Prose (Foscolo)/I - Scritti vari dal 1796 al 1798/V. Giudizio del poema Bonaparte in Italia

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V. Giudizio del poema Bonaparte in Italia

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V. Giudizio del poema Bonaparte in Italia
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V


Giudizio del poema «Bonaparte in Italia»,
opera di Francesco Gianni

[marzo 1798]

[Dai numeri 28, 30 e 32 (15, 19 e 23 marzo 1798) del Monitore italiano. Di questo scritto, ad onta della promessacontinuazione, non si trova piú nei rimanenti numeri alcun séguito. In una nota inserita nel n.° 36 (31 marzo) si legge: «Il compilatore Cisalpino dubita che il giudizio sul poema del Gianni, e principalmente l’estratto dell’Introduzione del cittadino Valeriani, sia stato inserito dal Valeriani stesso. Questo dubbio svanisce, ove si consideri che a quel tempo il Valeriani non era per anco ritornato in Milano: d’altronde il cittadino Foscolo, che si sottoscrisse appiè degli articoli, non si sarebbe appropriato uno scritto non suo». — Per la collaborazione del F. al Monitore si tenga anche presente il seguente Avviso, inserito in fine del n.° 26 (21 ventoso, 11 marzo 1798): «Il cittadino Andrea Mainardi, stampatore del Monitore italiano, previene li associati al medesimo essergli stata ceduta la proprietá del suddetto foglio dalla societá istitutrice. I cittadini Pietro Custodi, Melchiorre Gioia e Niccolò Ugo Foscolo, noto nella repubblica delle lettere per varie applaudite composizioni in verso e in prosa, ed in particolare per la celebre tragedia Tieste, saranno in avvenire i soli estensori di questo foglio».]

I

La rivoluzione italiana non accrebbe lustro alle lettere. I dotti, se amici della libertá, attesero alla politica pratica; se nemici, si ascosero. Né la guerra protegge gli ozi sacri della filosofia, né il soqquadro de’ governi, che agita le passioni e accende i partiti, seconda il genio delle muse. Opera d’ingegno sommo e di sommo studio sono i grandi e perfetti lavori: né gli ingegni nascono di repente, né lo studio alligna ove l’entusiasmo di libertá, [p. 26 modifica] la libidine del potere e la fame dell’oro signoreggiano gli uomini che dalle rivoluzioni sperano dominio, indipendenza e ricchezze. Aggiungi la preponderanza straniera, che, inceppando il genio intraprendente di quelli che incominciarono a reggere la libera Italia, scemò agl’italiani la speranza di primeggiare nella scienza del governo, poiché rapí lor le scienze, di cui fu prima ristauratrice l’Italia, ed oscurò lo splendore dell’arti belle, di cui l’Italia fu dopo la Grecia la sola creatrice.

Ecco frattanto nel bollore delle rivoluzioni un’opera, che, quantunque manchi delle regole, che l’autoritá de’ critici, il genio dei primi epici e il pregiudizio dei secoli fissarono all’epopeia, ella è però tale da presentare un poema originale anche nel secolo decimottavo, in cui, come vedemmo crescere l’umano ingegno, così, pel sistema delle cose, sembra che deggia tutto ad un tratto decrescere. Svolgerem noi di questo poema e le bellezze e i difetti. Prima però di parlarne, s’arresteremo sull’introduzion che Ludovico Valeriani premesse all’opera, non solo perché da questa si tragge la storia filosofica delle lettere, ma anche perché si ricavano le piú veraci notizie del poeta.

«Se Parti e le scienze — dice il Valeriani — mai non poterono crescere che nello scoppio o nell’ira del dispotismo, come dunque avrebbero potuto prosperare in maniera utile agli uomini? Infatti, se ci arrestiamo ad esplorarne i progressi, noi le vedremo, in luogo di cospirare alla pubblica felicitá, contemperarsi al carattere di governi o tempestosi o tirannici. Osserverem la meccanica, quell’arte insigne di moltiplicar le forze col moto e l’opera con l’industria, nascere in un popolo laborioso e pacifico, ma condannata ad erigere moli enormi all’immondo ossame dei re e eternare gli arcani di una lordissima superstizione. L’astronomia, fatta per animare e soccorrere gli utili affanni dell’agricoltura, rivolta in arte vanissima di prestigi, divinazioni ed oracoli. La navigazione ed il commercio, che sol dovevano agevolare e distendere le comoditá della vita ed il consorzio degli uomini, indurre un traffico infame di errori e vizi, propagar con maggior celeritá le ingiustizie e i flagelli delle nazioni. La matematica prestare i numeri, le cifre, i calcoli, piú che al benefico genio [p. 27 modifica] di societá, all’arte desolatrice delle province e degli uomini. La politica, quella scienza indirizzata a correggere le passioni con le passioni medesime per tenere i governi e i popoli nella verace destinazione della natura, sempre operosa a consolidare quei forsennati principi, che il dovere è chimera innanzi alla forza, e la giustizia delirio rimpetto all’utilitá. La morale, nata con l’uomo per bilanciarne i diritti e le obbligazioni, o contraffatta in sistema di sordida voluttá, o in apparenza composta di virtú stolida, o dissipata in eterne dubitazioni, ora garrire su voci sterili, or vaneggiar dietro insensate fantasime. La storia, fatta per sostener la politica ed illustrar la morale, non occupata che ad esaltare ora i furori dei popoli, ora i delitti dei re, sempre il cordoglio e la desolazione delle nazioni. Le arti belle prostituite anch’esse in oggetti sol atti a pascere e lusingare la credulitá, la ferocia, la intemperanza dei popoli: talché la poesia stessa, quell’arte sacra d’insinuare l’ardore della virtú con la dolcezza del canto; la poesia, che nacque probabilmente quando il primo uomo, visto spiegarsi dinanzi agli occhi il maestoso spettacolo dell’universo, sentiì rapirsi da forza intrinseca a festeggiare gli elementi che sorridevano al primo alito, all’alito vergine della natura; fu la poesia che piú d’ogni altra infiammò le ire del conquistatore, promosse gl’impeti del tiranno, divinizzò le stoltezze e le passioni degli uomini. Se in questo immenso disordine alcuna voce si alzò degna della natura dell’uomo, fu sibilo d’aura leggera nel fragore della tempesta: i costumi imperiosi la contraddissero, e andò punito soventemente di aver osato resistere alla comune depravazione.

Perché potessero le belle e le utili istituzioni condursi a tale da prosperare la condizione degli uomini, non ci restava a desiderare se non che un’aura cortese di libertá le animasse, rinvigorendole di quello spirito di ragionevole indipendenza che nasce solo e fortifica nell’eguaglianza. Se il sacro genio di libertá può solo scuotere e fecondare le scienze e le arti, le arti e le scienze soltanto possono infervorare il genio sacro di libertá.

Sin qui il Valeriani. Passa quinci ad enumerare i poeti che colla lirica, colla melica e colla drammatica poesia ridestarono [p. 28 modifica] in Italia l’antico entusiasmo di indipendenza. Né taceremo che tale asserzione sente di vanitá nazionale, giacché, tranne Alfieri nome divino, rimpetto a cui piú non ostenta il suo Cornelio la Francia, né l’Anglia l’originale suo Shakespeare; tranne Alfieri, chi osò fulminare i monarchi colla veritá? chi si pose al loro livello, perseguitandoli colla penna, mentre essi perseguitarono gli uomini liberi colla forza? Né un Tirteo, né un Aristofane noi abbiamo; anzi, contaminate le scene, prostituite le muse, spettacolo di rossore offrirono i nostri poeti: sublimi, se impresero a magnificare i tiranni, a coronare il delitto; bassi, se tentano di ritessere inni alla libertá, di proteggere le virtú. E i piú dei poeti di questo secolo tacquero, attirandosi forse piú laude che taccia. Dopo secoli di sciagure ponno soltanto avvedersi gli uomini della veritá; e ben forse gl’italiani, che ai tempi di Roma semplice e rozza liberissimi e formidabili furono, a’ tempi di Roma culta e studiosa schiavi e corrotti si videro; gl’italiani forse s’avvedono che, se un popolo illuminato svela le arti tiranniche, un popolo guerriero soltanto può abbatterle, e mal si confanno i molti studi e le lettere alla repubblicana austeritá ed alle militari fatiche. Ma, passando al soggetto, pare all’autore dell’introduzione che, acciò nessun’arte manchi al presidio della repubblica, riman solo a desiderarsi che sorga un massimo ingegno ravvivatore dell’epopeia, il quale, purgandola dalle fatuitá mitologiche, dalle arroganze servili, dalle superstiziose ferocitá, l’animi e inciti ad esprimere i sensi arcani di libertá con quelle tinte gagliarde e cupe con cui l’Alighieri percosse la frode guelfa e la papale avarizia. Ma quale mai non deve essere la sublimitá e l’energia necessaria a tanta intrapresa? Egli è mestieri di un uomo, cui la natura avesse infuso nell’anima il senso sacro di libertá nell’abiezione della fortuna, perché potesse nell’urto serbarlo vivido ed attuoso contro ogni vana lusinga; che, nato nella tirannide, tutto ne avesse potuto sentire il peso nello splendore dell’innocenza per tratteggiarne le marche livide con veritá di espressione e con forza di sentimenti; cui fosse stata nei giorni di schiavitú costantemente ignota la colpa, ma, piú della colpa, ignota l’adulazione, affinché [p. 29 modifica] poi, «ragionando di libertá, le sue voci non si credessero grida frenetiche di un cuore vile nella miseria, e avanzo impuro di un’anima condannata a lusingare i grandi ed i delitti»; un uomo che la sostanza ed il carattere delle immagini estrar sapesse dalla natura, non dalle copie degli uomini, ed il colore, l’attitudine, l’espressione dalla feconditá del suo genio, non dalla stupida imitazione dei non intesi esemplari; che, non corrotto dall’influenza di estranee lingue, tutto si abbandonasse alla forza, alla copia, alla varietá di quel felice idioma che, invece di mai soccombere all’energia dei concetti, li avviva, illustra, corrobora e docil piegasi a tutti i movimenti dell’anima; un uomo che non dai retori, ma dalla arcana contemplazione del bello avesse appreso a distinguere l’unitá vaga dalla monotona uniformitá, l’armonica varietá dall’incomposto disordine; che, forte in esprimere le passioni, fosse anche forte nel lumeggiare la veritá; che, emulando i grandi maestri, non adorandoli, spingesse ancora l’epopeia per le vie della libertá a incoraggire e promuovere l’indipendenza degli uomini.

Certo che a tanta impresa voleasi un tant’uomo; e, poiché ci piacque di occupare il primo articolo delle nostre osservazioni soffermandoci sull’introduzione del poema e sul carattere del poeta, in altri due articoli susseguenti a questo, parleremo nell’uno dell’invenzione, nell’altro dello stile dell’opera.

II

E dell’autore e dei tempi di questo poema dicemmo nell’articolo precedente, inserito nei numeri 28 e 30 del Monitore. Dell’architettura, dell’invenzione e dello stile dell’opera diremo adesso.

Ma non piú che alcun cenno si potrá da noi riportare intorno all’architettura, perché cinque canti soltanto ne son pubblicati, né molto piú innanzi nel suo lavoro è giunto l’autore; lavoro che, per essere interamente compito, dovrebbe ascendere non meno che a cento canti. E poiché è impossibile il ragionare su tutto il piano, esporremo, per darne una qualche idea, la tessitura delle prime parti. [p. 30 modifica]

Canto primo. Appena la Libertá s’erge sulle vette delle Alpi minacciando i tiranni, l’ombra di Tullio, sorta dalla sua tomba, muove incontro alla dea. Piange sulle sciagure e sul vitupèro di Roma pontificia, e s’avvia negli Elisi rassicurato da Libertá che per opera di Bonaparte sará alla sua patria restituito l’antico valore e l’antica gloria.

Canto secondo. Le Belle arti, cacciate da Roma, s’incontrano nell’ombra di Tullio che scende agli Elisi. Egli, vaticinando l’imminente sterminio della tirannide sacerdotale, le racconsola e le rianima a tesser inni e ad innalzar simulacri alla Libertá. Giunta frattanto l’ombra agli Elisi, gli eroi romani le si affollano intorno. Ella gli invita ad accorrere ai sette colli, ove l’ombra di Basville si aggira ferocemente.

Canto terzo. Gli eroi romani si adunano intorno allo spettro di Basville. Egli tesse la storia della sua morte. Calano le ombre di Omolate e Filace, e giurano vendetta al tradito francese. Egli entra furibondo nel dirupato tempio di Giano, minacciando da un adito cupo il sacerdote di Roma.

Canto quarto. Omolate presenta in sogno a Roma uno specchio sulla vòlta dei cieli, ove si riflettono le gesta degli eroi. La Gloria, attenta sullo specchio, segna i nomi illustri e le grandi azioni con uno stile adamantino sovra tavolette di piropo, e le consegna all’Eternitá. Ivi appaiono le fatiche e le vittorie dei francesi, che, superando il gelo delle Alpi, abbattono le falangi austro-sarde. Quindi si scorge Oneglia in fiamme, e le legioni repubblicane che vincono i confini nizzardi. Si mostra di lí a poco nello specchio il genio del filosofo Beccaria. Allora la visione si disegna in un vortice di luce.

Canto quinto. Risorge in Roma l’antica virtú per le visioni dello specchio celeste. Filace le espone l’origine di Libertá, universale governatrice degli elementi e de’ mondi. La terra soltanto, ammorbata dalla regia peste, s’ascose vergognosa e piangente alla dea dell’universo. Sparta, Atene, Roma, appena libere, si videro serve, poiché l’oro e i vizi cangiarono gli eroi in ischiavi. Regnarono sulla patria di Bruto i Tiberi, i Costantini, i barbari ed i pontefici. Filace pinge di questi ultimi le frodi, le [p. 31 modifica] usurpazioni e i delitti. Roma si ridesta e s’arma per avventarsi furibonda contro il suo despota. I sacerdoti le porgono il calice dell’impostura: ella sel beve, e ricade nel suo letargo.

Ognun vede che questi primi canti non offrono la maestá propria dell’epopeia, né la corrispondenza che forma quella parte di bello consistente nell’unitá. Tuttoché vi si scorga somma e robusta immaginazione, pare che il poeta non siasi lanciato nel centro e, per cosí dire, nella sostanza del soggetto, soffermandosi sulle parti accessorie, che sempre raffreddano o per lo meno rendono impaziente il lettore per la conoscenza del principio, del progresso e del termine dell’argomento. Sennonché il nostro giudizio cadrebbe, ove l’autore eseguisse in altri novantacinque canti ciò che noi, forse indiscretamente, vorremmo esigere dai primi cinque...