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Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi/Prefazione

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Prefazione

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PREFAZIONE



ALLA immaginazione di chi ode pronunziare il nome di Abruzzo, parola che suona all'orecchio aspra e strana piuttosto che armoniosa e gentile, subito si mette innanzi il quadro di un paese di bellezza singolare, fiera e maestosa. Nè in ciò punto si sbaglia. Colà, stringendo all'italica terra più fortemente le sue catene, l’Appennino forma il maggiore gruppo centrale, ergendo altissimi monti, il Gran Sasso, il Majella, il Velino ed altri, i cui capi superbi sempiterna neve ricopre. Ivi tu vedi laberinti impervii di vallee frastagliate, per cui scorrono precipitosi rivi e fiumi cercando il mare; e giù a basso le onde dell’Adriatico bagnano lidi, ora tristi ed insalubri, ora ridenti ed ubertosi. Tu ammiri poi altipiani magnifici e pianure ricche da pascolo e da semenza, e colline coronate di rocche e città antichissime, di parecchie delle quali l’origine si nasconde nelle tenebre del mito, e tutte sono sedi di popoli forti ed operosi. [p. xiv modifica]Anni addietro io percorsi un bel tratto di quella Svizzera italiana, e ne rimasi incantato. Di rado incontrai altrove paesaggio cosi grandioso, come quello che dalle falde del Velino si stende al lago di Fucino, che fu fulgida gemma incastonata nel cerchio delle più splendide montagne. Il lago, sin da qualche anno, è scomparso, come testé scomparve pur quello della Copaide in Beozia. Ciò che non valsero a compire nè Cesare, nè Claudio imperatore, lo condusse a termine un audace banchiere romano della nostra età industriosa ed utilitaria. Con l’arginamento del lago, arricchendo l'Italia di non so quanti ettari di terreno arativo, egli nell'istesso tempo le tolse uno de’ suoi più stupendi fregi.

La terra degli Abruzzi, per quanto rinomata ella sempre mai fosse, tuttavia non era, una cinquantina di anni fa, ed anche meno, troppo frequentata da visitatori. Chi la percorreva allora, ben poteva dire: avia peragro loca! Al dì d’oggi ivi tutto è mutato, e la ferrovia prestamente vi condurrà da Roma fino a Pescara, lungo la via Valeria, dagli antichi Romani tracciata.

Dirò poche parole sulle vicende storiche dell'Abruzzo. Le provincie, che portano questa denominazione complessiva, in antico non costituirono unità politica ed etnografica. Il loro nome stesso è corruzione barbara di un vocabolo antico; poiché esso deriva dalla regione de’ Pretuzi, che ebbe a capitale Interamnia (Teramo). Tolomeo la nota quale [p. xv modifica] comune de’Pretuzi. Nelle carte di Farfa spesso ritrovasi Teramo vocata Civitas Aprutina. Quindi l’Abruzzo vero fu per l’appunto il distretto Teramano proprio; quando poi il nome cantonale venisse esteso ed applicato alle altre regioni limitrofe, resta incerto.

I popoli italici, che colà ebbero loro stanza, appartennero alla gente umbro-sabellica, che in tempi remoti occupò il paese detto Savinium, ossia Samnium. Ovidio Sulmonese chiama i suoi connazionali addirittura Sabelli. Essi, preso possesso di tutto l’odierno Abruzzo, ebbero colà per confine le contrade degli Equi ed Ernici, la Sabina, la Campania, ed il Sannio proprio. Si divisero in tribù, chiamate Pretuzi, Vestini, Marrucini, Frentani, Peligni e Marsi. Menarono vita agricola e pastorale.

II mare dalla lor parte essendo senza buoni porti, non li spingeva a grandi imprese di commercio, nè invitava popoli stranieri a fondarvi, sulle coste, delle colonie. La Puglia, la Calabria, il Sannio si gloriano di miti, che connettono la loro civiltà primitiva con Ercole, e con gli eroi di Troia e di Creta. Anche l’Abruzzo non difetta di simili favole antiquarie: cosi Sulmona si diceva fondata da Solimone re di Frigia, e Teate dalla madre di Achille, ed il popolo de’ Marsi si dava per discendente da Marsia Duce di Lidia.

Su tutta la linea dell’Adriatico, verso settentrione, i popoli maggiori incominciano non prima di Ancona, unica città dell’Italia mediana di origine [p. xvi modifica]greca, perchè colonia de’ Siracusani. Sulla spiaggia inferiore poi del mare Adriatico i popoli sufficienti non si trovano prima di Siponto, l’odierna Manfredonia, sotto al monte Gargano. Ne segue, che sui lidi Abruzzesi non sursero in nessun tempo grandi città marittime: nè Castrum Novum (S. Flaviano), porto d’Interamnia, nè Hadria, Ortona, Histonium divennero mai emporii di storica importanza. Allo sbocco del fiume Aterno, che divise i Vestini dai Marrucini, ebbe il suo posto la cospicua città di Aternum, porto comune a’ due suddetti popoli, sugli avanzi della quale, nell'età di mezzo, sorse Pescara; e questo nome dimostra, come osserva il Kiepert, che il porto era adatto più agli affari della pesca che del commercio. In generale, le città abruzzesi ne’ tempi antichi dovevano essere piccoli centri cantonali, che con le loro campagne, dette Agri, costituivano delle comunità politiche. Se mai vi ebbe una cultura indigena, essa subì presto gl’influssi de’ vicini popoli più civili, come furono gli Etruschi, i Campani, e le colonie della Magna Grecia. Gli Etruschi, anzitutto, un tempo si spinsero sino al mare de’ Piceni, e Hadria fu una colonia loro. Campani ed Etruschi probabilmente introdussero negli Abruzzi l’arte della ceramica. Del resto, Teate de’ Marrucini, Pinna de’ Vestini, Interamnia de’ Pretuzi, Corfinium e Sulmona de’ Peligni, Marruvium e Alba Fucentia città dei Marsi andarono debitori del loro maggiore incivilimento alle colonie romane. [p. xvii modifica]A vincere e domare tribù tanto fiere, Roma si affaticò per più secoli. Quelle, fatta lega con i Sanniti, lungamente resistettero, finché l’anno 308 a. C. si sottomisero e divennero socii di Roma. E fu il valore degli Abruzzesi che non poco contribuì alle conquiste de’ Romani fatte in Italia e fuori. Nè Roma ebbe migliori soldati. Quindi il detto di Ennio: Marsia manus, Peligna cohors, Vestina virum vis. Alla repubblica romana però non riusci facile l’impresa di trasformare politicamente l’Abruzzo e renderlo provincia docile. Di già vicina all'apogeo del suo dominio mondiale, Roma di bel nuovo si trovò implicata nella più tremenda guerra italica, che per l'appunto nell'Abruzzo ebbe principio e centro. Fu guerra quella delle Provincie contra la tirannia dell’ingrata Capitale. Allora nacque sugli altipiani abruzzesi il concetto dell’ITALIA, scegliendo i popoli sollevati la città di Corfinio a sede della loro confederazione, e le diedero il grande nome “ ITALICA „. Principali motori della guerra, i Marsi: Marsi i capi, Pompedio Silone e Vezio Catone; Marsa la fortissima capitale residenza del Senato italico. La guerra stessa venne da’Romani chiamata bellum marsicum.

Dal 90 all’88 a. Ch. il toro abruzzese disperatamente lottò con la lupa rapace. Se desso l’avesse vinta, allora facilmente la storia del mondo avrebbe cambiato d’aspetto. Invece di visitare le scarse rovine di Corfinio, ora forse visiteremmo, sul Palatino e sul Campidoglio, i ruderi di Roma distrutta da’ fu[p. xviii modifica]riosi socii italici, per vendicare Sulmona, che Silla disfece. Però ne’ libri sibillini era scritto in favore dell’eterna Città la divina sentenza: imperium sine fine dedi. Vinsero Mario e Silla; ai popoli sottomessi Roma finalmente accordò la cittadinanza. Il desolato Abruzzo pertanto non sì presto si riebbe, anzi ricadde in nuovi guai durante le guerre civili, onde poi risorse la monarchia di Augusto. Questi al paese restituì la pace, se non il benessere, mandando nuove colonie negli agri desolati. Tutte le contrade abruzzesi egli poi comprese nella quarta Regione d’Italia.

D’allora in poi Roma tirò a sè, più che non avesse fatto per lo addietro, le migliori forze intellettuali di quella provincia. Parecchi Abruzzesi si distinsero negli affari di stato e nelle lettere. Sallustio, nato dopo finita la guerra sociale in Amiterno, salito in Roma agli alti onori del proconsolato di Numidia, si rese immortale per due opere monumentali: la Villa sul Pincio, ed i suoi libri storici. Gli ultimi avanzi della prima testé li abbiamo visti scomparire sotto un nuovo quartiere urbano; restano indelebili gli scritti Sallustiani. A Sulmona poi vide la luce del mondo uno di quei poeti maggiori, che formano la triade classica latina, come Dante, Petrarca e Boccaccio compongono quell'altra italiana. Ovidio di sé stesso disse:

Manina Virgilio gaudet, Verona Catullo;

Pelignae dicor gloria gentis ego.

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Cosa strana che qui tacque di Orazio. Di Sulmona egli parla così:

Sulmo mihi patria est gelidis uberrimis undis.


Al loro poeta i Sulmonesi hanno dedicata una pubblica statua; un’altra assai lontana di là glie la posero gl’Italiani in Tomi, ed è del Ferrari. Quella prima dovrebbe ritrarre Ovidio cortigiano di Augusto, che ride e detta i libri Amorum; quell'altra invece Ovidio disgraziato, che piange la sciagura in cui è incorso e gli errori suoi in mezzo agli Sciti, e canta le Tristie. Certo la sorte dell’illustre esule fu ben dura, eppur meglio sopportabile di quella, che era toccata a Perseo Re di Macedonia, confinato tra i Marsi nella rocca ciclopica di Alba Fucentia, dove pianse patria, gloria, reggia e libertà, e per disperazione si diede la morte. Nel catalogo degli antichi abruzzesi illustri sarebbe da mettere eziandio Adriano imperatore. Egli nacque in Italica nella Spagna, però la patria della famiglia sua fu Hadria nel Piceno.

Al tempo di Costantino Magno, essendo l’Italia divisa in 18 Provincie, le terre abruzzesi ne componevano il Picenum, la Valeria ed una parte del Samnium. Delle quali tre la seconda prese il nome, sia dalla via consolare, sia da Valeria città de’Marsi. Si noti che il vocabolo Aprutinum non si ritrova tra le suddette provincie. [p. xx modifica]Caduto l’impero romano, anche l'Abruzzo ebbe da subire l’invasione de’ barbari. I Goti se ne impossessarono, e Teodorico ne diede il governo ai Conti suoi. La lunga ed orrenda guerra, che in appresso Giustiniano imperatore sostenne contra i successori di Teodorico, portò seco la totale rovina dell’antico mondo latino in Italia, quindi anche la desolazione de’ Municipii Abruzzesi.

A’ Goti subentrarono prestamente i Longobardi, popolo incolto, poi man mano incivilito, che riformò l’Italia, infondendo nuovo sangue nelle esauste vene della razza antica, creando nuovi organismi di popolo e di nobiltà, e colmando le vaste lagune prodotte dalla guerra gotico-bizantina per mezzo di nuove colonie. I Longobardi, tosto che ebbero fondato il loro reame in Pavia, mossero alla conquista dell’Italia mediana e meridionale. Se ne resero padroni; solo che non valsero ad occupare nè Roma, nè l’Esarcato di Ravenna, nè le altre città marittime, che rimasero sotto la signoria dell'Imperatore greco. Essi quindi si stabilirono nel Piceno e negli Abruzzi. Non sono dell’avviso di chi pretende avere allora i Longobardi fatto di tutto l'Abruzzo un solo Castaldato, da loro chiamato promiscuamente ora d’Abruzzo, ora di Teramo. Questa città certo ebbe un conte, Comes Castri Aprutiensis. L’Abruzzo non si prestò facilmente alla costituzione di un ducato proprio, causa meno il difetto di un centro governativo, che la posizione [p. xxi modifica]geografica. Invece sursero nelle Provincie limitrofe due ducati Longobardi potentissimi, i quali, benché sottoposti al Re, col procedere del tempo, presso a poco se ne resero indipendenti. Il primo fu quello di Spoleto, città dominante le vie consolari di Umbria, Toscana e di Roma; V altro quello di Benevento nell'antico Sannio, chiave delle vie di Roma e di Napoli. Il ducato Spoletano, creato da Faroaldo l’anno 569, si compose dell’Umbria, di parte dell’Etruria e della Sabina, poi dell’Abruzzo tutto intero; mentre il Beneventano, eretto da Zotone l’anno 571, comprendeva il Sannio e l’Apulia, oltre alcune parti della Campania e della Lucania. È vero però che per tutto il secolo ottavo il castaldato dei Marrucini, ossia di Teate, (Chieti) appartenne al Ducato di Benevento, finché glielo tolse Carlo Magno, riunendolo con Spoleto.

Questo ducato, che nel corso di tre secoli ebbe una serie di duchi di schiatta longobarda, più o meno valenti, cadde sotto la spada di Carlo, allorché il grande Monarca, disfatto il regno di Pavia, assunse il titolo ed i diritti de’ Re Longobardi. Anche quale ducato franco continuò ad essere potentissimo, dilatando il suo dominio per l’Italia mediana sino a’limiti del patrimonio di S. Pietro, e per tutta la marittima da Ancona sino ad Ortona, e più in là, mentre al mezzogiorno gli pose termine il ducato di Benevento.

Durante la dominazione Longobarda gli Abruzzesi vennero governati per lo più da castaldi; mi[p. xxii modifica]nistri del Duca Spoletano. La legge di quella nazione si sostituì alla romana, cessarono dappertutto le costituzioni municipali antiche. La civiltà latina trovò l'unico riparo suo entro i Conventi de’ Benedettini e ne’Vescovadi. Gli stessi Longobardi poi, abjurata la fede ariana, trasmutaronsi in zelanti cattolici, innalzando pietosamente basiliche e conventi. Allorché Carlo Magno s’impadroni del Ducato di Spoleto, i Longobardi negli Abruzzi già erano buoni italiani; i loro nobili occupavano i maggiori feudi di città e di campagne, e longobardi erano gli Abati de’ ricchi Cenobii ed i Vescovi delle vaste diocesi. Nè i Franchi, che in quelle regioni s’introdussero, non da popolo affollato, ma da signori e governatori, impiantandovi nuova nobiltà, distrussero il fitto e solido strato longobardo messo negli Abruzzi da secoli.

I castaldati, occupati da’Franchi, presero il titolo di contee al tempo di Ludovico II. imperatore. Fra i tanti tiranni feudali, quelli di maggiore importanza furono i Conti dei Marsi, Comites Marsorum, che signoreggiarono le contrade dal lago di Fucino fino a’Peligni, con Celano loro sede principale. Pretendevano di discendere da Bernardo primo Re d’Italia, nipote di Carlo Magno. I loro cognomi Bernardo, Oderigi, Teodino, Rinaldo, Trasmondo s’incontrano in tanti atti de’ secoli XI. e XII. Portavano per loro stemma sei verdi monti abruzzesi in campo d’oro. Così i valorosi Marsi, quantunque dominati da schiatte straniere, conser[p. xxiii modifica]varono sin da’ tempi romani e l’antica rinomanza ed il nome antico, perdurando sempre quella provincia quale diocesi ecclesiastica ed organismo feudale. Perfino nel secolo XV, allorché i Colonnesi e gli Orsini di Roma si disputarono la signoria di una parte dell’Abruzzo, e più tardi ancora, i primi s’intitolarono Duces Marsorum.

Per quanto tempo si sostenne vigoroso l’impero romano-germanico, gl’imperatori gelosamente custodirono i diritti di alta sovranità come sulla Toscana, sulla Marca e Romagna, cosi anche sull'Abruzzo, Se non che nel medesimo secolo i Normanni, nuovi conquistatori, riuscirono ad impadronirsi di diversi distretti abruzzesi, riunendoli al loro ducato di Puglia. Roberto Guiscardo rese vassalli suoi Trasmondo Conte di Chieti, e i Conti di Teramo, di Amiterno e di Valva. Creato poi il Reame delle Due Sicilie, i re Normanni rimasero signori dell’Abruzzo. Nella bolla d’investitura, che Adriano IV. papa dovette concedere a Guglielmo re, vennero a costui assicurate la Marsia et alia quae ultra Marsiam debemus habere. Andò estinta la dinastia Normanna, ed il dominio di tutte le provincie Abruzzesi si trasferì ne’ loro eredi di Casa Sveva, con la quale il Papa, che i diritti della Chiesa sopra Spoleto derivava, non solo dalle donazioni di Carlo Magno e de’ successori di lui, ma eziandio per parte della famosa Contessa Matilde, si trovò implicato in una lunga ed ardua lite. [p. xxiv modifica] Dopo la morte precoce di Errico VI, imperatore valentissimo e de’ più arditi della sua magnanima stirpe, Innocenzo III. colse il destro onde occupare Spoleto; però il grande Federico II. non esitò di riunire quelle contrade al suo dominio italiano. Degli Abruzzi Egli per il primo fece una sola provincia con Sulmona a capo, dove il Justitiariatus Aprutii ebbe sede. Su i ruderi di Amiterno fondò la nuova città di Aquila, la quale prestamente prosperò, e si arricchì di magnifiche chiese, e divenne una delle più importanti città di cui oggi l’Abruzzo si vanti.

Siccome questo paese e il Sannio chiudevano ed aprivano le communicazioni con le Puglie e con Napoli, la lotta degli ultimi Hohenstaufen con Carlo di Anjou, intruso dal Papa sul trono delle Due Sicilie, ivi necessariamente doveva trovare la decisione finale. Manfredi Re ebbe a soccombere sotto le mura di Benevento; due anni dopo presso Scurcola e Tagliacozzo, nella terra de’Marsi, l’infelice Corradino tragicamente perdette la corona degli avi, ed in seguito la libertà e la vita. D’ora in poi gli Angioini di Francia rimasero eredi dei Normanni e degli Svevi, non più contrastati, se non dalla parte di Casa Aragona, che loro tolse la Sicilia.

Il governo degli Angioini riunì l’Abruzzo al reame di Napoli, formandone una sola provincia, al pari della Capitanata, della Basilicata, della Terra di Lavoro e. v. d. Più tardi l'Abruzzo si divise in [p. xxv modifica]due Provincie; il citeriore sulla destra del fiume Pescara, e l’ulteriore sulla sinistra del medesimo. Poichè di questa divisione già si trova qualche indizio al tempo di Re Roberto, erra chi la crede fatta da Alfonso I. Nel secolo XVII. finalmente lo Abruzzo venne spartito in tre provincie: il citeriore con Chieti; l'ulteriore primo con Teramo; l’ulteriore 2° con Aquila a centri governativi. Gli Angioini e gli Aragonesi v’introdussero una nuova feudalità, in modo che non vi ebbe paese e borgata senza il suo barone, conte o duca, annidati in tetre rocche, o lussureggianti in palazzi sontuosi.

Questi cenni storici, per quanto rapidi essi sieno, pur basteranno allo scopo da me prefisso. La storia generale dell’Abruzzo non è scritta ancora; imperocchè l’opera meritevole di lode di Antonio Ludovico Antinori, intitolata: “ Raccolta di memorie storiche delle tre Provincie degli Abruzzi „ (Napoli 1781-1783 voi. 4 in 4°) non corrisponde più a’ bisogni della moderna istoriografia. Lo stesso si dica di altri libri, che del resto non mancano di pregi, come sono le Historiae Marsorum di Muzio Febonio (Napoli 1678), e la Reggia Marsicana di Pietro Antonio Corsignani Vescovo, di Venosa (Napoli 1738). Lo scrittore, che guidato dal metodo critico ed inoltre fornito di ampia dottrina, gettò più luce sulle vicende dell’Abruzzo nell'età di mezzo, fu D. Antonio Fatteschi, compilatore delle Memorie storico-diplomatiche riguardanti la serie [p. xxvi modifica]de Duchi di Spoleto (Camerino 1801), opera di somma importanza, perchè tutta fondata sugl’istrumenti del cartario di Farfa.

Chi d'altronde ora volesse accingersi alla lodevole impresa di tessere di nuovo la storia dell’Abruzzo, troverebbe, non ostante la deplorevole perdita di tanti archivi, un ricco materiale già bello e pronto. Dal secolo XVI a questa parte i dotti abruzzesi, storici, antiquarii, topografi, spinti dall'amor patrio, coltivarono le memorie native, raccogliendo carte diplomatiche, iscrizioni, medaglie, disaminando monumenti di ogni specie, formando musei provinciali e comunali, e finalmente componendo innumerevoli monografie, sicché non avvi comune, che non possegga un suo proprio o più storici patrii. Di tali scritti non pochi sono messi a stampa, mentre la maggior parte rimane tuttora sepolta nelle cartacee catacombe delle biblioteche.

Se la nobile terra dell’Abruzzo merita ogni cura da parte degl’indagatori della storia naturale e politica, essa da non molto risveglia lo interesse del mondo civile anche per la sorprendente dovizia de’ suoi monumenti di arte. E ne dirò poche parole. Ciò che della vita de’ popoli antichi a’ posteri si tramanda, sono le opere monumentali e le lettere. In quanto all'antichità classica, le une e le altre difettano nell'Abruzzo. Quelle tribù sabelliche difficilmente furono atte a creare una civiltà loro spontanea, che rivaleggiar potesse con la civiltà [p. xxvii modifica]etrusca, campana, latina e greca di Calabria. Che Ovidio nacque in Sulmona, fu caso di fortuna, al pari della nascita di Orazio in Venosa e di Cicerone in Arpino. I templi, i teatri ed altre fabbriche antiche, onde i Municipii abruzzesi andarono adorni ed orgogliosi, tutti quanti perirono, salvo pochi avanzi. Perciò l’Abruzzo a noi ora viventi si presenta, nella maggior parte, quale paese monumentale dell’età di mezzo. E l’arte cristiana colà prese uno sviluppo considerevole. L’organismo della chiesa abruzzese, già fondata nel primo secolo del Cristianesimo, fu tanto forte, da potere sopravvivere alla caduta dell’impero romano, come alle invasioni de’ barbari. Essa custodi, non solo le reliquie dei Santi, ma pure quelle più importanti della civiltà latina, e conservò perfino le storiche tradizioni provinciali e locali. Ad essa si deve se gli antichi nomi de’ Picentes, de’ Peligni, de’ Marsi non si perdettero mai dalla memoria de’ posteri. Il Vescovo di Teramo si chiama tuttora Episcopus Aprutinus, e quello di Chieti Teatinus. Al principio del VII secolo l’Abruzzo vide salire alla Santa Sede Romana un suo figlio, oriundo da Valeria, e fu Bonifacio IV (608-615). Questi si acquistò gloria imperitura, salvando dalla imminente distruzione il più magnifico monumento antico di Roma, il Pantheon. L’imperatore Foca, cedendo alle sue istanze, glie ne fece dono, e Bonifacio tramutò la stupenda Rotonda nella chiesa di S. Maria ad Martyres. In [p. xxviii modifica]questo tempio, con l’andar de’ secoli, trovarono l’ultimo riposo parecchi uomini di alta fama. Vi sta sepolto il divino Raffaello, e da qualche anno vi riposa degnamente il grande fondatore dell’Italia Una, l'immortale Re VITTORIO EMANUELE. Ecco il più miracoloso effetto che di assai lontano a’ di nostri produsse quella generosa idea di un papa Marso, di tramandare intatto a’ posteri il Pantheon di Agrippa!

Già sotto il dominio de’ Longobardi le città dell’Abruzzo si abbellirono di Chiese e di Cenobii benedettini, delle quali fabbriche alcune sorsero su i ruderi di templi pagani, come, per esempio, S. Giovanni in Venere presso Lanciano. La più rinomata Abbazia abruzzese poi fu quella di S. Clemente di Casauria, innalzata l’anno 871 da Ludovico II imperatore in un’isola del fiume Pescara. Egli ed altri imperatori in appresso la dotarono di amplissimi privilegi e beni in modo, che questo Cenobio imperiale potè gareggiare d’importanza con quello di Farfa. La passione di fabbricare basiliche e conventi, ornati di pitture e di opere di scultura, non venne mai meno nell'Abruzzo. Ne fanno fede le cattedrali e le basiliche di Teramo, di Chieti, di Sulmona, di Aquila, di Atri, di S. Maria a mare, di S. Elaviano, S. Giovanni in Venere, S. Clemente in Vomano, S. Angelo in Pianella, S. Pelino di Corfinio, e tante altre. L’abate Leonate rinnovò sin dal 1172 la suddetta badia di Casauria, e v’innalzò [p. xxix modifica]di pianta la Chiesa, che ora ha il vanto di essere la più meravigliosa opera d’arte di tutto lo Abruzzo. Essa appartiene precisamente all'epoca in cui maggiormente fiorirono le arti abruzzesi, vale a dire durante i secoli XI e XII. II rinascimento italiano le fece rifiorire di nuovo, risvegliando anche nell'Abruzzo valentissimi ingegni artistici in ogni campo del bello, non escluse le industrie dell'oreficeria, della tessitura e della ceramica.

La cultura delle arti abruzzesi sarebbe da considerarsi quale parte di quella dell’Italia meridionale, avendo dessa, in ispecie nel medio-evo, facilmente pigliato i suoi maggiori impulsi dalla Campania, e anzitutto da Montecassino. La storia monumentale dell’arte dell’Italia meridionale manca tuttora, ovvero essa si trova ancora in uno stato embrionale. La si studiò d’illustrare per il primo Guglielmo Schulz nella sua opera importante, pubblicata a Dresda l’anno 1860 “ Monumenti dell'arte medioevale nell'Italia bassa „ È vero che anche prima, nel 1849, il Duca di Luynes, mecenate benemeritissimo, ebbe fatto riprodurre, in un’opera assai pregevole, parecchi monumenti dell’Italia meridionale, però di sola provvenienza normanna e sveva. Dal 1871 in poi Demetrio Salazaro diede alla luce in Napoli i suoi “ Studi su i monumenti dell'Italia meridionale dal IV al XIII secolo „ opera bella e di lusso, con la quale il compianto autore rese un vero servizio alla storia dell’arte, non ostante certi errori, [p. xxx modifica]tra cui sarebbe da notare anche l’eccesso di entusiasmo patrio, che lo sedusse a considerare l’Italia meridionale quasi per vera sorgente delle arti belle, ed i Campani per i veri artisti di Bisanzio. Però qui sono per lasciare parola, e passo al chiarissimo Autore dell’opera presente.

Il signor Vincenzo Bindi con la medesima non s’introduce nuovo nell'arena delle lettere, già essendo noto al mondo scientifico per i molti studii suoi storici, archeologici ed artistici, che riguardano la cultura dell’Italia meridionale, e particolarmente quella dell’Abruzzo. Egli più o meno li raccolse in questo tesoro, che ora offre alla patria sua.

Con indefesso ardore perlustrando monumenti, archivii, biblioteche, musei, e visitando palmo palmo le provincie Abruzzesi, il signor Bindi riusci a raccogliere la più ampia messe storico-artistica in un campo da altri non esplorato, o soltanto toccato leggermente. Difatti nell'opera dello Schulz in 12 tavole sono riportati i più importanti, a parer suo, monumenti abruzzesi, e di questi, cinque si riferiscono alla sola Casauria. Nell'opera sullodata poi del Salazaro, agli Abruzzi sono dedicate appena otto o nove pagine, e delle 48 tavole de’monumenti, due solo riguardano le provincie Abruzzesi. Il signor Bindi invece, avendo scelto l’Abruzzo per obbietto speciale degli studii suoi, non si lasciò sfuggire di vista nulla delle disjecta membra della coltura artistica del detto paese; ed inoltre raccolse in [p. xxxi modifica]gran copia documenti inediti, che illustrano anche la storia politica del medesimo. Certo il motto di Voltaire che “ ce sont les petites choses qui tuent les grande ouvrages „ non si applica punto ad un lavoro grande come è questo, il quale precisamente dalle più accurate investigazioni riceve il maggior pregio e significato.

Mediante questi studii il signor Bindi crebbe il vasto e preclaro impero della scienza artistica d’Italia di una nuova provincia, aggiungendo alla storia delle arti italiane il ramo abruzzese. Egli ne gittò per il primo le fondamenta. A vederlo presentarsi ora innanzi alla sua patria, con quest’opera bella e pregevole tra le mani, da esso lui fatta splendidamente vestire, e fornire di tanti disegni, egli mi fa ricordare quasi Leonate di Casauria o altri fondatori di fabbriche sontuose, che si veggono raffigurati nei musaici portanti sulle loro palme l’effigie dell’opera da loro innalzata. Quantunque si dica che la gratitudine sia pianta rara, e il lauro albero assai tardivo, pure mi persuado che l’Autore dei Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi prestamente raccoglierà i meritati applausi de’suoi connazionali, grati e riconoscenti.

E qui pongo fine a queste poche pagine d’introduzione. L’offerta onorevole di scriverle, gentilmente fattami dal chiar. Autore, io l'accolsi volentieri, non solo come amabilissima dimostrazione di simpatia verso di me, vecchio coltivatore delle [p. xxxii modifica]storie italiane, ma anche perchè essa mi procurò il piacere di revocarmi alla mente gli anni passati, i lunghi studii, ed i molti viaggi miei in Italia. Ora non mi resta altro che congratularmi sinceramente con l'egregio Autore, ed augurare a lui il più lieto successo dell’importantissima opera sua, ed alla generosa terra Abruzzese, la quale ne è l’oggetto, ed a cui quella torna a tanto decoro, prosperità e nuovo lustro nelle arti e nelle lettere.

Monaco in Germania l'ultimo dì del 1888.


Ferdinando Gregorovius

cittadino Romano