanto a lagnarvi, son io, che per la fatalità degli astri, vi fui causa di tante sventure. A me dovete imputare la perdita di vostro figliuolo, s’egli non è più al mondo; ma se cagionai la vostra disgrazia, posso eziandio ripararla. Ho già giustificato Ganem nell’animo del califfo; questo principe ha fatto pubblicare in tutti i suoi stati che perdonava al figlio di Abu Aibu, e non dubitate ch’ei non vi faccia altrettanto bene quanto male v’ha recato: ora non siete più suoi nemici. Egli attende Ganem per rimunerarlo del servigio a me prestato, unendo le nostre fortune e concedendomi a lui in isposa. Perciò, risguardatemi come vostra figliuola, e permettete che vi consacri eterna amicizia.» Sì dicendo, [p. 228 modifica] si chinò sulla madre di Ganem, la quale non potè rispondere a quel discorso, tanto ne rimase sbalordita. Tormenta se la strinse lunga pezza al seno, e non la lasciò se non per correre all’altro letto ad abbracciare Forza de’ Cuori, la quale, essendosi alzata a sedere per accoglierla, le stese le braccia.

«Quando la vezzosa favorita del califfo ebbe dati alla madre ed alla figlia tutti i segni di tenerezza che potevano attendersi dalla sposa di Ganem, ella disse loro: — Cessate entrambe di dolervi; le robe che Ganem possedeva in questa città, non sono perdute, e trovansi al palazzo del califfo, nel mio appartamento. Ben so che tutte le ricchezze del mondo non varrebbero a consolarvi senza Ganem: tale è il giudizio che faccio della madre e della sorella di lui, se giudicar debbo di esse da me medesima. Il sangue non ha minor forza dell’amore ne’ grandi cuori. Ma perchè disperare di rivederlo? Lo ritroveremo: la fortuna d’avervi incontrate, me ne fa concepire la speranza. Chi sa non sia questo forse l’ultimo giorno dei vostri guai, ed il principio d’una felicità maggiore di quella di cui godevate a Damasco quando c’era Ganem. —

«Stava Tormenta per proseguire, quando giunse il sindaco de’ gioiellieri. — Signora,» le diss’egli, «vidi in questo momento un oggetto assai commovente: è un giovane che un condottiero di camelli conduceva all’ospitale di Bagdad, legato con corde sur un camello, perchè non avea forza di sostenersi. L’avevano già slegato, e stavasi per recarlo nell’ospizio, quand’io, passando di là, avvicinatomi al giovane, lo esaminai con attenzione, e mi parve che il suo volto non mi fosse ignoto. Gli feci alcune domande sulla sua famiglia, ma non potei ricavarne, per tutta risposta, che sospiri e pianti. N’ebbi pietà, e conoscendo, dalla mia abitudine di veder ammalati, ch’egli trovavasi in urgentissimo bisogno d’essere [p. 229 modifica] curato, non volli fosse messo allo spedale, sapendo pur troppo in qual modo vi si trattino gl’infermi, ed essendomi nota l’imperizia dei medici. L’ho fatto dunque portare a casa da’ miei schiavi, i quali, in una stanza a parte dove lo feci mettere, stanno ora cambiandolo, per mio ordine, di biancheria, e lo servono come potrebbero servire me medesimo. —

«Tormenta si scosse a quel discorso del gioielliere, e provò un’emozione della quale non sapeva darsi ragione. — Conducetemi,» disse al sindaco, «nella stanza di quell’ammalato: bramo vederlo.» Il sindaco ve la condusse, e mentre vi si recava, la madre di Ganem disse a Forza de’ Cuori: — Ah, figliuola! per quanto sia miserabile quello straniero infermo, vostro fratello, se è ancora in vita, non trovasi forse in condizione migliore. —

«Giunta la favorita del califfo nella camera dove trovavasi il malato, si accostò al letto sul quale gli schiavi del sindaco lo avevano deposto, e vide un giovine, cogli occhi chiusi, il volto pallido, sfigurato, e tutto coperto di lagrime. L’osserva ella attentamente: il cuore le palpita, crede di riconoscere Ganem, ma tosto diffida de’ propri occhi. Se trova nell’oggetto che rimira qualche lineamento del suo salvatore, le pareva d’altronde tanto diverso, che non osa immaginare esser egli in persona che le si offre alla vista. Non potendo tuttavia resistere alla brama di chiarirsene: — Ganem,» gli disse con voce tremante, «siete voi ch’io veggo?» A tali parole, si fermò per par agio al giovane di rispondere, ma scorgendo ch’egli vi pareva insensibile: — Ah! Ganem,» ripigliò ella, «non sei tu al quale io parlo. Il mio pensiero, tutto pieno della tua immagine, prestava a questo straniero una fallace somiglianza. Il figlio di Abu Aibu, per quanto malato esser potesse, intenderebbe la voce di Tormenta.» A quel nome, Ganem (era proprio il [p. 230 modifica] giovine mercadante), schiuse le palpebre, e volta la testa verso la persona che gli parlava, riconobbe la favorita del califfo. — Ah, signora! siete voi?» sclamò; «per qual miracolo...» Non potè finire, che colto d’improvviso da un trasporto di vivissima gioia, svenne. Tormenta ed il sindaco affrettaronsi a soccorrerlo; ma appena compresero che cominciava a rinvenire, il sindaco pregò la dama a ritirarsi, nel timore che il suo aspetto non irritasse il male di Ganem.

«Il misero giovane, ricuperati gli spiriti, guardò da tutte le parti, e non vedendo ciò che cercava: — Bella Tormenta,» sclamò, «che cosa fu di voi? Vi siete realmente presentata a’ miei sguardi, o questa fu illusione? — No, buon giovane,» gli rispose il sindaco; «non è illusione: sono stato io che feci uscire quella signora; ma la rivedrete appena sarete in istato di sostenerne la vista. Ora avete d’uopo di riposo, e nulla vi deve impedire di prenderne. Gli affari vostri hanno cangiato aspetto, essendo voi, a quanto mi pare, quel Ganem, al quale il Commendatore de’ Credenti fece pubblicare in Bagdad che perdonava il passato. Vi basti adesso saper questo; la dama che vi ha testè parlato, ve ne istruirà più ampiamente. Non pensate dunque se non a ripristinarvi in salute; per me, vi contribuirò in quanto mi sarà possibile.» Ciò detto, lasciò Ganem in riposo, andando a fargli preparare tutti i rimedi che stimò necessari per ripararne le forze, esauste dall’inedia e dalla fatica.

«Intanto, Tormenta trovavasi nella stanza di Forza de’ Cuori e di sua madre, dov’ebbe luogo la medesima scena all’incirca, che quando la madre di Ganem seppe che il forestiero malato, fatto portare dal sindaco in casa sua, era il figliuolo in persona, n’ebbe tanto giubilo, che svenne anch’essa; e quando fu rinvenuta dalla sua debolezza, per le cure di Tormenta e della consorte del sindaco, volle alzarsi per andar a [p. 231 modifica] vederlo: ma il sindaco, che giunse nel frattempo, ne la impedì, dimostrandole essere Ganem tanto debole ed estenuato, che non poteasi, senza comprometterne la vita, eccitare in lui i movimenti che cagionar deve l’inaspettata vista d’una madre e d’una sorella prediletta. Non ebbe il sindaco bisogno di lunghi discorsi per persuadere la madre di Ganem; appena le fu detto non poter parlare col figlio senza mettere a repentaglio i suoi giorni, più non insistette per andarlo a trovare. Allora Tormenta: — Benediciamo il cielo,» disse, «che ci abbia tutti radunati in un medesimo luogo. Io corro al palazzo per informare il califfo di tutte queste avventure, e domattina tornerò a raggiungervi.» Ciò detto, abbracciò madre e figliuola, ed uscì. Giunta al palazzo, fece chiedere al califfo un’udienza particolare, cui ottenne sul momento. Introdotta nel gabinetto del principe, dove questi trovavasi solo, gettassi, secondo l’uso, a’ suoi piedi colla faccia a terra. Le diss’egli di rialzarsi, ed invitatala a sedere, le chiese se avesse nuove di Ganem. — Commendatore de’ credenti,» quella rispose, «ho fatto tanto, che lo trovai insieme a sua madre ed alla sorella.» Il califfo desiderò sapere come avesse potuto rinvenirli in sì breve tempo, ed ella soddisfece alla di lui curiosità, dicendogli tanto bene della madre di Ganem e di Forza de’ Cuori, che gli mise voglia di vederle insieme al giovane mercatante.»


NOTTE CCLXXVI


— Sire, se Aaron-al-Raschid era violento, e se, nei trasporti dell’ira, abbandonavasi talvolta ad azioni crudeli, era in compenso assai equo ed il più generoso dei [p. 232 modifica] principi, quando aveva calmata la collera, e venivagli fatta conoscere la sua ingiustizia. Così, dubitar non potendo di non aver ingiustamente perseguitato Ganem e la sua famiglia, e maltrattatili pubblicamente; risolse di dar loro pubblica soddisfazione. — Assai godo,» disse a Tormenta, «del buon esito delle tue ricerche; ne provo somma gioia, meno per amor tuo che per me medesimo. Manterrò la promessa che feci; tu sarai sposa di Ganem, e ti dichiaro fin da questo momento non più mia schiava: sei libera. Va a trovare il giovane mercatante, ed appena sarà ristabilito, conducimelo con sua madre, e la sorella. —

«All’indomani di buon mattino, Tormenta non mancò di recarsi dal sindaco de’ gioiellieri, impaziente di sapere lo stato di salute di Ganem, e partecipare alla madre ed alla figliuola le buone nuove ond’era latrice. Il primo che incontrò fu il sindaco, il quale le disse che Ganem aveva passata una buona notte, e che il suo male non provenendo se non da melanconia, ed essendone rimossa la causa, sarebbe in breve guarito.

«In fatti, il figliuolo di Abu Aibu si trovò molto meglio: Il riposo e gli opportuni farmachi, e più di tutto la nuova situazione del suo spirito, avevano prodotto sì portentoso effetto, che il sindaco stimò poter egli senza pericolo vedere la madre, la sorella e l’amante, purchè lo si preparasse a riceverle, essendo da temere che, ignorando ch’elleno si trovassero in Bagdad, la loro vista non gli cagionasse troppa sorpresa ed allegrezza. Fu dunque risoluto che Tormenta entrerebbe prima ella sola nella stanza di Ganem, e farebbe segno, quando fosse tempo, alle altre due donne di comparire.

«Così disposte le cose, Tormenta fu dal sindaco annunziata al malato, il quale fu sì lieto di rivederla, che poco mancò non isvenisse di nuovo. — Orbene, [p. 233 modifica] Ganem,» gli disse la giovane, avvicinandosi al letto, «ecco trovata la vostra Tormenta, cui v’immaginatate aver perduta per sempre. — Ah, signora!» interrupp’egli precipitosamente, «per qual miracolo venite a presentarvi a’ miei occhi? Vi credeva nel palazzo del califfo. Quel principe vi avrà di certo ascoltata, avrete dissipati i suoi sospetti, ed egli v’avrà ridonata la sua tenerezza. — Sì, mio caro Ganem,» ripigliò Tormenta, «mi sono giustificata nell’animo del Commendatore de’ credenti, il quale, per riparare al male che vi fece soffrire, mi concede a voi in isposa.» Quest’ultime parole cagionarono a Ganem tale allegrezza, che non potè alla prima esprimersi se non con quel tenero silenzio, tanto noto agli amanti. Ma finalmente lo ruppe, e: — Ah, bella Tormenta!» sclamò; «poss’io prestar fede alle vostre parole? Crederò che in fatti il califfo vi ceda al figliuolo di Abu Aibu? — Niente è più vero,» ripigliò la dama; «quel principe che vi faceva prima cercare per togliervi la vita; ed il quale, nel suo furore, fece soffrire mille indegnità a vostra madre ed a vostra sorella, desidera al presente di vedervi, per ricompensarvi del rispetto avuto per lui; e non v’ha alcun dubbio ch’ei non ricolmi di benefizi tutta la vostra famiglia. —

«Ganem domandò in qual modo il califfo avesse trattato la madre e la sorella; Tormenta glielo narrò, ed il giovane non potè udire quel racconto senza piangere, malgrado la situazione; nella quale la nuova del suo matrimonio coll’amante aveva posto il di lui animo. Quando però Tormenta gli disse ch’esse trovavansi attualmente in Bagdad e nella casa medesima dov’egli stava, dimostrò tanta impazienza di vederle, che la favorita non differì un istante a soddisfarlo. Chiamolle adunque, e le donne, che già stavano alla porta, attendendo quel momento, entrate subito, corrono da Ganem, ed abbracciandolo a vicenda, lo coprono [p. 234 modifica] di mille baci. Quante lagrime furono sparse in quegli amplessi! Ganem ne aveva tutto il volto coperto, al pari della madre e della sorella, e Tormenta ne versò pure in gran copia. Il sindaco stesso e sua moglie, inteneriti da quello spettacolo, non poterono frenare le proprie, nè saziarsi di ammirare le segrete vie della Provvidenza, che raccoglieva in casa loro quattro persone, dalla fortuna sì crudelmente divise.

«Quando tutti ebbero asciugate le lagrime, Ganem ne strappò di nuove facendo l’esposizione di tutto ciò che aveva sofferto dal giorno in cui erasi staccato da Tormenta, sino al momento nel quale il sindaco lo fe’ portare a casa sua. Narrò come, essendosi rifuggito in un picciol villaggio, vi cadde infermo; che alcuni caritatevoli contadini avevano preso cura di lui, ma non potendo guarire, un condottiero di camelli erasi incaricato di condurlo allo spedale di Bagdad. Tormenta raccontò anch’essa tutte le pene della prigionia; come il califfo, avendola intesa parlare nella torre, l’avesse fatta condurre nel suo gabinetto, e con quali discorsi si fosse giustificata. Finalmente, quando ciascuno ebbe narrate paratamente le cose accadutegli, Tormenta soggiunse: — Benediciamo il cielo che ci ha tutti riuniti, e non pensiamo se non alla felicità che ne attende. Appena la salute di Ganem sarà ristabilita, bisognerà ch’egli comparisca davanti al califfo con sua madre e la sorella; ma siccome non sono in istato di mostrarsi, vado subito a disporre il necessario; vi prego di aspettarmi un momento. —

«Così dicendo, ella uscì, andò al palazzo, ed in breve tornò con una borsa, contenente altre mille pezze d’oro, che diede al sindaco, pregandolo a comprar abiti per Forza de’ Cuori e per sua madre. Il sindaco, uomo di buon gusto, ne scelse di bellissimi, e li fece fare colla maggior diligenza, talchè trovaronsi pronti in capo a tre giorni, e Ganem, [p. 235 modifica] sentendosi abbastanza forte per uscire, vi si dispose. Ma il giorno che aveva stabilito per andar ad ossequiare il califfo, mentre vi si preparava con Forza de’ Cuori e la madre, videsi giungere a casa del sindaco il gran visir Giafar.

«Quel ministro era a cavallo con numeroso corteggio di ufficiali, ed entrando: — Signore,» disse a Ganem, «vengo qui da parte del Commendatore dei credenti, mio padrone e vostro. L’ordine onde sono latore è ben diverso da quello del quale non vi voglio rinnovar la memoria: devo accompagnarvi e presentarvi al califfo, che brama vedervi.» Ganem non rispose al gran visir se non con un profondissimo inchino, e salì sur un cavallo delle scuderie del califfo, che gli fu presentato, e cui egli maneggiò con molta grazia. Si fecero montare la madre e la figliuola su due mule del palazzo, e mentre Tormenta, montata anch’essa sopra una mula, le conduceva dal principe per viottoli remoti, Giafar guidò Ganem per un’altra strada, e l’introdusse nella sala d’udienza. Il califfo già vi stava, seduto sul suo trono, circondato dagli emiri, da’ visiri, da’ capi degli uscieri e da altri cortigiani arabi, persiani, egizi, africani e sirii del suo dominio, senza parlare de’ forestieri.

«Quando il gran visir ebbe condotto Ganem appiè del trono, il giovine mercante fece la sua riverenza, gettandosi col volto a terra; indi, rialzatosi, recitò un bellissimo complimento in versi, col quale, benchè composto d’improvviso, non mancò di guadagnarsi l’approvazione di tutta la corte. Dopo il complimento, il califfo lo fece avvicinare, e gli disse: — Sono soddisfattissimo di vederti, e sentire dalla tua propria bocca dov’hai trovato la mia favorita, e tutto ciò che facesti per lei.» Obbedì Ganem, e parve tanto sincero, che il califfo rimase convinto della verità del suo racconto. Gli fece dare una veste [p. 236 modifica] bellissima, secondo l’uso osservato verso quelli ai quali concedevasi udienza; indi gli disse: — Ganem, voglio che tu rimanga alla mia corte. — Commendatore de’ credenti,» rispose il giovane mercatante, «lo schiavo non ha altra volontà fuor di quella del padrone, dal quale dipendono la sua vita ed i suoi averi.» Il califfo; contentissimo di quella risposta, gli donò una grossa pensione, quindi discese dal trono; e facendosi seguire da Ganem e dal gran visir soltanto, entrò nel suo appartamento.

«Siccome non dubitava che vi fosse Tormenta colla vedova e la figliuola di Abu Aibu, ordinò che gli fossero condotte, ed esse se gli prosternarono davanti; ma egli, fattele rialzare, trovò Forza de’ Cuori tanto bella, che dopo averla considerata con attenzione: — Ho tal dolore,» le disse, «di aver trattato sì indegnamente le vostre attrattive, ch’io vi debbo una riparazione che superi l’offesa ad esse fatta. Io vi sposo, e così punirò Zobeide, che diventerà la primaria cagione della vostra felicità, come lo fu de’ vostri passati guai. Nè questo è tutto,» soggiunse, rivolgendosi verso la madre di Ganem; «signora, siete ancor giovane, e credo che non isdegnerete la mano del mio gran visir: vi do a Giafar, e voi, Tormenta, a Ganem. Si facciano venire il cadì ed i testimoni, ed i tre contratti siano stipulati e sottoscritti in questo momento.» Ganem rappresentò al califfo che sua sorella sarebbe troppo onorata d’essere soltanto nel numero delle favorite, ma il principe volle sposarla ad ogni costo.

«Trovò egli questa storia tanto straordinaria, che impose ad un famoso storico di metterla in iscritto con tutte le sue circostanze. Fu poi deposta nel suo archivio, d’onde parecchie copie, tratte da quell’originale, l’hanno resa pubblica.»

Quando Scheherazade ebbe finita la storia di Ganem, [p. 237 modifica] figliuolo di Abu Aibu, il sultano delle Indie dichiarò di nuovo che ne aveva avuto molto piacere, — Sire,» disse allora la sultana, «giacchè questa storia v’ha divertito, supplico umilmente vostra maestà a voler udire quella del principe Zeyn Alasnam e del re dei Geni; non ne sarete meno contento.»

Schahriar accondiscese; ma siccome cominciava ad apparire il giorno, la rimise alla notte seguente, in cui la sultana l’incominciò di tal guisa:



Note

  1. Questo mezzo di corrispondenza assai celere è ancora in uso in varie città dell’Oriente, ed ispecial modo ad Aleppo.