Novelle gaje/Perchè sono celibe

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Perchè sono celibe

../La pipa dello zio Bernhard ../Beniamino IncludiIntestazione 10 maggio 2021 100% Da definire

La pipa dello zio Bernhard Beniamino

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PERCHÈ SONO CELIBE


confidenze di gregorio.



II
o ho cinquant’anni; mi chiamo Gregorio — alcuni trovano che è un nome triviale, ma fu portato dai tanti papi e posso portarlo anch’io. Sono grande, complesso e ben fatto — a prova che dovetti sborsare due mila lire sonanti per l’esonero del servizio militare — non ho nessuna macchia particolare. Da molti anni a questa parte occupo il posto di capo ufficio al Demanio con duemila cinquecento lire di stipendio e con soddisfazione piena de’ miei superiori — agli inferiori pago una bottiglia di barbèra nel dì del mio onomastico.

Mio padre morendo mi lasciò una rendita netta di lire mille e seicento — più cinquantaquattro centesimi. Io posso dunque spendere quattromila e cento lire all’anno — più cinquantaquattro centesimi. [p. 177 modifica]

Sono galantuomo e cristiano; la polizia e la parrocchia ne possono far fede.

Tutti mi chiamano e mi chiamarono sempre un buon figliuolo; diffatti non ho mai fatto male a nessuno — non ho lasciato debiti all’oste, non ho sedotto o tradito l’innocenza, non ho cospirato contro il governo, non ho rifiutato e non rifiuto mai la mia borsa agli amici.

Possiedo — in proprio — quattro camere decentemente mobigliate, sei posate d’argento, otto paia di lenzuola e tre tovaglie di Fiandra.

Per temperamento e per educazione conduco una vita sobria, regolata e casta — non che io sia totalmente insensibile alle attrattive delle figlie d’Eva, ma a conti fatti, fisico, morale e pecunia, trovo che non mi conviene.

Non giuoco, non bevo, non fumo.

Su per giù potrei dirmi un uomo felice se — ahimè! — se avessi moglie. Diffatti, non vi sembra, o lettori, che io abbia tutte le qualità, tutti i requisiti matrimoniali?

Ma la mia fatalità è appunto di avere troppi meriti — voi dubitate, ne ero certo — eppure nulla di più vero. Due per lo meno li ho d’avanzo: buon cuore e incapacità di fingere. In causa di queste doti ho perduto due matrimoni — non voglio fare un giuoco di parole perchè detesto i giuochi anche di parole. Ma vi racconterò genuinamente i fatti, tralasciando quelli che non si riferiscono alle qualità sopradette perchè mi condurrebbero troppo lontano.

Dopo i disinganni della primissima gioventù; dopo [p. 178 modifica]aver tentato inutilmente di appendere scale di seta ai balconi delle moderne Giuliette; dopo aver tentato invano di commovere i cuori delle pervertite Ofelie

Andai ramingo e povero...
Andai di porta in porta...

Finchè mi giunsero alle spalle i trentacinque anni; è ancora una bella età per prender moglie: notate che avevo conservato le mie sei posate d’argento, le tre tovaglie di Fiandra e gli otto lenzuoli, ai quali avevo aggiunto sei fodere nuove e una bella coperta di damasco giallo. I miei superiori continuarono a volermi bene; gli inferiori, ai quali pagavo la solita di barbèra, mi rispettavano; godevo ottima salute; non m’era mancato neppure un dente; non m’era cresciuto neppur un callo; i miei capelli rivaleggiavano coll’ebano, col carbone, colla pece giudaica, con quanto v’ha di più nero e di più lucente.

— Gregorio — dissi — bisogna pensare seriamente ad ammogliarsi. Per il San Michele prossimo deve esser affar finito. Allora eravamo a Pasqua e cambiavo casa per la sesta o la settima volta. Il mio nuovo appartamento era a pian terreno; «quattro gabinetti verso giardino con comodo di rimessa e scuderia per un cavallo:» così il cartello dell’appigionasi. Ma io che non ho cavalli (bontà divina, dovrei andare all’ufficio a cavallo?) chiesi di poter avere soltanto i gabinetti; mi fu concesso.

Erano quattro bugigattoli; mi direte che per un uomo solo bastano; domando perdono — se questo uomo potesse dividersi in quattro parti e collocarne [p. 179 modifica]ciascuna in uno dei bugigattoli, non direi di no — ma dovendo capire interamente o nell’uno o nell’altro, riusciva un vero problema lo stendere le gambe sotto il tavolo, infilare i pantaloni, spazzolare il paletot. Tuttavia il mio appartamento mi piaceva, — somigliava alle cellette di un alveare — solo che pensavo al modo di poter collocare il letto senza metterlo a ridosso della libreria e disporre le mie dodici sedie in modo che sei almeno potessero sfilare liberamente senza essere costrette a portare le altre sei in ispalla. Comperai un metro di quelli che adoperano gli ingegneri, e una domenica, giorno di vacanza, mi posi a misurare le sedici pareti delle mie quattro camere.

Oh! sorpresa. Lungo i cornicioni, dietro le imposte, sugli stipiti delle porte trovai — dei ragni? degli scarafaggi? — no — trovai una quantità di sentenze scritte a matita — la maggior parte amorose, tutte sentimentali:

Anch’io solinga sulla terra sono
E alle larve più belle ho detto addio!

Questa era scritta nella sala da pranzo. Altrove:

Amare un’ora e soffrire un secolo — ecco la vita.

Più giù, un lungo brano dell’Ermengarda di Prati — e Metastasio e Petrarca e Lamartine e la Staël e la Cottin — tutta quanta la schiera dei romantici e degli anacreontici.

Ne ebbi per tre ore di lettura — dopo le quali non vedevo che cieli azzurri, diafane penombre; non udivo che misteriosi accordi di rondinelle e di liuti [p. 180 modifica]— il che non mi avanzò molto nelle misure che prendevo — ma m’ispirò una viva curiosità di sapere chi fosse l’anonimo illustratore di quelle pareti.

Continuando le mie perlustrazioni rinvenni dei fiori secchi, delle coroncine di viole del corno, un piccolo cuore di cristallo sormontato da una freccia di ottone, un brandello di carta con suvvi scritto questa semplice ed eloquente esclamazione: ahi! — e finalmente un lungo spillo d’oro fregiato d’una ametista.

Vada per i fiori, per le coroncine, per il cuore di cristallo — il loro proprietario non li rimpiangerà — ma lo spillo ha un certo valore e mi sento l’obbligo di restituirlo.

Chiamo il portinaio:

— Chi era la persona che mi precedette in questo appartamento?

— Un vecchio capitano in ritiro.

— Oh diavolo! Solo?

— Con una figlia.

— Meno male; (la faccenda delle coroncine e del cuore di cristallo si spiega meglio).

— Con un’ordinanza, o servitore, o cuoco che fosse.

— Questo è soprannumerario. Ve lo chiesi perchè ho rinvenuto un oggetto d’oro — e se voleste incaricarvi di portarlo al capitano...

— Mi dispiace, signore, ma io non m’incarico di nulla. Ebbi qualche diverbio con quel vecchio militare brontolone e non voglio impacciarmene altro.

— E allora come si fa? Vedete bene che la mia coscienza non mi permette di ritenere... [p. 181 modifica]

— Se non vuol ritenere, renda. Tutto quello che posso fare per la sua coscienza è di rilasciarle l’indirizzo del capitano. Ecco.

Restai coll’indirizzo fra le mani, dubbioso e sorpreso. Vi gettai uno sguardo:

Automedonte Risi

Capitano in ritiro.

Via tale; numero tale.

Non era molto lontano; il mio orologio segnava le tre — ora convenientissima; non avevo appetito e una piccola passeggiata me l’avrebbe fatto venire; d’altronde non mi spiaceva di conoscere il vecchio capitano — sua figlia poteva essere bella — e quel giorno io portavo una cravatta celeste che le avrebbe dato un’alta opinione del mio gusto, lusingando le sue celestiali aspirazioni.

Andai.

Un’ora dopo mi trovavo in via tale, numero tale: chiesi del capitano Antomedonte Risi e mi venne mostrata una scaletta che doveva salire fino agli ammezzati. Venne ad aprirmi un ometto sulla cinquantina, magro, sparuto, con in testa un beretto di quelli che portano i soldati a far la manovra, una vestaglia che si capiva essere stata un cappotto; e due — con licenza — enormi ciabatte che si trascinava dietro come un serpente a sonagli fa della sua coda.

— Il signor capitano? [p. 182 modifica]

— Resti servito.

Fui introdotto in una sala di modesta apparenza, dove vidi subito il capitano che seduto presso un caminetto spento giuocava al solitario.

Lo salutai civilmente, chiedendogli scusa di interromperlo nella sua interessante occupazione e gli esposi il movente della mia visita.

— Ah! è lo spillo di mia figlia — disse il vecchio seguace di Marte. — Francesca, osserva un po’ il tuo spillo.

Mi guardai attorno, curioso di sapere da dove sarebbe sbucata l’eterea fanciulla che alle larve più belle aveva detto addio: quando mi apparve dal fondo d’un paravento una persona, autenticamente massiccia, foggiata a modo d’una comare fiamminga o d’una buona massaia olandese; grosse guancie, grosso collo, grosse mani, tutto il resto grosso del pari e d’un rosso uniforme — non il rosso delle rose coi gigli, bensì quello del latte col vino.

È chiaro, dissi tra me, che se costei ha rinunciato alle larve della vita non ha però rinunciato alle costolette.

— Signorina, mi chiamo fortunato di poter renderle il suo spillo; forse ella ne era in pena...

— No signore — mi affretto ad affermare che io non sono di quelle donne

...che non san scordarsi
Della lor treccia e delle lor smaniglie.

Restai sbalordito. Poffare! Ella era un pozzo di poesia — direi meglio una credenza, un armadio. [p. 183 modifica]

— Signorina, mi trovo umiliato nel non poter corrispondere alla sua citazione; io sono impiegato all’Ufficio del Demanio e non ho tempo di leggere dei versi; ma ella fa bene a dare una sorella alle nove muse — restano così dieci, che è un bel numero tondo.

Parlando della rotondità dei numeri io contemplavo quelle della signora Francesca, che mi sembravano egualmente belle — e assai più seducenti.

La fanciulla di rossa che era diventò pavonazza, ciò che lusingò oltremodo il mio amor proprio.

Dovetti nondimeno prender congedo.

Rientrando nel mio alveare tornai a leggere la poetica tappezzeria delle muraglie e arrestandomi a questa frase: Amare un’ora e soffrire un secolo — ecco la vita! — feci la seguente riflessione:

Certo che Francesca non ha ancora amato, perchè non mostra menomamente di soffrire.

La bellezza! — no, non è la bellezza che genera l’amore.

Io fui quasi sempre innamorato di mediocrità assai lontane dal tipo di Venere; e sono intimamente persuaso che non è la più bella delle donne quella che ci possa destare maggior amore. Per quanto un uomo sia materiale bisogna sempre che rimonti alla sorgente prima dell’unico bello, dell’unico vero — l’ideale. Per quanto egli ami una bella persona, ei non l’amerebbe però se essa non avesse la scintilla animatrice. Per [p. 184 modifica]quanto gli sia cara la bellezza della sua amante, gli è soverchiamente caro il sentimento che la fa sua. L’amore nasce forse dalla materia, ma tende a lanciarsi verso il cielo.

Più che le forme appariscenti di Francesca io vagheggiavo il suo tenero cuore, la sua sentimentalità: e il raggio de’ suoi sguardi, il rossore delle sue guancie che mi promettevano fibre sensibili — tanto quanto l’avrebbe permesso l’indiscreta imbottitura che la avvolgeva dalla testa fino ai piedi. E chi sa se l’amore passando col suo soffio ardente attraverso quella massa combustibile non la ridurrebbe a più simpatiche proporzioni? Tanto insomma fantasticai che mi persuasi essere Francesca la donna destinata alla mia felicità. Ma come rivederla? Come parlarle? Questi due quesiti non restarono lungamente insoluti. Povero l’amante che — quando voglia — non sappia trovar modo di avvicinarsi all’amata!

In un angolo remoto del mio appartamento, presso un chiodo sul quale solevo appendere il cappello, stava scritto in bell’inglese coricato:

T’amo siccome il pallido
Raggio di mesta luna;
Come romita plejade
Che appar per notte bruna;
T’amo siccome il languido
Fior del morente april,
Dell’alba il pianto e l’alito
Del zeffiro gentil.

Quantunque riescisse impossibile paragonar Francesca a un raggio di luna, a una plejade, a un zeffiro, tuttavia mi compiacqui di rileggere la strofa [p. 185 modifica]pensando a lei — ne risultò un’idea luminosa che tradussi subito in azione.

Volo in via tale, numero tale; suono il campanello; mi viene ad aprire l’ex-soldato in ciabatte e mi trovo alla presenza della florida Francesca; suo padre era uscito — oh! insperata felicità.

Ella stava scrivendo; al mio apparire nascose il foglio in seno e mosse ad incontrarmi graziosamente.

Se io non mi fossi trovato in estasi avrei notato quell’atto furtivo che non presagiva nulla di bene per le mie speranze — essendo notorio che una donna non suole celare in seno la nota del bucato — ma come dico, ero in estasi.

— A che devo attribuire, signore, la sua visita inaspettata?

— Oserei chiedere un favore alla signorina!

Ella mi guardò senza rispondere; io risposi senza guardarla:

— È certamente lei che scrisse sulle pareti del mio appartamento tutto quelle belle cose che io leggo e rileggo non saziandomene mai...

— Io... precisamente.

— Che tesori di poesia, di sentimento, d’amore! esclamai con entusiasmo.

Francesca arrossì fino alla radice dei capelli; i suoi capelli erano d’un biondo comune, ma assai copiosi e pettinati in ricci.

Io continuai:

— Una strofa sopratutto mi commosse — cercai invano il nome dell’autore... oh! se ella fosse tanto compiacente da volermelo direi — E qui le recitai pateticamente quegli otto versi che sapete. [p. 186 modifica]

— È per questo che volle incomodarsi il signore? disse Francesca quando ebbi finito.

— Per... questo.

— Sono ben dolente di dovergli dire che io lessi quella strofa citata non so dove e ne ignoro completamente l’autore. Oh! anch’io sarei desiderosa di conoscerlo — quell’idea della plejade è stupenda. Ne ho chiesto a varie persone, ma non potei ottenere nessun indizio.

Non c’era più motivo per restare; pure salutai lietamente la signorina portando meco un valido pretesto di ritornare la terza volta.

Lettore, non comprendete?

Io ero deciso a rovistare tutte le biblioteche pubbliche e private per trovare l’incognito autore di quei versi. Sventuratamente i miei impegni d’ufficio non mi lasciavano libero come avrei bramato; ma ricorsi alla bontà d’un amico letterato e mezzo giornalista per aiutarmi nella difficile ricerca.

Passarono venti giorni.

— Sai? mi disse un giorno l’amico tirandomi per la falda dell’abito. Ho trovato il tuo autore; si chiama Giacomo Sacchéro.

— Sacchéro? Chi è costui?

— Un giovane di cuore, elegante verseggiatore, a cui non è mancato che un raggio di fortuna. Se vuoi posso darti un volume completo delle sue liriche.

— Benone. [p. 187 modifica]

Il giorno dopo mi recavo da Francesca; era sola anche questa volta. Che provvidenza sono mai i genitori che lasciano in casa le figlie sole!

— Amabile Francesca, gridai appena la vidi, questa volta non chiedo perdono perchè spero di farmi egualmente perdonare l’audacia della mia visita.

— Signore, signore, che è mai accaduto? disse Francesca tingendosi d’un ben violetto carico.

— Le reco l’autore di quella strofa: T’amo siccome il pallido...

— L’autore?

— Volevo dire il nome dell’autore. È un certo Sacchéro; ma v’ha di più — se ella permette le reciterò il seguito della canzone:

T’amo! e te sola o vergine
Te sola al mondo io bramo;
T’amo! e dormente o vigile
Io ti sospiro e chiamo.

Ebbro, fuori di me, dimenticai il resto e non fui capace che di aggiungere:

T’amo! t’amo! t’amo!

— Per carità — signore! — mormorò Francesca lasciandosi cadere sopra sedia in modo quasi da sfracellarla — incidente che mi consolò di non aver potuto sorreggerla fra le mie braccia.

— Ah! io non so quello che mi faccia; dal giorno [p. 188 modifica]che la vidi, Francesca, non ho più pace. Abbi compassione di me!

— Si sente male? Vuole che chiami Martino? disse Francesca con voce commossa.

— No, non chiami alcuno; lei sola può guarirmi.

Chi sa come andava a finire quella scena se non capitava all’impensata il capitano.

Francesca svenne — Dio! come stava bene svenuta! Io mi gettai ai piedi del signor Automedonte protestandogli l’innocenza di entrambi e chiedendo sua figlia in isposa.

Egli me l’accordò con una incredibile facilità; io partii raggiante. Mi tenevo sicuro di potermi finalmente ammogliare.

Tutte le sere andavo a trovare Francesca. Ella non mostravasi così tenera come avevo sperato, ma era però gentile e piena di sentimenti delicati; suo padre mi permetteva di chiamarla mia; ella stessa, permettevami di cogliere qualche bacio sulle sue grosse guancie vermiglie e di passare il braccio intorno alla sua vita — cosa che non mi avanzava gran fatto perchè tutta la lunghezza del mio braccio arrivava appena a metà della sua circonferenza. Questo incaglio mi suscitava tratto tratto dei timori panici che m’affrettavo a scacciare lusingandomi che prima di sposarla ella sarebbe un po’ dimagrata.

Per altro affrettavo le nozze; quando si è in ballo bisogna ballare ed io provavo una smania frenetica di [p. 189 modifica]pronunciare quel che mi avrebbe reso padrone... Santi dèi! Una particella così minima, ultima ruota della grammatica, sillaba perduta nel gran vocabolario delle lingue umane, avere un significato così potente!

Io amo, adoro una donna — darei il mio sangue per possederla — mi struggo di desiderio — piango, smanio, deliro, imploro — nulla. Ella mi mostra l’uscio.

Ritorno — giuro quel — e le parti cambiano. È lei che piange, che delira — è lei che implora. Io comando — è mia!

C’è da perdere la testa. Mia! — Basta; mi viene la pelle d’oca soltanto a pensarci.

Una sera, dopo aver salutato mio suocero e stretto due terzi della vita di Francesca, m’avviavo fuori dell’anticamera, quando vidi il domestico che ranicchiato in un angolo diceva flebilmente.

— Mi perdoni, signor Gregorio, se non vengo ad aprire l’uscio — non posso muovermi.

— Oh! che avete mio buon Martino?

— Ho gli stivali signore.

— Con entro i piedi?

— Pur troppo!

— Ed è questo che vi impedisce di alzarvi?

— Cospetto! Non si fanno cinque battaglie e otto scaramuccie senza che vi resti il segno; io fui ferito nei piedi.

— Come Achille.

— Era un soldato del mio reggimento costui?

— Non credo. Ma perchè avete abbandonato le vostre ciabatte questa sera?

— Devo uscire. [p. 190 modifica]

— Non vedo troppo come vi riuscirete caro mio!

— Ed io neppure: rispose Martino contemplando, malinconicamente i suoi stivali.

— È una cosa che preme?

— Assai. Una lettera da portare in posta.

Sovvengavi, lettori, che io mi sono accusato di avere buon cuore; non sarete dunque meravigliati se risposi al povero invalido:

— Ebbene, Martino, mi incarico io della vostra commissione; levatevi tranquillamente gli stivali.

— Davvero, signore! sarebbe tanto buono?

— Non voglio che ne dubitiate più a lungo; datemi la lettera.

Martino me la consegnò esultante e infilò rapidamente le sue ciabatte per correre ad aprirmi l’uscio.

Pioveva. Io mi trovavo senza ombrello e costeggiavo il muro per riparare tanto o quanto sotto la tettoia il mio cilindro che costava sedici lire. A pochi passi dall’ufficio Postale levo di tasca la lettera, onde essere pronto a gettarla nella buca; ma nel medesimo istante un giovinotto che inseguiva una sartorella mi urta bruscamente e me la fa cadere proprio nel bel mezzo d’una pillacchera. Che fare, domando io! La lettera sgrondava da ogni parte una poltiglia viscida e scura colla quale era impossibile mandarla al suo destino. Levando subito la sopraccarta potevasi risparmiare il foglio interno — ma, corbezzoli! il suggello di una lettera è sacro. Intanto la poltiglia [p. 191 modifica]penetrava — guardai l’indirizzo: Al signor Ciro Ruspiniferma in postacittà.

Infine — pensai — io non voglio sapere cosa contiene; l’apro ad occhi chiusi; cambio la sopraccoperta; rinnovo l’indirizzo e buona notte a chi resta. Già non mi si presenta altra via — e la poltiglia penetra. Entrai risolutamente in un caffè, chiesi l’occorrente per scrivere e ruppi il suggello — il suggello rappresentava due colombe che si imbeccavano. Emblema alquanto sospetto, non è vero, lettori? Ma io avevo promesso a me stesso di non commettere alcuna indiscrezione; presi con delicatezza il foglio che era scritto su tutte quattro le facciate orizzontalmente, verticalmente, diagonalmente — giuro che non mi fermai a decifrare la calligrafia, ma quell’inglese coricato mi era soverchiamente noto perchè non lo riconoscessi mio malgrado. Non vi era più dubbio — quella lettera l’aveva scritta Francesca. Il demone della gelosia mi punse crudelmente — ma ragionai — non ho in alcun modo il diritto di violare le sue corrispondenze. Ciro Ruspini può essere un libraio che le fornisce le opere in voga; può essere un parente; un conoscente, un signore qualunque che le abbia prestato dei volumi; può essere — vergognati Gregorio di accogliere nel tuo seno oltraggiosi sospetti verso la donna amata!

Ero a questo punto eminentemente cavalleresco del mio monologo, allorchè tra l’una e l’altra pagina fece capolino una ciocca lunghissima di capelli biondi.

Ah! Gregorio, Gregorio, questa volta ci siamo.

Francesca ha un amante. [p. 192 modifica]

Dal momento che questo fatto era provato acquistavo il diritto di indagarlo nei suoi più ascosi recessi. È la provvidenza che diede i calli a Martino, che fece piovere, che fece correre quel giovinotto dietro a quella sartina — è la provvidenza che impedisce a un galantuomo di rompersi il collo sui rosei sentieri d’un imeneo... in tre.

Posso e devo e voglio leggere questa lettera:

«Mio fratello d’amore e di sventura!»

Incominciava così: già le donne sentimentali amano sempre fraternamente, finchè giunge un momento

... che il fraterno amor, non so dir come
Strano incendio diventa e cambia nome.

«Un destino fatale, un padre spietato e sopratutto l’essere soggetti alla brutale necessità del danaro mi rapiscono, idolo mio, a’ tuoi amplessi. Ma non credere che la tua Francesca possa dimenticarti giammai; il mio corpo apparterrà a un altro uomo, ma l’anima mia, il mio cuore, i miei pensieri, i miei desideri, saranno sempre per te.»

Mi imagino che il lettore non sarà molto desideroso di conoscere il resto di quell’epistola. La poesia e il sentimento v’erano profusi a larghe mani. Francesca prometteva al suo amante che gli avrebbe mandato caldi sospiri nella brezza della sera, nel mormorio del ruscello, nel canto dell’usignolo.

A lettura finita decisi che Francesca non sarebbe stata mia moglie; va benissimo che il signor Ciro [p. 193 modifica]apparisse un amante esclusivamente platonico — ma io diffido del platonicismo e non mi curo menomamente di avere una donna che confida alla brezza i suoi sospiri; un giorno che non tiri vento ella li confiderà alla carta e quando non abbia inchiostro manderà semplicemente la chiave della porta.

Guardate mo’ che bel matrimonio io facevo se Martino avesse potuto calzare gli stivali o s’io non mi fossi mosso a compassione di lui!

Tracciai rapidamente l’indirizzo del mio rivale sulla nuova coperta della lettera e la spedii al suo destino. Il giorno dopo scrivevo a Francesca:

     «Signorina!

«Sono caduto dalla scala e mi fratturai una gamba; forse ci sarà bisogno dell’amputazione — ella vede che — per il momento almeno — mi trovo inabile al matrimonio. La supplico a non mettersi in pena per me e a dimenticarmi mentre mi sottoscrivo

Suo umiliss.o servitore

Gregorio.»


Chiesi un permesso di quindici giorni per motivi urgenti di famiglia e andai a Montevecchia a bere del latte e a mangiare gli stracchini.

Della grossa Francesca non seppi più nulla.

Correva l’anno mille e ottocentocinquantanove — quarantesimo della mia età — ed io pensavo molte [p. 194 modifica]volte sospirando, che, se fossi morto allora mi avrebbero condotto al cimitero con una bara sormontata dal simbolico giglio!

La mia salute deperiva visibilmente; ero pallido, scarno, macilento; soffrivo al petto, digerivo male, trascorrevo le notti nell’insonnia, i giorni nella noia e nello sconforto. Mi sentivo prostrato di forze e disilluso sui piaceri della vita.

Nella mia gioventù una zingara mi aveva detto che camperei novant'anni — ora, la prospettiva di cinquant’anni ancora di quella stupida esistenza non mi lusingava affatto. Chiamai un medico:

— Dottore, mi sento male.

— Dove?

— Dentro, fuori e in ogni luogo.

— Il vostro male è come la presenza dello Spirito Santo.

— Colla diversità che non sparge su di me le rugiade celesti.

Il dottore sorrise e mi toccò il polso — guardò la lingua — ascoltò il cuore — picchiò sui polmoni e concluse:

— Caro signor Gregorio, volete un consiglio d’amico?

— Ci calcolo.

— Ebbene, prendete moglie.

Un lungo gemito uscì dal mio petto.

— Il rimedio non vi piace forse? Vi assicuro che non è disgustoso.

— Dite dunque che è dolce come la manna, dottore! Dite che è l’ambrosia dei mortali! [p. 195 modifica]

— Corbezzoli! l’avete forse già provato?

— Ahimè — vorrei non dovervi rispondere come quel tale: «Ho preso tutti i sacramenti eccettuato il matrimonio.»

— Non è il caso di disperarsi, signor Gregorio carissimo; quello che non s’è fatto si può fare.

— Credete? Oh! se il vostro rimedio si vendesse alla farmacia come l’olio di ricino!

— Meglio ancora, che diamine! Esso si trova per le vie, per le piazze, per i teatri.

— So cosa volete dire — ma io non vi sono mai riuscito.

— Suvvia, volete che vi ajuti?

— Ah! dottore, non sarebbe meglio farmi un salasso? ho il sangue che mi vuol scappar dalle vene.

— Voi prenderete moglie e lascerete il vostro sangue come si trova. Le vostre finanze sono in buon ordine? non avete debiti? non avete impegni od obbligazioni di qualsiasi genere? Siete libero infine?

— Libero come gli uccelli dell’aria.

— Orsù, mi impegno io di trovarvi moglie. Vi piacciono le donne brune, bionde? grasse, magre? alte, piccine? vivaci, malinconiche?

— Non sono tanto esigente — d’altronde mi fido a voi.

— Avrei il fatto vostro in una bruna seducentissima; sguardo di fuoco, piede andaluso, nervi d’acciaio — una foresta per capigliatura; due archi per sopraciglie; è vedova...

— Scusate se vi interrompo — è inutile proseguire. [p. 196 modifica]

— Diavolo, perchè?

— Ecco — ho anch’io le mie idee, i miei pregiudizi se volete. Non sposerò mai una vedova. Rammentate, dottore, quelle belle farfalle azzurre sparse di polvere d’oro che scherzano sull’erba del prato? Se voi le toccate la polvere cade — la farfalla resta, ma non è più la stessa — io non raccoglierò quella farfalla.

— Hum! hum! fece il dottore annasando tabacco. Questa teoria delle farfalle e della polvere d’oro mi sconcerta alquanto. Cerchiamo adunque una farfalla colla polvere. — Vi spiacerebbe che fosse bionda?

— Anzi è il mio colore favorito.

— Un biondo ardente che confina col rosso — però non è rosso; occhio nero; taglia da Giunone; mano di Psiche: ventotto anni e quindici mila lire.

— È più di quanto avrei osato sperare. Ma ditemi; questa signorina, ama i versi, la letteratura, i poeti?

— Per chi mi prendete, che io v’abbia a proporre una letterata? la variazione più nojosa del sesso gentile! Aurora — si chiama Aurora — è una deliziosa creatura, bella, spiritosa, sufficientemente colta; è un po’ altera e nutre forse qualche pretesa esagerata... ma voi mi sembrate al caso di poterle soddisfare. Mettetevi per alcuni giorni a un regime nutritivo, fate del moto, prendete delle distrazioni, consultatevi col sarto e col parrucchiere e poi vi presenterò.

— Non volete dunque farmi un salasso, dottore?

— Andate al diavolo col vostro salasso. [p. 197 modifica]

Trascorse una settimana.

— E così? disse una mattina il mio medico appostandomi a metà strada dall’ufficio: Cosa facciamo?

— Quello che volete — purchè qualche cosa si faccia.

— Venite con me questa sera all’opera; si rappresenta la Gazza Ladra, con intermezzi ballabili.

— E...

— Già, s’intende; ella vi sarà. Fatevi bello più che potete.

Fatevi bello! — a un uomo di quarant’anni che ne dimostra quarantacinque e che subisce da dieci anni le torture di un celibato forzoso!

Mi feci la barba, la scriminatura, e il nodo della cravatta; di più non potei fare — a meno di tingermi i capelli che cominciavano a incanutire sulle tempie — ma rigettai subito questa femminea e codarda ispirazione.

Il dottore fu puntuale; entrammo in teatro pochi istanti prima che l’orchestra suonasse la sinfonia e ci eravamo appena collocati in un posto di nostro genio quando da un palco di terza fila balenò davanti a miei sguardi rapiti la divina Aurora.

Ciò che colpiva subitamente in lei era la maestà elegante dei contorni e la fulva capigliatura che le ondeggiava superba sugli omeri come la criniera d’una leonessa. [p. 198 modifica]

Sedette e si appoggiò al parapetto colla noncuranza sdegnosa di una donna che sa di esser bella; poi, allontanando un riccio importuno, girò sulla platea due occhi neri, franchi, sicuri — di quegl’occhi che se non promettono molta gioia all’amore, lusingano però l’amor proprio. Il dottore la salutò; ella gli fece un cenno amichevole colla mano e chinò graziosamente il capo.

Durante il primo atto, Aurora mi tese una rete d’occhiate assassine; nel secondo rinserrò i nodi mostrandomi compiacentemente la curva voluttuosa delle sue spalle; il terzo non toccava la fine che io ero già cascato come un merlo.

— Dottore, io impazzisco per quella donna.

— Cattivo metodo: mens sana in corpore sano.

— Vi pare ch’ella corrisponda?

— Oh che! credete che la fisionomia d’una donna sia semplice come l’abbici?

— Come potrò dunque sapere?

— Pazienza — è la diplomazia dell’amore.

Andai a casa ebbro. Io non bevo e non fumo, ma gli sguardi d’una bella creatura appartenente all’altro sesso mi hanno sempre fatto l’effetto del vino e del tabacco — mi ubbriacano. È per questo che salii le scale cantando a squarciagola:

Bella fanciulla dall’occhio nero
Tu sei la stella del mio pensiero

che all’indomani i vicini mossero lagnanza al padrone di casa sugli urli strani che avevano turbato i loro sonni. [p. 199 modifica]

Aspettavo il dottore con impazienza febbrile.

— Vittoria! disse egli prevenendo le mie domande. Aurora vi ha trovato di suo gusto — le piacete.

— Allora il matrimonio si fa? esclamai arrossendo come un giovinetto di quindici anni sorpreso in flagrante furto amoroso — e ciò prova che l’innocenza è di tutte le età.

— Piano! — se volete andar sano e lontano. Aurora, affermando che le piacete, fece precedere l’osservazione che di sera non ha potuto osservarvi bene — è incerta se abbiate o no qualche capello bianco. In confidenza, ne avete?

— Un centinaio circa; eccoli: guardate.

— Tingeteli, mio caro signor Gregorio — è l’affare d’un minuto e può decidere di tutta la vostra vita.

— Ch’io li tinga? Ma presto o tardi mia moglie lo saprà.

— Che importa? Non sarà più in tempo per retrocedere.

— Quale consiglio, dottore! È un inganno bello e buono.

— Bello e buono come voi dite; quando manca natura, arte procura.

Esitai un momento; ma la sincerità del mio carattere prevalse.

— No, dottore. Io mi presenterò come sono e non mi venderò più di quello che valgo.

— A voi tocca! fece il dottore stringendosi nelle spalle. [p. 200 modifica]

— Ma è una sciocchezza, è un pregiudizio questo dei capelli bianchi! Io proverò ad Aurora...

— Le donne, amico mio, preferiscono essere ingannate che illuminate; ci trovano maggiormente il loro conto. Fidatevi all’esperienza di chi ne sa un tantino più di voi!

— No, no, mille volte no. Grigio sono e grigio voglio restare.

— Sia fatta la vostra volontà; pregate Dio che non trovi un ostacolo in quella di Aurora.

Lettore, sapete voi cosa significhi una prima visita in casa d’una fanciulla della quale si aspira alle nozze?

È il supplizio di Tantalo complicato con quello che Procuste regalava a’ suoi ospiti. In quel giorno voi avete immancabilmente il collo della camicia troppo stretto — vi sentite soffocare. Dite cose che non pensate e pensate cose che non potete dire. La sposa si trova egualmente sulle spine, di modo che non vedete l’ora entrambi di farla finita.

Questa fu per lo meno la mia opinione quando uscii dalla casa di Aurora; e mi confermò in essa il voltarmi e rivoltarmi che feci tutta notte senza poter mai trovar sonno.

Due giorni dopo vidi entrare l’amico medico e gli mossi incontro festoso; ma la sua faccia lunga mi [p. 201 modifica]arrestò nel mezzo, anzi al bel principio di una frase vivace.

— Patatrac! tutto è rotto, fece egli gettando il cappello sul mio letto.

— Che cosa? In nome di Dio, mi spaventate!

— E ce n’è ben donde; il vostro matrimonio non può effettuarsi.

— Santi del cielo! perchè mai?

— Ve lo avevo pur detto, caro signor Gregorio: tingetevi i capelli; ma non avete voluto ascoltarmi!...

— Ah! dottore, non mi farete credere che una simile inezia...

— Padronissimo di conservare le vostre illusioni; ma vi assicuro che madamigella Aurora vi rifiuta positivamente perchè al chiaro sole dell’altro giorno numerò sulla vostra testa quarantadue capelli bianchi. Almeno — ella disse — almeno avesse avuto il buon senso di tingerli!

— Ella chiama ciò avere buon senso? Or bene, la vostra signora Aurora non è che una sciocca e una civetta. Son ben contento di non prenderla in moglie. — Andate a dirglielo.

Ma tra noi, lettori e sotto il segreto della confessione vi assicuro che ne piansi di rabbia per un lungo mese. La mia salute peggiorò: il mio umore si fece tetro, concentrato — diventai pessimista.

A questo modo mi fuggirono i quarantacinque anni [p. 202 modifica]— toccai i cinquanta; lettori, non vi pare che sia tempo di recitare Amen?

Eppure, Dio sa se il mio cranio aveva la protuberanza matrimoniale!... ma in questo come in tutto: molti sono i chiamati e pochi gli eletti.