Letteratura romena/I. Letteratura popolare

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I. Letteratura popolare

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Letteratura romena II. Letteratura antica
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Capitolo I.


LETTERATURA POPOLARE


Allo stesso modo come è ormai dimostrato che alcuni strambotti siciliani moderni contenenti allusioni a fatti storici antichissimi ci conservano sostanzialmente i più antichi documenti poetici della letteratura italiana; è da ritenersi che anche la più antica letteratura romena non dovesse differir molto da quella popolare contemporanea. Sottoposta anch’essa, come la più antica letteratura scritta, ad influssi letterarii slavi e bizantini, ciò non ostante essa rappresenta — coi delicati ricami, i magnifici tappeti, le armoniose e ricche sculture in legno, le note appassionate e boscherecce della «doina»; l’anima del popolo che le dette i natali e perciò l’espressione più pura della razza: la «vera» letteratura romena, cui si riannoderà più tardi il movimento etnico-letterario del «Semănătorul» (Il Seminatore) promosso dal Iorga nella rivista dal medesimo titolo e si riannoda anche oggi la corrente più sana della letteratura contemporanea. Riteniamo perciò necessario incominciare questa rapida esposizione della letteratura romena dalla poesia popolare anche per ragioni cronologiche, in quanto una letteratura popolare, sostanzialmente identica all’attuale, dovè esistere in Romania assai prima del secolo XV, quando cominciano ad apparire i primi documenti di letteratura colta.

Lo stesso nome di «Cântece bătrânești» («Canti degli antenati») mostra come il popolo romeno sia cosciente dell’antichità della sua poesia popolare narrativa. Si tratta di canti che ci raccontano (in una forma melodica particolare) antiche leggende intorno ai Voivodi romeni, storici o leggendari, lotte contro i Tartari o i Turchi ovvero tra pastori romeni di diverse regioni, e soprattutto le gesta di quei simpatici e generosi briganti, vendicatori dei soprusi fatti al popolo dai «boieri» (signori) o dai [p. 6 modifica]«ciòcoi» (risaliti), che son gli «haidùci». Capolavori di questa specie di ballate epico-liriche, messe recentemente a profitto da Panait Istrati nella sua ben nota «Présentation des Haïdoucs» (Paris, Rieder, 1925), sono la delicatissima «Miorița» («Agnellina»), in cui la più affezionata delle pecore rivela al pastore la sua prossima morte per mano di tre rivali, che voglion derubarlo del gregge; e la drammatica «Legenda Mânăstirei Argeșului» (La leggenda del Monastero di Argeș), in cui un leggendario architetto, Maestro Manole, s’induce a murar viva nella nuova fabbrica la donna amata per romper l’incantesimo, che faceva crollar durante la notte quanto era stato faticosamente costruito durante il giorno.

«Miorița» è l’espressione più delicata ed autentica dell’anima popolare romena e non trova perciò alcun riscontro nella letteratura popolare degli altri popoli. La dolcezza pastorale del paesaggio, la serenità con cui è considerata la morte, la semplicità e la tenerezza degli affetti familiari che in essa si riflettono; fan di questa poesia un vero capolavoro di delicatezza e di profondità, che testimonia di un senso del bello molto progredito e raffinato.

Sentite la risposta del pastore alla pecorella che gli ha rivelata la sua prossima morte:

Pecorella ricciuta,
se tu hai il dono della profezia,
e se io debbo morire
in un campo di sventura,
5. di’ al Vrânceano (1)
ed all’Ungureano (2)
che mi seppelliscano
qui vicino
nel recinto delle pecore,
10. perchè io sia sempre con voi,
dietro all’ovile,

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ch’io ascolti il latrato dei cani.
Questo di’ loro
e che al capezzale mi metta
15.un flauto di faggio
(molto suona dolce),
un flauto d’osso
(molto suona melanconico),
un flauto di sambuco
20.(molto suona appassionato).
Il vento quando vi soffierà
entrerà in essi,
le pecore s’aduneranno,
su me piangeranno.
25. Ma tu del delitto
non dir niente a nessuno;
di’ loro soltanto
che mi sono sposato
con una bella regina,
30. padrona del mondo;
che alle mie nozze
è caduta una stella;
che il sole e la luna
mi ha tenuta la corona;
35. che gli abeti e i platani ’
mi sono stati testimoni;
preti, gli alti monti,
violinisti, gli uccelli
e fiaccole le stelle!...

(V. Alexandrì, Poezii populare ale Românilor.
București, «Minerva», 1908, p. 5. Trad. di
Ramiro Ortiz).


«Legenda Mânăstirei Argeșului» rappresenta un canto epico-lirico ispirato alla leggenda formatasi attorno a quel meraviglioso monumento dell’arte bizantina ch’è il monastero di Argeș costruito da Neagoe-Vodă Basarab, ma la cui fondazione il popolo attribuisce al leggendario Radu-Vodă Negru. In forma diversa codesta leggenda si trova un po’ dappertutto nel folk-lore balcanico dove la troviamo riferita alla fortezza di Scutari (in Albania), al ponte di Arta (in Macedonia) e ad altre costruzioni colossali o sontuose che hanno impressionata la fantasia popolare in Grecia, Serbia e Bulgaria. Malgrado ciò, la delicatezza con cui anche in questa ballata sono trattati gli affetti familiari e la soavità di tocco usata dall’ignoto artista popolare nel tratteggiar la figura della donna sacrificata; son caratteristiche dell’anima romena. [p. 8 modifica]Eccone la scena centrale:

Manea si destò
e al piano guardava (3),
il sentiero scrutava.
Quando, ahimè, che scorgeva?
5. Chi pel sentiero avanzava?
La mogliettina sua,
il fiore del campo!
Ella s’avvicinava
e gli portava
10. la colazione per mangiare,
il vino per bere.
Appena egli la vedeva,
il cuore gli batteva,
in ginocchio cadeva,
15. e piangendo diceva:
— Signore, fa’ venire
una pioggia dirotta,
che faccia ruscelli,
che scorra a torrenti,
20. le acque crescano,
la bella mi fermino,
me la fermino a valle,
sì che torni indietro! —
Il Signore ebbe pietà,
25. la preghiera esaudì,
nembi radunò,
il cielo oscurò,
pioggia dirotta mandò,
che ruscelli formava
30. e torrenti gonfiava.
Ma, per quanta ne cadesse,
la bella non si fermava,
anzi sempre avanzava
e s’avvicinava.

· · · · · · · · · · ·

35. I maestri grandi,
i manovali, i muratori
molto si rallegravano
quando la vedevano.
E Manea si disperava,
40. la bella abbracciava,
in braccio la sollevava,
sull’impalcatura la portava,
sul muro la metteva,
e scherzando diceva:

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45.— Sta ferma, amore mio,
e non ti spaventare,
che noi vogliam per gioco
fabbricarti nel muro! —
Anna si fidava
50.e allegra rideva,
E Manea sospirava
e cominciava
il muro a fabbricare,
il sogno ad avverare.
55.Il muro s’innalzava
e la circondava
fino ai malleolini,
fino ai polpaccini,
ma lei, povera lei,
60.più non rideva
e sempre diceva:
— Manoli, Manoli,
mastro Manoli,
il muro forte mi stringe,
65.il corpicino mi frange,
le mammelline mi schiaccia,
il bimbo mi uccide! —
Manole si disperava
e sempre lavorava.....

(V. Alexandrì, Poezii populare ale Românilor.
București, «Minerva», 1908. p. 122. Trad.
di Ramiro Ortiz.)


Un’altra forma di poesia epica popolare è il «Plugușor» (Aratrino) che si canta dai contadini la vigilia o la mattina dell’anno nuovo, quando vengono in città coi bovi e l’aratro tutto adorno di fiori (di carta, naturalmente, in quella stagione) per augurare un buon anno ai signori e ci descrive in strofe interrotte da allegri schiocchi di frusta, le diverse fasi per cui passa il pane, dall’aratura della terra fino alla cottura nel forno. In esso troviamo talvolta un personaggio misterioso che si chiama «Troian»:

E s’è avviato zio Basilio
un giorno di Giovedì
coll’aratro e dodici buoi
ed ha arato il colle di Garalemme
e la valle di Gerusalemme
in lungo e in largo,
la terra riversava,
e il solco nero apriva,
grano rosso seminava.

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Il grano poi spuntava
e l’ha coltivato zio Basilio
per settimane e mesi
finché l’ha trovato maturo
con chicchi grandi come nocciuole
e la paglia grossa come cannucce.
Zio Basilio allora è corso a casa
ed ha sellato il cavallo baio
dai finimenti di perle.
Ed è giunto a Soroca
ed ha comprato falci a iosa.

· · · · · · · · · · ·

E così lo miete, lo lega in covoni
e la paglia raccoglie in mucchi.
E zio Basilio aveva due cavalli neri,
neri come corvi,
veloci come il vento,
ardenti come il fuoco,
ed egli li bardò,
le criniere arricciò,
la coda con nastri legò,
per condurli al mulino.
Ed ha empito zio Basilio un sacco
e l’ha portato al mugnaio.
Il mugnaio ha fatto «cioc-cioc»
ed il grano ha macinato,
poi ha fatto questa schiacciata
col santo segno della croce
cotta per noi bifolchi,
perchè diamo con una mano
e prendiamo coll’altra,
senza inganno nè frode.
Signori boieri, il tempo è bello
e v’ho trovati tutti in buona salute!


Treizeci Cântece Populare alese de Societatea
Compozitorilor Români. București, 1927,
p. 24, n. 10. Trad. di Ramiro Ortiz.)


Una terza forma dell’epica popolare romena è rappresentata dalle «basme» (leggende), o «povești» (racconti), che corrispondono in certo senso alle nostre novelline popolari ed i cui protagonisti obbligati sono lo «Zmeu» (specie di drago malefico), Făt-Frumos (il Reuccio) e Ileana Cozinzeană (la Reginotta) colla differenza che nelle «basme» non è necessario sian di sangue reale, ma rappresentano semplicemente il tipo del bel giovanotto e della bella ragazza di campagna idealizzati in una luce di leggenda. [p. 11 modifica]Diamo come esempio di «basm» il principio di quello intitolato «Giovinezza senza vecchiaia e vita senza morte»:

C’era una volta, al tempo dei tempi, che se non fosse vero non si racconterebbe, quando il pioppo portava le mele e il salice le violette, quando i lupi gittavan le braccia al collo delle pecore ed eran con loro come pane e cacio, sì che non facevan che baciarsi dalla mattina alla sera; quando si ferravan le pulci con novantanove libbre di ferro e ciò non ostante saltavano fino alle stelle, di dove ci portavano le leggende; quando le mosche scrivevan sulla parete: "Più bugiardo si scopra chi non ci crede”; c’era dunque una volta un Imperatore potente e una Imperatrice, belli e giovani l’uno e l’altra, che, volendo aver figlioli, avevan fatto più volte quel che bisogna fare per averne; poi erano andati dai maghi, dai filosofi e avevan pregato perfino gli astronomi di osservare bene le stelle per vedere se avrebbero o no avuto dei figlioli; ma indarno. Finalmente, vedendo che non c’era verso di saper nulla di chiaro, l’Imperatore e l’Imperatrice presero con sè alcuni boieri grandi, soldati e servi in quantità, e se n’andarono da un vecchietto che aveva fama d’indovino e lo trovarono a casa. Il vecchietto, come li vide di lontano, uscì loro incontro, dando loro il benvenuto:

Ben arrivati e con salute! Ma perchè vi ostinate a voler sapere la verità? Il vostro desiderio, una volta realizzato, non vi frutterà che dolore!

Io — rispose l’Imperatore — non son venuto per questo, ma solo a domandarti che, se tu sai un modo come noi possiamo far dei figlioli, tu ce lo dica.

Ce l’ho — rispose il vecchietto — ma non avrete che un figlio solo. Egli sarà un vero

Principe Azzurro
tenero come burro,

ma non potrete godercelo.

L’Imperatore e l’Imperatrice presero le medicine date loro dal vecchietto e se ne tornano allegri e contenti al loro palazzo, e, dopo alcuni giorni, l’Imperatrice s’accorse di essere incinta. La corte e i dignitari si rallegrarono molto di questo avvenimento. Ma, prima ancora di nascere, il bambino cominciò a piangere nel ventre della madre e di un pianto così dirotto che nessun medico potè farlo cessare. Allora l’Imperatore per consolarlo cominciò a promettergli tutti i beni della terra, ma neppure con questo riuscì a farlo tacere.

Taci, amore del tuo babbo — dice l’Imperatore — che ti darò il tale impero o il tal’altro; taci, figliolino bello, che ti darò in moglie la figlia del tale o del tal’altro Imperatore e molte altre cose di simil genere; ma, quando vide che non si chetava, gli disse: — Taci, figliol mio, che ti darò ”Gioventù senza vecchiaia e Vita senza morte!”.

Allora il bambino si chetò e venne alla luce; e i dignitari cominciarono a sonar cembali e tamburi e in tutto l’impero si fecero gran feste per tutta una settimana.....

E il bambino cresceva forte e bello, fu mandato a scuola dai più dotti filosofi, ed imparava con gran facilità; quello che gli altri bambini imparavano in un mese, egli l’imparava in un giorno e tutto l’impero era fiero del suo principe, che sperava divenisse col tempo un sovrano più sapiente di Salomone; ma, quando ebbe compiti i quindici anni, cadde in malinconia e non si sapeva che avesse. Un giorno che erano a tavola e l’Imperatore si rallegrava tra i suoi boieri, Principe-Azzurro si levò in piedi e disse: [p. 12 modifica]Babbo, è venuto il momento di darmi ciò che mi hai promesso il giorno della mia nascita.

Udendo ciò, l’Imperatore si attristò assai e gli rispose:

Andiamo, figliolo, come potrei darti quello che nessuno ha mai avuto? Se te l’ho promesso, è stato solo per non farti più piangere.

Ebbene, babbo, se tu non puoi darmelo, io sarò costretto a girar tutto il mondo, fino a quando avrò realizzata la promessa fattami il giorno della mia nascita.

(P. Ispirescu, Legende sau basmele Românilor,
a cura di N. Cartojan, Craiova,
«Scrisul Românesc», 1932, p. 57. Trad. di Ramiro Ortiz).


A questo punto incominciano le molteplici avventure del Principe Azzurro, che finalmente riesce ad uccidere la Vecchiaia e la Morte e la novella termina con la formula rituale:

Ed io saltai a cavallo d’una sella
e vi raccontai la novella.

La poesia lirica romena prende le forme della «doma» (poesie d’amore e di dolore, in cui si effonde quel particolar sentimento di rimpianto caratteristico dell’anima romena ch’è il «dor» e che non trova il suo riscontro se non in parte nella «Sehnsucht» tedesca e nella «saudade» portoghese); delle «hore» (canzoni a ballo), delle «strigături», specie di grida satiriche che si emettono durante la «hora» (danza nazionale), le «cântece de lume» (canti mondani), le «bócete» (nenie funebri), le «colinde» (canti di Natale), le «cântece de stea» (canti di stella) che si cantano anch’essi in occasione del Natale dai bambini che portano in giro una stella di carta con dentro un lumicino e nel mezzo alcune immagini di santi e le «snoave» (satire popolari soprattutto contro gli zingari e gli ebrei, ma anche contro i preti ubbriaconi, le autorità del villaggio che non fanno il loro dovere, i contadini pigri, le ragazze che pensano a dipingersi il viso, ma non hanno alcuna voglia di tessere).

Diamo qui qualche esempio di «doina» e delle altre principali forme della lirica popolare romena:

DOINE

I.

Vorrei lamentarmi e non ho con chi,
vorrei lamentarmi e non ho con chi,
vorrei lamentarmi col boschetto,
col bosco poveretto.

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Col bosco addolorato come me,
col bosco addolorato come me,
passa l’autunno, l’inverno viene,
povero come me diviene.

(Tiberiu Brediceanu, Doine și Cântece populare românești, caietul VI, p. 4. Trad. di Ramiro Ortiz).


II.


Dóina, dóina, dolce canto,
quando t’odo non so più andarmene,
dóina, dóina. canto di fuoco,
quando risuoni io mi fermo.

Soffia il vento di Primavera,
io canto la dóina all’aperto,
sì da accordarmi coi fiori
e i rosignuoli.

Vien l’inverno nevoso,
io canto la dóina chiuso in casa
e mi consolo tutto il giorno,
Il giorno e la notte.

Quando la foglia torna a viver nel bosco
io canto dóine di fatti eroici,
quando cadon le foglie giù nella valle,
io canto dóine di malinconia,
Dóina dico, dóina sospiro,
solo colla dóina mi fo coraggio,
dóina canto, dóina sussurro,
solo della dóina vivo!

(V. Alexandrì, Poeziile populare ale Românilor. București. «Minerva», 1908, p. 152, Trad. di Ramiro Ortiz).


III.


Il prato grida, il prato piange
per un cavrioletto.
Povero triste cuoricino,
come il prato grida, piange
per una cavrioletta bionda!

Foglia cresce, foglia cade,
la cavrioletta non la bruca più.
Povero me! Che mai farò?
Il rimpianto mi sta nell’animo
e il cuoricino non tace mai!

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Cuore, sii paziente
come la terra sotto i piedi,
finche la cavrioletta biondina
tomi di nuovo al prato
col suo cavriolo.

(V. Alexandrì, Poeziile populare ale Românilor. București, «Minerva», 1908, p. 15. Trad. di Ramiro Ortiz).


IV.


Fronda verde, foglia stretta,
«bàdea» (4)
se nè andato alla «pusta»
a falciar l’erba nella rugiada.

La falce gli si spezzi in due
e a casa presto se ne torni,
che vorrei mi baciasse.

(Folklor din Maramureș, cules de Gh. Reba in «Adevărul Literar» del 3 luglio 1938. Trad. di Ramiro Ortiz).


COLINDE


Su, levati, buon signore
(fiori bianchi di melo),
e fa accendere un bel fuoco
come si conviene a boiaro.

Ed accendi la candela,
(fiori bianchi di melo),
che quei che vengon da te
non son gente da nulla;

ma sono i giovani colindatori,
(fiori bianchi di melo),
e con essi c’è il Signore Iddio,

e cantano alla finestra
(fiori bianchi di melo),
”Santa è questa sera,

non è una sera qualunque
(fiori bianchi di melo),
ma è la sera di Natale,

quando nasce Gesù Bambino,
(fiori bianchi di melo),
Gesù Bambino su questa terra.

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Piange il Bambino che ricchezze non ha,
(fiori bianchi di melo),
nelle braccia della Madonna sta.

E la Madonna gli dice piangendo:
(fiori bianchi di melo),
” Taci, figlio, taci, amore

che la tua mammina ti darà
(fiori bianchi di melo),
tutte le chiavi del Paradiso,

e tu chiuderai ed aprirai
(fiori bianchi di melo),
e in Paradiso sarai il più onorato”.

Noi andiamo attorno e cantiamo colinde
(fiori bianchi di melo),
a questa casa auguriamo ogni bene,

facciamo voti di buona salute,
(fiori bianchi di melo),
desideriamo che nessun male vi accada,

anzi Gesù vi dia di tutto
(fiori bianchi di melo),
e vita lunga in buona salute.


(Treizeci cântece populare alese de Societatea,
Compozitorilor Români. București, 1927,

p. 17, n. 3. Trad. di Ramiro Ortiz).


II.


Rametto verde d’abete, rametto caro,
chi intreccia alla finestra
una corona rilucente?

È la Madre di Gesù,
del Messia dal volto luminoso.

Corona d’angiolino
per Gesù Bambino,
corona di roselline,
che si muteranno in spine.

— Ohimè, Madre, non puoi immaginare
quante lagrime piangerai amare,

che la corona di roselline
diverrà corona di spine! —

(Treizeci cântece populare alese de Societatea, Compozitorilor Români. București, 1927, p. 20, n. 6. Trad. di Ramiro Ortiz).
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BOCET

Destati, destati e lavati presto
e guarda dalla finestra,
che ti arriva un ordine del Re,
e il prete te lo leggerà,
da noi lontano ti porterà
pace all’anima tua canterà,
ed alla fossa ti porterà
e di terra ti coprirà.
Destati, destati e guarda
quanta gente viene a trovarti;
guarda nel giardino
per accomiatarti dalla mamma;
guarda i fiori del fieno,
e accomiàtati dai fratelli;
guarda come l'aia è piena di gente
e accomiàtati dal babbo,
dai parenti e dagli amici,
dalle ragazze e dai giovanotti.

(Treizeci cântece populare alese de Societatea
Compozitorilor Români. București, 1927,
p. 24, n. 10. Trad. di Ramiro Ortiz).


DESCÂNTEC


Scongiuro contro il morso dei serpi velenosi

Sotto un cespuglio nel praticello,
c’è una fontanella,
e, nella fontanella,
una pietrina
fredda e lividina,
e, sotto la pietra,
un serpentello
con denti d’acciaio;
i denti mordon la pelle, la pelle la carne, la carne l’osso
e per il corpo passa un lampo avvelenato.
Ma, come di tra le nuvole,
escono i lampi abbaglianti,
così uscirà dall’osso, dalla carne, dalla pelle,
il morso maligno
di quel serpentello,
che sta sotto una pietrina
nella fontanina
sotto il cespuglio selvaggio.

(M. Caster, Chrestomatie Româna. Leipzig
București, 1891, vol. II, 339. Trad. di
Ramiro Ortiz).

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NANI-NANI

Fa’ la nanna, mio bambino,
cuor della mamma, tesorino,
ché la mamma ti cullerà
e sugli occhi ti bacerà.

Fa’ la nanna, figlio della mamma.
Fa’ la nanna, uccellino.

Addormentati piccolino,
e svegliati già grandino,
piccolo figlio della mamma,
possa tu crescer grande e coraggioso.

Fa’ la nanna, figlio della mamma,
fa’ la nanna, uccellino.

Vattene colle pecorelle
sul prato dei fiorellini,
vattene colle vaccherelle
sul prato delle fragole.

Fa’ la nanna, figlio della mamma,
fa,’ la nanna, uccellino.

(Cântec de leagăn popular, cules de Constantin Brailoiu,
cântat de Evantia Costinescu; da
un disco «Columbia» [U H R 213] DV
1201. Trad. di Ramiro Ortiz).


STRIGATURI

I.

La mia bella è bianca e rossa,
ma sta sempre per la strada;
a casa non ce la vedi mai!

II.

La mia bella è tutta adorna
di collane zingaresche,
ma a tessere si stanca,
e la casa non è spazzata!

III.

Il diavol ti porti, fanciulla,
non sapevo fossi bettoliera
e dessi a bere a credito ai giovanotti!

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IV.

Hai venduto il gallo
e ti sei comprato il rossetto;
meglio avresti fatto
a comprarti le scarpe,
che, invece di abbellirti,
ti sei fatta ridicola.

(Dalla rivista «Izvorașul». 1933-34. Trad. di Ramiro Ortiz).


SNOAVA

La confessione dello zingaro.


Lo zingaro andò, un giorno di quaresima, a confessarsi come ogni buon cristiano. Il prete si mise la stola, gli lesse i salmi penitenziali e la preghiera della confessione e poi cominciò a domandargli quali peccati avesse sulla coscienza:

Coraggio, figlio, non avresti per caso rubato qualcosa a qualcuno?

No, padre caro, non ho rubato nulla a nessuno. Come potete ritenermi capace di un simile peccataccio?

Hai forse parlato male del prossimo?

No, reverendo padre, non ho mai sparlato di nessuno.

Hai giurato qualche volta il falso?

Mai.

Hai mangiato carne in giorno di digiuno?

No, mai; e neppure i miei figliuoli. Solo il babbo una volta ne ha mangiato.

Bestemmiare, hai bestemmiato mai?

No, credetemi, no!

Allora, figlio mio — disse il prete — sono proprio contento, tu sei un vero santo!

Sì, padre, un santo!

Allora — disse il prete — facciamo a te quello che si fa ai santi!

Ed il prete s’affacciò alla porta della chiesa e chiamò il sagrestano:

Nicola, Nicola!

Eccomi, padre!

Porta subito dei chiodi e un martello ed inchiodiamo questo zingaro tra le sacre icone!

Quando lo zingaro udì che lo si voleva inchiodare, cominciò a strillare:

Pietà, pietà, reverendo padre, che non son santo un corno, e non ho finito di confessarmi! Testimoni mi sieno le oche del ”boiaro”, che un giorno se ne son venute con me fino a casa e non han voluto più tornare dal loro padrone per quanto io le scacciassi!

(Dalla rivista «Izvorașul», 1933-1934. Trad. di Ramiro Ortiz).

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Le «Orațiile de nunta» («Parlate di nozze») son poesie che si cantano dai giovanotti che, a cavallo e vestiti cogli abiti da festa nel bel costume nazionale e condotti da un parente dello sposo, cui si dà il titolo nobiliare di «vornicel»5, vanno a chieder la mano di una ragazza. Esse comincian tutte colla descrizione di una caccia del «Voda», che, inseguendo una cerbiatta (lo stesso motivo troviamo nelle «Stanze per la Giostra» del Poliziano) apparsagli come in una visione di leggenda, l’ha vista rifugiarsi nell’aia del futuro suocero. — Eccone un esempio:


ORATIE DE NUNTĂ

(Parlata di nozze)


Buon giorno, onorati suoceri!
Buon giorno a voi, giovani valorosi6, qual buon vento vi mena a noi?
Ebbene, suoceri onorati,

visto che ci avete domandato
perchè, sarebbe a dire, siam venuti
e al vostro cancello ci siam fermati;
vi daremo la risposta,
ma tenete a freno la lingua
e tacete come pesci,
se volete ascoltar la nostra parola.
Perchè con tanta fretta
domandan lor signori
il perchè del nostro arrivo?
Che aspetta qui tutta questa gioventù?

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Perchè tutta questa folla?
Queste ragazze han forse visto l’orso,
che guardati fisso a bocca aperta?
Han paura che le mangiamo?
Noi siam venuti qui anche altre volte,
e non ci han domandato che volevamo.
Ora invece vi siete radunati in folla
come se voleste attaccar briga.
Credete forse che per paura
tacciamo e non facciam l’ambasciata?
Neppur per la testa vi passi
un’idea così sciocca!
Noi non abbiam paura di nessuno,
perchè portiamo il nome di ”valorosi”
e neppure il vento ci fa tremare,
e sappiamo come parlare.
Se volete, e vi piace
che rispondiamo in pace,
prendeteci colle buone,
perchè possiam parlare come si deve,
chè ogni patto
si fa a mente fredda
e una domanda arrogante
non può far piacere.
Perciò, lasciando ora lo scherzo,
ascoltate quanto abbiamo a dirvi.
Il nostro giovane Imperatore
una bella mattina,
quando il sole appena nato
tingeva di rosso le nuvole,
volendo partir per la caccia
col suo seguito in gran pompa,
si levò, si vestì a festa,
s’armò come si conviene,
e, dando di fiato al corno
sonò una volta,
raccolse molti ”valorosi”
tutti bravi a cavalcare
ed abili con maestria
a tirar d’arco ed a cacciare.
Poi, in loro compagnia e col fresco,
partì per la caccia,
percorrendo, attraversando
i monti con le colline,
i boschi con l’ombra,
le valli coi prati.
Così correndo tutto il giorno,
battè il terreno tutto all’intorno
fino al mezzogiorno ed alla sera
senza cacciare alcuna selvaggina
e tanto s’era disgustato,

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che voleva tornarsene indietro;
ma un presentimento
gli diceva di non scoraggiarsi
e continuar la sua caccia.
Coll’arco dunque e la freccia in mano
giunse a una sorgente
e, vedendo l’orma di una fiera,
tutti ivi scavalcarono
per vedere, per scrutare
che specie d’orma quella fosse.
Stando così chini a terra
e guardando con meraviglia,
alcuni dissero ch’è orma di fata
(possa l’Imperatore averla fidanzata),
altri ch’era un fiore miracoloso
(possa l’Imperatore coglierlo odoroso).
Dunque con questi discorsi
destarono la curiosità del Voda
e gli fecero nascere il desiderio
di stabilire e sapere
di dove questa fata
era venuta alla sorgente
e con desiderio ardente
seguì l’orma tutto il tempo.
E, seguendola, tanto galoppò
finche vide che conduceva
lui e tutta la sua scorta
proprio davanti all’aia di lor signori,
dove vide un fiore
lucente come una stella
che, per crescere, cresce sempre,
ma dar frutti non può
perchè la terra non le si confà.
Perciò l’Imperatore
tenne in sè consiglio
che quel fiore di bellezza
che così dolce odorava
fosse da lui preso perchè rifulgesse
alla corte imperiale,
dove il terreno le sarebbe propizio
per crescere, fiorire,
e frutti fruttificare,
e tali frutti desse
che tutti se ne compiacessero.
Così il giovine Imperatore
in sè decide e intorno
guarda, riconosce la località,
secondo i raggi delle stelle
e se ne torna a casa
coll’animo in pace
e pensando con desiderio

[p. 22 modifica]

al fiore roseo.
Il giorno appresso,
quando i primi raggi
arrossavan l’oriente
si veste, si calza,
pone il piede nella staffa d’argento,
e, sul destriero coraggiosamente
salendo, si ferma
e, su tutto il seguito
girando gli occhi intorno,
noi portatori di ciambella scelse
noi dai baffi superbi,
montati su cavalli veloci come draghi
dalle teste come di leone,
dalle criniere lucide,
dagli zoccoli dipinti,
dalle nari, che, quando corrono,
gittan fiamme luminose.
Ma, dopo che ci ebbe scelto,
con ambasciata ci mandò
alla ricerca dell’amato fiore,
del fiore molto odoroso,
perchè lo portassimo a risplendere
alla corte imperiale.
Partimmo allora subito
per obbedire all’ordine da lui datoci,
ma non sapemmo venir difilato
per strade facili e conosciute,
ed abbiamo consultate le stelle
e siam venuti seguendone i raggi
attraverso monti e valli strette
costeggiando le colline
mangiando e bevendo insieme
con canti e allegria
e domandando per la via
dell’aia di lor signori
e così la stella desiderata
dal nostro Imperatore amata
qui di vista la perdemmo
e nascondersi vedemmo.
Dateci dunque quel fiore,
quella stella luminosa.
Insieme colla risposta
desideriamo da voi cortesia.
Non rispondete parole sgarbate
che potreste pentircene.
Noi non siamo gente leggiera
e non pariamo come al mulino,
ma portiamo l’ambasciata del fidanzato
ed eccone il decreto;

(Mostrano la borraccia del vino)

[p. 23 modifica]

è scritto in buon latino
e potete farvelo leggere;
se non sapete, come se fosse brace ardente
guardatevi dal toccarlo,
e chiamate il prete
che lui il latino lo sa;
ma non uno di quelli ch’han la barba lunga
che a leggerlo non gli bastino tre giorni.
nè di quelli dalla barba rasa
chè ci tenga qui fino a sera,
nè uno dalla barba folta
che lo legga e non lo capisca;
ma di quei che san succhiare,
che lo legga in due sorsi,
chè non è documento latino,
ma, come vedete, una borraccia
con buon vino di Collina
(quando lo bevete vi cade il berretto di pelo)
con vino di Valle Lunga
(quando lo bevete schioccate la lingua).
Orsù bevete, alla buonora!
Bagnatevi l’ugola, buona gente,
chè ve ne state colla bocca aperta?
Prendete la borraccia e passatecela l’uno all’altro
e dateci quella giovinetta fata,
che la portiamo all’Imperatore
e mettiam fine agl’indugi!
Non crediate che scherziamo
o diciam parole vane,
ma preparate quanto più roba
buona a banchettare,
portate fieno e carri
che i cavalli abbian da mangiare,
macellate i vitelli più grassi
e date ai giovanotti da mangiare;
radunate le ragazze più belle
perchè danziamo con loro.
Poi adornate la casa
con drappi di seta
e, per i giovani ambasciatori, preparate delle tende
con molto spazio da potervi star tutti.
Imbandite un gran numero di tavole
e guarnitele con cibi scelti
e confetti squisiti
come l’uso richiede.
E, se per caso non fosse possibile
far tutte queste cose,
non istate neppure a rispondere,
ma cercatevi un posto dove nascondervi,
chè gli ambasciatori non intendon ragioni
e vi trovereste a mal partito.

[p. 24 modifica]

E poi è bene che sappiate
che, fra breve, arriva l’Imperatore
co’ suoi soldati e capitani
con molte carrozze dipinte e lucenti
ed in esse signore in gran gala;
arriva anche una carrozza grande
con liuti e con canti,
in cui siede la madrina,
che tiene in mano una corona
luminosa, brillantissima.
per la rosea fidanzata,
scelta dall’Imperatore.
Tirate fuori ora anche la ciambella
che ho vuotato il sacco
e dateci, si sa, anche un fazzoletto
tessuto di lino sottile
e ricamato con fiori d’oro:
potete darlo anche di seta,
se mai foste così generosi,
e, se no, sia anche di cofone
come crederete vi faccia più onore,
che noi accettiam tutto,
solo che facciate presto
e possiamo asciugarci i baffi,
che son bagnati dal gran bere,
e a codeste ragazze radunatesi
qui come le cornacchie
e che se ne stan dietro di voi
tutte a bocca aperta,
bagnate nel latte una crosta di pane
e datela loro a inghiottire
perchè non restino a bocca asciutta
e passi loro la voglia
e leniscano il desiderio,
finche verrà anche per loro
l’ambasciata di nozze.

Ma perchè non scendete da cavallo? (dice il padre della ragazza)

Vogliamo ci diate prima la risposta!

Solo allora scenderemo da cavallo,
ma non vorremmo si facesse notte,
chè dobbiam passar valli profonde
con burroni e rocce aguzze,
monti eccelsi con abeti frondosi;
dateci la risposta e state sani!

(M. Gaster, Chrestomatie Română. Leipzig București, 1891, vol. II, 312-316. Trad. di Ramiro Ortiz).

[p. 25 modifica]Quando la «borraccia» e la «ciambella» sono accettati, il che equivale a un consenso alle nozze, gli ambasciatori ringraziano così:

Ringraziamo voi, signor fidanzato,
e voi, signora fidanzata,
come mi avete visto portarvi questo bicchiere,
così il buon Dio vi veda dal cielo con grazia.
Della sua grazia vi faccia dono,
il buon nome vi accresca;
gli anni vi moltiplichi,
i giorni vi allunghi.
Vi mandi dal cielo
i suoi quattro doni:
stemma imperiale,
corona regale,
trono di monarca,
scettro di dominatore.
Il buon Dio vi consigli
sì che godiate l’uno dell’altro,
come godè il patriarca Aronne,
quando gli fiorì il bastone in mano,
non innaffiato, non rinfrescato da rugiada,
eppure, quando Iddio lo benedisse,
pure germinò e fiorì.
Possiate godere
della gioia
della beata Elena,
quando trovò la santa Croce,
e di nuovo che Iddio vi ritenga degni
di goder l’uno dell’altro
come godè Noè patriarca
quando si salvò dal Diluvio,
e balzò fuori dell’arca sulla riva,
e della frutta gustò e si saziò,
e bevve vino,
e fece gran banchetta.
D’allora ci venne il vino,
col quale fo brindisi alla vostra salute.
Questa nuova via, in cui camminate
e queste vostre nozze
avvengano colla benedizione del Santo Iddio,
che vi diriga
verso una meta di gran fortuna,
verso una vita
piena di felicità
a gran lode dei genitori e dei fratelli
e gioia dei poveri, cui farete l’elemosina.
E di nuovo il buon Dio vi faccia grazia

[p. 26 modifica]

e vi dia gran ricchezze
e molta abbondanza:
greggi di pecore,
aratri e buoi,
mandre di cavalli e borse d’oro,
come ai signori più grandi.
Ed ancora vi doni
in così grande abbondanza
com’è l’acqua del Prut,
o anche del Sereth,
che non è men ricco d’acque.
Ringraziamo voi, giovane paggio,
corpicino di violette,
(possan farne mazzolini’ le ragazze
da mettere in seno a contatto della pelle).
Ti ringrazio di questo bicchiere zuccherato
come lo Spirito Santo, pel dono che ce ne avete fatto.
Per questo bicchiere superbo, giallino,
come di succo di Platano.
La grazia divina
sia nella tua casa.
Come sei diventato capo di questo stuolo,
possa tu diventar capo di cittadella,
e allora facci entrar nel tuo castello
ed offrici un bicchiere di vino,
che fin d’ora te ne ringraziamo.
Dopo tutti questi auguri a voi,
il buon Dio non dimentichi neppur noi,
e ci dia una ragazzina,
bellina, morettina,
per esempio quella che ride,
lì, vicino alla siepe,
sempre che anche lei voglia
esser la nostra mogliettina.
Se sarà grande, camminerà più svelta delle altre,
se sarà piccolina,
io non avrò nulla in contrario.
E se sarà più bella,
mi piacerà anche di più
e penso che sarà mia
e reggerò con lei la casa.
Fo brindisi anche alla mia bocchina,
perchè sa come si beva,
e stringerò le labbra
e del ventre farò capanna,
sì che del vino
non si verserà neppure una goccia.
E tu, boccuccia, non vantarti
con questo bicchiere di saziarti,
che non te ne basterà neppure un altro,

[p. 27 modifica]

come non si sazia l’inferno
di boieri da divano,
di vornici e vatamani.
E bevo questo bicchiere
per gran desiderio d’allegria,
per gran desiderio di giustizia,
di bontà di bontà
di fino del fino,
com’è la sorgente del vino;
per la fertilità dei campi,
che, quando fioriscono,
tutti si rallegrano.
L’un con l’altro quando c’incontreremo,
non ci sia alcun motivo da evitarci.
Quando ci troveremo insieme,
promettiamo che ci abbracceremo;
quando fra noi saremo,
del buon vino ci offriremo.
Quando incontro ci verremo,
ci baceremo.
Pace tra i fratelli
e pace tra i Re,
i boiari grandi
diventin guardie campestri,
i piccoli boieri
restino poveri in canna;
ma noi contadini
possiam fiorire come lo zafferano.
E i traditori
li sbranino i cani
e persin le gatte
rodan loro le scarpe.
Ed io dico alle vostre signorie: Amen!
E bevo questo bicchiere di vino,
lo bevo fino al fondo
perchè viviate contenti.
E sarei anche disposto
a por fine alle mie chiacchiere,
ma ho paura che non mi darete più da bere.
Ed io, per me, darei un po’ di vino anche alle ragazze,
ma ho paura che non s’ubbriachino
ed allora (si sa!) le mamme
non darebbero la colpa a loro,
ma se la prenderebbero con me,
e mi direbbero villania,
accusandomi d’averle fatte bere.

(M. Gaster, Chrestomatie Română. Leipzig București, 1891, vol. I-II, 316-319. Trad. di Ramiro Ortiz).

[p. 28 modifica]Il Vicleim (da Bethlem) detto anche Irozi (da Erode) corrisponde al nostro teatro popolare ed è molto vicino alla «Sacra Rappresentazione». I personaggi principali sono Erode e i Re Magi, un pastore, un ufficiale, soldati di Erode e qualche volta un bambino lattante.

Ne diamo qui due esempi, uno di forma ridotta, l’altro più largamente concepito:

I.


ErodeChi siete voi e dove vi recate?

Melchiorre. — Io sono il Re Melchiorre d’Oriente. e, dalla stella ch’è nuovamente apparsa avendo appreso che è nato sulla terra un Imperator grande, vado a Betlemme per prosternarmi davanti a Lui.

Baldassarre.Io sono il Re Baldassarre della Perside, che, dalla stella nuova ch’è apparsa e dai Profeti avendo appreso che è nato Cristo Imperatore, vado a prosternarmi davanti a Lui.

Gaspare.Io sono il Re Gaspare d’Oriente e, vedendo la nuova stella ch’è apparsa, ho consultati i Profeti e le Sacre Scritture ed ho appreso esser nato Cristo, Baron dei Baroni, Re dei Re e Imperatore degli Imperatori, e vo a Betlemme a prosternarmi davanti a Lui. Ma tu che Grande Imperatore sei?

Erode:

Io sono Erode Imperatore,
cui giammai non trema il core,
a cavallo son balzato,
la mia spada ho impugnato,
a Betlemme sono entrato,
gl’innocenti ho trucidato,
tutta la terra ha tremato.

(M. Gaster, Chrestomatie Română. Leipzig București, 1891, vol. II, p. 332. Trad. di Ramiro Ortiz).


II.


PARTE I.


I Re Magi (cantando in coro):

O Erode Imperatore
di cattiveria
t’han riempito il core
la vanità del mondo
e la superbia imperiale.

Gaspare a Erode:

Grande onore abbiamo
di presentarci alla tua Maestà.

[p. 29 modifica]
Erode:

O voi, fantasmi terrestri,
con apparenza di Re,
che volete da Noi?
Come avete potuto entrare
con tanta temerità
nel mio potente impero?

Gaspare:

A te, Signore glorioso,
molti giorni felici!
Guardando i nostri vestiti,
ben potresti ricordarti
che abbiamo esercito imperiale
che potrebbe competere col tuo;
ma, invece che a capo dei nostri soldati,
dobiam preferito partir soli,
guidati dalla stella miracolosa.

Erode:

Intanto ve la passeggiate per Gerusalemme;
che cercate qui da noi?

Gaspare:

Siam tre Re Magi viaggiatori,
sovrani amici come fratelli;
valli e colline solitarie
e boschi sconosciuti
abbiamo attraversato
in cerca dell’Imperatore
ch’è nato questa notte.
Dalla Perside siam partiti,
chè la stella ci è apparsa
sul cielo sereno.
Qui appena siamo giunti,
la stella tra le nuvole ci s’è nascosta
ed abbiam dovuto girare di qua e di là
per la città, a domandare,
”Dov’è nato„ — dicendo —
”un Re potente, questa notte?„
E alcune tue guardie
assai scortesi e villane
colla forza ci han legati
e alla tua presenza portati.

Erode:

Vi ringrazierei come fratelli
se mi diceste che volete
e donde venite,
per nome come vi chiamate,
e verso qual meta viaggiate.
Qual Re sei tu?

[p. 30 modifica]
Melchiorre:

Io sono il Re Melchiorre
delle parti d’Oriente:
dalla stella ch’è sorta
all’orizzonte sereno,
e dai Profeti apprendendo
che sarebbe nato in questi giorni
un grande Imperatore sulla terra,
son partito per andarlo a trovare
per adorarlo e servirlo.

Erode (tra sè):

Va’ va’ dal tuo Imperatore,
che gli farò io tagliar la testa
con una spada lucente
e dal taglio effilato,
che lo farà tremar di paura
e. il capo a terra cadere...
Ma tu, qual gran Re sei?

Baldassarre:

Io sono il Re Baldassarre,
dalla Perside son venuto
seguendo la stella ch’è apparsa,
e nei Profeti leggendo
che deve nascer sulla terra
il più grande Imperatore,
il tanto atteso Messia,
son partito alla sua ricerca
per offrirgli doni e servirlo
e prosternarmi a Lui,
come a un Dio.

Erode (tra sè):

Va’ va’ da quel disgraziato,
che io gli taglierò la testa
con una spada terribile
e risplendente al sole,
che lo farà rabbrividire
e il capo a terra cadere...
Ma tu, che mi guardi in cagnesco
cogli occhi rivolti al mio trono,
parla alla tua volta
e di’ qual Re tu sei.

Gaspare:

O Erode Imperatore,
vuoi tu proprio
saper da me chi io mi sia?

Erode:

Senza dubbio, anche da te!

[p. 31 modifica]
Gaspare:

Se mi tratti con villania,
nulla de me saprai;
se ti mostrerai cortese,
allora potrai saperlo.

Erode:

Si faccia dunque come desideri.

Gaspare:

Son più di quarantanni
da quando ho come te
nome di Filosofo e di Re. Sappi
trattarci come figli di monarchi,
di monarchi e imperatori
di corona coronati.

Erode:

Di monarchi e imperatori?
Ma allora di che andate in cerca
attraverso paesi stranieri
fino al mio regno?

Gaspare:

Geremia ci ha mandati,
dalle Sacre Scritture abbiam capito
che sarebbe nato sulla terra
l'Imperator nuovo e santo,
cui una stella ci ha condotti
per farlo sapere a tutto il mondo.

Erode:

Scritture e Profeti
Ma tu di dove sei?

Gaspare:

Della stirpe di Balaam,
l'avo di Abramo!

Erode:

E che dici che avverrà?

Gaspare:

Ciò ch’è scritto avverrà,
da Giacobbe nascerà
e come stella brillerà
uno tra gl’israeliti,
che trionferà sui superbi Bitini!

Erode:

Ma chi oserà
tra gl’Israeliti
trionfar dei potenti Bitini?

[p. 32 modifica]
Gaspare:

Lui, il Baron dei Baroni,
Lui, il Re dei Re,
l’imperator degli Imperatori,
che verrà e avrà potere
di schiacciar loro il capo.
Ma..... non saresti tu per caso
qualche Re potente dei Bitini?

Erode:

Sì, proprio come tu dici;
ma tu che Gran Re sei?

Gaspare:

Io reggo il freno del regno
nelle parti d’Arabia;
Re Gaspare è il mio nome
e come Re ti parlo.
Ma tu non hai forse il coraggio
di risponder qual Re tu sii?

(mette mano alla spada).


Erode (sguainando anche lui la spada):

Brutti barbari dell’Oriente,
per questo siete venuti a me?
per minacciare chi può esservi padre?
Non v’accorgete, svergognati,
che gran mali soffrirete?
Il mio nome è tale, che, quando l’ode,
l’uccello che vola tra le nubi si nasconde.
Io sono Erode Imperatore,
sul mio cavallo son balzato,
la spada ho impugnato,
in Betlemme sono entrato,
quattordicimila bambini ho trucidati
quattordicimila bambini piccolini
di due anni e anche meno
e con essi Gesù Cristo
Dunque perchè lo cercate
e volete adorarlo e servirlo?
Eccolo il nuovo Imperatore:
questo mio brando insanguinato!

Melchiorre:

O astronomo Baldassarre,
fa’ cader dal cielo fuoco e fiamme
con catrame e zolfo acceso,
che incenerisca questo tiranno
e lo faccia credere in Cristo,
e accetti il suo battesimo.

[p. 33 modifica]
Baldassarre:

Tutti i Magi si prosternano
a una stella che splende luminosa,
solo tu, idolatra,
indegno imperatore
non hai paura di pagare
il fio de’ tuoi lunghi peccati
e delle tue iniquità?
Comando ai pianeti,
e soprattutto alle comete,
incendierò il tuo regno,
farò deserti de’ tuoi palazzi,
polvere e fumo diverranno.

Erode:

Crudeli e barbari dissennali,
tentate farmi paura con parole?
non vi accorgete
che potrei esservi padre?
Così m’ingiuriate?
Non avete un po’ di vergogna?
Non parlate di punizioni,
che io posso dar ordine
che siate messi ai tormenti!

Gaspare:

O Erode famosissimo,
non istare a minacciarci,
non parlar d’ordini
di metterci ai tormenti.
Se si tratta di adoperar la forza,
anche noi sappiam come si faccia.

Erode:

Ufficiale!

Ufficiale:

Ai tuoi ordini, eccelso Imperatore!

Erode:

Prendi questi Re Magi,
e in prigione gettali,
e alle torture sottoponili,
finche abbian resa l’anima!


PARTE II

L’ufficiale porta ai piedi del trono un bambino lattante, che s’inginocchia davanti a Erode, coprendosi il petto colle mani.

Erode (al Bambino):

O tu, bambino innocente,
che la boccuccia hai pura

[p. 34 modifica]

da qualsiasi menzogna,
se mi nasconderai qualcosa,
la mia spada spietata
gusterà del tuo sangue.
Puoi tu dirmi con certezza
del Messia detto Cristo?

Bambino:

Molto so e d’ogni cosa,
eccelso Imperatore!

Erode:

Da chi nascerà?

Bambino:

Da Maria Vergine!

Erode:

Quanto tempo vivrà su questa terra?

Bambino:

Trentatrè anni;
di trenta quando sarà
da San Giovanni battesmo avrà,
il mondo da’ peccati redimerà!

Erode:

Avrà chi lo amerà?

Bambino:

Avrà!

Erode:

Chi saranno?

Bambino:

I quattro evangelisti.

Erode:

Potresti dirmi come si chiameranno?

Bambino:

Matteo e Marco
Luca e Giovanni.

Erode:

Nemici ne avrà?

Bambino:

Ne avrà!

Erode:

Chi saranno?

[p. 35 modifica]
Bambino:

Prima di tutti, tu,
poi i Sadducei,
poi gli Scribi e i Farisei.

Erode:

Dunque io sono uno di loro!
E codesti potran fargli del male,
al Messia, in qualche modo?

Bambino:

Lo accuseranno a Cesare,
sulla croce lo faran morire.

Erode:

E molto tempo resterà sulla croce
inchiodato il Messia?

Bambino:

Nient’affatto, che Dio Padre
ha disposto altrimenti:
Giuseppe e Nicodemo verranno
e dalla croce lo torranno,
il corpo nella sindone avvolgeranno,
in un sepolcro vergine, lo metteranno,
colla pietra lo chiuderanno,
e soldati lo guarderanno.

Erode:

E molto tempo starà
lì come un mortale?

Bambino:

Il terzo giorno risusciterà,
al cielo s’innalzerà,
alla destra del Padre sederà,
i vivi e i morti giudicherà,
e il suo impero glorioso
nei secoli fine non avrà.

Erode:

L’avrà, l’avrà!

Bambino:

Non l’avrà!

Erode:

L’avrà, ti dico!

Bambino:

Non l’avrà!

[p. 36 modifica]
Erode (uccidendolo):

Portatelo via ch’io non lo vegga
questo bambino tracotante,
che tanto m’ha turbato!

Coro (cantando):

O Erode Imperatore,
di cattiveria
t’ha riempito il core
la vanità del mondo
e la superbia imperiale!

(G. Dem. Theodorescu, Poezii populare române.
București, 1885, pp. 103-108. Trad. di
Ramiro Ortiz).


La letteratura popolare didattica è rappresentata soprattutto dai proverbi («proverbe») e dagli indovinelli («ghicitoare» o «cimilituri»).

Eccone qualche esempio:

PROVERBE


1. - Dov’è troppa filosofia, è anche un grano di follia.

2. - Chi è figlio di gatto, mangia topi.

3. - Colla coda del gatto non puoi far reticelle di seta.

4. - Insieme coll’albero secco, brucia anche quello verde.

5. - Non tutto ciò che vola, è buon da mangiare.

6. - I cani abbaiano, e la carovana passa.

7. - La parola è come il vento: non puoi raggiungerla nè con un cavallo corridore nè con un levriere.

8. - Ogni uccello muore per colpa della sua lingua.

9. - Chi sa leggere, ha quattr’occhi.

10. - Il ricco mangia quando ha fame, il povero quando ne trova.

11. - Chi beve a credito, s’ubbriaca due volte.

12. - Due poponi in una mano non si posson tenere.

13. - Un uomo non deve essere nè assai-assai, nè troppo-troppo.

14. - Non tutto come dice il prete, nè come dice il medico.

15. - Mettiti davanti il tuo berretto e giudicati da te.

16. - Lo zingaro, quando lo fecero Imperatore, il primo che fece impiccare fu suo padre.

17. - Ogni zingaro loda il suo martello.

18. - Finché sei incudine, soffri; finché sei martello, batti.

19. - Cinque dita sono in una mano, e nessuno somiglia all’altro.

(Iuliu Zanne, Proverbele Românilor. București,
1901, vol. V, passim.
Trad. di Ramiro Ortiz).

[p. 37 modifica]

GHICITOARE

I.

Mille volte annodata,
mille volte snodata,
mille cose dirai
tra mille non l’indovinerai.

(La rete)


II

Nel capo, è uccello,
nella coda, è falce.

(Il gallo)


III.

Nel bosco son nato,
nel bosco son cresciuto,
mi portarono in città,
mi posero in mano al giudice.

(Il bastone)


IV.

Cervello non ha,
anima non ha,
cammina senza mai fermarsi,
t’insegna quello che non sai.
Se l’indovini, ti regalo un’anatra arrosto.

(L’orologio)


(M. Gaster, Chrestomatie Română. Leipzig București,
1891, vol. II, pp. 373 sgg. Trad.
di Ramiro Ortiz).


Note

  1. Vrânceano: pastore della regione della «Vrâncea» nella parte montuosa della Moldavia (giudicato di «Putna»).
  2. Ungureano: pastore rumeno di Transilvania, per tanto tempo soggetta agli Ungheresi. Anche oggi molte località abitate da romeni di Transilvania emigrati nella Romania propriamente detta si chiamano Ungureni. Una circoscrizione intera composta di otto villaggi e chiamata con questo nome si trova nel giudicato di Tecuciu. Un altro villaggio detto Ungureni-Ciulei esiste nel giudicato di Botoșani. Donne «Ungurence» (romene, cioè originarie di Transilvania) ho visto nel loro superbo costume nazionale nero a ricami d’oro ad una «hora» nei pressi di «Tismana» nel giudicato di Gorj.
  3. Perchè insieme coi compagni di lavoro aveva giurato di murar viva nel maro della nuova costruzione la prima persona che sarebbe venuta a portar loro da mangiare.
  4. Badea è appellativo affettuoso e insieme rispettoso. Si potrebbe tradurre: «fratellino maggiore».
  5. Da «Vornic» psl. «Dvoriniku» (da dvor=porta), titolo di nobiltà («boiero grande di divano») corrispondente a «custode delle porte di una città fortificata» («Vornic de Suceava», fortezza di Bucovina, in cui, in tempi difficili, si rifugiava il Voda colla corte e parte della popolazione) e quindi Castellano, custode della fortezza). Il «vornicel» dei cortei di nozze è considerato come un piccolo «vornic», giovane cioè di buona famiglia scelto dallo sposo e dalla sposa per accogliere il corteo dei giovanotti che recan l’ambasciata, invitar gli ospiti a entrare in casa, condurre le danze, dirigere il pranzo nuziale, dare il segnale dei brindisi e stabilirne l’ordine, condurre gli sposi in chiesa e riaccompagnarli a casa.
  6. «Voinici» da «voinic» psl. vojnikŭ=coraggioso, valoroso, eroe, soldato, giovanotto; ma era anche una specie di titolo di nobiltà che il «Voda» concedeva dopo una battaglia ai giovani soldati che avevan fatto più prove di coraggio. Poi che in questo significato, non è registrato nè dal Candrea, nè dal Gaster, nè dal Damè, diamo un esempio: «Acolo fărù Stefan - Vodă ospăt mare Mitropoliților și Episcopilor și Boierilor săi și la toata oastea sa și multi viteji a făcut atunci și dărui multe...». («Ivi fece Stefan-Voda gran banchetto ai suoi Metropoliti, Vescovi e Baroni e a tutta la sua oste, e molti "valorosi” creò e molti doni distribuì...»). Bogdan, Cronici inedite, p. 38