Le Mille ed una Notti/Storia del Pescatore Califfo e del Califfo Pescatore

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Storia del Pescatore Califfo e del Califfo Pescatore

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Storia del Pescatore Califfo e del Califfo Pescatore
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NOTTE DCCCXV-DCCCL

STORIA

DEL PESCATORE CALIFFO E DEL CALIFFO PESCATORE.

— Viveva una volta a Bagdad un povero pescatore chiamato Califfo, il quale menava vita infelice. Un giorno egli andò, secondo il solito, sulla sponda del fiume per gettare le reti prima degli altri, ma la gettò più di venti volte senza pigliar nulla. Da principio, il suo dispetto fu estremo; ma infine, calmatosi, disse: — Dio mi perdoni! ei solo vive e non muore! Non v’ha forza e potenza che in Dio! ciò che gli piace accade, e ciò che non gli piace non avviene. Egli provvede alla sussistenza delle sue creature: quello ch’ei dà, nessuno può togliere; ciò ch’egli niega, nessuno può dare. Prendiamo dunque i giorni buoni e cattivi come vengono, e riponiamo la nostra fiducia nel Signore. —

«Pieno di rassegnazione, il pescatore gettò un’altra volta le reti, ed aspettò alcun tempo prima di ritirarle; ma accortosi ch’erano pesantissime, le andò finalmente tirando con precauzione: quando furono sulla spiaggia, il misero non vi trovò che una scimia cieca e storpia. — Non v’ha forza e potenza [p. 198 modifica] che in Dio!» sclamò egli.«Oggi una fatalità straordinaria mi perseguita; ma tutto accade per volere di Dio, e mi sottopongo alla sua volontà.» Presa quindi una corda, legò la scimia ad un albero, dandole alcune percosse, come per esalare il malumore che sentiva. — Califfo,» gli disse la scimia, «ti prego di non battermi; lasciami legata come sono: getta un’altra volta le reti, confida in Dio, ed egli verrà in tuo soccorso.» Il pescatore gettò dunque di nuovo le reti, e trasse dall’acqua un’altra scimia cogli occhi pieni di kohol; aveva dipinte le sopracciglia e l’unghie, ed era vestita d’un abito magnifico. — Lode a Dio che popolò il fiume di scimie!» disse Califfo. Poi, accostandosi alla prima: — Ecco dunque,» le disse, «la felicità che mi ripromettevi; ma aspetta che vengo a ringraziartene.» Si dicendo, diè di piglio ad un grosso bastone. — Grazia! grazia!» gridò l’animale; «te ne scongiuro per la mia compagna, che può concederti tutto ciò che puoi desiderare.» Il pescatore depose il bastone, ed accostossi alla scimia. — Le tue parole,» gli disse questa, «non conducono a nulla; vuoi diventar ricco? obbedisci; getta ancora le reti, e fa quello che son per dirti.» Califfo gettò le reti, e poco dopo tirò in terra una terza scimia vestita di rosso e turchino, colle sopracciglia e gli occhi tinti, e che portava anelli alle mani ed ai piedi. — Oh!» sclamò il pescatore, «per questa volta sei l’ultima che traggo dall’acqua. Pure, sia lodato Iddio che trovo scimie invece di pesce! Ma chi sei tu, miserabile? — Come!» riprese la bestia, «non mi conosci? Sono la scimia del banchiere ebreo Ebisaadet, al quale somministro cinque zecchini mattina e sera. — Sciagurata» gridò il pescatore, tornando alla prima scimia e bastonandola; «tutto ciò proviene dal cattivo consigiio che mi hai dato, e che mi fa morire di fame, — Calmati,» disse la terza [p. 199 modifica] scimia, «e far quello che ti dirò; non può che venirtene bene se getti un’altra volta le reti.» Califfo si lasciò persuadere, e trasse a riva un magnifico pesce, che superava in bellezza quanti ne avesse mai preso; — O scimia!» diss’egli fuor di sè per la gioia, «corro ad uccidere le tue compagne; ma tu, se vi consenti, resterai d’or innanzi sempre con me. — Ebbene,» riprese la bestia, «se vuoi seguire di nuovo i miei consigli, legami colla corda che sta attaccata alle reti e gettale di nuovo; vedrai se ti porto ventura.» Califfo obbedì, e prese un pesce ancor piò bello del primo. — Ora,» disse la terza scimia, «metti quel pesce in una sporta, e lasciaci legate qui; recati poscia alla città, senza parlare a nessuno, finchè sii giunto alla via dei Banchieri, dove troverai il mio padrone, l’ebreo Ebisaadet, nella sua bottega, circondata da sensali e da schiavi. Gli stanno davanti due casse, una d’oro e l’altra d’argento; salutalo, e digli che pigliasti questo pesce, gettando tre volte le tue reti in suo nome; Ei ti offrirà dapprima uno zecchino, ed andrà aumentando sino a quattro: tu ricusa sempre e di’ che non chiedi danaro, ma che se vuol cambiare la sua scimia colla tua, gli darai il pesce per soprammercato. Consentirà egli, e la tua felicità è sicura. Ti darò ogni giorno dieci zecchini, mentre l’Ebreo avrà il dispetto di restar da mane a sera colla scimia cieca e storpia che gli avrai data in mia vece. — Bene,» disse Califfo; «ma che debbo fare della terza scimia? — Mettila in libertà, e gettala nel fiume. — Così sia,» ripigliò Califfo, e gettatala nel fiume, prese in ispalla la sporta col pesce.

«Entrò il pescatore nella bottega dell’Ebreo che spiegava la magnificenza d’un monarca, e gli presentò il pesce. — Pei cinque libri di Mosè ed i dieci comandamenti!» sclamò il Giudeo; .«, ecco il regalo [p. 200 modifica] che ho sognato stanotte! Non l’ha veduto nessuno? — Nessuno,» rispose Califfo; «lo giuro per Abubekr, il Predestinato. — Allora portamelo a casa, e fanne arrostire la metà, e l’altra in bianco.» Poi gli offrì uno zecchino, ma il pescatore lo ricusò. Immaginando il Giudeo che lo stimasse troppo poco, volle dargli sino a sei zecchini; talchè Califfo, il quale in vita sua non aveva veduto tanto denaro, fu sul punto di cedere all’offerta e dimenticare il consiglio della scimia. Nondimeno si ricordò ancora in tempo, e gettò sulla tavola l'oro dicendo: — Potete avere questo pesce con due sole parole, ma non ve lo darò a nessun altro prezzo. » A tale discorso, l’Ebreo montò in furore, credendo che le due parole alle quali il pescatore alludeva fossero la professione di fede dell’islamismo, o volesse fargli abiurare la propria religione. Laonde, preso un bastone, lo percosse a tutta forza, sclamando; — Miserabile! tu domandi che per un vil pesce io rinneghi la mia religione! — Oh! oh!» disse il pescatore, «avreste potuto risparmiarvi il disturbo di darmi queste busse; per me, vi sono avvezzo come un asino, e non mi fanno impressione. Ma perchè adirarvi in tal guisa? Le due parole che da voi esigo non consistono se non a dire che acconsentite di cambiare la vostra scimia colla mia. — Allora, perchè nol diceste subito? l’affare è conchiuso. —

«Califfo tornò poi al fiume, e gettando le reti, prese una gran quantità di pesci, che vendette per dieci zecchini; lo stesso fu, il giorno dopo e per dieci giorni di seguito, di modo che si trovò possessore di cento zecchini. Siccome non aveva mai avuto in casa tanto denaro, l’inquietudine gli tolse il sonno. — Se il Commendatore de’ credenti,» diceva tra sè, «giunge a sapere che ho cento zecchini, me li farà domandare in prestito: avrò io un bell’allegare la [p. 201 modifica] mia povertà; il luogotenente di polizia mi farà dare le bastonate per isforzarmi a confessare che posseggo un tesoro. Possono dunque le ricchezze produrre simili imbarazzi? Farei bene ad avvezzar alle busse la mia pelle; benchè, grazie a Dio, essa sia passabilmente indurata. » Alzossi in tale pensiero, e preso un bastone, si mise a battersi da sè medesimo a più non posso, ed a gridare nello stesso tempo come se fosse nelle mani del carnefice: — Aimè! non ho nulla, monsignore, sono infami calunnie; non posseggo un danaro: è una menzogna che inventarono i miei nimici per rovinarmi.» I vicini, svegliati da quelle grida e dal rumore, immaginarono che nella sua casa vi fossero i ladri, ed accorsi, trovarono il pescatore che si batteva da sè. — Che fai dunque, Califfo?» gli domandarono. Li mise egli a parte de’ suoi i timori e delle sue inquietudini, e della necessità in cui trovavasi di abituarsi alle percosse. I vicini si misero a ridere, e si ritirarono.

«Alla mattina, nuovi pensieri e nuovo imbarazzo. Califfo non sapeva dove rinchiudere il suo danaro. — Se lo lascio in casa,» diceva, «potranno rubarmelo; la cosa più sicura è di cucirlo in un sacco e portarlo con me.» Recossi poi colle reti sulla sponda del Tigri, ma non avendo preso nulla, cercava un sito più favorevole, ed avanzava sempre senza essere più fortunato. — Ora per l’ultima volta,» diss’egli, riunendo tutte le sue forze per gettare le reti; ma il moto che si diede, fe’ aprire il sacco dove stava chiuso il suo oro, che cadde nel fiume. Nella sua disperazione, si lacera le vesti e si precipita nell’onde per trovare il suo oro; si tuffò più di cento volte ma indarno. Disperato, tornò a riva, e più non trovò che il bastone, il cesto e le reti; le vesti erano scomparse. Che cosa fare? Prese il bastone in mano, gettossi in ispalla le reti e la sporta, e si mise a [p. 202 modifica] camminare da una parte e dall’altra; in somma, somigliava ad un demonio del deserto.

«Eravi allora a Bagdad un gioielliere chiamato Ben-Karnas, il quale serviva il califfo Aaron-al-Raschild, e faceva molti affari alla corte di quel principe. Stava quel gioielliere seduto un giorno nella sua bottega, allorchè lo sceik dei banditori del bazar venne ad offrirgli una schiava di beltà straordinaria, e che ai vezzi più seducenti riuniva i talenti più rari e le più svariate cognizioni. La comprò il gioielliere per mille zecchini e la condusse al califfo; il principe, passata con lei la notte, e rimastone incantato, mandò la domane a Ben-Karnas diecimila zecchini. Forza-dei-Cuori (così chiamavasi la bella schiava) aveva ispirato al califfo un amore sì violento, che per lei trascurò la propria moglie e cugina Zobeide, figlia di Kassem, come anche tutte le altre donne del serraglio. Nè potendo allontanarsi da quella schiava, rimase più d’un mese intero nella sua stanza, non uscendone che il venerdì, in tal giorno essendo assolutamente necessario che si recasse alla moschea. Gli officiali della corte cominciarono a mormorare perchè il califfo trascurasse, per una schiava, le faccende dello stato; il gran visir Giafar il Barmecida, da fedel servitore, non potè trattenersi dall’avvertirlo il venerdì seguente di quel malcontento. — Hai ragione,» disse Aaron; «ma come sottrarmi alla tirannia d’una passione ch’è più potente di me? — Commendatore de’ credenti,» rispose Giafar, «Forza-dei-Cuori non vi sarà rapita, se anche vi allontanaste da lei alcuni istanti. Non vi consiglio però di occuparvi ancora degli affari di stato; nella situazione in cui siete, questo lavoro vi produrrebbe troppa noia: abbandonatevi a distrazioni degne d’un gran re. Non potreste dedicarvi qualche momento alla caccia od alla pesca? forse le reti del pescatore potranno [p. 203 modifica] liberarvi da quelle nelle quali vi tiene allacciato l’amore. — Ebbene,» soggiunse Aaron, «andiamo alla caccia od alla pesca; ma la nostra scorta non ci seguirà se non di lontano. —

«Saliti ciascuno sur una mula, si misero a percorrere i campi, e dopo aver errato a lungo sotto la sferza del sole, venne sete al califfo, il quale: — Veggo laggiù qualcheduno,» disse a Giafar; «è probabilmente un giardiniero che potrà procurarmi un po’ d’acqua. Rimani qui colla gente dei nostro seguito: torno subito.» Sì dicendo, si allontanò colla rapidità d’un torrente che precipitasi dall’alto d’una rupe.

«L’uomo veduto da Aaron era il pescatore Califfo, il quale, nudo, coperto di sudore e di polvere, cogli occhi smarriti, somigliava agli spiriti malefìci erranti nei luoghi deserti. Aaron lo salutò e gli chiese se nei dintorni non vi fosse acqua. — Siete cieco o pazzo?» gli rispose il pescatore; «a tre passi di qui scorre il fiume.» Corse il califfo al Tigri, e dopo aver bevuto, tornò al pescatore. — Qual è la tua professione?» gli chiese. — Non me ne vedete gli attributi sulle spalle?» rispose l’altro. — Sì,» soggiunse Aaron; «ma dove sono il tuo sacco, le vesti, la cintura, i calzoni?» Il pescatore, che aveva perduto appunto tutte le cose nominate dal califfo, non dubitò che questi non gli avesse fatto quel tiro, rubandogli il sacco. Presa adunque la mula per la briglia, gridò: — Rendimi il mio sacco e non ispingere più innanzi sì brutto scherzo. — Io non ho veduto il tuo sacco, lo giuro,» rispose Aaron, che aveva, come si sa, le guance tumide e piccolissima bocca. — Certo,» riprese il pescatore, «tu sei trombetta di professione; ma io sono buon cavallo di battaglia e non mi lascio spaventare. Restituiscimi dunque i miei abiti, o ti faccio provare il peso di questo bastone.» Aaron-al-Raschild, vedendo che non eravi da scherzare con un [p. 204 modifica] individuo come colui, si cavò la sopravveste di raso, e gliela diede dicendo: — Ecco pe’ tuoi abiti. — I miei abiti,» rispose il pescatore, «valevano dieci volte questo — Bene,» riprese Aaron, «tieni il mio abito sinchè ti renda i tuoi.» Il pescatore indossò dunque l’abito di raso, ma siccome era troppo lungo, ne tagliò un pezzo con un coltello che teneva nel cesto. — Vedi come ora mi sta bene,» disse, volgendosi ad Aaron. «Quanto,» aggiunse, «ti rende al mese la tua carica di trombetta? — Circa dieci zecchini. — Povero diavolo! è quanto io guadagno in un giorno. Che ne dici? vuoi entrare al mio servizio? ti darò cinque zecchini al giorno; t’insegnerò il mestiere di pescatore, e ti difenderò, se il tuo padrone verrà a reclamarti. — Volentieri,» rispose Raschild. — Bene,» proseguì il pescatore, «scendi dalla mula, siedi con me, ed io t’insegnerò a gettare le reti.» Il califfo, sceso a terra, legò la mula, e fece ciò che l’altro gli ordinava. Allorchè vollero ritirare le reti, le trovarono sì pesanti, che le loro forze riunite bastavano appena per venirne a capo. Infine, dopo molti sforzi, le trassero a riva, e trovarono straordinaria quantità di pesci della massima bellezza. — Per un primo saggio, non c’è male,» disse il pescatore Califfo; «andiamo, trombetta, sali sulla mula, corri in città a prendere due ceste per mettere questo pesce, e poi le caricheremo sulla tua mula. Ho bilance e pesi; tu peserai i pesci, che ci devono render almeno venti zecchini. Parti all’istante, e torna il più presto che puoi; ti aspetto.» Il califfo slegò la mula e partì di gran trotto; non polendo trattenersi dal ridere per via, recossi al sito dove aveva lasciato Giafar. — Vostra maestà,» disse il visir, «ha senza dubbio trovato un bel giardino, dove prese piacere di trattenersi a lungo.» Il califfo non potè rispondere se non con un grande scoppio di risa. — Id[p. 205 modifica]dio prolunghi l'allegria dei Commendatore de’ credenti!» dissero, baciando la terra, i cortigiani della famiglia dei Darmecidi, colà presenti. Il califfo raccontò la sua avventura col pescatore, e come gli avesse dato il suo abito di raso. — Domanderò a vostra maestà,» disse Giafar, «il permesso di andar a vedere se lo posso riacquistare. — Avresti dovuto farlo più presto,» rispose Aaron, «poichè ne ha già tagliato un buon terzo per accomodarlo alla sua statura. Ma adesso il mio nuovo padrone attende che gli porti due ceste per portar via tutto il pesce che pigliammo. — Oh! per questo,» disse Giafar, «ci penso io. — Pe’ miei avi,» sclamò il califfo, «voglio pagare quei pesci uno zecchino cadauno: vadano i mamelucchi a prenderli.» Postisi i mamelucchi in via sul momento, recaronsi al sito loro indicato per comprare i pesci, e presili, li posero in una bella tovaglia ornata di ricami.— Questi pesci sono squisiti,» disse il pescatore; «ma, mio Dio, mandami il mio compagno trombetta; sta ben molto a tornare.» Nello stesso istante giunse un eunuco, il quale prese due pesci che Califfo teneva in mano; ma quando volle pagarli, non si trovò in tasca denari. — Non ho con me il denaro,» disse, «ma vieni a prenderlo domani al palazzo del califfo: non avrai che a domandare dell’eunuco Sandal. —

«Siccome il trombetta non tornava, Califfo si decise ad andar solo a casa, e si gettò le reti sulle spalle. Traversando il bazar, passò dinanzi alla bottega del sartore del califfo, che stupì assai vedendo indosso al pescatore l’abito di raso fatto per Aaron. — Chi t’ha dato quell’abito?» gli chiese. — Cosa c’entri tu?» rispose Califfo; «del resto, l’ebbi dal mio nuovo compagno che m’ha tolto il mio abito e m’ha dato questo, perchè non lo denunziassi alta giustizia.» A tali parole, il sartore si avvide essere uno scherzo del califfo. [p. 206 modifica]

«Intanto tutto era in agitazione nel palazzo del califfo, durante la sua assenza. Allorchè Zobeide, sposa e cugina del principe, ebbe saputo ch’egli erasi alla fine allontanato dalla bella schiava che da un mese lo teneva nelle sue catene, risolse d’approfittare della circostanza per vedere la rivale e vendicarsene. Ordinato dunque un gran banchetto, fe’ pregare la schiava di recarvisi per eseguire un po’ di rosica, nè Forza-dei-Cuori potè esimersi dall’obbedire agli ordini della principessa. Presi dunque i suoi istrumenti, recossi alla stanza della sposa di Aaron, senza diffidare di ciò che contro di lei si tramava. Entrò la bella schiava, e baciò la terra dicendo: — Salute alla cortina elevata ed al velo sublime di questo serraglio! salute al sangue del Profeta ed all’erede della virtù degli Abassidi! Possa Iddio prolungare la vostra felicità per tutto il tempo che il giorno e la notte si succederanno l’un all’altra!» Zobeide rimase colpita da maraviglia allorchè vide comparire una giovano di beltà compiuta, con capelli neri, colorito roseo, occhi brillanti, un volto radiante come il sole, una fronte risplendente come la luna, e sopracciglia d’un arco perfetto.

«— Sii la ben venuta, Forza-dei-Cuori,» le disse Zobeide; «mi fu detto che canti a maraviglia; dammi una prova del tuo talento.» Obbedì la giovane, e preso un cimbalo, cantò con tal dolcezza che rapì tutti i cuori; indi cambiò il cimbalo col flauto, e presto lo lasciò pel liuto. Le corde, fremendo sotto le sue dita snelle e dilicate, mandarono suoni sì armonici ed incantevoli, che Zobeide sentì indebolir l’odio ed i suoi disegni di vendetta, non potendo, in fondo dei cuore, condannare il califfo d’aver concepito sì violento amore per una creatura tanto perfetta. Ma la gelosia presto trionfò di tali sentimenti, e dessa bramava tanto più vivamente di disfarsi della rivale, [p. 207 modifica] che ne conosceva tutta la superiorità. Pure, per un resto di compassione, invece d'avvelenarla, come pensava, le fece soltanto prendere una forte dose d’oppio, e quindi portare in un appartamento segreto, comandando poi di spargere la voce della sua morte, e di farne i funerali.

«Tutto questo dramma era già rappresentato allorchè il califfo tornò dalla pesca. Prima sua domanda fu d’informarsi della cara Forza-dei-Cuori. — La vostra assenza,» rispose la schiava alla quale erasi rivolto, «le cagionò sì profondo dolore, che fu colpita da morte improvvisa.» A quei detti, il califfo si mise a correre pel palazzo come un insensato, facendo a tutti la medesima interrogazione. Chiese poi di vedere il sepolcro, e gliene fu mostrato uno eretto allora nei giardini1. — O tomba!» sclamò egli, bagnandola d’un diluvio di lagrime, «come mai le tue ombre fredde e tenebrose possono avvolgere la luna piena della bellezza ed il fiore brillante della gioventù! —

« Non poteva Aaron allontanarsi dalla tomba, nè moderare la sua disperazione. Appena Zobeide vide il successo della sua astuzia, fece mettere in una cassa Forza-dei-Guori, ancora addormentata, ed ordinò di portarla fuor del palazzo e venderla al primo che capitasse.

«Intanto il pescatore Califfo, al quale l’eunuco Sandal avea detto di venir al palazzo a prendere il denaro, non mancò di recarvisi. Vide alla porta l’uomo che cercava, seduto in mezzo ad una folla di schiavi e di eunuchi, e s’inoltrò verso di lui per [p. 208 modifica] chiedere il suo denaro. L’eunuco metteva la mano alla borsa per darglielo, allorchè un grido annunziò la comparsa del gran visir Giafar, che usciva. Subito gli eunuchi ed i mamelucchi alzaronsi per far ala, e Sandal, al quale il visir fe' cenno colla mano di voler parlare, lasciò il pescatore. Credette Califfo che l'eunuco non volesse pagarlo, e si mise a gridare: — Dio punisca la gente senza fede, e tutti quelli che s'impadroniscono degli averi de’ poveri senza pagarli!» Giafar domandò cosa volesse colui, e l’eunuco glielo narrò in due parole, dicendogli essere quel medesimo pescatore del quale il califfo erasi preso spasso il giorno innanzi. — Non poteva capitare più a proposito,» rispose Giafar; «il califfo è disperato per la morte di Forza-dei-Cuori: ho inutilmente cercato di consolarlo; forse riusciremo a distrarlo col costui aiuto. Trattenetelo qui, mentre torno dal principe. —

«Giafar lo trovò sempre in preda alla più viva disperazione; baciò la terra, e gli volse queste parole, secondo l’uso: — Salute al Commendatore dei credenti, al sostegno della religione, al discendente del Profeta, al grande Aaron-al-Raschild!» Il califfo alzò la testa e gli rese il saluto in codesti termini: — Salute a te pure! Dio sparga su te la pace e la misericordia sua. — Permette il Commendatore de’ credenti,» domandò Giafar, «al suo schiavo di parlare? — Parla: non sei il mio gran visir? — Sire,» proseguì Giafar, «il vostro maestro e compagno, il pescatore Califfo, sta alla porta del palazzo, e si lagna amaramente del suo allievo il trombetta che l'ha abbandonato; e vuol cercarne un altro.» Malgrado i singhiozzi che lo soffocavano, non seppe Aaron trattener le risa. — Davvero,» disse, «il pescatore è qui alle porte? — Come vi dico, Commendatore de’ credenti. — Ebbene, in tal caso bisogna ch’ei paghi il lavoro che gli feci ieri, oppure ch’io il [p. 209 modifica] ricompensi del divertimento che mi diede. Vediamo se il destino gli è favorevole; la sorte deciderà: prendi venti fogli di carta, e su dieci di essi scrivi: Provvigioni da bocca, Carica di consigliere di stato, Diploma di emiro, Direzione delle imposte, ed altri impieghi proficui; scrivi, poi sugli altri: Sentenza di morte, Prigionia, Bastonatura, ecc, e fa venire il pescatore a cavare la sua sorte. Giuro pe’ miei avi di concedergli esattamente la parte che gli toccherà; se è un posto di visir, lo avrà; se la forca, lo farò impiccare. —

«Giafar, eseguendo gli ordini del califfo, andò a cercare il pescatore, il quale erasi già mille volte pentito d’essere capitato alla corte. — Perchè,» diceva, «mi sono intricato con quel maledetto schiavo, il quale non mi produrrà che disgrazie?» Seguì Giafar ed il mamelucco, che gli fecero attraversare sette cortili e l’introdussero nella sala, ove trovavasi il trono del califfo, su cui vide seduto Aaron, circondato da tutta la sua corte. Lo riconobbe subito, e senza sconcertarsi: — Trombetta,» gli disse, «perchè mi lasciasti ieri col mio pesce? perchè mi lasciasti in balia degli eunuchi che son venuti a derubarmi? È tua sola colpa: se tu fossi tornato coi panieri, avrei pesci per cento zecchini almeno.» Aaron, mettendosi a ridere: — Scegli,» rispose, «scegli uno di questi fogli. — Come!» sclamò il, pescatore; «sei anche astrologo? Credi, trombetta, ciò non ti spingerà molto innanzi; più mestieri si fanno e meno si guadagna; farai meglio a restar pescatore. — Prendi,» disse Giafar, «prendi senza replicar parola, e fa quello che ti comanda il Commendatore de’ credenti.» Il pescatore prese dunque un foglio e lo diede al califfo. — Dimmi adesso, trombetta,» disse poi ad Aaron, «qual bene sia per ridondarmene. — Leggi,» soggiunse Aaron a Giafar, [p. 210 modifica] consegnandogli la carta. Il visir lesse: — Non v’ha forza e potenza che in Dio! Cento bastonate al latore di questo biglietto.» Si diedero sul momento le cento bastonate al pescatore, il quale, quantunque di pelle indurita, ad ogni colpo sclamava: — Maladetto il giuoco!» Giafar poi si volse al califfo, dicendo: — Sire, permettete che il pescatore cavi un altro biglietto; può essere che la sorte gli sia questa volta più favorevole, e d’altra parte non vogliate permettere ch’ei si allontani dal fiume della vostra liberalità senza dissetarsi. — Ne tiri dunque a sorte un altro,» rispose Aaron; «ma s’ei cava una sentenza di morte, sarà eseguita senza misericordia. — Dio vi ricompensi della vostra liberalità,» fece il pescatore; «non potreste trovare in tutta Bagdad un altro per far questa bella prova.» Sì dicendo, stese la mano, e trasse un altro foglio, cui presentò al gran visir, il quale, volti gli occhi, lo rimise al califfo senza dir sillaba. — Che c'è?» chiese Aaron. — Nulla,» rispose Giafar, «non essendo scritto niente su questo biglietto; ma permettete che ne estragga un terzo.» Il pescatore prese di nuovo, e Giafar lesse: — Uno zecchino al latore. — In verità,» disse il pescatore, «uno zecchino per cento bastonate non è troppo.» Il califfo sorrise e lo congedò. Or come questi usciva dal palazzo, incontrò l’eunuco Sandal, che lo chiamò e gli chiese la metà di quanto il califfo avevagli dato. Avrebb’egli voluto consegnargli la metà delle busse ricevute; ma siccome temeva per la pelle, gli gettò lo zecchino avuto, e se ne andò colle lagrime agli occhi. Vedendo quel tratto di generosità e disinteresse, Sandal richiamò il pescatore, e gli diede una borsa di cento zecchini per pagare il pesce del quale gli era tuttora dovuto il prezzo. Alla vista dell’oro, Califfo dimenticò i maltrattamenti sofferti, e tornò a casa fuor di sè per la gioia. [p. 211 modifica]

«Volendo attraversare il mercato ove si vendevano gli schiavi, si vide arrestato da una gran calca che circondava un vecchio, il quale teneasi davanti una cassa su cui sedeva uno schiavo. Il vecchio gridava: — Gente ricca! gente di questa città! chi vuol comprare per cento zecchini ciò che sta chiuso in questa cassa, che viene dal serraglio della principessa Zobeide, figliuola di Kassem?» Da prima regnò un silenzio generale, temendo i mercanti non fosse qualche inganno: ma infine uno offrì dieci zecchini, un altro cinquanta, un altro sessanta, e si crebbe sino ai cento. — A cento zecchini!» gridò il banditore; «chi dà di più? — Cento ed uno,» sclamò il pescatore. Tutti gli astanti si misero a ridere udendo quell'offerta, e burlandosi di Califfo, che pareva non avesse in tasca un soldo. Mentre si spassavano a sue spese; il banditore chiuse l’incanto e consegnò la cassa al pescatore. Questi gli contò i cento ed uno zecchini e lo schiavo, toccatili, andò a render conto della sua missione a Zobeide, che ne fu lieta.

«Califfo si prese sulle spalle la cassa, e siccome era pesantissima, sudava a grosse gocce quando giunse a casa. La depose allora per aprirla; ma non avendone la chiave, nè volendo spezzare la serratura, risolse di attendere alla domane; intanto si distese sulla cassa e vi si addormentò. Ma destossi in breve con ispavento, udendo qualche cosa moversi di dentro. Sia lodato Iddio,» sclamò, -«che non l'ho aperta! ella contiene de geni che mi avrebbero nell’oscurità giocato qualche brutto tiro.» In quell'istante, la cassa si scosse di nuovo, e lo spavento di Califfo raddoppiò: la notte era oscurissima, ed ei non aveva lume, nè denari per comprarne. Uscì dunque di casa, e si mise a correre pel quartiere, gridando: — Vicini! prestatemi un lume, avendo in casa geni venuti a visitarmi.» Un vicino, ridendo della sua pazzia, gli [p. 212 modifica] diede un lume; Califfo rientrò, spezzò la serratura, e Forza-dei-Cuori, ch’erasi già mossa due volte, destossi del tutto, cessando in quell’istante l’effetto dell’oppio. — Yesunir? Narciso!» gridò, aprendo gli occhi e chiamando gli eunuchi — Vuol burlarsi di me,» disse il pescatore sorpreso. Forza-dei-Cuori si fregò gli occhi, e quindi: — Chi sei tu, e dove sono?» chiese. — Sei in casa mia,» rispose Califfo. — Come!» ripigliò quella, «non sono nel palazzo del califfo Aaron-al-Raschild? — Il califfo non ha nulla di comune con te, mia vezzosa,» riprese il pescatore. «Tu sei mia schiava; io ti ho comprata, senza vederti, per cento ed uno zecchini, mentre tu dormivi in questa cassa. — Come ti chiami?» chies’ella. Perchè? vuoi forse ringraziarmi del servigio che ti ho prestato?» Forza-dei-Cuori si mise a ridere. — Non hai nulla da mangiare? » gli disse; « sono due giorni che non ho preso cibo. — Non ho niente del tutto,» rispose il pescatore; «grazie al destino ed alla mia curiosità, ho speso l’ultima mia moneta a comprare questa cassa, e non mi rimane più nulla. — Bene,» diss’ella ridendo, «ma va a cercarmi qualche cosa. —

«Il pescatore uscì, ed essendo già giorno, trovò parecchi vicini alzati, ai quali chiesta qualche cosa da mangiare, uno gli diede un pezzo di pane, un altro un po’ di formaggio, un terzo rimasugli di pasticcio. — È tutto questo?» disse Forza-dei-Cuori, vedendo quei cibi; «e credi anche ch’io mangi senza bere? debbo dunque soffocare? — Ebbene,» riprese Califfo, «vado a riempir d’acqua questa giara2» Uscì, e dirigendosi come la prima volta a’ vicini, riempì la giara. — Adesso,» disse tornando, «raccontami la tua [p. 213 modifica] storia. — Io sono Forza-dei-Cuori, favorita del califfo Aaron. La gelosia d’una rivale m’ha precipitata in questa condizione, fortunatamente per te, poichè d’or innanzi è assicurata la tua fortuna. — Chi è questo Aaron?» chiese il pescatore; «è forse quello spauracchio che vidi al palazzo seduto sur un trono? — Appunto. — Per Dio! in vita mia non vidi sì cattivo trombetta, nè un maggior furbo! quella miserabile faccia paffuta mi ha dato uno zecchino per cento bastonate. — Zitto,» riprese Forza-dei-Guori, «non dimenticare il rispetto che devi al Commendatore dei credenti.» Tali parole fecero entrare in sè il pescatore, il quale comprese subito tutto il vantaggio che cavar poteva dall’occasione. La giovane prese carta ed inchiostro, e scrisse una lettera ad un mercatante che serviva la corte, pregandolo d’istruire della propria avventura il califfo. — Va,» disse al pescatore, «porta questo biglietto al gioielliere Karnas, che abita nel quartiere dei gioiellieri.» Califfo obbedì. Il negoziante lo prese alla prima per un povero che gli chiedesse l'elemosina; ma percorsa la lettera, la baciò, e postala sul capo, chiese al pescatore dove stesse di casa. — Perchè?» domandò questi; «vorreste togliermi la mia schiava? — No,» rispose il gioielliere, «voglio mandarvi tutto ciò ch’è necessario, per trattare convenientemente la favorita del califfo.» Il pescatore indicò la casa, ed il gioielliere gli diede una cambiale di mille zecchini sul suo banchiere, il quale gli contò la somma sul momento; tornato quindi alla bottega del gioielliere, vi trovò un cavallo magnificamente bardato per Karnas, cento schiavi ed una mula per lui. — Non so cavalcare,» diss’egli. — Bene, imparerai,» gli fu risposto. — In nome di Dio!» soggiunse, «se è necessario, così sia!» E salito a rovescio, prese, invece della briglia, la coda della mula; ma questa, ch’era [p. 214 modifica] dilicata, si pose a tirar calci e lo gettò a terra. — Non vi aveva detto,» gridò Califfo, «che non potrei stare su quel grosso asino? —

«Il gioielliere si recò dunque solo al palazzo del califfo per portargli la lieta novella, ed il pescatore tornò a casa. Giunto nel quartiere dev’era situata, si trovò circondato di gente. — Sciagurato!» gli gridarono; «or pagherai caro il rapimento di quella bella schiava. Sono venuti molti mamelucchi per arrestarti, e sono in traccia di te; per fortuna non eri qui; ma dicono che non fuggirai loro.» Intese quelle parole, Califfo si mise a correre di tutta forza, ed incontrò il gioielliere ch’erasi fermato dinanzi ad una casa magnifica. — Avete lasciata rapire la schiava!» gli disse il pescatore. — Zitto, imbecille,» gridò il gioielliere, «entra qui con me.» Era il luogo nel quale egli aveva fatte condurre provvisoriamente Forza-dei-Cuori. La trovarono circondata da schiavi e seduta sur un sofà. Subito dopo ella si recò con numeroso seguito al palazzo del califfo, già istruito dell’accaduto; ivi, la schiava baciò la terra, ed Aaron, fuor di sè per la gioia, la fece rialzare e le domandò chi l’avesse salvata. — Un pescatore di nome Califfo,» essa rispose, «e che pretende avervi avuto a compagno. Si faccia entrare.» Comparve il peccatore e baciò la terra. — Ebbene, Califfo,» gli disse Aaron, «non sei tu stato la notte scorsa mio compagno?» Comprese il pescatore quello che il califfo voleva dire, e rispose: — Sì, senza dubbio, in quanto concerne gli occhi o le orecchie, ma nulla di più.» Narrò poi tutta la sua avventura, dall’uscir dal palazzo sino al momento in cui vi era rientrato, cosa che fece molto ridere il monarca.

«— Cosa domandi in ricompensa?» disse il califfo. Il pescatore stette silenzio, ed Aaron gli fece dare cinquemila zechini, stoffe magnifiche per [p. 215 modifica] vestirsi, e schiavi per servirlo. Il ritorno della sua prediletta lo metteva in inesprimibile allegrezza. Egli non erasi recato da Zobeide dacchè aveva scoperto quant’era accaduto per la di lei gelosia, e la principessa disperavasi, non solo d’aver perduto l’affetto del consorte, ma d’essere inoltre oggetto della sua collera; tuttavia non eravi altro modo di riconciliarsi fuor di confessare il fallo ed implorar perdono. Gli scrisse pertanto una lettera; il califfo le perdonò agevolmente, e si riconciliò. Il pescatore fu da Aaron gratificato d’una pensione di cinquanta zecchini al mese vita durante, e colmato di contrassegni d’onore, baciò la terra, e tornò a casa. Alla porta del palazzo incontrò l’eunuco Sandal, il quale, coll’avergli dato cento zecchini, era stato la prima cagione della sua fortuna. Voleva Califfo fargli il regalo d'una borsa di mille zecchini: ma Sandal, commosso della sua generosità e gratitudine, lo ringraziò, assicurandolo di non voler prender parte se non alla gioia che la nuova sua sorte gl’infondeva.

«Comprò allora Califfo una bella casa ed adornolla con molta magnificenza, talchè pareva un vero paradiso. Sposata quindi la figliuola di uno de’ più distinti personaggi della città, visse nell’abbondanza e felice, senza però dimenticare che alla Provvidenza, cui ringraziava ogni giorno, doveva il suo innalzamento. Conservossi in grazia del califfo, e godette di tutti i diletti d’una vita felice sino al giorno in cui la morte lo chiamò all’eternità e ad una vita più beata ancora. Possa il Dio onnipossente, che vive sempre, nè muore mai, concederla a tutti!»

La notte seguente, Scheherazade cominciò un’altra novella di tal guisa:

  1. Questo sotterramento improvviso non è in verosimile, poichè i Maomettani seppelliscono i morti appena sono spirati. Codesto barbaro costume è autorizzato da una tradizione orale del Profeta.
  2. Il vocabolo giara, come pure l’altro damgian, del quale è formato damigiana, sono di origine araba.