Lettere di Winckelmann/Articolo XII

Da Wikisource.
Articolo XII
Notizie d’antichità scavate in Roma, e nella sua campagna.

../Articolo XI ../Articolo XIII IncludiIntestazione 5 maggio 2017 75% Da definire

Articolo XII
Notizie d’antichità scavate in Roma, e nella sua campagna.
Articolo XI Articolo XIII

[p. 245 modifica]


A r t i c o l o   XII.


Notizie d’antichità scavate in Roma, e nella
sua campagna.


È tempo, che parliamo un poco delle antichità di Roma; non di quelle, che sono da lungo tempo esposte alla pubblica viltà, se non fosse per incidenza; ma di quelle, che si scuoprono alla giornata. Ahi gran Roma!

.. Possis nihil urbe ROMA
Visere majus1.

Nello scavare i fondamenti per una fabbrica, che fanno i Monaci Silvestrini di santo Stefano del Cacco, si sono trovati [p. 246 modifica]tre gran pezzi d’intavolato d’un portico, come si può giudicare dalla loro convessità2. Sono d’una finezza insigne di lavoro senz’essere caricati d’ornamenti. I piccoli dentelli vengono uniti con certi ovolini pertugiati a due a due d’un lavoro anch’esso sottiliisimo in questa forma . Alcuni di questi sono rimasti all’intavolato delle tre colonne del preteso tempio di Giove Tonante col resto dell’iscrizione ...ESTITVER. Gli ovoletti in quest’ultimo intavolato mi fecero guadagnare una scommessa da un pittore di paesi, che avea più volte dipinte quelle colonne senza accorgersi degli ovoletti. Il principe Borghese ha trovato in una sua tenuta fuori di Roma, chiamata Torre verde, molte colonne di varie sorti di granito, e di marmo, quali tutte intiere. Quattro di marmo hanno tredici palmi d’altezza, sono scanalate, e con bastoni; segno, che sono d’una fabbrica fatta in tempo de’ cesari. Hanno la gonfiatura un poco risentita; ma non tanto3, quanto quelle del Chiaveri4. I bastoni non erano praticati al tempo di Vitruvio; e non hanno nè ragione, nè fondamento5. Vero è, che sono alle colonne interne della Rotonda; ma questo tempio è stato tante volte restaurato da Domiziano, da Adriano, e in ultimo da Settimio Severo; cosicchè s’era perduta anche la memoria delle Cariatidi di Diogene d’Atene, se io col misurare le statue, e i monumenti non ne rintracciava qualche [p. 247 modifica]vestigio6. Quindi resto persuaso, che le colonne delle cappelle sieno posteriori al portico. Tra Tivoli, e Palestrina evvi un’altra tenuta della casa Borghese, data in enfiteusi, nel territorio della Colonna. Ivi era l’antico Labico7, e una villa di Lucio Vero cesare. Il padrone enfiteutico di quella terra vi ha fatto scavare, ed ha avuto la sorte di trovare una Venere di grandezza poco più del naturale, non meno bella di quella di Firenze, ma mutilata già con perdita d’una mano, e d’un pezzo di braccio8. I piedi ci sono, quantunque rotti: la testa è senza naso, come al solito, e il labbro di sotto logoro. Ma è disgraziatamente capitata in mano d’uno scultore, che non sa distinguere l’antico dal moderno; e il naso, e il labbro rimesso non gli fanno onore. Ivi si è trovata anche una testa ben bella di Luciò Vero. Contemporaneamente è surto fuori lo stipite di un Erme senza la testa colla seguente iscrizione:

[p. 248 modifica]

Ἄλσος μὲν Μούσαις ἱερόν
λέγε τοῦτ᾽ ἀνακεῖσθαι,
Τὰς βύβλους δείξας τὰς παρὰ
ταῖς πλατάνοις.
Ἡμὰς δέ φρουρεῖν, κᾄν γνήσι-
ος ἐνθάδ᾽ ἐραστής
Ἔλθῃ τῷ κισσῷ τοῦτον ἀνα-
στέφομεν


Dedicato alle Muse dì pur ch’è questo bosco,
Additando i volumi, che sono presso i platani:
Che noi li custodiamo; e se genuino amante
Quà capitasse, questo noi coroniamo d’ellera9

[p. 249 modifica]Poco dopo nello stesso sito è stata trovata una statua senza gambe, e braccia, e colla testa staccata. Subito ch’essa fu portata jeri l’altro a Roma, io n’ebbi la notizia dal ristoratore della Venere; noi due col padrone della statua [p. 250 modifica]andammo jeri sera a vederla nella villa Borghese, dove sta chiusa in un fenile. Io riconobbi nella testa l’aria, e ’l carattere della gente Flavia; e vi trovai la rassomiglianza colle teste di Domiziano. Il torso della statua è d’ottima maniera, ma corroso, e coperto d’un sal di nitro a tal segno, che ’l marmo si stritola colle dita. Vi si scuoprono vestigi aperti di violenza, cioè striscie profonde fatte col ferro, e in croce. La testa è più conservata. Il torso, essendosi trovato quasi a fior di terreno, e la testa più in giù nella [p. 251 modifica]maceria vergine, è probabil cosa, che questo torso sia stato già scavato, e non ritrovandosi la testa, trascurato, e ricoperto di bel nuovo di terra; onde ha patito dell’umidità, e dell’aria corrosiva. L’altezza della statua sarà presso a dodici palmi10. Si sa da Suetonio11, che tutte le statue di questo imperatore furono maltrattate, atterrate, e spezzate: e da quello, che ho detto, si rende manifesto, che questa statua non è stata esente dallo sdegno, e dalla furia del popolo. Il Padre Montfaucon parla d’una statua di Domiziano nel palazzo Giustiniani, unica, come pretende, al mondo, e forse quella, che la sua moglie richiese al Senato. Ma quella era di bronzo, secondo Procopio, e questa è di marmo; e si vede, che la testa postavi d’un Domiziano non è la propria della statua12. In questo medesimo luogo, nel secolo passato fu trovata un’iscrizione di un Partenio, riferita dal Fabretti13, ed è la seguente:

D. M
PARTHENIO. ARCARIO
REI. PVBLICAE
LAVICANORVM
QVINTANENSIVM


Io crederei, congetturando dalla statua suddetta di Domiziano, che il soggetto mentovato nell’iscrizione poterle essere io stesso Parthenius cubiculo præpositus di quest’imperatore, di cui parla Suetonio nella sua vita14. Non posso trattenermi di annunziare un’altra nuova per la relazione venuta d’un migliajo di grotte piene di sepolcri antichissimi intorno a Corneto verso Civitavecchia, ec.15.

  1. Orazio Carm. sæcul. vers. 11. 12.
  2. Flaminio Vacca nelle sue Memorie, num. 27. scrive, che a suo tempo essendo stato scavato sotto quella chiesa di s. Stefano, fu scoperta parte di un tempio, del quale vi erano ancora in piedi le colonne di marmo gialle; ma quando le cavarono andarono in pezzi, tanto erano abbruciate. Vi furono trovate anche delle are, sulle quali scolpiti arieti con ornamenti al collo. Questo concorrerebbe a provare, che la fabbrica fosse un tempio, intorno a cui porranno i topografi di Roma fare delle riflessioni per vedere se in quel luogo vi fosse il Serapio, ossia tempio di Serapide, come pensa il Nardini Roma antica, lib. 6. cap. p. pag. 331. col. 1. Il cognome di Cacco si vuole dato a quella chiesa, secondo questo scrittore, per la statua d’un cinocefalo, che prima vi stava; o come dice Vacca, per li due leoni di basalte verde, de’ quali fu parlato nel Tom. I. pag. 82., che prima davano innanzi a quella erano chiesa, e a tempo di Pio IV. furono posti al principio della gradinata del Campidoglio.
  3. Vedi ciò, che diremo di quella gonfiatura, detta entasi, nella spiegazione delle Tavole in rame di questo Tomo, n. IX.
  4. A Dresda.
  5. Vedi qui avanti pag. 89.
  6. Vedi Tom. iI. pag. 332., e qui avanti pag. 95. Il ch. signor abate Visconti Museo Pio-Clem. Tom. iI. Tav. 18. crede che queste Cariatidi stessero sopra le colonne del portico per sostenere il lacunare di mezzo alto più delli due laterali.
  7. Così crede il Fabretti De aq. & aquæd. dissert. 3. num. 363. segg. dopo l’Olstenio, e il P.Volpi Vetus Latium profan. Tom. VIII. lib. 15. cap. 5. pag. 299. segg. Ficoroni poi nelle sue Memorie del primo, e secondo Labico, distingue due città di questo nome; l’antica, che pretende fosse sul Colle de’ Quadri fra Lugnano, e Valmontone; e l’altra, fabbricata dopo la rovina di quella, detta Labico alle Quintane, alla quale crede pag. 50. segg., che appartenga l’iscrizione ripetuta qui appresso da Winkelmann, pubblicata dal Fabretti al luogo citato, e nell’altro citato qui appresso; e ammette, che stesse nel territorio, ove ora è il paesetto della Colonna.
  8. Vedi loc. cit. pag. 393. Il paragone è un poco esorbitante.
  9. Questa iscrizione è stata già pubblicata da varj, come deve esser noto; ed ora si conserva nella stanza de’ codici mss. dell eminentissimo signor card. de Zelada. [ Il nostro Autore l’ha ripetuta nella citata lettera al signor Fuessli dell’edizione tedesca pag. 47., e l’abate Bracci Mem. degli ant. incis. Tom. I. Tav. 11. pag. 66. scorrettamente. Il carattere di essa è a un di presso come quello degli scritti di Filodemo, di cui li è parlato qui avanti pag. 191. segg., ed io nell’esattamente rincontrare l’iscrizione ho procurato di farli qui imitare per quanto era possibile almeno in quelle lettere di forma più particolare. Riguardo all’allusione, credo che fosse scritto l’epigramma sul petto di un Genio, per indurlo a parlar così come custode di un plataneto, o boschetto di platani, i quali erano dedicati ai Genj. All’ombra di questo plataneto si faranno forse adunati dei poeti a recitare composizioni, come usasi oggidì in Roma nel bosco Parrasio dell’Arcadia, alla cui porta darebbe ottimamente questa iscrizione; e per tal ragione lì dice consecrato alle Muse. I platani non per altro erano tanto stimati dagli antichi se non se per la grand’ombra, che fanno colle loro ben regolate, e copiose frondi; e perciò si piantavano nelle ville, e nei luoghi di passeggio, coltivandoli con tanta diligenza da inaffiarli sin col vino, che molto giovava alle loro radici. Plinio lib. 12. cap. 1. sect. 3. segg. ne parla diffusamente, e nota, che Dionisio tiranno di Sicilia li fece il primo trasportar in Reggio, e piantarli nel suo giardino per fare all’ombra di essi un ginnasio, o palestra; e lo stesso era stato fatto nell’Accademia d’Atene, ove i filosofi platonici passeggiavano, e disputavano sotto di essi. I viaggiatori trovavano refrigerio all’ombra di questa pianta, e vi si divertivano le fanciulle, come scrive Temistio Orat. 27. pag. 339; e i poeti fingevano, che vi si trastullassero i Fauni, le Driadi, il dio Pan, i Lari, ec., come leggiadramente cantò Marziale del tanto famoso platano di Cesare a Cordova nella Spagna, Epigr. lib 9. ep. 46. edit. Raderi, e più diffusamente Stazio Sylv. lib. 2. cap. 3. del platano di Atedio Meliore. Vedasi anche Brodeo nel commentario a Teofrasto Histor. plant. lib. 4. cap. 7. pag. 405. segg. Eliano Var. histor. lib. 2. cap. 14. deride Serse, il quale nella Lidia vedendo un gran platano ne fu talmente rapito, che non solo vi stette una giornata accampato intorno; ma nel partire l’ornò ai rami di collare, armille, e fasce preziose; e vi lasciò uno, che ne avesse tutta la cura, come se fosse stata una sua amasia. Lo stesso gusto, e trasporto per questa pianta forestiera si aveva anche dai Romani in Italia. Plinio al luogo citato parla con maraviglia del platano dell’imperator Cajo nella sua villa posta nella campagna di Velletri, sui rami del quale disposti naturalmente quasi a modo di tavola, e di scabelli vi cenavano quindici persone; e nomina il plataneto del prepotente liberto Marcello Esernino al tempo di Claudio nel suburbano di Roma. Ortensio aveva platani nella sua villa sul Tuscolo, e partivasi espressamente da Roma per andarli ad inaffiar col vino, come abbiamo da Macrobio Saturn. lib. 2. cap. 9. ? Servilio Varia fece un plataneto nella sua villa vicina a Cuma, di cui parla Seneca Epist. 55.; di altro ne parla Petronio Satyr. pag. 44; Plinio il giovane Epist. lib. 1. epist. 3. nomina quello, che aveva nella sua villa a Como; e Vitruvio lib. 5. cap. 11. insegna, che nelle palestre, o luoghi di esercizio per gli atleti si facciano dei viali con platani, e sedili sotto di essi per riposarvisi. Su questi fondamenti possiamo credere con probabilità, che qualche cittadino romano erudito, seppur non era lo stesso Lucio Vero, di cui pretendesi la villa, ove fu trovato l’Erme, avesse fatto in essa un plataneto, per farvi adunanze poetiche, come dicemmo. Del che il Genio dà una prova col dirlo, parlando in versi, consecrato alle Muse, inoltrando i libri o reali, o scolpiti per simbolo su qualche cosa accanto ai platani; e ch’egli cogli altri Genj suoi compagni, come custodi del plataneto, se in esso mai vi capitava un genuino amatore, lo coronavano d’ellera; vale a dire, che lo ascrivevano fra i poeti, che aveano o il piacere, o l’onore di recitarvi. È noto, che la corona dei poeti si faceva con quella pianta, per testimonianza degli stessi poeti antichi, Virgilio Ecl. 7. vers. 25., Ovidio Amor. lib. 3. eleg. 9. vers. 61., Trift. lib. 1. eleg. 7. vers. 2., e Properzio lib. 2. eleg. 5. vers. 25. 26., che si può contrapporre al sentimento della nostra iscrizione:

    Rusticus hic aliquis tam turpia præmia quærat,
    Cujus non hederæ circumiere caput.


    Onde è che l’ellera sortì il cognome di poetica, come nota Brodeo al citato Teofrasto lib. 4. cap. ult. pag.276 Anche la Musa Calliope dallo stesso Ovidio Metamorph. lib. 5. vers. 337. si dice coronata di questa pianta. La forma dei caratteri dell’iscrizione quale si è descritta, ci si mostra del tempo degl’imperatori. Se non vogliamo crederla fatta in Grecia, potrà dirsi fatta in Roma, ove sappiamo da Giovenale Sat. 6. v. 185. segg., che era in moda la lingua greca, come le altre cose; siccome non può dubitarsi, che vi si facessero anche delle iscrizioni in quella lingua, tante delle quali si hanno presso i raccoglitori di esse; e celebre è in ispecie quella di Sesto Vario Marcello padre d’Eliogabalo, trovata vicino a Velletri nel 1764., ed ora custodita nel Museo Pio - Clementino, che è scritta in greco, e in latino, e oltre le Notizie letterarie di Firenze di quell’anno, Tomo XXV. col. 803. segg., Donati Suppl. inscr. class. 10. pag. 264. n. 1., e molti altri, che l’hanno pubblicata, e illustrata, si ha in una lettera di Winkelmann al signor Heyne in data dei 11. decembre 1764. par. I. pag. 147. Era peritissimo nella lingua greca M. Aurelio Antonino: literarum græcarum peritissimus, come scrive Aurelio Vittore nella di lui vita; e sì, che vi scrisse i suoi libri, che ci testano, scioccamente difesi contro ciò, che ne dice Winkelmann qui avanti Tom. iI. pag. 308, dal citato abate Bracci Tav. 3. pag. 17. not. 6., il quale se poco vede in antiquaria, nulla intende in gius naturale, e pubblico. Era versato in essa anche Lucio Vero di lui fratello adottivo, e con lui imperatore, avendo avuto per maestri Telefo, Efestione, e Arpocrazione, come narra Capitolino nella di lui vita, cap. 2.; e molto si dilettava di scrivere non solo in prosa, ma ancora in poesia, e di compor tragedie in ispecie, al dir dello stesso Vittore: carminum, maxime tragicorum, studiosus; al quale effetto dice Capitolino, che tenea tempre con se una turba di letterati, che lo aiutavano: siquidem multos disertos, & eruditos semper secum habuisse dicitur. Perciò non è improbabile, che in quella villa, supponendola sua, egli avesse formato un boschetto di platani, per farvi adunanze poetiche, e letterarie, e perciò dedicato alle Muse; accordandosi in tal maniera su questo, come nelle altre cose, e per educazione, e per politica al gusto di M. Aurelio, il quale eresse un Museo, o tempio alle Muse, nella città d’Antiochia, ricordato da Giovanni Antiocheno, cognominato Malala, Hist. chron. lib. 11. in fine, pag. 126.

    Numa Pompilio, secondo Livio lib. 1, cap. 8. n. 21., e Plutarco nella di lui vita, op. Tom. I. p. 68. D., dedicò alle Muse un boschetto (non di platani, che ancora non erano cogniti in questa città, ma di lauri, come scrive Sulpizia Satyr. vers. 67.) nella valle d’Egeria, ove è la Caffarella per la Via Appia, fingendo di avervi dei congressi con quelle; e che poi al tempo di Giovenale, che se ne lagna Satyr. 3. v. 16., veniva affittato agli Ebrei. Si ha notizia di un altro boschetto, e tempio dedicato alle Muse fuori della stessa Porta da Fulvio Nobiliore; ma osserva il Nardini Roma ant. lib. 3. cap. 2. pag. 65. col. 1., che non si può accertare, se questi rifacesse quello di Numa, o ne formasse un altro diverso. Può ben dirsi, che nè l’uno, nè l’altro servisse per adunanze poetiche, o letterarie; ma che con esso fossero quasi con ispecial culto onorate le Muse, quali presidi delle scienze, che molto giovavano per conseguir magistrature, come pensa Simmaco Epist. lib. 1. epist. 21., parlando appunto del boschetto fatto da Numa: sed enim propter eas Camænarum religio sacro fonti advertitur; quia iter ad capessendos magistratus sæpe literis promovetur. Alcune osservazioni grammaticali potrebbero farsi su questa iscrizione, che noi per brevità tralasceremo, contentandoci di accennare, che il più volte lodato sig. abate Ennio Quirino Visconti, lume, ed ornamento dell’antiquaria a’ nostri giorni, vorrebbe che per βύβλους non s’intendessero i volumi, o libri, come tutti d’accordo hanno spiegato i traduttori di essa; ma piuttosto si traducesse per bibli, ossiano piante del papiro, che fossero state poste insieme ai platani in quel boschetto per simbolo delle scienze, alle quali serviva il papiro per formarsene i libri, come fu detto qui avanti pag. 188. Per sostenere questa opinione potrei dire primieramente, che secondo l’osservazione di Martorelli De reg. theca calam. Tom. I. parerg. cap. 1. pag. 236. per dir libro si scriveva βίβλος, all’opposto di βύβλος, che voleva dir carta non ancora scritta, ossia papiro semplice; e in secondo luogo, che non è improbabile che il biblo, o papiro fosse ivi coltivato per una rarità; mentre abbiamo da una lettera del cavalier Pindemonte inserita nell’Antologia Romana Tomo VI. anno 1779. pag. 178., che sulle rive del fiume Anapo in Sicilia vi cresce una specie di papiro, che fuor dell’esser alquanto più piccolo, si pretende simile in tutto a quello l’Egitto, e per papiro potrebbe intendere la parola βύβλις, che si legge nelle Tavole Eracleensi, come motiva Mazochi nella illustrazione di esse pag. 199., benchè poi con miglior fondamento sostenga, che debba spiegarsi per una specie d’uva detta biblica. Contuttociò, io non mi dipartirei dalla spiegazione comune di quella parola nella nostra iscrizione; sì perchè quest’altra mi pare troppo ricercata, e si ancora perchè gli antichi non ci hanno lasciata memoria di aver conosciuto altro papiro, che l’egizio, e quello, che nasceva nella Siria, e sulle rive dell’Eufrate vicino a Babilonia, al dir di Plinio lib. 13. cap. 11. sect. 22. e che questo sia mai stato traspiantato in Grecia, in Italia, o in Roma. Nè è probabile, che come pianta palustre avesse allignato in un semplice boschetto di platani, destinato per farvi de’ trattenimenti. Per l’ortografia della parola, la regola, che vuol dare Martorelli, non è vera; poichè si trova la parola biblo scritta promiscuamente in tutti e due i sensi, come già notò Enrico Stefano nel suo lessico greco, e Mazochi loc. cit. pag. 200., e potrebbero darsene prove innumerabili; e fra le altre, Platone in Polit. op. Tom. iI. p. 288. E., e Polluce lib. 7. cap. 33. segm. 209., e segm. 210. ove porta l’autorità d’Erodoto, scrivono βίβλοι bibli per libri non scritti, e per semplice papiro. Gli altri luoghi di Polluce, che cita Martorelli per prova della sua asserzione, non parlano del papiro, ma della vite biblina, di cui tratta a lungo Mazochi al primo luogo citato; e di un’altra specie di papiro, o scirpo, o canape, che fosse, da farne corde. Ammettendo poi anche a rigore la pretesa regola di Martorelli, si sa che nelle iscrizioni spesso si trova una lettera per un’altra, principalmente quando hanno quasi uno stesso suono, come abbiamo veduto qui avanti pag. 237. n. a.; e volendo supporre, che qui sia scritta bene, l’intenderemo nel suo giusto senso di semplici carte, o papiri non scritti, figurati su qualche cosa di quel boschetto per un simbolo, o insegna.

  10. Ora sta nella villa Albani, e può vedersene la figura presso Cavaceppi Raccolta di statue, ec. Tom. I. Tav. 2. È nuda all’eroica. Winkelmann ne ha parlato anche nella Storia qui avanti Tom. iI. pag. 367. seg., e nei Monum. ant. ined. Par. iI. c. 8. pag. 168.
  11. Nella di lui vita in fine.
  12. Vedi Tom. iI. pag. 367.
  13. cap. 7. num. 388. pag. 540.
  14. cap. 16.
  15. Vedi Tom. I. pag. 192.