Le Mille ed una Notti/Storia di Ganem, lo schiavo d'Amore, figliuolo d'Abu Aibu

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Storia di Ganem, lo schiavo d'Amore, figliuolo d'Abu Aibu
Storia di Beder, principe di Persia, e di Giauara principessa del regno di Samandal Lettera del califfo Aaron-al-Raschid a Mohammed Zinebi re di Siria

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NOTTE CCLXIX

STORIA

DI GANEM, LO SCHIAVO D’AMORE,

FIGLIUOLO D’ABU AIBU.


— Sire,» disse Scheherazade al sultano dell’Indie, «eravi una volta a Damasco un mercatante, il quale, colla sua industria e le fatiche, aveva accumulato molti beni, co’ quali onoratamente viveva. Abu Aibu, tal n’era il nome, aveva un figliuolo ed una figliuola: il primo, chiamato Ganem, e soprannominato quindi lo Schiavo d’Amore, era ben fatto della persona, ed il suo spirito, per natura eccellente, era stato coltivato da’ buoni maestri che suo padre si prese la cura di dargli; e la figliuola fu detta Forza de’ Cuori (1), essendo di sì perfetta beltà, che tutti quelli i quali la vedevano, non potevano astenersi dall’amarla.

«Abu Aibu morì, lasciando immense ricchezze. Cento carichi di broccati e d’altre stoffe di seta, che trovaronsi ne’ suoi magazzini, ne formavano la minima parte. Erano i carichi già fatti, e su cadauna balla leggevasi in grossi caratteri: Per Bagdad.

«In quel tempo Mohammed, figlio di Solimano, soprannominato Zinebi, regnava nella città di Damasco, capitale della Siria; il suo parente Aaron-al-Raschid, che risiedeva a Bagdad, avevagli concesso quel regno a titolo di tributario.

[p. 179 modifica]«Poco tempo dopo la morte di Abu Aibu, Ganem stava discorrendo colla madre sugli affari di casa, ed a proposito de’ carichi di merci che trovavansi nel magazzino, chiese cosa volesse significare lo scritto che su ciascuna balla leggevasi. — Figliuolo,» gli rispose la madre, «vostro padre viaggiava ora in una provincia ed ora nell’altra, ed aveva l’uso, prima di partire, di scrivere su d’ogni balla il nome della città dove proponeasi di andare. Aveva messo tutto in ordine per fare il viaggio di Bagdad, e stava per partire, quando la morte...» Non ebbe forza di continuare; la memoria troppo viva della perdita del marito non le permise di proseguire, e le fece versare un torrente di lagrime.

«Non potè Ganem veder la madre sua intenerita senza commoversi anch’egli. Rimasero quindi alcuni momenti senza parlare; ma egli infine si rimise, e quando vide la madre in istato d’ascoltarlo, le disse: — Poichè mio padre ha destinato queste merci per Bagdad, e non è più in grado di mettere ad effetto il suo disegno, mi disporrò dunque io a fare tal viaggio. Credo anzi sarà meglio che solleciti la mia partenza, nella tema di veder guastate queste mercanzie, o di perdere l’occasione di venderle vantaggiosamente. —

«La vedova di Abu Aibu, la quale amava teneramente il figliuolo, si spaventò di quella sua risoluzione. — Figlio,» gli rispose, «non posso che lodarvi del voler imitare vostro padre; ma pensate che siete troppo giovane, senza esperienza, e niente affatto avvezzo alle fatiche de’ viaggi. D’altra parte, volete abbandonarmi, ed aggiugnere nuovo dolore a quello che mi opprime? Non sarebbe meglio vendere queste merci ai negozianti di Damasco, e contentarci d’un ragionevole guadagno, che non esporvi a perire? —

[p. 180 modifica]«Ebb’ella un bel combattere il disegno di Ganem con buone ragioni; egli non volle arrendersi. La brama di viaggiare e perfezionar l’intelletto con un’intiera cognizione delle cose del mondo, lo spronava a partire, e la vinse sulle rimostranze, le preghiere e persino le lagrime della genitrice. Andò al mercato degli schiavi, ne acquistò di robusti, prese a nolo cento camelli, e provvedutosi finalmente di tutte le cose necessarie, si pose in cammino con cinque o sei mercanti di Damasco, che andavano a negoziare a Bagdad.

«Questi mercanti, seguiti da tutti i loro schiavi, ed accompagnati da vari altri viaggiatori, componevano una carovana sì grossa, che non ebbero a temer nulla da parte de’ Beduini, vale a dire degli Arabi che altra professione non hanno fuorchè di battere la campagna, per attaccare e depredare le caravane, quando non siano abbastanza forti onde respingere i loro assalti. Non ebbero dunque a provare se non le fatiche ordinarie d’un lungo cammino, facilmente dimenticandole alla vista di Bagdad, dove giunsero felicemente.

«Andarono a smontare nel khan più magnifico e frequentato della città; ma Ganem, che voleva essere alloggiato comodamente ed in privato, non vi prese stanza, contentandosi di lasciarvi in un magazzino le mercanzie, affinchè vi stessero in sicurezza. Prese quindi in affitto nei dintorni una bellissima casa, riccamente ammobigliata, con un giardino amenissimo per la quantità delle fontane e dei boschetti che vi si ammiravano.

«Alcuni giorni dopo che il giovane mercante si fu stabilito in quella casa, e ch’erasi già rimesso affatto dalla fatica del viaggio, si vestì decentemente, e recossi al luogo pubblico, ove soleano radunarsi i mercadanti per vendere o comprare, facendosi seguire da uno schiavo che portava un pacchetto di varie pezze di stoffa e di tele fine.

[p. 181 modifica]«I mercanti ricevettero Ganem con molta cortesia, ed il loro capo o sindaco, al quale alla prima s’indirizzò, prese e comprò tutto il pacco al prezzo notato sul cartellino attaccato ad ogni pezza di stoffa. Continuò poscia Ganem questo negozio con tanta fortuna, che vendette tutte le mercanzie da lui ogni giorno portate.

«Gliene restava una sola balla, che aveva fatto levare dal magazzino e portare a casa, quando, andato un giorno al luogo pubblico, trovò chiuse tutte le botteghe. La cosa gli parve straordinaria, e chiestone la cagione, gli fu detto esser morto uno de’ primi mercanti, a lui non ignoto, e che tutti i suoi confratelli, secondo l’uso, erano andati al suo funerale.

«Ganem s’informò della moschea, ove doveansi fare le preci, e da cui il corpo dovea trasferirsi al luogo della sepoltura; quando gli fu insegnata, rimandò lo schiavo col pacchetto delle merci, e recossi alla moschea. Giunse mentre la preghiera non era ancor finita, e la si faceva in una sala tutta addobbata di raso nero. Se ne levò il cadavere, che il parentado, accompagnato dai mercanti e da Ganem, seguì fino al sepolcro, che stava fuor della città e molto lontano. Era un edificio di pietra a foggia di cupola, destinato a ricevere le spoglie di tutta la famiglia del defunto; ed essendo assai piccolo, vi aveano tutto all’intorno erette molte tende, affinchè ciascuno vi stesse al coperto durante la cerimonia. Aperta la tomba, vi deposero il cadavere, e si tornò a rinchiuderla. Indi l’imano e gli altri ministri della moschea sedettero in circolo su tappeti sotto la tenda principale, e recitarono il resto delle preci, facendo pure lettura de’ capitoli del Corano prescritti pel seppellimento degli estinti. I parenti ed i mercanti, ad esempio de’ ministri, sedettero in circolo dietro a loro.

[p. 182 modifica]«Era quasi notte, quando tutto fu finito. Ganem, il quale non aspettavasi una cerimonia sì lunga, cominciava ad inquietarsene, e l’inquietudine sua crebbe d’assai, quando vide imbandire un banchetto in memoria del defunto, secondo l’uso di Bagdad. Gli dissero inoltre che le tende non eransi innalzate soltanto per difendersi dagli ardori del sole, ma eziandio onde preservarsi dalla rugiada notturna, non dovendosi tornare alla città se non all’indomani. Tale discorso conturbò Ganem. — Sono straniero,» disse fra sè; «ho fama di ricco mercante; potrebbero i ladri approfittare della mia assenza, ed andar a saccheggiarmi la casa. I miei schiavi medesimi potrebbero essere tentati da occasione sì bella; non hanno che a darsi alla fuga con tutto il danaro ricavato dalle mie merci; dove andrei a cercarli?» Preoccupato da codesti pensieri, mangiò due bocconi in fretta, e si sottrasse destramente alla compagnia.

«Affrettò i passi per essere più sollecito: ma come sovente accade che quanto si ha maggior fretta, tanto meno si avanzi, prese una strada per l’altra, e si smarrì nell’oscurità, per modo ch’era quasi mezzanotte quando giunse alla porta della città. Per maggior disgrazia, la trovò chiusa. Gli cagionò quel contrattempo nuova pena, e fu costretto a prendere il partito di cercar un luogo dove passare il resto della notte onde attendere che si aprisse la porta. Entrò pertanto in un cimitero sì vasto, che dalla città estendevasi fino al luogo d’ond’era venuto, inoltrandosi sino a certe mura assai alte che contornavano un campicello, il quale formava il cimitero particolare d’una famiglia, ed in mezzo a cui sorgeva una palma. Eravi inoltre un’infinità di altri cimiteri particolari, de’ quali non prendevano troppa cura di chiudere le porte; Ganem, trovando aperta quella dove stava la palma, vi penetrò, si chiuse dietro la porta, e [p. 183 modifica] coricatosi sull’erba, fece il possibile per addormentarsi; ma la di lui inquietudine al trovarsi fuor di casa, glielo impedì. Si alzò, e dopo essere, passeggiando, passato e ripassato più volte davanti alla porta, l’aprì senza saperne il motivo, e subito scorse da lungi un lume che pareva venire alla sua volta. A tal vista, fu colto da paura; sospinse la porta, che chiudevasi appena con un saliscendi, e salì ratto in cima alla palma, la quale, nello spavento ond’era agitato, gli parve il più sicuro asilo che potesse trovare.

«Non vi fu appena accomodato, che, col favore del lume che avevalo atterrito, vide entrare nel cimitero, dove trovavasi, tre uomini, che dagli abiti riconobbe per ischiavi. Uno di costoro camminava innanzi con una lanterna, e gli altri due lo seguivano carichi d’una cassa lunga da cinque a sei piedi, che portavano sulle spalle; depostala in terra, uno de’ tre schiavi disse allora a’ suoi compagni: — Fratelli, se volete fare a mio modo, lasciamo qui questa cassa, e torniamo alla città. — No, no,» rispose un altro, «non è così che dobbiamo eseguire gli ordini della nostra padrona. Potremmo pentirci di averli trascurati; sotterriamo la cassa, giacchè così ci fu comandato.» Si arresero gli altri due schiavi alla di lui opinione, e cominciarono a scavare la terra con alcuni strumenti portati a tal uopo; quand’ebbero fatta una profonda fossa, vi calarono la cassa, e la coprirono colla terra che ne avevano levata. Usciti quindi dal cimitero, se ne andarono pe’ fatti loro.»

Scheherazade cessò di parlare, con gran dispiacere della sorella e del sultano, i quali avrebbero desiderato saper subito che cosa quella cassa poteva contenere. La sultana lo narrò loro la domane in codesti termini: [p. 184 modifica]

NOTTE CCLXX


— Sire, Ganem, che dall’alto della palma aveva intese le parole proferite dagli schiavi, non sapeva cosa pensare di quell’avventura. Giudicando dover quella cassa racchiudere qualche cosa di prezioso, e che la persona alla quale apparteneva avesse le sue ragioni per farla nascondere in quel cimitero, risolse di chiarirsene sul momento; disceso dalla palma, avendogli la partenza degli schiavi tolta ogni paura, cominciò a lavorare alla fossa, e vi adoperò tanto bene mani e piedi, che in poco tempo mise la cassa allo scoperto; ma trovolla chiusa con una forte serratura, nuovo ostacolo che lo mortificò grandemente, impedendogli così di soddisfare la sua curiosità. Pure non si smarrì di coraggio, e venendo nel frattempo a spuntare il giorno, la sua luce gli fece scoprire, sparsi pel cimitero, varii grossi ciottoli. Ne scelse uno col quale non durò molta fatica a rompere la serratura, ed allora, pieno d’impazienza, aprì il forziere. Ma invece di trovarvi danaro come se lo era immaginato, Ganem fu colto da estrema sorpresa vedendovi una giovane dama d’impareggiabile bellezza. Dal colorito fresco e vermiglio, e più ancora da una respirazione dolce e regolare, conobbe ch’era piena di vita; ma non poteva comprendere perchè, se non era che addormentata, non si fosse desta allo strepito da lui fatto nel rompere la serratura. Aveva un vestito così magnifico, braccialetti ed orecchini di diamanti, con una collana di perle fine tanto grosse, ch’ei non dubitò un momento non foss’ella una dama fra le prime della corte. Alla vista di sì [p. 185 modifica] bell’oggetto, non solo la pietà e l’inclinazione naturale a soccorrere le persone che trovansi in pericolo, ma eziandio qualche cosa di più forte cui non sapeva allora ben indovinare, lo indussero a prodigare a quella giovane beltà tutti i soccorsi che stavano in lui.

«Prima di tutto andò a chiudere la porta del cimitero lasciata aperta dagli schiavi, indi tornò a prendere la donna fra le braccia, la trasse fuori dalla cassa, e l’adagiò sulla terra che aveva rimossa. Appena fu colei in quella situazione ed esposta all’aria aperta, sternutò, e con un piccolo sforzo che fece voltando la testa, rigettò dalla bocca un liquore, di cui pareva che avesse grave lo stomaco; poi, socchiudendo e strofinandosi gli occhi, sclamò con voce, di cui Ganem, ch’essa non vedeva, rimase incantato: — Fior di Giardino (2), Ramo di Corallo (3), Canna di Zuccaro (4), Luce del Giorno (5), Stella Mattutina (6), Delizie del Tempo (7), parlate dunque, dove siete?» Erano i nomi di altrettante schiave che solevano servirla: le chiamava ella, e maravigliavasi al sommo che nessuna rispondesse. Aprì finalmente gli occhi, e vedendosi in un cimitero, fu colta da grande spavento. — Come!» sclamò più forte di prima; «i morti risuscitano? Siamo al giorno del giudizio? Quale strano cangiamento dalla sera alla mattina! —

«Ganem non volle lasciare la dama più lungamente in tale inquietudine, e le si presentò tosto davanti con tutto il rispetto possibile e nella maniera [p. 186 modifica] più cortese del mondo. — Signora,» le disse, «non vi posso esprimere se non debolmente la gioia che provo di essermi trovato qui per rendervi il servigio che vi feci, e potervi offrire tutti i soccorsi, de’ quali avete bisogno, nello stato in cui vi trovate. —

«Per impegnare la signora a riporre tutta la fiducia in lui, le disse primieramente chi fosse, e per qual caso si trovasse in quel cimitero. Le raccontò poi l’arrivo dei tre schiavi ed in qual modo avessero sepolta la cassa. La dama, la quale erasi coperta il volto col velo alla presenza di Ganem, si sentì vivamente commossa per l’obbligazione che gli doveva. — Ringrazio Iddio,» gli disse, «d’avermi mandato un uomo onesto come voi per iscamparmi dalla morte. Ma poichè cominciaste opera tanto caritatevole, deh! non lasciatela, ve ne scongiuro, imperfetta. In grazia, andate alla città a cercar un mulattiere che venga colla sua bestia a prendermi, e mi trasporti a casa vostra entro questa medesima cassa; poichè se venissi con voi a piedi, essendo il mio vestito diverso da quello delle dame della città, qualcuno potrebbe osservarmi e seguirmi; cosa che per me è dell’ultima importanza di evitare. Quando sarò in casa vostra, saprete chi sono dal racconto che vi farò della mia storia, e frattanto siate persuaso che non avrete obbligato un’ingrata. —

«Prima di lasciare la dama, il giovane mercante cavò la cassa dalla fossa; colmò questa di terra, ripose in quella la donna, e ve la chiuse in modo da non parere che la serratura fosse rotta. Ma temendo non vi soffocasse, non rinchiuse esattamente la cassa, onde lasciarvi penetrar l’aria. Uscendo quindi dal cimitero, si tirò dietro la porta; e siccome quella della città era già aperta, trovò in breve l’uomo che cercava, e tornato subito al cimitero, aiutò il mulattiere a caricare la cassa sul mulo; e per [p. 187 modifica] torgliergli ogni sospetto, gli disse d’essere arrivato la notte con un altro mulattiere, il quale, frettoloso di andarsene, avevala scaricata nel cimitero.

«Ganem, il quale, dal suo arrivo a Bagdad, non erasi occupato se non de’ suoi affari, non aveva ancora provato la potenza d’amore. Ne sentì allora i primi strali, non avendo potuto vedere la donna senza restarne abbagliato; e l’inquietudine da cui si sentì agitato, seguendo da lungi il mulattiere, ed il timore che non accadesse per istrada qualche caso che perdere gli facesse la sua conquista, gl’insegnarono a comprendere i suoi sentimenti. Estrema fu la sua gioia, quando, giunto felicemente a casa, vide deposta in sicuro la cassa. Congedò il mulattiere, e fatta chiudere da uno schiavo la porta della casa, aprì il forziere, aiutò la dama ad uscirne, e presentatale la mano, la condusse nel suo appartamento, compiangendola per quello che aveva dovuto soffrire in sì angusta prigione. — Se ho sofferto,» diss’ella, «ne sono ben indennizzata da ciò che faceste per me, e pel piacere che provo nel vedermi in sicuro. —

«L’appartamento di Ganem, per quanto riccamente ammobigliato, attrasse meno gli sguardi della dama, che non la statura ed il bell’aspetto del suo liberatore, la cui gentilezza e le maniere cortesi le ispirarono una viva riconoscenza. Sedette sur un sofà, e per cominciare a far conoscere al mercante quanto fosse sensibile al servigio ricevuto, si levò il velo. Ganem, da parte sua, sentì tutto il valore della grazia che una dama così amabile gli faceva mostrandosegli a faccia scoperta, o a meglio dire s’avvide di sentir già per lei una violenta passione; e per quanta obbligazione gli avesse, si credè troppo ricompensato da sì prezioso favore.

«Indovinò la signora i sentimenti di Ganem, e non se ne inquietò, poichè le parve rispettosissimo. [p. 188 modifica] Allora, giudicando che avesse bisogno di mangiare, e non volendo incaricare niun altro, fuor di se medesimo, della cura di servire un’ospite tanto vezzosa, uscì seguito da uno schiavo, ed andò da un oste ad ordinarvi un pranzo, di là poi passando da un fruttaiuolo, dove scelse i più belli e migliori frutti, e facendo anche provvigione di eccellente vino e del medesimo pane che mangiavasi al palazzo del califfo.

«Di ritorno a casa, formò di propria mano una piramide di tutti i frutti comprati, e servendoli in persona alla dama sopra un bacino di porcellana finissima: — Signora,» le disse, «attendendo un cibo più sostanzioso e degno di voi, scegliete, di grazia, qualcuno di questi frutti.» Egli voleva restar in piedi: ma la donna gli disse che non toccherebbe nulla se non lo vedeva seduto, e non mangiasse con lei. Obbedì egli, e dopo ch’ebbero mangiato qualche boccone, Ganem, notando che il velo dalla dama postosi vicino sul sofà, aveva il lembo ricamato a caratteri d’oro, le chiese di vedere quel ricamo, e la dama, dato subito di piglio al velo, glielo presentò, domandandogli se sapesse leggere. — Signora,» rispos’egli in aria modesta, «un mercante farebbe male gli affari suoi se non sapesse almeno leggere e scrivere. — Or bene,» ripigliò quella, «leggete le parole ricamate su questo velo; sarà per me una bella occasione di raccontarvi la mia storia. —

«Ganem prese il velo, e vi lesse queste parole: «Io sono vostra e voi siete mio, o discendente dello zio del profeta.» Questo discendente dello zio del profeta era il califfo Aaron-al-Raschid, allora regnante, che discendeva da Abbas, zio di Maometto.

«Quando il giovane ebbe compreso il senso di queste parole: — Ah, signora!» sclamò mestamente; «io v’ho data la vita, ed ecco uno scritto che mi reca la morte! Non ne comprendo tutto il mistero, ma [p. 189 modifica] pur troppo mi fa conoscere ch’io sono il più infelice degli uomini. Perdonate, o signora, la libertà che mi prendo di dirvelo. Non ho potuto vedervi senza donarvi il mio cuore; nè voi medesima ignorate non essere stato in mio potere di ricusarvelo, e ciò rende scusabile la mia temerità. Io mi proponeva di commovere il vostro co’ miei rispetti, colle cure, le compiacenze e le mie assiduità, la mia sommissione e la mia costanza; ed appena ho concepito questo lusinghiero progetto, eccomi deluso in tutte le mie speranze. Non son certo di sopportare a lungo sì grave disgrazia. Ma checchè possa accadere, avrò la consolazione di morire tutto vostro. Finite, signora, finite, ve ne scongiuro, di darmi un intiero schiarimento sul mio tristo destino.

«Non potè pronunciare tali parole senza spargere qualche lagrima. La dama ne fu commossa, e lungi dal dolersi della dichiarazione udita, ne provò una segreta gioia, chè il suo cuore già cominciava a lasciarsi sorprendere. Dissimulò tuttavia, e quasi non avesse badato al discorso di Ganem: — Mi sarei ben guardata,» gli rispose, e di farvi vedere il mio velo, se avessi creduto che vi potess’essere cagione di tanto dispiacere; nè veggo che le cose, cui sono per dirvi, debbano rendere la vostra sorte tanto deplorabile quanto v’immaginate. Saprete dunque,» proseguiva, «per raccontarvi la mia storia, ch’io mi chiamo Tormenta (8), nome che mi fu imposto al momento della nascita, poichè si giudicò che la mia vista cagionerebbe un giorno gravi mali. Esso non vi dev’essere ignoto, non essendovi alcuno in Bagdad il quale non sappia che il califfo Aaron-al-Raschid, mio sovrano padrone e vostro, ha una favorita così chiamata. Condotta fino dalla più tenera infanzia nel suo palazzo, [p. 190 modifica] vi fui educata con tutta la cura che suolsi avere delle persone del mio sesso destinate a rimanervi. Non riuscii male in tutto ciò che si prese la briga d’insegnarmi, e questo, unito a qualche bellezza, m’acquistò l’affetto del califfo, il quale mi diede un appartamento particolare vicino al suo. Nè quel principe si contentò di tale distinzione, destinando per servirmi venti donne ed altrettanti eunuchi; da quel tempo mi fece regali sì preziosi, che mi trovai più ricca di qualunque regina del mondo. Da ciò voi ben giudicherete che Zobeide, moglie e parente del califfo, non potè vedere la mia fortuna senza ingelosirne; e sebbene Aaron abbia per lei tutta l’immaginabile considerazione, essa cercò tutte le occasioni di perdermi. Fino al presente io m’era ben guarentita da’ suoi attentati: ma finalmente soccombetti all’ultimo sforzo della gelosia, e senza di voi sarei a quest’ora nell’aspettativa d’una morte inevitabile. Non dubito ch’essa non abbia corrotta una delle mie schiave, la quale mi presentò ier sera nella limonata una droga, che produce un assopimento tale, che per sette od otto ore nulla è capace di dissiparlo. Ed ho tanto maggior motivo di fare un simile giudizio, avendo io il sonno naturalmente leggero e svegliandomi al minimo rumore. Zobeide, per eseguire il suo tristo disegno, approfittò dell’assenza del califfo, il quale, da pochi giorni, è andato a mettersi alla testa delle sue truppe per punire l’audacia di alcuni re vicini, collegatisi per movergli guerra. Senza tale congiuntura, la mia rivale, pur furibonda com’è, non avrebbe osato intraprender nulla contro la mia vita. Non so cosa farà per celare al califfo la conoscenza di quest’azione; ma voi vedete aver io grandissimo interesse che custodiate il segreto. Ci va della mia vita: non sarei sicura in casa vostra, finchè il califfo rimarrà fuor di Bagdad. E voi [p. 191 modifica] medesimo siete interessato a tener segreta la mia avventura, poichè se Zobeide sapesse l’obbligazione che vi debbo, punirebbe anche voi d’avermi conservata. Al ritorno del califfo, avrò meno riguardi da osservare. Troverò modo d’istruirlo, e son persuasa che sarà più sollecito di me a riconoscere un servigio che mi rende al suo amore. —

«Quando la bella favorita di Aaron-al-Raschid ebbe finito di parlare, Ganem così le rispose: - Ma dama, vi ringrazio mille volte d’avermi dato gli schiarimenti che mi presi la libertà di domandarvi, e vi supplico a credere che qui siete in piena sicurezza. I sentimenti che m’avete ispirati, vi rispondono della mia discrezione. Quanto a quelle de’ miei schiavi, confesso che bisogna diffidarne; potrebbero essi mancare alla fedeltà che mi devono, se sapessero per qual caso ed in qual luogo ebbi la buona ventura d’incontrarvi. Ma questo è ciò che lor è impossibile d’indovinare; oserei anzi assicurarvi che non avranno pur la minima curiosità d’informarsene. È così naturale ai giovani il cercare belle schiave, che non saranno menomamente sorpresi di vedervi qui, imaginando esserne voi una da me comprata. Crederanno inoltre ch’io abbia avuto le mie buone ragioni per condurvi a casa mia nella maniera che hanno veduto: non temete adunque di nulla, e state sicura che sarete qui servita con tutto il rispetto dovuto alla favorita d’un possente monarca com’è il nostro. Ma qualunque sia la grandezza che lo circonda, permettetemi di dichiararvi, o signora, che nulla sarà capace di farmi rivocare il dono da me fattovi del mio cuore. Ben so, che non dimenticherò giammai, «che quanto appartiene al padrone, è vietato alto schiavo.» Ma io vi amava prima che mi aveste palesato essere la vostra fede vincolata al califfo; nè dipende da me il vincere [p. 192 modifica] una passione, la quale, benchè ancora nascente, ha già tutta la forza d’un amore rinvigorito da perfetta reciprocità. Desidero che il vostro augusto e troppo felice amante vi vendichi della malignità di Zobeide, richiamandovi presso di lui, e che quando sarete restituita a’ suoi voti, vi ricordiate dello sfortunato Ganem, che, non meno del califfo, è vostra conquista. Per quanto potente sia quel principe, se siete sensibile alla tenerezza, ho fiducia che non mi cancellerà dalla vostra memoria. Egli non può amarvi con maggior ardore di me, e non cesserò di ardere per voi, in qualunque luogo del mondo me ne vada a spirare dopo avervi perduta. —

«Tormenta s’avvide che Ganem era penetrato dal più vivo dolore, e ne fu intenerita; ma scorgendo l’imbarazzo in cui sarebbesi messa continuando il colloquio sulla medesima materia, che poteva insensibilmente condurla a lasciar trasparire l’inclinazione che sentiva per lui: — Ben veggo,» gli disse, «che questo discorso vi reca troppa pena; lasciamolo, e parliamo degli obblighi infiniti che ho verso di voi. Non posso esprimervi abbastanza il mio giubilo, quando penso che, senza il vostro soccorso, sarei priva della luce del giorno. —

«Fortunatamente per amendue si bussò in quel momento alla porta, e Ganem, alzatosi per andar, a vedere chi fosse, vide ch’era uno de’ suoi schiavi, il quale veniva ad annunciargli l’arrivo del bettoliere. Il giovane, il quale, per maggior precauzione, non voleva che gli schiavi entrassero nella camera, ove trovavasi Tormenta, andò a prendere i cibi portati, e li servì egli medesimo alla bella sua ospite, la quale, nel fondo del cuore, giubilava delle cure ch’egli si prendeva per lei.

«Dopo il pranzo, Ganem sparecchiò la tavola, e riposte tutte le cose alla porta della stanza in mano [p. 193 modifica] degli schiavi: — Signora,» disse poi a Tormenta, «sarete forse adesso desiderosa di quiete. Vi lascio dunque, e quando avrete preso qualche riposo, mi troverete pronto a ricevere i vostri comandi.» E così dicendo, uscì di casa, ed andò a comprare due schiave, come comprò pure due fagotti, uno di finissima biancheria, l’altro di tutto ciò che può comportare una toletta degna della favorita del califfo. Condotte a casa le schiave, e presentatele a Tormenta: — Signora,» le disse, «una persona come voi ha bisogno di due fanciulle almeno che la debbano servire; aggradite che vi dia queste. —

«Tormenta ammirò l’attenzione di Ganem, e: — Ben veggo, o signore,» gli rispose, «che non siete uomo da fare le cose a metà. Voi accrescete colle vostre cortesie l’obbligazione che vi debbo; ma spero di non morire ingrata, e che il cielo mi metterà ben presto in grado di riconoscere tutte le generose vostre attenzioni.»

La sultana, interrotta nel racconto dallo spuntare del giorno, lo ripigliò, la notte seguente, in codesta guisa:


NOTTE CCLXXI


— Sire, quando le schiave si furono ritirate in una stanza vicina, dove mandolle il giovane mercatante, egli sedette sul sofà dov’era Tormenta, ma a certa distanza da lei, per dimostrarle maggior rispetto. Ricondusse quindi il discorso sulla propria passione, e disse cose commoventissime intorno agli ostacoli invincibili che toglievangli qualunque speranza. — Non oso nemmeno sperare,» diceva, «di eccitare colla mia [p. 194 modifica] tenerezza il minimo moto di sensibilità in un cuore come il vostro, destinato al più possente principe della terra. Aimè! nella mia disgrazia sarebbe pure una consolazione per me, se potessi lusingarmi che non aveste potuto vedere con indifferenza l’eccesso della mia passione! — Signore,» gli rispose Tormenta.... — Ah! madama,» interruppe Ganem a quella parola di signore; «è la seconda volta che mi fate l’onore di trattarmi da signore! La presenza delle schiave mi ha, la prima volta, impedito di dirvi ciò che ne pensava: in nome di Dio, madama, non mi date questo titolo onorifico; desso non mi conviene. Trattatemi, di grazia, come vostro schiavo: lo sono, e non cesserò mai d’esserlo.

«— No, no,» interruppe a sua volta Tormenta, «mi guarderò bene dal trattare così un uomo, al quale debbo la vita. Sarei un’ingrata, se dicessi o facessi alcuna cosa che non vi convenisse. Lasciatemi dunque seguire i moti della mia gratitudine, e non esigete, per guiderdone de’ vostri benefizi, ch’io adoperi malamente con voi. Non lo farò giammai: sono troppo commossa per abusarne, e vi confesserò pure che non veggo con occhio indifferente tutte le cure che vi prendete. Non posso dirvi di più: sapete le ragioni che mi costringono al silenzio. —

«Ganem fu lieto di tale dichiarazione; ne pianse d’allegrezza, e non sapendo trovare termini abbastanza adatti al suo desiderio per ringraziare Tormenta, si contentò di dirle che s’ella sapeva ciò che al califfo dovesse, egli da parte propria non ignorava che quanto appartiene al padrone, è vietato allo schiavo.

«Accortosi che calava la notte, si alzò per andar a prendere il lume, e lo portò egli medesimo, insieme a qualche cosa per far merenda, secondo l’uso comune della città di Bagdad, dove, fatto un buon pasto al mezzogiorno, si passa la sera a mangiar frutti [p. 195 modifica] e bere buon vino, conversando piacevolmente sino all’ora di ritirarsi.

«Si posero ambedue a tavola, e si fecero sulle prime molti complimenti per le frutta che scambievolmente si presentavano. L’eccellenza del vino li impegnò a bere, e quand’ebbero bevuto due o tre bicchieri, si fecero una legge di non più bere senza prima cantar qualche arietta. Ganem cantava versi composti all’improvviso, ed esprimenti la forza di sua passione; e Tormenta, animata dall’esempio, componeva e cantava ella pure canzoni che riferivansi alla sua avventura, e nelle quali c’era sempre qualche cosa che Ganem poteva spiegare in proprio favore. Tranne questo, la fedeltà che la giovane doveva al califfo vi fu gelosamente custodita. Durò a lungo la cena, e la notte era già assai inoltrata, ehe non pensavano ancora a separarsi. Ganem, infine, si ritirò in un altro appartamento, e lasciò Tormenta in quello in cui trovavasi, e dove entrarono per servirla le schiave da lui comprate.

«Vissero in questa guisa parecchi giorni. Il giovane mercante non usciva se non per gli affari dell’ultima importanza, ed ancora prendeva il tempo che la sua dama riposava, non potendo risolversi a perdere uno solo dei momenti che gli fosse concesso di passare a lei vicino. Non occupavasi che della sua cara Tormenta, la quale, da parte sua, trascinata dalla propria inclinazione, gli confessò di non aver concepito minor amore per lui ch’egli non ne sentisse. Nonostante, per quanto accesi fossero l’uno dell’altra, la considerazione del califfo ebbe la forza di ritenerli nei limiti del dovere, più viva rendendo così la loro passione.

«Mentre Tormenta, strappata, per così dire, dalle mani della morte, passava sì gradevolmente il tempo presso Ganem, Zobeide non era senza imbarazzi nel palazzo di Aaron-al-Raschid.

[p. 196 modifica]«I tre schiavi, ministri della sua vendetta, non ebbero appena portata via la cassa senza sapere ciò che contenesse e senza nemmeno avere nessuna curiosità di conoscerlo, come gente avvezza ad eseguire ciecamente i suoi ordini, ch’essa cadde in preda ad una crudele inquietudine. Mille importune riflessioni vennero a turbarne il riposo, talchè non potendo gustare le dolcezze del sonno, passò la notte meditando ai mezzi di celare il suo delitto. — Il mio sposo,» diceva, «ama Tormenta più che non abbia mai amato alcuna delle sue favorite. Che cosa gli risponderò al suo ritorno, quando mi chiederà di lei?» Le passarono per la mente vari strattagemmi, ma non n’era contenta: vi trovava sempre difficoltà, nè sapeva come decidersi. Aveva ella presso di sè una vecchia dama che avevala educata fino dalla più tenera infanzia; la fece venire allo spuntar del giorno, e confidatole il fatal segreto: — Mia buona madre,» le disse, «voi mi avete sempre assistito co’ vostri buoni consigli; se mai n’ebbi bisogno, è in quest’occasione, in cui si tratta di calmarmi lo spirito agitato da un turbamento mortale, e darmi il mezzo di contentare il califfo. —

«— Mia cara padrona,» rispose la vecchia dama, «sarebbe stato molto meglio che non vi foste posta nell’imbarazzo, in cui siete; ma siccome la cosa è fatta, non occorre parlarne più. Ora dobbiamo pensare al mezzo di deludere il Commendatore de’ credenti, ed io sono di parere che facciate lavorare in fretta un pezzo di legno in forma di cadavere; lo avvolgeremo di cenci, e dopo averlo chiuso in un feretro, lo faremo sotterrare in qualche sito del palazzo; poscia, senza perder tempo, farete erigere un mausoleo di marmo a cupola sul luogo della sepoltura, ed innalzare un catafalco che farete coprire di drappo nero, con accompagnamento di grandi candelabri e grossi ceri tutto all’intorno. V’ha un’altra cosa,» [p. 197 modifica] proseguiva la vecchia, «che non converrà dimenticare: bisognerà vestirvi a lutto, e vestirne le vostre donne, come anche quelle di Tormenta, i vostri eunuchi, e tutti gli ufficiali del palazzo. Quando il califfo tornerà, e vedrà in gramaglia tutto il suo palazzo e voi medesima, non mancherà di domandarne il motivo. Allora potrete farvi un merito presso di lui, dicendogli essere a suo riguardo che voleste rendere gli ultimi uffici a Tormenta, rapita da morte subitanea. Gli direte d’aver fatto fabbricare un mausoleo, e che infine avete reso alla sua favorita tutti gli onori ch’egli medesimo le avrebbe fatto se fosse stato presente. Siccome la sua passione per lei era estrema, andrà senza dubbio a sparger lagrime sulla di lei tomba. Fors’anco,» soggiunse la vecchia, «non crederà ch’ella sia proprio morta; potrà sospettarvi d’averla per gelosia scacciata dal palazzo, e riguardare tutto questo apparato come un artificio per ingannarlo ed impedirgli di farla cercare. È da supporsi che farà dissotterrare ed aprire il feretro, ma è certo che si persuaderà della sua morte, appena vegga la figura d’un cadavere seppellito. Vi sarà grato allora di tutto ciò che avrete fatto, e ve ne attesterà la sua riconoscenza. Quanto al pezzo di legno, m’incaricò di farlo intagliare io medesima da un artefice della città, che non saprà l’uso che se ne vuol fare. Circa a voi, signora, ordinate a quella donna di Tormenta, che le presentò ieri la limonata, di annunciare alle sue compagne d’aver trovata la padrona morta in letto; ed acciò non pensino che a piangerla, senza entrare nella sua camera, soggiunga colei d’avervi avvisata, e che voi avete già dato a Mesrur gli ordini opportuni pe’ funerali. —

«Allorchè la vecchia dama ebbe finito di parlare, Zobeide trasse dal suo scrignetto un superbo diamante, è messoglielo in dito ed abbracciatala: — Ah, [p. 198 modifica] mia buona madre,» le disse tutta trasportata dalla gioia, «quanto vi debbo essere grata! Non mi sarei immaginata mai un espediente così ingegnoso. Non può mancare di riuscire, e sento che comincio a riprendere la mia tranquillità. Mi rimetto dunque in voi per la cura del pezzo di legno, e corro a dar ordine al resto. —

«La figura fu preparata con tutta la sollecitudine che Zobeide seppe desiderare, e portata quindi dalla vecchia medesima nella camera di Tormenta, ove l’adornò come un estinto, e la mise in una bara; poi Mesrur, rimasto anch’esso ingannato, fece levare il feretro ed il fantoccio di Tormenta, che fu sotterrato con le cerimonie consuete nel sito indicato da Zobeide, in mezzo al pianto che versavano le donne della favorita, fra cui quella che avevale recata la fatal bevanda, incoraggiava le altre colle sue grida e coi lamenti.

«Nello stesso giorno, Zobeide fece venire l’architetto del palazzo e delle altre case del califfo, e dietro gli ordini ch’essa gli diede, il mausoleo fu finito in brevissimo tempo. Signore tanto potenti quanto eralo la sposa d’un principe che comandava dal levante al ponente, sono sempre obbedite appuntino nell’esecuzione delle loro volontà. Prese quindi tosto il lutto con tutta la corte, essendo così cagione che la nuova della morte di Tormenta si diffondesse per la città.

«Ganem fu degli ultimi a saperlo, poichè, come già dissi, non usciva quasi mai di casa. Pure ne venne un giorno in cognizione, ed allora: — Madama,» disse alla bella favorita del califfo, «in Bagdad vi credono morta, e non dubito che Zobeide stessa non ne sia persuasa. Benedico il cielo d’essere cagione e felice testimonio che vedete; e volesse Iddio che, approfittando di questo falso romore, voleste legare la vostra [p. 199 modifica] sorte alla mia, e venir con me lungi di qui a regnare sul mio cuore! Ma dove mi spinse un troppo dolce trasporto? Non penso che siete nata per fare la felicità del più potente principe della terra, e che il solo Aaron-al-Raschid è degno di voi. Quand’anche foste capace di sacrificarmelo, quando pure voleste seguirmi, vorrei io acconsentirvi? No, devo ricordarmi di continuo che quanto appartiene al padrone, è vietato allo schiavo. —

«L’amabile Tormenta, benchè sensibile ai teneri moti ch’egli faceva apparire, seppe vincersi a segno di non rispondergli. — Signore,» gli disse, «non possiamo impedire a Zobeide di trionfare. Sono poco sorpresa dell’artificio di cui ella si serve per coprire il suo misfatto; ma lasciamola fare: mi lusingo che cotal trionfo sarà in breve seguito da dolore. Tornerà il califfo, e noi troveremo il mezzo d’informarlo segretamente dell’accaduto. Frattanto prendiamo maggiori precauzioni che mai, affinchè ella non possa sapere ch’io vivo; già ve ne palesai le conseguenze. —

«Dopo tre mesi, il califfo tornò a Bagdad, glorioso e vincitore di tutti i suoi nemici. Impaziente di rivedere Tormenta, e farle omaggio de’ nuovi suoi allori, entra nel palazzo, e maravigliando di trovare tutti gli ufficiali che vi aveva lasciati vestiti a lutto, ne fremette senza saperne il motivo, e l’emozione sua raddoppiò, quando, nel giungere alle stanze di Zobeide, vide la principessa che gli veniva incontro pure in lutto, al par di tutte le donne che la seguivano. Chiese subito con grande agitazione la cagione di quel corrotto. — Commendatore de’ credenti,» rispose Zobeide, «l’ho vestito per Tormenta, vostra schiava, la quale è morta in sì poco tempo, che non fu possibile recare verun rimedio al suo male.» Voleva proseguire, ma il califfo non le ne diede il tempo; estremamente colpito da quella notizia, [p. 200 modifica] mandò un alto grido, e svenne tra le braccia di Giafar, suo visir, che l’accompagnava. Riavutosi tosto dalla sua debolezza, e con voce denotante estremo dolore, domandò dove la sua cara Tormenta fosse stata sepolta. — Signore,» gli disse Zobeide, «ho preso io medesima cura de’ suoi funerali, e nulla ho risparmiato per renderli magnifici. Ho fatto erigere un mausoleo di marmo al luogo della sua sepoltura, ed eccomi a servirvi di guida, se lo desiderate. —

«Non volle il califfo che Zobeide si prendesse quell’incomodo, e contentossi di farvisi condurre da Mesrur, andandovi nello stato in cui si trovava, cioè in abito di campagna. Quando vide il catafalco coperto di panno nero, i ceri accesi tutt’all’intorno e la magnificenza del mausoleo, stupì che Zobeide avesse celebrati i funerali della rivale con tanta pompa; ed essendo naturalmente sospettoso, diffidò della generosità della moglie, e pensò che la favorita potesse benissimo non esser morta; che Zobeide, approfittando della lunga di lui assenza, l’avesse forse scacciata dal palazzo, con ordine agli uomini incaricati di condurla, di trasportarla tanto lontano, che non se ne sentisse mai più parlare. E non ebbe altro sospetto, non intimando la consorte tanto perfida d’aver attentato ai giorni della favorita.

«Per chiarirsi da sè medesimo della verità, comandò quel principe che si levasse il catafalco, e fece aprire la fossa e la bara in sua presenza; ma quando vide il pannolino che avvolgeva il fantoccio di legno, non osò proceder oltre. Temeva quel religioso califfo d’offendere il culto permettendo che si toccasse il cadavere della defunta; e quello scrupoloso timore la vinse sull’amore e sulla curiosità: non dubitando più della morte di Tormenta, fece richiudere la bara, colmare la fossa, e rimettere il catafalco nello stato di prima.

[p. 201 modifica]«Il califfo, credendosi obbligato a rendere qualche dovere alla favorita, mandò a chiamare i ministri della religione, quelli del palazzo ed i lettori del Corano; e mentre si occupavano a radunarli, rimase nel mausoleo, ove bagnò di lagrime la terra che copriva il simulacro dell’amante. Giunti che furono i ministri, Aaron si mise dinanzi al catafalco, ed essi si disposero a lui intorno, recitando lunghe preci; poi si lessero parecchi capitoli del Corano.

«Si ripetè la stessa cerimonia per lo spazio d’un mese, la mattina ed il dopo pranzo, e sempre alla presenza del califfo, del gran visir Giafar e dei primari officiali della corte, tutti vestiti a lutto, al par del califfo, il quale, per tutto quel tempo, non cessò di onorare delle sue lagrime la memoria di Tormenta, nè volle udir parlare d’affari.»


NOTTE CCLXXII


Scheherazade, volgendo la parola al sultano delle Indie, così continuò:

— Sire, l’ultimo giorno del mese, le preci e la lettura del Corano durarono dalla mattina fino all’alba del dì dopo, e finalmente, terminato tutto, ciascuno si ritirò a casa. Aaron-al-Raschid, stanco da sì lunga veglia, andò a riposare nel suo appartamento, ed addormentossi sur un sofà, fra due dame del palazzo, le quali, sedute una al capezzale e l’altra appiè del letto, occupavansi, durante il di lui sonno, a lavori di ricamo, rimanendo in silenzio.

«Quella che stava a capo del letto e chiamavasi Alba del Giorno (9), vedendo il califfo addormentato, [p. 202 modifica] disse sottovoce all’altra dama: — Stella Mattutina (10),» (chè tale n’era il nome) «vi sono grandi novelle. Il Commendatore de’ credenti, nostro caro signore e padrone, proverà immensa contentezza svegliandosi, quando saprà ciò che gli debbo dire. Tormenta non è morta; trovasi anzi in perfetta salute. — Oh cielo!» sclamò subito Stella Mattutina, esultante di gioia; «sarebbe mai possibile che la bella, la vezzosa, l’incomparabile Tormenta fosse ancora al mondo?» Stella Mattutina proferì queste parole con tal vivacità ed a voce sì alta, che il califfo si destò, e chiese perchè gli avessero interrotto il sonno. — Ah, signore!» riprese Stella Mattutina; «perdonate alla mia indiscrezione. Non ho saputo udire tranquillamente che Tormenta viveva ancora, e ne provai un trasporto che non potei moderare. — Oimè! che fu dunque di lei,» disse il califfo, «se è vero che non sia morta? — Commendatore de’ credenti,» rispose Alba del Giorno, «ricevetti stasera, da uno sconosciuto, un biglietto senza firma, ma scritto di propria mano di Tormenta, la quale m’informa della triste sua avventura, e m’ordina di istruirvene. Aspettava, per adempire alla mia commissione, che vi foste riposato alquanto, stimando che doveste averne bisogno dopo la fatica, e.... — Date, datemi quel viglietto,» interruppe precipitosamente il califfo; «mal a proposito avete differito di consegnarmelo. —

«Alba del Giorno gli presentò tosto il biglietto, ed egli l’aprì con molta impazienza. Tormenta vi narrava minutamente tutto l’occorso, ma estendevasi un po’ troppo sulle cure che Ganem erasi preso di lei. Il califfo, naturalmente geloso, invece d’essere commosso dell’inumanità di Zobeide, non fu sensibile [p. 203 modifica] che all’infedeltà, cui immaginavasi avessegli fatto Tormenta. — E che!» diss’egli, dopo aver letto il viglietto; «sono quattro mesi che la perfida abita con un giovane mercante, del quale ha la sfrontatezza di vantarmi l’attenzione per lei; sono trenta giorni che feci ritorno a Bagdad, ed oggi soltanto le viene in pensiero di darmi sue nuove? L’ingrata! mentre io consumo i dì a piangerla, ella li passa a tradirmi! Or via, vendichiamoci d’un’infedele e del giovine audace che m’oltraggia.» Sì dicendo, quel principe alzossi, ed entrò in una vasta sala, ove soleva farsi vedere e dar udienza ai signori della corte. Ne fu aperta la prima porta, e tosto i cortigiani, che attendevano quel momento, entrarono. Il gran visir Giafar comparve, prosternossi davanti al trono, sul quale stava seduto il califfo, e quindi rialzatosi, si tenne in piedi davanti al padrone, il quale gli disse in aria da fargli comprendere che voleva essere prontamente obbedito: — Giafar, la tua presenza è necessaria per l’esecuzione d’un ordine importante, di cui sono per incaricarti. Prendi con te quattrocento uomini della mia guardia, ed informati senza indugio dove dimori un mercante di Damasco, chiamato Ganem, figlio di Abu Aibu. Quando lo saprai, recati a casa sua, e falla atterrare sino alle fondamenta; ma prima t’impossesserai della persona di Ganem, e me lo condurrai qui con Tormenta mia schiava, che da quattro mesi abita con lui. Voglio castigarla, e dare un esempio del temerario ch’ebbe l’insolenza di mancarmi di rispetto. —

«Il gran visir, ricevuto quell’ordine formale, fece una profonda riverenza al califfo, mettendosi la mano sul capo, per mostrare che volea perderlo, anzichè di sobbedirgli, quindi uscì. La prima cosa che fece, fu di mandar a chiedere al sindaco de’ mercanti di stoffe forestiere e di tele fine, notizie di Ganem, con ordine speciale d’informarsi della via e della casa dove [p. 204 modifica] abitava. L’officiale, incaricato di quell’ordine, tornò in breve a riferirgli essere alcuni mesi ch’egli non compariva quasi più, ed ignorarsi ciò che il potesse trattenere a casa, se pure vi fosse; il medesimo informò poi anche il visir Giafar del luogo in cui Ganem dimorava, e persino del nome della vedova che avevagli affittata la casa.

«Dietro tali avvisi, ne’ quali poteva fidare, quel ministro, senza frappor tempo, si mise in via coi soldati che il califfo avevagli prescritto di prendere; andò dal giudice di polizia, dal quale si fece accompagnare, e seguito da buon numero di muratori e falegnami muniti degli arnesi necessari per ispianare una casa, giunse davanti a quella di Ganem, la quale essendo isolata, fec’egli circondare da’ soldati, onde impedire che il giovane mercatante gli fuggisse di mano.

«Tormenta e Ganem finivano allora di pranzare. Stava la dama seduta presso una finestra che s’apriva sulla strada, allorchè, udendo strepito, guardò per la gelosia, e veduto il gran visir che si avvicinava con tutto il seguito, dubitò subito di qual cosa si trattasse. Comprese ch’erasi ricevuto il suo viglietto, ma non aspettavasi simile risposta, ed avea sperato che il califfo prendesse in altro modo la cosa. Non sapeva da quanto tempo il principe fosse tornato, e benchè conoscesse la sua tendenza alla gelosia, non temeva nulla da quel lato. Pure la vista del gran visir e dei soldati la fece tremare, non per lei, a dir vero, ma per Ganem, non temendo, riguardo a sè, di giustificarsi, purchè il califfo la volesse ascoltare. Circa a Ganem, ch’ella amava non meno per riconoscenza che per inclinazione, prevedeva che il suo irritato rivale vorrebbe vederlo e potrebbe condannarlo per la sua giovinezza e pel leggiadro aspetto. Piena di tal pensiero, si volse al giovane mercatante. — Ah, Ganem,» gli disse, «siamo [p. 205 modifica] perduti. Cercano di noi!» Il giovine guardò subito per la gelosia, e fu colto da terrore quando vide le guardie del califfo colla scimitarra sguainata, ed il gran visir col giudice di polizia alla loro testa. A tal vista, rimase immobile, e non ebbe la forza di pronunciar verbo. — Ganem,» ripigliò la favorita, «non c’è tempo da perdere. Se mi amate, mettete subito l’abito d’uno de’ vostri schiavi, e tingetevi il volto e le braccia di fuliggine. Ponetevi poi in testa uno di quei piatti; potranno prendervi pel garzone del bettoliere, e vi lasceranno passare. Se vi chiedessero dov’è il padrone, rispondete, senza esitare, che trovasi in casa. — Ah, signora!» rispose Ganem, più spaventato per Tormenta che per lui; «voi non pensate se non a me. Aimè! che sarà di voi? — Non ve ne date pensiero,» ripigliò essa; «tocca a me a pensarci. Quanto a ciò che lasciate in questa casa, io ne avrò cura, e spero che un giorno vi sarà restituito fedelmente tutto, passata che sia la collera del califfo: ma ora evitate la sua violenza. Gli ordini ch’egli dà nei primi suoi impeti, sono sempre funesti.» L’afflizione del giovane mercante era tale, che non sapeva a cosa determinarsi, e sarebbesi di certo lasciato sorprendere dai soldati del califfo, se Tormenta non lo avesse sollecitato a travestirsi. Si arrese finalmente alle sue istanze, e preso un abito di schiavo, s’insudiciò di fuliggine; ed era tempo, poichè già bussavano alla porta, e tutto ciò che poterono fare, fu di abbracciarsi teneramente. N’era tanto il dolore, che diventò loro impossibile di dirsi una sola parola: tali furono i loro saluti. Ganem uscì finalmente con alcuni piatti sulla testa, e preso infatti per un garzone d’osteria, non fu arrestato; il gran visir anzi, che fu il primo ad incontrarlo, si trasse in disparte per lasciarlo passare, ben lungi dall’immaginarsi che fosse l’individuo cui cercava. Quelli che stavano dietro al gran visir, gli [p. 206 modifica] fecero largo anch’essi, favorendone così la fuga; egli s’avviò in fretta ad una porta della città, e si pose in salvo.

«Mentre il giovane sottraevasi alle ricerche di Giafar, quel ministro entrava nella camera dove trovavasi Tormenta, seduta sur un sofà, e dove stava pure una gran quantità di casse piene delle robe di Ganem, e del denaro ricavato dalle sue merci.

«Quando Tormenta vide entrare il gran visir, si prostrò col viso a terra, e rimanendo in quella posizione come disposta a ricevere la morte: — Signore,» disse, «eccomi pronta a subire la sentenza che il Commendatore de’ credenti ha pronunciato contro di me; non avete che ad annunziarmela. — Madama,» le rispose Giafar, prosternandosi anch’egli finchè la giovine si fu rialzata, «distolga Iddio che alcuno osi mettere su voi la sua mano profana! Non ho in animo di farvi il minimo dispiacere. Non mi fu dato altro ordine fuorchè di pregarvi a voler venire con me al palazzo, e condurvi anche il mercadante che abita in questa casa. — Signore,» rispose, alzandosi, la favorita, «son pronta a seguirvi. Quanto al giovane mercante, al quale devo la vita, egli non è più qui. È già quasi un mese ch’è ito a Damasco, dove io chiamavano i suoi affari; e fino al di lui ritorno, m’ha lasciato in custodia questi forzieri che vedete. Vi supplico a volervi compiacere di farli portare al palazzo, ed ordinare di metterli in luogo di sicurezza, affinchè io possa mantenere la promessa d’averne tutta l’immaginabile cura.

«Sarete obbedita, madama,» replicò Giafar. E subito fatti venire alcuni facchini, comandò loro di prendere i forzieri e portarli a Mesrur.

«Partiti i facchini, egli parlò all’orecchio del giudice di polizia, incaricandolo della cura di far demolire la casa, facendovi prima cercar dappertutto Ganem, [p. 207 modifica] ch’egli vi sospettava nascosto, checchè gliene avesse detto Tormenta; poi uscì, conducendo seco quella giovane dama, seguita dalle due schiave che la servivano. Quanto agli schiavi del giovane negoziante, non facendovisi attenzione, mescolaronsi tra la folla, e non si sa cosa ne sia avvenuto.»

L’alba che comparve, obbligò la sultana di cessare dalla narrazione. Schahriar si alzò per andar a presiedere il consiglio, ed uscì, mosso a compassione per lo sgraziato Ganem, e biasimando interiormente l’ingiusta collera del Commendatore dei credenti.


NOTTE CCLXXIII


— Sire,» ripigliò l’indomani la sultana, «Giafar fu appena fuor della casa, che i muratori ed i falegnami cominciarono a demolirla, e fecero così bene il loro dovere, che in meno d’un’ora non ne rimase vestigio.

«Il giudice di polizia, non avendo potuto trovare Ganem, per quante perquisizioni avesse fatte, ne avvisò tosto il gran visir, prima che quel ministro giungesse al palazzo. — Ebbene,» gli chiese Aaron-al-Raschid, vedendolo entrare nel suo gabinetto, «hai eseguiti i miei ordini? — Sì, mio signore,» rispose Giafar; «la casa nella quale Ganem dimorava, è atterrata da cima a fondo, e vi conduco Tormenta, vostra favorita: essa sta qui alla porta del gabinetto; la farò entrare, se me lo comandate. Il giovane mercatante però, benchè lo si abbia cercato dovunque, non si è potuto trovare. Tormenta assicura; ch’è partito da un mese per Damasco.

«Non mai trasporto di rabbia eguagliò quello dimostrato dal califfo quando udì che Ganem gli era [p. 208 modifica] fuggito. Riguardo alla favorita, convinto che avessegli mancato di fedeltà, non volle vederla, nè parlarle. — Mesrur,» disse al capo degli eunuchi, che trovavasi presente, «prendi l’ingrata, la perfida Tormenta, e rinchiudila nella torre oscura.» Era quella torre nel recinto del palazzo, e serviva di prigione alle favorite che davano al califfo qualche motivo di lagnanza.

«Mesrur, solito ad eseguire senza repliche gli ordini del padrone, per quanto violenti fossero, obbedì mal volentieri a questo; e ne dimostrò il proprio dolore a Tormenta, la quale ne fu più afflitta, avendo pensato che il califfo non ricuserebbe di ascoltarla; ma le toccò cedere al suo tristo destino, e seguire Mesrur che, condottala alla torre oscura, ve la rinchiuse.

«Intanto il califfo, irritato, congedò il gran visir, e non ascoltando che il suo furore, scrisse di propria mano la lettera seguente al re di Siria, suo cugino e tributario, che dimorava a Damasco.



Note

  1. In arabo, Alcolomb.
  2. Zohorob Bostan.
  3. Scagrom Marglan.
  4. Cassabos Succar.
  5. Nuronnihar.
  6. Nagmatos Sohi.
  7. Nuzhetos Zaman.
  8. Fetnab.
  9. Nuronnihar.
  10. Nagmates Sebi.