Novelle gaje/Patrizio

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Patrizio

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Un matrimonio di progetto

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PATRIZIO.



MM
a sapete bene, voi, che cosa vuol dire pranzare? Chi conosce il valore di questa parola ha il segreto di tutte le agitazioni della vita umana. —

Ora Patrizio aveva pranzato per l’appunto — cosa che non gli succedeva così regolarmente come egli avrebbe desiderato — ma tant’è, per quel giorno una zuppa di trippe, la divina Provvidenza e l’oste della Croce Bianca glie l’avevano procurata, e Patrizio si dichiarava il più felice degli immortali.

Le discussioni sull’ideale e sulla materia non lo preoccupavano più del bisogno — che è quanto dire niente affatto. Egli era molto spensierato; nessuno dei suoi professori faceva calcolo su di lui per le future speranze della patria. I suoi amici tuttavia lo amavano moltissimo.

Era lo studente più vecchio e più peccatore della [p. 274 modifica]vecchia e peccatrice Università di Pavia. Sembrava ch’egli dovesse fare lo studente a perpetuità; certo che quella vita gli piaceva sopra tutte le altre; alla fine d’ogni anno si accomodava sempre in modo che dovesse rimanervi un anno ancora.

Le virtù casalinghe e morigerate di un giovane ben pensante (se caso mai esistevano allo stato d’embrione nei bernoccoli del suo cranio) non avevano preso uno sviluppo visibile, nè tampoco palpabile. Una foresta — non vergine, oimè! — di capelli biondi gli recingeva la fronte spaziosa, e l’occhio sereno, audace, vibrava lampi continui sulla sua fisonomia birichina. Aveva i baffi sottili, i denti bianchi e un piccolo nèo sotto la guancia. Era bello, gentile e scapestrato anzi che no.

Il suo tutore gli scriveva tutti i mesi una lettera commovente di questo tenore:

«Io m’avvedo pur troppo, caro Patrizio, che tu cammini sulla strada della perdizione; il tuo patrimonio è sciupato; ti mando le ultime cento lire; provvedi alla tua esistenza perchè sei rovinato.»

Patrizio prendeva nota delle ultime cento lire, ben persuaso che non sarebbero state le ultime definitive, e colla lettera fabbricava degli uccelli di carta da gettare nella finestra della cappellaia dirimpetto, per farle sollevare gli occhi e farle gridare a bassa voce, senza chiudere i vetri: «Insomma, signor Patrizio, vuol finirla?»

Egli si era deciso a non leggere più le lettere del suo tutore; primo, perchè il brav’uomo scriveva ancora colla erre all’antica e questo metodo lo [p. 275 modifica]stancava; poi perchè ripeteva sempre le medesime cose, proprio le sole che Patrizio, libero ascoltatore in massima, non poteva udire assolutamente; no, perchè se le opinioni sono diverse e la sua opinione particolare era quella di vivere come gli piaceva, che conclusione potevano avere le prediche del suo vecchio tutore arrembato?

Oh! se Patrizio avesse avuto, solamente per un giorno, gli attacchi di gotta, la testa calva e le gengive senza denti dell’ottimo tutore, forse chi sa, anche le sue opinioni si sarebbero modificate; ma poichè Patrizio aveva ventisei anni appena e tutto il resto conforme, la saviezza lo lasciava freddo.

«Peuh! — egli pensava — che bisogno c’è di avere giudizio? E sopratutto che cosa si intende per giudizio? E perchè poi non sarà giudizio il mio a preferenza di quello degli altri?»

Le persone gravi crollavano il capo parlando di Patrizio; ma egli se ne rideva.

In regola generale le donne fino ai quarant’anni adoravano Patrizio; più in là ne dicevano corna.

Oltre gli uomini saggi e le donne vecchie, militavano contro Patrizio i suoi numerosi creditori, ond’è che egli non aveva un domicilio stabile; trovando spesso di qua e di là degli usci aperti, si era persuaso che una camera propria, fosse una superfluità; se posava il piede, come una rondinella stanca delle sue escursioni sotto il tetto della Croce Bianca, era sempre con un’attitudine precaria, disposto a spiegare il volo da un momento all’altro. (Questa instabilità, voglio dirlo, dispiaceva oltremodo alla cappellaia dirimpetto.) [p. 276 modifica]

Dunque Patrizio, dopo aver pranzato, non suggerendogli il suo stomaco vigoroso nessun bisogno fittizio di digestivi, deliberava tranquillamente sul modo di terminare la sera, quando il cameriere dell’albergo, soprannominato Piedolce, gli si avvicinò recandogli su d’un piatto di maiolica una grossa lettera e mezza dozzina di sigari.

Patrizio guardò sospettosamente e l’una e gli altri; dichiarò subito i sigari cattivi e riconosciuta la calligrafia della lettera, si disponeva a farle subire la solita trasformazione alata — ma un urgentissima scritto in stampatello, colla erre all’antica, gli fece cambiare pensiero.

«Che c’è di nuovo? — pensò. — Il mio tutore è forse moribondo? I rispettabili elettori del mio paese nativo mi vogliono deputato? O sarebbe la Società cattolica per i buoni costumi che mi ha decretato il premio della continenza?»

Egli era ben disposto — l’ho già detto; — la zuppa di trippe scendendo regolarmente nel suo ventricolo giovanile, gli accelerava i moti del sangue diffondendo in tutto il suo essere quella sensazione intima di appetito soddisfatto che predispone alle più nobili azioni.

Dissuggellò la lettera del tutore e lesse attentamente:

«Caro Patrizio, io m’accorgo pur troppo che tu cammini sulla strada della perdizione.»

Patrizio si interruppe. La strada della perdizione colle cento lire insieme era tollerabile, ma così asciutta asciutta, non gli andava per nessun verso. Tuttavia, continuò a leggere:

«È questa la terza lettera che ti scrivo sopra un [p. 277 modifica]argomento dei più importanti e tu non mi hai ancora risposto.»

— È la deputazione — ripensò Patrizio.

«Iddio misericordioso che ti ama ad onta di tanti demeriti vuole aprirti una via sicura per appoggiare il tuo avvenire.»

— Che fosse proprio la Società cattolica per i buoni costumi? — tornò a pensare Patrizio.

La lettera non si spiegava maggiormente. Supponendo che il suo pupillo avesse letto le tre precedenti, il tutore si era limitato a scongiurarlo per una pronta risposta, e meglio ancora perchè si decidesse a fare una gita al paese collo scopo di intendersi meglio.

Quella sera la cappellaia non ricevette nessun uccello, e Patrizio, uscendo dopo un quarto d’ora dalla Croce Bianca, andò lui stesso a impostare una lettera all’indirizzo del suo tutore.

Nel momento che Patrizio usciva dall’albergo un’ombra piccola e mingherlina staccandosi da un pilastro di contro si fece a calcare le sue orme in lontananza.

Patrizio non se ne avvide menomamente; dopo aver gettata la lettera nella buca, continuò a passeggiare, fischiando tra i denti:

   Se il vino zampilla,
Se spuma, se brilla,
E ricchi e pitocchi
Son lieti del par.

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Attraversò il ponte; non si vedeva luna; la notte era buia e fredda. Patrizio fischiava sempre:

   La coppa di Pippo,
La pippa, la poppa,
Il nappo che accoppa
Le pene del cor.

Una finestra si schiuse in una viuzza deserta. Patrizio si fermò; anche l’ombra si fermò dieci passi lontano. Non si udiva uno zitto: ma sembrava che Patrizio aspettasse qualche altro segnale, perchè se ne stava immobile colle braccia conserte.

Improvvisamente sbucarono fuori, sa il diavolo da dove, tre robusti giovinotti che circondarono subito Patrizio, menando giù botte senza parlare.

La scena in sè stessa non riusciva del tutto nuova al nostro Don Giovanni che, appostatosi al muro, si preparò a una valorosa difesa, ed ebbe anche tanto sangue freddo da staccare un mazzolino dall’occhiello del suo soprabito e gettarlo su nella finestra sotto gli occhi de’ suoi aggressori — mariti, amanti o fratelli che fossero.

L’ombra mingherlina tutta sbigottita e tremante strisciò per un momento contro il muro, ma vedendo che la lotta continuava si slanciò all’impensata, gridando e agitando le braccia.

Patrizio intanto s’era ridotto colle spalle contro una porta; la faccenda si disponeva piuttosto male per lui; i tre sconosciuti sembravano decisi a tutto, quando l’ombra, guizzando leggera e inavvertita fin presso Patrizio, aperse improvvisamente la porta contro la quale egli stava appoggiato e ve lo trascinò dentro, [p. 279 modifica]lasciando ricadere lo sportello che si rinchiuse come un trabocchetto.

Patrizio, caduto naturalmente per terra, si rizzò subito brancicando nel buio per orizzontarsi e mettendosi a buon cónto in guardia. Egli aveva appena intravvisto il cosino che gli aveva giuocato quel tiro; non sapeva ancora se si trattasse di un aiuto o di un tranello.

— Chi siete? — domandò a scanso d’equivoci.

Una mano nervosa prendendolo per il braccio lo invitò a seguirla, mentre una voce leggermente alterata ma dolce di timbro, gli rispose:

— Amico.

Patrizio salì una ventina di scalini dietro la sua incognita guida e venne introdotto in una cameretta veramente bella e geniale. Fu acceso un lume e allora Patrizio guardò curiosamente il suo salvatore.

Era giovinetto, quasi un fanciullo, colla fronte nascosta sotto lunghi capelli castagni un po’ ondulati e con due guance pallide pallide, illuminate da occhioni neri grandissimi. Teneva la testa china e appariva molto timido.

— Studente? — disse Patrizio dopo averlo esaminato un istante.

— Sì.

— Matricolino?

— Sì.

— Non ti ho mai veduto. E tu mi conosci?

L’altro esitò; poi rispose:

— Questa sera per la prima volta.

— Grazie, mi hai reso un servigio; tra camerati è [p. 280 modifica]facile poterlo rendere ed io non lo dimenticherò. Come ti chiami?

— Gildo.

— Va bene. Ma se la memoria non mi tradisce, io devo aver ricevuto qualche pugno da quei birbanti — qui, là, un po’ dappertutto. Ahi! mi sento le ossa indolenzite. Spero bene, Gildo, che mi lascerai dormire nel tuo letto questa notte.

Pare che ciò non entrasse nei progetti di Gildo.

Con che cuor... — incominciò Patrizio modulando il ritornello di una canzonetta che era allora in tutta la sua voga. — Con che cuor... mandarmi via in tale stato? Aspetti forse qualcuno, matricolino?... Se non è che questo, io sono un compagno discreto; mi basta una sedia e guarderò tutta notte verso il muro.

Gildo arrossì come una bragia e si affrettò a rispondere:

— No, no; restate pure.

Resta, matricolino. Gli studenti, come gli antichi Romani, si trattano fra loro col tu.

Per quanto Patrizio volesse portarle con disinvoltura, egli le aveva proprio buscate sul serio e fu con un senso profondo di benessere e di stanchezza che si lasciò cadere sul letto, senza nemmeno svestirsi, celiando sempre, chiedendo dei sigari e del vino, intanto che le sue palpebre si chiudevano, finchè un sonno greve gli troncò il motteggio sulla bocca, lasciandogli ancora le labbra dischiuse al sorriso.

Dormiva placido sotto l'aureola dei capelli biondi — quantunque il suo non fosse il sonno dell’innocenza [p. 281 modifica]— e Gildo, sveglio sopra una sedia, lo contemplava, malinconico e pensieroso.

Se Patrizio fosse stato osservatore, avrebbe visto nel contegno del giovinetto qualche cosa di strano; ma non lo era e non vide nulla.

Destandosi la mattina stirò le braccia, fece tre o quattro movimenti per mettere i muscoli in esercizio; gli dolevano un poco le spalle, ma i garetti lo sostenevano abbastanza bene.

Non si profuse, a dir vero, in soverchi ringraziamenti al suo giovane ospite, ma gli strinse vigorosamente la mano e gli disse:

— Amici per la vita. Vuoi?

Il fanciullo evitò lo sguardo scintillante di Patrizio e rispose debolmente alla sua stretta: pure lo accompagnò sul pianerottolo e non si mosse finchè gli stivali di Patrizio schricchiolarono sotto la porta: allora rientrò nella cameretta, aperse la finestra e vide Patrizio che si allontanava franco, spigliato, ricantando con aria baldanzosa:

La coppa di Pippo,
La pippa, la poppa.

Gildo chiuse la finestra e venne a sedersi sul letto appoggiando la testa sul guanciale ancora caldo. Piangeva.

Erano passate due o tre settimane.

Patrizio, nella sala terrena della Croce Bianca, [p. 282 modifica]arringava mezza dozzina di studenti suoi amici particolari. Il tema era questo:

«Dimostrare che il mondo civile si appoggia sul progresso, il progresso sulla scienza, la scienza sui professori, i professori sugli scolari, ergo — essere gli scolari la classe più benemerita della società e la sola degna di considerazione.»

Gli uditori di Patrizio lo circondavano in pose diverse, classiche e romantiche, ascoltandolo più o meno, ma fumando tutti e gridando in mezzo a nuvoli di fumo, tra i bicchieri colmi di un vino color amaranto.

Un po’ in disparte Gildo, intabarrato come fosse il mese di gennaio — ed era aprile — non faceva mai udire la sua voce. Lo si chiamava già l’ombra di Patrizio: Patrizio era fiero di avere un’ombra così fedele.

Avevano tentato di prendere a gabbo quel cosino esile e spaurito. Uno studente del terzo anno gli domandò a bruciapelo:

— Che cosa è l’ipotenusa?

E Gildo si era chiuso più che mai nel suo mantello tirandosi vicino a Patrizio.

— Lasciate in pace questo ragazzo — disse Patrizio — io lo proteggo e guai a chi lo tocca. Udite piuttosto una grande notizia. Sto per diventare milionario.

Un urrà strepitoso fece eco alle parole di Patrizio. Non gli si credeva nè punto nè poco.

— Davvero! davvero! Vi giuro sulla testa di cane della mia pipa che quanto ho detto è la pura verità.

Il fumo denso del tabacco si svolgeva in spire [p. 283 modifica]cineree; i bicchieri danzavano sul desco frequentemente percosso; il gas oscillava su tutte quelle giovani fronti lumeggiando le capigliature arruffate, liscie, crespe, brune, bionde — più bionda di tutte quella di Patrizio che aveva dei riflessi da aureola.

Gildo tossì una o due volte e rimosse la sua sedia. Nessuno si occupava più di lui.

La parola l’aveva Patrizio.

— Ch’io possa diventare benedettino e farmi canonizzare dopo morte se mai e poi mai mi venne in mente di avere uno zio.

— In America?

— No, in Inghilterra. Un originale che non ho mai visto e che è morto qualche mese fa lasciandomi i suoi milioni.

— Simpatico originale! Così avesse molte copie; ne reclamerei una per me.

— Compreso il codicillo? — disse Patrizio scuotendo sull’orlo del tavolo la sua pipa spenta, — Perchè c’è un codicillo, amici carissimi; e tu, Augusto, che volevi sapere da quel povero ragazzo che cosa è l’ipotenusa, dimmi un po’ che cos’è il codicillo di mio zio?

Augusto non lo disse e Patrizio continuò:

— Pare che lassù in Inghilterra il mio ottimo parente abbia avuto in qualche modo una figlia, e la condizione esplicita dell’eredità è che io me la sposi per riunire in un ceppo solo i rampolli superstiti delle due famiglie. Bella, nevvero? La cuginetta avrà trent’anni almeno, i piedi lunghi, i denti sporgenti, una veletta verde e voglio perdere l’amore della mia cappellaia se non dirà schoking solamente a vedermi. [p. 284 modifica]

— Ma i milioni! — esclamò uno studente cui uscivano i gomiti dalle maniche.

— I milioni! — ripeterono tutti leccandosi le labbra, sbarrando gli occhi o picchiando pugni, secondo il modo particolare che ciascuno aveva per esprimere l’ammirazione e la cupidigia.

— Ebbene — disse Patrizio colla massima indifferenza — se non cambio parere, cosa possibile in questo mondo dove nulla è eterno, la mia decisione per oggi è di non sposare l'amabile cuginetta colla gobba piena di ghinee.

— Oooh! Uhh! Ah! Oibò!

Tutte esclamazioni tendenti a biasimare una risoluzione così leggera e spensierata.

— No — continuò placidissimamente Patrizio. — La cara zoppettina coi tacchi d’oro non passeggerà al mio fianco nell’alma città di Pavia. La libertà «quest’unico bisogno dell'uomo saggio» non si vende nemmeno per un milione. Versami del vino, Augusto. Bevo all’indipendenza del mio cuore!

Le voci degli studenti si alzarono più rumorose e più discordi. Parlavano tutti insieme, gesticolando, rovesciando sedie, facendo volare i cappelli, cozzando litri e bicchieri. L’atmosfera era diventata irrespirabile; si vedevano gli strati di fumo sovrapposti l’uno all’altro come veli sospesi nell’aria.

Finalmente qualcuno incominciò a sbadigliare e qualche altro nel subire il contagio, propose di andare a letto.

Si sciolsero così, abbandonandosi a due a tre, canticchiando, disputandosi e facendo commenti sul caso di Patrizio. [p. 285 modifica]

Patrizio, rimasto solo, cercò cogli occhi il suo piccolo amico e lo scoperse quasi svenuto sulla sedia, soffocato in quell’ambiente a cui i suoi polmoni non erano avvezzi. Ma gli ebbe posto appena la mano sulla fronte che subito si scosse e sollevò gli occhi pieni d’angoscia.

Patrizio si sentì invaso da una tenerezza insolita per quell’essere debole e affettuoso che sembrava attaccarsi a lui come una di quelle esili pianticelle che non hanno la forza di sostenersi.

— Andiamo, Gildo, su! Non voglio che tu vegli così tardi; un’altra sera te lo proibirò.

Gli pareva di avere verso quel fanciullo dei doveri di padre; — lui che avrebbe riso delle cose più sacre, provava vicino a Gildo una specie di pudore misterioso e bizzarro.

— Levati, dunque, ti accompagnerò a casa. Sei ancora tutto sossopra perchè Augusto ti ha domandato che cos’è l’ipotenusa; a me, vedi, non importa affatto che tu non lo sappia. Se te lo domanda un’altra volta, digli che l’ipotenusa è una persona di spirito fra due imbecilli. Da bravo; dammi il braccio. Stai bene?

Gildo non rispose; parlava sempre pochissimo; oramai Patrizio era abituato a leggere ne’ suoi grandi occhioni neri, e gli occhioni neri di Gildo erano, quella sera, straordinariamente mesti.

Patrizio non disse più nulla. Silenziosi tutti e due s’avviarono, e giunti sulla porta del matricolino, Patrizio gli accese uno zolfanello perchè ci vedesse su per la scala. [p. 286 modifica]

— Singolare personaggio! — pensava poi Patrizio allontanandosi. — Eppure... eppure sento di amarlo più di tutti gli altri.

Ogni mattina, sotto i portici dell’Università, i due amici si incontravano.

Patrizio non si sentiva completo se non vedeva la bruna personcina del suo protetto movergli incontro e domandargli:

— Mi permetti, Patrizio, di venire con te?

Del resto Patrizio non si era mai curato di informarsi precisamente sulla condizione di Gildo. Sembrava molto agiato; questo era facile a capirsi dagli abiti, dalla biancheria finissima, dalla bella camera che abitava, dalla facilità di spendere. Chi fosse poi, era un segreto che egli sembrava custodire gelosamente e che Patrizio non aveva smania di conoscere.

Facevano insieme delle lunghe passeggiate. Insensibilmente, senza accorgersene e senza annoiarsi, Patrizio variava il suo genere di vita.

In presenza di Gildo non gli piaceva comparir troppo scapato; l’innocenza di quella creatura gli imponeva un rispetto superstizioso e poetico; ne subiva senza sforzo l’ascendente e più d’una volta in quel dolce mese d’aprile si trovò — lui, lo scapestrato — a correre in un prato insieme a Gildo, osservando i fiori, il cielo, le rondini, trovando in questo genere di vita delle sensazioni nuove e curiose; una specie di ritorno all’adolescenza; una follia [p. 287 modifica]diversa dalle solite e che lo faceva più profondamente lieto.

Una volta, passando da una certa viuzza, il vecchio peccatore si accorse di una scena poco edificante che succedeva dietro una porticina; voltò indietro bruscamente perchè Gildo non si accorgesse di nulla; questa manovra puritana fece un chiasso indiavolato fra gli studenti.

Frattanto Patrizio non si decideva a dare una risposta formale al suo tutore. Il tempo prescritto per la decisione era stato dal defunto ristretto a un anno; sei mesi erano già trascorsi e si aspettava da un giorno all’altro la cuginetta.

Il tutore, quantunque per l’età di Patrizio non esercitasse più una legale sorveglianza su di lui, non vedeva l’ora di disfarsi della responsabilità morale e della piccola amministrazione che Patrizio aveva continuato a lasciargli per scanso di noie.

Nel suo interno il mio eroe era quasi sicuro di non cedere alla tentazione dei milioni; ma il no ufficiale, il vero no che non ammette repliche non l’aveva ancora pronunziato.

Su questo argomento fra Gildo e Patrizio non si discorreva mai. Gildo non gli aveva fatta nessuna domanda in proposito, imitando il riserbo che Patrizio usava a suo riguardo; — così il tempo passava legando sempre più con vincoli arcani e misteriosi la loro bizzarra amicizia.

Sulla fine di maggio, ricorrendo l’anniversario d’Augusto, venne combinata fra gli studenti maggiori una partita di piacere — ma proprio di quelle ove c’ [p. 288 modifica]entrano tutti i piaceri. — Patrizio, anima di tali baldorie, fu il primo ad essere invitato.

Nè Gildo vi poteva intervenire, nè Patrizio lo avrebbe voluto, sapendo per lunga esperienza come andava a terminare la festa. Egli fece dunque un bel sermoncino, la sera prima, esortando Gildo a ritirarsi presto e dicendogli che l’indomani non si sarebbero trovati, perchè aveva degli affari.

Il fanciullo lo guardò fisso fisso, tremando, quasi avesse paura di indovinare la verità e pur volendo indovinarla. Però non fece alcuna osservazione; soltanto al momento di dividersi prese con vivacità la mano di Patrizio, esclamando:

— Ricordati!

— Di che cosa? — domandò Patrizio ridendo.

— Di me...

Patrizio gli toccò la guancia colle due dita in atto scherzoso.

— Che pelle morbida! Sembri una signorina.

Gildo si tirò indietro.

— Addio, dunque.

— Addio.

Erano sei uomini e sei donne.

Dovevano partire tutti insieme sopra una gran barca e portarsi al di là del Ticino in un’osteria cognita e rinomata fra la gioventù studiosa...

Dapprima s’era fissata una colazione, poi un pranzo, e si concluse per una cena, concorrendo il piccante della notte, dei lumi e della solitudine. [p. 289 modifica]

Si parlava di follie d’ogni genere; erano tutti ebbri prima d’aver bevuto. La gioventù saliva alla testa di quei capi ameni, di quelle ragazze senza giudizio. Essi sentivano troppa vita nel loro sangue e volevano buttarne via una parte come zavorra inutile, per sollevarsi più leggeri nel ciclo delle illusioni.

Un temporale nereggiava sull’orizzonte; si partì egualmente. Ci voleva altro che temporale a trattenerli!

Patrizio, seduto al timone, guardava il Ticino che gorgogliava cupo e minaccioso.

Augusto era buon rematore e per di più conosceva le perfidie del fiume. Ad onta di un certo pericolo, la barca si sorreggeva abbastanza bene, rompendo i neri cavalloni che le spruzzavano sui fianchi una spuma candida come la neve.

Le donne gridavano un poco per vezzo e per altre loro mire particolari.

— Guardate — disse Patrizio — quella barchetta che si stacca ora dalla riva; ho in mente che vada a mostrare alla luna il colore della sua chiglia.

— Certo — rispose Augusto sollevando il remo e spingendolo vigorosamente — non vorrei esservi dentro.

La bufera si avanzava a passi di gigante; ma l’allegra brigata non la temeva più che tanto, essendo oramai prossima alla meta. Le grida di giubilo succedevano alle grida di spavento nella parte femminile; il riso o almeno il sorriso era su tutte le labbra.

Soltanto Patrizio non rideva. Collo sguardo intento seguiva le mosse della barchetta lontana. Un’attrazione irresistibile gli faceva prendere il più vivo [p. 290 modifica]interesse a quella lotta disuguale tra quattro misere assicelle e un fiume agitato.

Il cielo diventava scuro di momento in momento — pioveva a larghe goccie — un vento freddo increspava le onde e cacciava stormi di uccelli che fuggivano rasentando l'acqua.

La barchetta ballottata in tutti i sensi minacciava capovolgersi ad ogni istante. L’uomo che la guidava faceva forza di braccia con un vigore disperato. In quel mentre una figura rizzandosi nel mezzo del fragile legno si delineò netta e tagliente sull’orizzonte. Patrizio la riconobbe.

— Terra! — gridò Augusto facendo sgocciolare il remo e coricandolo disteso in fondo alla barca. — Si salvi chi può.

Tutti uscirono in fretta, ultimo Patrizio che s’era fatto taciturno e pensieroso.

Augusto legò la barca assicurandola con un triplice nodo.

— Come faremo a ritornare con questo tempo? — domandò una delle ragazze.

Il ritorno è tempo futuro e questo tempo è presente; non confondere le coniugazioni, bella del cuor mio. Avanti ragazzi! Un premio da destinarsi a chi arriva per il primo.

Il temporale era al suo colmo; alcuni alberi, svelti dalla forza dell’uragano, si erano piegati fischiando e giacevano a terra; turbini di sabbia roteavano portati dalle folate impetuose. Sul fiume quasi deserto la misera barchetta esauriva le sue risorse estreme.

Patrizio si chinò sul piuolo che ratteneva la barca d’Augusto e ne sciolse i nodi. [p. 291 modifica]

— Che fai Patrizio? Vieni? — gli gridarono da lontano i suoi compagni.

— No, non vengo! — rispose Patrizio saltando nella barca e spingendola risolutamente in mezzo al fiume.

Il rematore della piccola barchetta, accorgendosi che qualcuno andava in suo aiuto, raddoppiò gli sforzi, ma la corrente era contraria e Patrizio, calcolando che sarebbe stato più facile tornare verso Pavia anzichè avanzarsi, gli accennò di manovrare in quel senso.

Una cosa che sorprendeva Patrizio è che la persona da lui intraveduta nella barchetta non si mostrava più — ed era singolare che non prendesse per lo meno una parte di spettatore nella situazione. Fu per questo che, appena credette potersi trovare a portata della voce, gridò al barcaiuolo:

— Non avete nessuno dentro?

Il pover’uomo che si trovava nell’impiccio appunto perchè quello dentro si era ostinato a voler partire ad onta di tutte le rimostranze, diede una crollata di spalle della quale Patrizio non riuscì a capir nulla. La sua impazienza diventò così acuta da somigliare un dolore; l’energia delle sue forze riunite aveva qualche cosa di febbrile.

Finalmente raggiunse la barchetta, vi gettò uno sguardo ansioso e vide Gildo sdraiato sul fondo, pallido e senza moto.

Slanciarsi, prenderlo in braccio e portarlo di peso nell’altra barca, fu una manovra tanto rapida e sorprendente che la barchetta perdette l’equilibrio del [p. 292 modifica]tutto e andò proprio a mostrare la sua chiglia, non alla luna, ma a un lieve raggio di sole che appariva in quel momento squarciando le nubi.

Il barcaiuolo fu preso a bordo da Patrizio e l’infelice guscio rimorchiato a poppa rifece vergognoso la via già fatta.

Ceduti i remi, Patrizio si occupò tutto del suo giovane amico. Il primo pensiero era stato di sgridarlo per l’imprudenza commessa, ma poi vedendolo lì inanimato che non dava nessun sentore, la compassione la vinse sul risentimento, e sedutolo sulla panchina ne sorresse il capo sui proprii ginocchi.

I lunghi capelli castagni che Gildo soleva portare molto avanti, gli cadevano allora scomposti dietro le orecchie mettendo a nudo una fronte pura, bianchissima, solcata da piccole vene azzurre; la bocca semichiusa aveva una grazia infantile. Patrizio gli sciolse la cravatta e vide con meraviglia la linea del collo rotonda e graziosa come quella di una donna.

Patrizio si arrestò colpito da un’idea strana. Intanto il temporale era cessato: il fiume ridiventava tranquillo; la barca ondeggiava con mollezza sulle acque ancora frementi.

Gildo non rinvenne.

Patrizio gli prese le mani, le sentì fredde e se le accostò alle labbra per riscaldarle col proprio fiato. Non le aveva mai guardate; erano mani piccole e fine, morbidissime. Sollevò il manichino della camicia e scoperse il principio del braccio.

Una vampa ardente salì dal cuore di Patrizio al suo cervello. Quella testa abbandonata che riposava [p. 293 modifica]su i suoi ginocchi gli dava le vertigini; si curvò lentamente passandole le dita fra i capelli...

Come al tocco di un filo magnetico il fanciullo si scosse; un’onda vermiglia gli corse sotto la pelle delicata; aperse gli occhi.

— Patrizio!

Fu la sua prima ed unica parola.

Patrizio lo divorava con uno sguardo insistente, profondo; uno sguardo che sembrava lacerare tutti i veli misteriosi che lo avvolgevano; uno sguardo che era nello stesso tempo una domanda e una rivelazione.

Gildo comprese vagamente il tumulto che avveniva nel petto del suo amico, e tale scoperta lo riempì di una trepida confusione mista di inenarrabili dolcezze e di sgomento.

Ma la sua debole personcina era affranta. Sorrise per rassicurare Patrizio e tornò a chiudere gli occhi.

Patrizio lo coricò di bel nuovo, ravvolto nel mantello; gli coperse i piedi, gli pose un cuscino sotto il capo, gli tenne strette le mani fra le sue sotto il suo cappotto. Dove aveva imparate tante delicatezze? Come faceva a improvvisare così bene la suora di carità, lui che di carità non doveva essere molto pratico — di carità evangelica almeno?

Ma Patrizio stava sulle spine. Gli si era suscitato nel sangue una tempesta, a petto della quale il fiume, il cielo e gli elementi scomposti non gli sembravano più nulla.

Avvezzo a desiderare ardentemente, a far cedere sempre e subito ogni cosa alle sue passioni, egli [p. 294 modifica]avrebbe quasi gettato nell’acqua il barcaiuolo per trovarsi solo con Gildo e domandargli:

— Chi sei, tu che mi fai fremere, palpitare, commuovere, agire a tua voglia? Chi sei, tu che amo?...

Giunsero quando Dio volle alla sponda. Patrizio uscì dalla barca per entrare in una carrozza e si fece condurre alla casa di Gildo.

Durante il tragitto il fanciullo per metà rinvenuto piangeva, e Patrizio agitato, turbatissimo, gli teneva la testa stretta sul suo cuore che batteva rapidamente.

Lo portò a braccia su per le scale, lo depose sul letticciuolo dove egli stesso aveva riposato una notte, e non potendo più reggere al tumulto delle idee e delle sensazioni:

— Gildo — esclamò — Gildo, per pietà!

Gli si fece vicino; tornò a prendergli le mani, ma Gildo tentò ritirarle. Volle guardarlo dentro gli occhi, ma Gildo abbassò le palpebre. Con un movimento rapido e insensato accostò le labbra alle guance pallide del fanciullo — un grido gli rispose — e Patrizio raggiante, senza staccare le labbra da quella guancia, mormorò:

— È dunque vero?

Sì era vero — e come tutto cambiò allora!

I due che da oltre un mese facevano vita comune, in confidenza, dandosi del tu, non osavano quasi guardarsi o per meglio dire Patrizio guardava in un modo diverso, e lei non attingeva più nel suo segreto, oramai svelato, il coraggio di sostenere quello sguardo. [p. 295 modifica]

Questo ritegno in mezzo a tanta libertà voleva ben dire che l’amore aveva morso sul serio, questa volta, lo spensierato Don Giovanni!

Egli contemplava in estasi quel profilo delicato e quei grandi e neri occhi che lo avevano ammaliato fin dalla prima volta, inconsciamente.

Ripensava alla vita trascorsa, all'affetto costante, alle gioie e ai dolori che avevano avuti in comune senza conoscersi; ripensava alla notte che si erano incontrati e che lui aveva dormito in quel letto, su quel medesimo guanciale dove ora riposava la bruna testina della sconosciuta (era sempre una sconosciuta). Cento idee pazze e fantastiche gli attraversavano la mente.

— Mi amate? — domandò a bassa voce, coll’accento supplichevole e casto d’una preghiera.

— Sì, vi amo! — rispose dolcemente e tristamente la fanciulla.

Patrizio sentì un brivido corrergli nelle ossa. C’era tanta sicurezza in lei! tanta fede e tanta innocenza!

Nella cameretta regnava una blanda penombra, rotta in un punto solo dalla fiamma oscillante d’una candela. La città sembrava addormentata; una pioggia sottile, leggera, batteva contro i vetri — e quei due giovani soli, innamorati, si guardavano e tacevano.

L’avventura era certamente la più strana fra quante fossero capitate a Patrizio — egli non si riconosceva più — tanto meno quando la fanciulla gli disse:

— Patrizio, i due camerati sono scomparsi; non potete restare in questa camera.

E che lui si alzò, arrossendo, cercando una scusa, timido e imbarazzato come se fosse alle sue prime [p. 296 modifica]armi, compreso da un sentimento arcano che pareva pudore.

E partì, barcollando giù per la buia scala. Giunto nella via, si guardò attorno come per orizzontarsi, per essere sicuro di non aver sognato.

Una brigatella di studenti passava schiamazzando.

Patrizio ritornò col pensiero ai suoi compagni lasciati sull’altra sponda del Ticino e sorrise al destino bizzarro che gli aveva fatto terminare così platonicamente una partita incominciata sotto tutt’altri auspici.

Dormì poco e male all’ombra cosmopolita della Croce Bianca, nè alla mattina destandosi e aprendo le imposte si curò di verificare se la cappellaia dirimpetto aspettasse gli uccelli di carta, mostrando di cucire le fodere di raso accanto ai vetri.

Si alzò nervoso e impaziente. L’antico Patrizio era in lotta col nuovo — il libertino combatteva ancora, per l’onore delle armi, coll’innamorato.

Scoccarono le dieci: Patrizio pensò che era ora di farla finita in un modo o nell’altro.

S’avviò bel bello alla casa di Gildo, salì i gradini, guardò l’uscio e lo vide aperto — entrò nella camera — deserta! Il letto vuoto, i cassettoni rovesciati, le sedie fuori di posto — una donna di servizio scopava sulla soglia.

La bella paradisea dalle ali azzurre era volata via.

Fu allora che cominciò per Patrizio una fase di attività prodigiosa e di passeggiate interminabili su e giù per Pavia, rovistando in tutte le case, spiando tutte le finestre, seguendo ogni persona che alla lontana rassomigliasse, sia pure come uomo o come donna, il suo perduto Gildo. [p. 297 modifica]

Ma egli conosceva Pavia tutta quanta e gli uomini — e le donne meglio ancora — e gli pareva impossibile che Gildo potesse sfuggirgli.

Era dunque andato lontano?

Si pentì di non averne mai chiesto nè la patria nè la famiglia, di non aver cercato nessun filo che potesse ora servirgli di guida.

Perchè quel travestimento? Lo amava? Chi era? Che cosa voleva? Che fare?

Un pensiero che gli tornava spesso era quello di esaminare i giorni passati insieme; tante piccole cose, un rossore, un silenzio, un sospiro, uno sguardo mesto e tremante di quei grandi occhi neri — e quante volte egli si era mostrato volubile!

Si mordeva allora le mani, abbandonandosi ad eccessi di rabbia che irritavano sempre più il suo amore.

In confidenza: verso quell’epoca ebbe credito nella scolaresca la voce che Patrizio avesse dato volta al cervello.

Le persone saggie non mancarono di assicurare che la cosa era prevista, come conseguenza inevitabile dei suoi stravizi. Le donne piansero un poco e poi si consolarono — la cappellaia in ispecie giurò che non voleva più saperne di biondi e si volse ad Augusto che era nero.

Qualche studente domandò a Patrizio: dov’è il tuo angelo custode?

Questa frase, detta per celia fu la base di congetture bizzarre, di fiabe gonfiate da certa gente timorata e bigotta che non si peritò a ricamarvi sopra una storia di miracoli e di apparizioni. [p. 298 modifica]

La cameriera della Croce Bianca, losca e colla faccia coperta di lenticchie, raccontò a Piedolce che il giovinetto scomparso era proprio l’angelo Gabriele mandato per convertire quel discolaccio del signor Patrizio, che non vi era riuscito, e che d’ora in avanti essa aveva paura a dormir sola la notte, temendo l’albergo abitato dal diavolo.

Patrizio non si curava menomamente delle variazioni che succedevano intorno a lui. Non era occupato che da un solo desiderio: ritrovare Gildo.

Una sera, passeggiando in un viale remoto fuori della città, vide correre lesta lesta davanti a sè una figura femminile che egli poteva affermare sulla sua coscienza di non avere mai vista in Pavia.

Era piccola, sottile, vestita di nero e sotto il velo le svolazzavano brevi ciocche di capelli castagni.

A Patrizio balzò subito il cuore; e poichè nemmeno un’anima si vedeva nelle campagne e lui, Patrizio, era poco disposto alla pazienza dopo tanta che aveva dovuto trangugiarne a suo mal costo, le si gettò in ginocchio, abbracciandola, stringendosela sul cuore e mormorando ancora su quella pallida guancia, al posto del primo bacio:

— Non mi fuggirai più... dovessi morire!

O Dio, sì anche lei lo baciò perchè sentiva di essere amata ed era fiera e felice della sua vittoria.

Anime innamorate che passate da quel viale, sciogliete un voto alla conversione di Patrizio — e se [p. 299 modifica]volete chiedere all’erba fresca, ai fiori olezzanti, al cielo, all’aria, ai sassi, tutto quello che si dissero i due amanti in quella sera, fate pure. Io ho un’altra cosa a dirvi.

La bella fanciulla che col nome di Gildo e nei modesti abiti del matricolino aveva conquistato il cuore dello studente era sua cugina, venuta appositamente dall’Inghilterra per conoscere il suo futuro sposo e cattivarsene l’affetto indipendentemente da qualsiasi idea d’interesse.

Amarlo non era difficile, ma farsi amare fu il suo vanto e la fortuna d’entrambi.

Il nome di Patrizio restò come una leggenda nelle memorie dell’Università. Quanto a lui, visse felice e tranquillo nei dolci affetti della famiglia, con grande soddisfazione del vecchio tutore che non ebbe più bisogno di scrivergli con nessuna erre nè antica, nè moderna e che potè finalmente mettere a riposo la famosa frase: «Mi avvedo, caro Patrizio, che tu cammini sulla via della perdizione.»