Orlando innamorato/Libro secondo/Canto settimo

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Libro secondo

Canto settimo

../Canto sesto ../Canto ottavo IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% Poemi epici

Libro secondo - Canto sesto Libro secondo - Canto ottavo

 
1   Non fu, signor, contato più giamai
     Battaglia sì diversa e tanto orribile,
     Perché, come di sopra io vi contai,
     Rodamonte di Sarza, quel terribile,
     Contra de Naimo, che avea gente assai,
     Solo è afrontato, che è cosa incredibile;
     Ma Turpin, che dal ver non se diparte,
     Per fatto certo il scrisse alle sue carte.

2   Né so se ’l fu piacer del celo eterno
     Donar tanta prodezza ad un Pagano,
     O se ’l demonio, uscito dell’inferno,
     Combattesse per lui quel giorno al piano;
     E’ pose nostra gente in tal squaderno,
     Che non fu data, al ricordare umano,
     Cotal sconfitta a nostra gente santa,
     Quale in quel giorno che il mio dir vi canta.

3   Tutte le schiere, come io ve ho contato,
     Giù della costa son callate al basso;
     Da l’altra parte Rodamonte armato
     Ha fesa la battaglia a gran fraccasso.
     La nostra gente come erba di prato
     Taglia a traverso e manda morta al basso;
     Pedoni e cavallier, debili e forti
     L’un sopra a l’altro van spezzati e morti.

4   Sempre ferendo va quello africante
     Dritti e roversi, e cridando minaccia;
     Egli ha i nemici di dietro e davante,
     Ma lui col brando se fa ben far piaccia.
     Ecco gionta alla zuffa Bradamante,
     Quella donzella ch’è di bona raccia;
     Come fùlgor del cielo, o ver saetta,
     Ver Rodamonte la sua lancia assetta.

5   Dal lato manco il gionse nel traverso
     E passò il scudo questa dama ardita,
     E quasi a terra lo mandò riverso,
     Benché non fece a quel colpo ferita;
     Ché ’l saracin, che fu tanto diverso,
     Ed avea forza incredibile e infinita,
     Portava sempre alla battaglia indosso
     Un cor di serpe, mezo palmo grosso.

6   Ma non di manco pur fo per cadere,
     Come io ve dissi, per quella incontrata,
     Quando la dama che ha tanto potere
     Lo ferì al fianco con lancia arrestata;
     Tutta la gente che l’ebbe a vedere,
     Levò gran crido e voce smisurata;
     Né già per questo al pagan se avicina,
     Ma sol cridando aiuta la fantina.

7   Lei già rivolto ha il suo destrier coperto,
     E torna adosso a quel saracin crudo.
     Or fuor de schiera uscì il conte Roberto
     E ferì Rodamonte sopra il scudo,
     Ed Ansuardo de battaglia esperto,
     Egli sprona anco adosso a brando nudo;
     Onde la gente, che ha ripreso core,
     Tutta se mosse insieme a gran furore,

8   - Adosso! adosso! - ciascadun cridando,
     Con sassi e lancie e dardi oltra misura.
     Rideva il saracin questo mirando,
     Come colui che fu senza paura;
     Mena a traverso il furïoso brando,
     E gionse proprio a loco di cintura
     Quello Ansuardo, conte di Lorena,
     E morto a terra il pose con gran pena.

9   Mezo alla terra e mezo nell’arcione
     Rimase il busto di quel paladino:
     Non fu mai vista tal destruzïone.
     A Brandimante mena il saracino;
     Lei non accolse, ma gionse il ronzone,
     Che era coperto de usbergo acciarino;
     Non giova usbergo né piastra né maglia,
     Ché col e spalle a quel colpo li taglia.

10 Onde rimase a terra la donzella,
     Ché ’l suo destriero è in duo pezi partito.
     Adosso a gli altri il saracin martella;
     Roberto, il conte de Asti, ebbe cernito:
     De un colpo il fende insino in su la sella.
     Alor fu ciascaduno sbigotito,
     Mirando il colpo di tanta tempesta:
     Chi può fuggire, in quel campo non resta.

11 Rimase, com’io dico, Brandimante
     Col destrier morto adosso in su l’arena
     Tra quelle genti occise, che eran tante,
     Che più morta che viva era con pena.
     E Rodamonte, busto de gigante,
     Col brando tutto il resto a morte mena;
     Sempre alla folta in mezzo è il gran pagano,
     E manda pezzi da ogni banda al piano.

12 Pezzi de omini armati e de destrieri
     Da ciascun canto in su la terra manda:
     Contarvi e colpi non vi fa mestieri,
     Né quanto sangue per terra si spanda.
     Vanno a fraccasso e nostri cavallieri,
     Ciascun fuggendo a Dio si racomanda;
     Ed a dir presto e ben la cosa intera,
     Tutta a roina è già la prima schiera.

13 E gionto è quel pagano alla seconda,
     E rinovata è qui l’aspra battaglia,
     Ché gente sopra a gente più ve abonda,
     E fatto ha intorno al saracin serraglia;
     Ma lui col brando tutti li profonda,
     E men gli stima che un covon de paglia.
     Il duca Naimo, che ogni cosa vede,
     Per la gran doglia di morir se crede.

14 - Segnor del cel, - dicea - se alcun peccato
     Contra de noi la tua iustizia inchina,
     Non dar l’onore a questo rinegato,
     Che così strazia tua gente meschina! -
     Questo dicendo, un messo ebbe mandato,
     Che racontasse a Carlo la roina
     Che era incontrata, e dimandasse aiuto,
     Benché se tenga ormai morto e perduto,

15 Poi che ’l pagano ha sì franca persona,
     Che non trova riparo a sua possanza.
     Ecco scontrato ha Bovo de Dozona,
     E tutto feso l’ha fin nella panza.
     Sua gente morto in terra lo abandona,
     E ciascadun che avea prima baldanza,
     Veggendo il colpo orrendo oltra al dovere,
     Volta le spalle e fugge a più potere.

16 Ma sempre a loro è in mezo il pagan fiero:
     Tutti li occide senza alcun riguardo.
     Chi fugge a piede, e chi fugge a destriero,
     Ma nanti al saracin ciascuno è tardo,
     Ché Rodamonte è sì presto e legiero,
     Che al corso avea più volte gionto un pardo.
     Non vi giova fuggire e non diffesa:
     Tutti li manda morti alla distesa.

17 Come al decembre il vento che s’invoglia,
     Quando comincia prima la freddura:
     L’arbor se sfronda e non vi riman foglia;
     Così van spessi e morti a la pianura.
     Ecco Americo, il duca di Savoglia,
     Ch’è rivoltato in sua mala ventura,
     E gionse a mezo il petto lo Africano,
     Roppe sua lancia, e fu quel colpo vano;

18 Ché a lui ferì il pagan sopra la testa,
     E tutto il parte insin sotto al gallone.
     Or fugge ciascaduno e non se arresta;
     Mai non se vidde tal confusïone.
     Il duca Naimo una grossa asta arresta,
     E move la sua schiera il bon vecchione,
     E seco ha quattro figli, ogniom più fiero,
     Avino, Avorio, Ottone e Belengiero.

19 Cresce la zuffa e il crido se rinova,
     E levasi il rumore e ’l gran polvino.
     Primeramente Avorio il pagan trova,
     E ben rompe sua lancia il paladino;
     Ma Rodamonte sta fermo alla prova,
     E non se piega il forte saracino;
     E similmente nel colpir de Ottone
     Stette in duo piedi saldo al parangone.

20 L’un dopo l’altro Avino e Belengero
     A lui feriano adosso arditamente,
     E scontrò Naimo ancora, il buon guerriero;
     Ma, come gli altri, pur fece nïente.
     Al quinto colpo quel saracin fiero
     Alciò la faccia a guisa de serpente;
     Crollando il capo disse: - Via, canaglia!
     Ché tutti non valeti un fil di paglia. -

21 Né più parole; ma del brando mena,
     E gionse nella testa al franco Ottone.
     Come a Dio piacque e sua Matre serena,
     Voltosse il brando e colse de piattone,
     E fo quel colpo di cotanta pena,
     Che tramortito lo trasse d’arzone;
     Né sopra a questo il saracin se arresta,
     Ma dà tra gli altri e mena gran tempesta.

22 E misse a terra duo de quei gagliardi,
     Avorio e Belengier, feriti a morte;
     E gli altri tutti, e nobili e codardi,
     Seriano occisi da quel pagan forte,
     Se Desiderio e’ suoi franchi Lombardi
     Non avesser turbata quella sorte,
     Perché a quel tempo con sua gente scorta
     La ria canaglia avea sconfitta e morta;

23 E gionto era alle spalle al saracino,
     Che roïnando gli altri avanti caccia
     E già per terra avea disteso Avino,
     Ferito crudelmente nella faccia.
     Come un gran vento nel litto marino
     Leva l’arena e il campo avanti spaccia,
     Così quel crudo con la spada in mano
     Tutta la gente manda morta al piano.

24 Per l’aria van balzando maglie e scudi,
     Ed elmi pien di teste, e braccie armate,
     Ma benché taglia come corpi nudi
     Sbergi e lameri e le piastre ferrate,
     Pur rivoltava spesso gli occhi crudi
     Alle sue gente rotte e dissipate,
     E tutta via mirando alla sua schiera,
     Facea battaglia avanti orrenda e fiera.

25 Quale il forte leone alla foresta,
     Che sente alle sue spalle il cacciatore,
     Squassando e crini e torzendo la testa
     Mostra le zanne e rugge con terrore;
     Tal Rodamonte, odendo la tempesta
     Che faceano e Lombardi, e ’l gran furore
     Della sua gente rotta e posta in caccia,
     Rivolta a dietro la superba faccia.

26 Sua gente fugge, e chi più può sperona:
     Beato se tenìa chi era il primiero.
     Re Desiderio mai non li abandona,
     Anci li caccia per stretto sentiero.
     A lui davanti è il conte di Cremona,
     Qual fu suo figlio e fu bon cavalliero,
     Dico Arcimbaldo, e seco a mano a mano
     Vien Rigonzone, il forte parmesano.

27 Era costui feroce oltra a misura,
     Ma legier di cervel come una paglia;
     O ver guarnito, o senza l’armatura,
     Battendo gli occhi intrava alla battaglia;
     Né della vita né de onor si cura,
     Ché sua ballestra non avea serraglia,
     Dico, perché scoccava al primo tratto:
     A dire in summa, el fu gagliardo e matto.

28 Or questi duo la gente saracina,
     Dico Arcimbaldo insieme e Rigonzone,
     Cacciano in rotta con molta roina.
     Del re di Sarza in terra è ’l confalone,
     Ch’era vermiglio, e dentro una regina,
     Quale avea posto il freno ad un leone:
     Questa era Doralice de Granata,
     Da Rodamonte più che il core amata.

29 Però ritratta nella sua bandiera
     La portava quel re cotanto atroce,
     Sì naturale e proprio come ella era,
     Che altro non li manca che la voce.
     E lei mirando, alla battaglia fiera
     Più ritornava ardito e più feroce,
     Ché per tal guardo sua virtù fioriva,
     Come l’avesse avante a gli occhi viva.

30 Quando la vidde alla terra caduta,
     Mai fu nella sua vita più dolente;
     La fiera faccia di color si muta,
     Or bianca ne vien tutta, or foco ardente.
     Se Dio per sua pietate non ce aiuta,
     Perduto è Desiderio e la sua gente,
     Perché il pagano ha furia sì diversa,
     Che nostra gente fia sconfitta e persa.

31 Questa battaglia tanto sterminata
     Tutta per ponto vi verrò contando,
     Ma più non ne vo’ dire in questa fiata,
     Perché tornar conviene al conte Orlando,
     Quale era gionto al fiume della fata,
     Sì come io vi lasciai alora quando
     Con Falerina se pose a camino,
     Poi che disfatto fu quel bel giardino:

32 Quel bel giardino ove era guardïano
     Il drago, il toro e l’asinello armato,
     E quel gigante, che era ucciso in vano
     Come di sopra vi fu racontato.
     Tutto il disfece il senator romano,
     Benché per arte fosse fabricato,
     Ed alla dama poi dette perdono,
     Per trar dal ponte quei che presi sono:

33 Quei cavallier, che presi erano al ponte
     Dal vecchio ingannator, come io contai.
     Quivi n’andava drittamente il conte,
     Per trar cotanta gente di tal guai,
     Via caminando per piani e per monte;
     Con seco è Falerina sempre mai,
     A piede, come lui, né più né meno,
     Ché non avean destrier né palafreno.

34 Perduto aveva il conte Brigliadoro,
     Come sapiti, e insieme Durindana;
     Or, così andando a piè ciascun de loro,
     Gionsero un giorno sopra alla fiumana,
     Ove la falsa Fata del Tesoro
     Avea ordinata quella cosa strana,
     Più strana e più crudel che avesse il mondo,
     Perché il fior de’ baroni andasse al fondo.

35 Fu profondato quivi il fio de Amone,
     Come di sopra odesti raccontare,
     E seco Iroldo e l’altro compagnone,
     Che ancor mi fa pietate a ricordare;
     Né dopo molto vi gionse Dudone,
     Il qual venìa questi altri a ricercare,
     Ché comandato li avea Carlo Mano
     Che trovi Orlando e il sir de Montealbano.

36 Caminando il baron senza paura,
     Cercato ha quasi il mondo tutto quanto;
     E, come volse la mala ventura,
     Gionse a quel lago fatto per incanto,
     Ove Aridano, orrenda creatura,
     Cotanta gente avea condutta in pianto,
     Perché ogni cavalliero e damigella
     Getta nel lago la persona fella.

37 Così fu preso e nel lago gettato
     Dudone il franco, e non vi ebbe diffesa,
     Perché Aridano in tal modo è fatato,
     Che ciascadun che avea seco contesa,
     Sei volte era di forza superchiato,
     Onde veniva ogni persona presa;
     Perché, se alcun baron ha ben possanza,
     E lui sei tanta di poter lo avanza.

38 Tanta fortezza avea quel disperato
     Che, come spesso se potea vedere,
     Natava per quel lago tutto armato,
     E tornava dal fondo a suo piacere;
     E quando alcuno avesse profondato,
     Giù se callava senz’altro temere,
     E poi, notando per quella acqua scura,
     Di lor portava a soma l’armatura.

39 E tanto era superbo ed arrogante,
     Che delle gente occise e da lui prese
     L’arme che avea spogliate tutte quante
     A sé d’intorno le tenea suspese;
     Ma a tutte l’altre se vedea davante,
     Sopra a un cipresso bene alto e palese,
     La sopravesta e l’arme de Ranaldo,
     Che avea spogliato il saracin ribaldo.

40 Or, come io dissi, in su questa riviera
     Ne gionge il conte caminando a piede,
     E Falerina sempre a canto gli era;
     Ma quando quella dama il ponte vede,
     Tutta se turba e cangia ne la ciera,
     Biastemando Macone e chi li crede;
     Poi dice: - Cavallier, con duol amaro
     Tutti siam morti, e più non c’è riparo.

41 Questo voluto ha il perfido Apollino
     (Così poss’el cader dal celo al basso!)
     Che ce ha guidato per questo camino,
     Per roïnarce a quel dolente passo.
     Or, perché intendi, quivi è un malandrino
     Che già robbava ogniomo a gran fraccasso,
     Crudele, omicidiale ed inumano,
     E fu il suo nome, ed è ancora, Aridano.

42 Ma non avea possanza e non ardire,
     Ché è de rio sangue e de gesta villana;
     Or tanto è forte, e il perché ti vo’ dire,
     Ché cosa non fu mai cotanto strana.
     Dentro a quel lago che vedi apparire,
     Stavi una fata, che ha nome Morgana,
     Qual per mala arte fabricò già un corno,
     Che avria disfatto il mondo tutto intorno.

43 Perché qualunche il bel corno suonava,
     Era condutto alla morte palese.
     Sì lunga istoria dirti ora mi grava,
     Come le gente fusser morte, o prese.
     In poco tempo un barone arivava
     (Il nome suo non so, né il suo paese):
     Lui vinse e tori, il drago e la gran guerra
     Di quella gente uscita della terra.

44 Quel cavallier, persona valorosa,
     Così disfece il tenebroso incanto,
     Onde la fata vien sì desdignosa
     Che mai potesse alcun darsi tal vanto;
     E fie’ questa opra sì meravigliosa,
     Che, ricercando il mondo tutto quanto,
     Non serà cavallier di tanto ardire,
     Qual non convenga a quel ponte perire.

45 Ella si pensa che quel campïone
     Che suonò il corno, quindi abbia a passare,
     O ver che per ardir, come è ragione,
     Venga questa aventura a ritrovare;
     Così l’averà morto, o ver pregione,
     Ché omo del mondo non potria durare.
     Per far perir quel cavallier Morgana
     Fatto ha quel lago, il ponte e la fiumana.

46 E ricercando tutte le contrate
     De uno om crudel, malvaggio e traditore,
     Trovò Arridano senza pïetate
     Che già la terra non avea peggiore,
     E ben guarnito l’ha de arme affatate
     E d’una maraviglia ancor maggiore,
     Che qualunche baron seco s’affronta,
     Sei tanta forza a lui vien sempre agionta.

47 Onde io mi stimo il vero, anci son certa
     Che a tale impresa non potria durare;
     Ed io con teco, misera, diserta
     Dentro a quella acqua me vedo affogare,
     Ché noi siam gionti troppo a la scoperta,
     E non c’è tempo o modo di campare.
     Non è rimedio ormai: noi siam perduti,
     Come Aridano il fier ce abbia veduti. -

48 Il conte, sorridendo a tal parole,
     Disse alla dama ragionando basso:
     - Tutta la gente dove scalda il sole,
     Non mi faria tornare adietro un passo.
     Sasselo Idio di te quanto mi dole,
     Poi che soletta in tal loco te lasso;
     Ma sta pur salda e non aver temanza:
     Il ferro è il mezo a l’om che ha gran possanza. -

49 La dama ancor piangendo pur dicia:
     - Fuggi per Dio, baron, campa la morte!
     Ché il conte Orlando qua non valeria,
     Né Carlo Mano e tutta la sua corte.
     Lasciar m’incresce assai la vita mia,
     Ma de la morte tua mi dôl più forte,
     Ché io son da poco e son femmina vile,
     Tu prodo, ardito e cavallier gentile. -

50 Il franco conte a quel dolce parlare
     A poco a poco si venìa piegando,
     E destinava dietro ritornare.
     Oltra quel ponte d’intorno guardando
     L’arme cognobbe che suolea portare
     Il suo cugin Ranaldo, e lacrimando:
     - Chi mi ha fatto - dicea - cotanto torto?
     O fior d’ogni baron, chi te me ha morto?

51 A tradimento qua sei stato occiso
     Dal falso malandrin sopra quel ponte,
     Ché tutto il mondo non te avria conquiso,
     Se teco avesse combattuto a fronte.
     Ascoltami, baron; dal paradiso,
     Ove or tu dimori, odi il tuo conte,
     Qual tanto amavi già, benché uno errore
     Commesse a torto per soperchio amore.

52 Io te chiedo mercè, damme perdono,
     Se io te offesi mai, dolce germano,
     Ch’io fui pur sempre tuo, come ora sono,
     Benché falso suspetto ed amor vano
     A battaglia ce trasse in abandono,
     E l’arme zelosia ce pose in mano.
     Ma sempre io te amai ed ancor amo;
     Torto ebbi io teco, ed or tutto me ’l chiamo.

53 Che fu quel traditor, lupo rapace,
     Qual ce ha vetato insieme a ritornare
     Alla dolce concordia e dolce pace,
     A i dolci baci, al dolce lacrimare?
     Questo è l’aspro dolor che mi disface,
     Ch’io non posso con teco ragionare
     E chiederti perdon prima ch’io mora;
     Questo è l’affanno e doglia che me accora. -

54 Così dicendo Orlando con gran pianto
     Tra’ for la spada, e il forte scudo imbraccia:
     La spada a cui non vale arme né incanto,
     Ma sempre dove gionge il camin spaccia.
     Il fatto già vi contai tutto quanto,
     Sì che non credo che mistier vi faccia
     Tornarvi a mente con quale arte e quando
     Da Falerina fusse fatto il brando.

55 Il conte, de ira e de doglia avampato,
     Salta nel ponte con quel brando in mano;
     Spezza il serraglio e via passa nel prato,
     Ove iaceva il perfido Aridano.
     Sotto al cipresso stava il renegato,
     Quelle arme del segnor de Montealbano,
     Che erano al tronco de intorno, mirando,
     Quando li gionse sopra ’l conte Orlando.

56 Smarrisse alquanto il malandrino in viso,
     Quando a sé vide sopra quel barone,
     Però che adosso gli gionse improviso;
     Pur saltò in piede e prese il suo bastone,
     E poi dicea: - Se tutto il paradiso
     Te volesse aiutare e idio Macone,
     E’ non avrian possanza e non ardire,
     Ché in ogni modo ti convien morire. -

57 Al fin delle parole un colpo lassa
     Con quel baston di ferro il can fellone;
     Gionse nel scudo e tutto lo fraccassa,
     E cadde Orlando in terra ingenocchione.
     A braccia aperte il saracin se abassa,
     Credendolo portar sotto al gallone,
     Come portar quelli altri era sempre uso
     E poi nel lago profondarli giuso.

58 Ma il conte così presto non si rese,
     Benché cadesse, e non fu spaventato;
     Per il traverso un gran colpo distese,
     E gionse a mezo del scudo afatato.
     A terra ne menò quanto ne prese,
     E cadde il brando nel gallone armato,
     Rompendo piastre e il sbergo tutto quanto,
     Ché a quella spada non vi vale incanto.

59 E se non era il saracin chinato,
     Ché ben non gionse quella spata a pieno,
     Tutto l’avrebbe per mezo tagliato,
     Come un pezzo di latte, più né meno;
     Pur fu Aridano alquanto vulnerato,
     Onde li crebbe al cor alto veleno,
     E mena del bastone in molta fretta;
     Ma il conte l’ha assaggiato, e non l’aspetta.

60 Gettosse Orlando in salto de traverso
     E menò il brando per le gambe al basso,
     Ed a quel tempo il saracin perverso
     Callava il suo bastone a gran fraccasso.
     Tirando l’uno e l’altro di roverso
     Ben se gionsero insieme al contrapasso,
     Ma il brando, che non cura fatasone,
     Duo palmi e più tagliò di quel bastone.

61 Mosse Aridano un crido bestïale,
     E salta adosso al conte, d’ira acceso.
     Nulla diffesa al franco Orlando vale,
     Con tanta furia l’ha quel pagan preso,
     E vien correndo, come avesse l’ale.
     Alla riviera nel portò di peso,
     E così seco, come era abracciato,
     Giù nel gran lago se profonda armato.

62 Da l’alta ripa con molta roina
     Caderno insieme per quella acqua scura.
     Quivi più non aspetta Falerina,
     Ma via fuggendo su per la pianura
     Giva tremando come una tapina,
     Guardando spesso adietro con paura,
     E ciò che sente e vede di lontano,
     Sempre alle spalle aver crede Aridano.

63 Ma lui bon tempo stette a ritornare,
     Ché gionse con Orlando insino al fondo.
     Più nel presente non voglio cantare,
     Ché al tanto dir parole me confondo:
     Piacciavi a l’altro canto ritornare,
     Che la più strana cosa che abbia il mondo
     E la più dilettosa e più verace
     Vi contarò, se Dio ce dona pace.