Satire (Ariosto 1809)/Satira V

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Satira V

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Satira IV Satira VI
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A

M. ANNIBALE

MALAGUZZO


SATIRA QUINTA

Dimostra esser buona cosa il maritarsi; indi piacevolmente ci fa vedere, quanto malagevol fia poter conservare la moglie pudica.

Da tutti gli altri amici, Annibal, odo,
     Fuor che da te, che sei per pigliar moglie;
     Mi duol, che ’l celi a me, che ’l facci lodo:
Forse me ’l celi, perchè a le tue voglie
     Pensi, che oppormi debbia, come io danni,
     Non l’avendo tolta io, s’altri la toglie.
Se pensi di me questo, tu t’inganni;
     Benchè senza io ne sia, non però accuso
     Se Pietro l’ha, Martin, Polo, e Giovanni.
Mi duol di non l’aver, e me ne scuso
     Sopra varj accidenti, che l’effetto
     Sempre dal buon voler tennero escluso.

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Ma fui di parer sempre, e così detto
     L’ho più volte, che senza moglie a lato
     Non puote uomo in bontade esser perfetto.
Nè senza si può star senza peccato;
     Che chi non ha del suo, fuori accattarne
     Mendicando, o rubandolo è sforzato.
E chi s’usa a beccar de l’altrui carne,
     Diventa ghiotto, ed oggi tordo o quaglia,
     Diman fagiani, un altro dì vuol starne:
Non sa quel che sia amor, non sa che vaglia
     La caritade; e quindi avvien che i preti
     Sono sì ingorda e sì crudel canaglia.
Che lupi sieno, e ch’asini indiscreti,
     Me ’l dovreste saper dir voi da Reggio,
     Se già il timor non vi tenesse cheti.
Ma senza che ’l diciate, io me n’avveggio:
     De l’ostinata Modena non parlo,
     Che tutto, che stia mal, merta star peggio.
Pigliala, se la vuoi; fa, se dei farlo,
     E non voler, come il Dottor Bonleo,
     A l’estrema vecchiezza prolungarlo.
Quella età più al servizio di Lieo
     Che di Vener conviensi: si dipinge
     Giovane e fresco, e non vecchio Imeneo.
Il vecchio, allora che ’l desio lo spinge,
     Di sè presume, e spera far gran cose;
     Si sganna poi, che al paragon si stringe.

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Non voglion rimaner però le spose
     Nel danno; sempre ci è mano adiutrice,
     Che sovviene a le pover bisognose:
E, se non fusse ancor, pur ognun dice,
     Ch’egli è così: non pon fuggir la fama,
     Più che del ver, del falso relatrice;
La qual patisce mal chi l’onor ama:
     Ma questa passíon debole e nulla
     Verso un’altra maggior ser Jorio chiama.
Peggio è, dice, vedersi un ne la culla,
     E per casa giuocando ir duo bambini,
     E poco prima nata una fanciulla;
Ed esser di sua età giunto a’ confini,
     E non aver, chi dopo sè lor mostri
     La via del bene, e non le fraudi e uncini.
Pigliala, e non far come alcuni nostri
     Gentiluomini fanno, e molti fero,
     Ch’or giaccion per le chiese e per li chiostri.
Di mai non la pigliar fu il lor pensiero,
     Per non aver figliuoli, che far pezzi
     Debbian di quel che a pena basta intero.
Quel che acerbi non fer, maturi e mezzi
     Fan poi con biasmo: trovan ne le ville
     E spesso in le cucine a chi far vezzi.
Nascono figli, e crescon le faville,
     Ed al fin pusillanimi e bugiardi
     S’inducono a sposar villane e ancille,

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Perchè i figli non restino bastardi:
     Quindi è falsificato di Ferrara
     In gran parte il buon sangue, se ben guardi.
Quindi la gioventù vedi sì rara,
     Che le virtudi, e gli bei studi, e molta,
     Che degli avi materni i stili impara.
Cugin, fai ben a tor moglier, ma ascolta:
     Pensaci prima, non varrà poi dire
     Di no, se avrai di sì detto una volta.
In questo il mio consiglio proferire
     Ti vo’, e mostrar, sebben non lo richiedi,
     Quel che tu dei cercar, quel che fuggire.
Tu ti ridi di me, forse, e non vedi
     Com’io ti possa consigliar; ch’avuto
     Non ho in tal nodo mai collo, nè piedi.
Non hai, quando due giuocano, veduto
     Che quel, che sta a veder, ha meglio spesso
     Ciò che s’ha a far, che ’l giuocator, saputo?
Se tu vedi, che tocchi o vada appresso
     Al segno il mio parer, dagli il consenso;
     Se no, reputal sciocco, e me con esso.
Ma prima ch’io ti mostri altro compenso,
     Ti avrei da dir, che s’amorosa face
     Ti fa pigliar moglier, che segui il senso:
Ogni virtude è in lei, s’ella ti piace:
     So ben, che nè orator Latin, nè Greco
     Saria a dissuadertelo efficace.

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Io non son per mostrar la strada a un cieco:
     Ma se tu il bianco, e ’l rosso, e ’l ner comprendi,
     Esamina il consiglio ch’io ti arreco.
Tu, che vuoi donna, con gran studio intendi
     Qual sia stata, e qual sia la madre, e quali
     Sien le sorelle, se all’onore attendi.
Se in cavalli, se ’n buoi, se ’n bestie tali
     Guardiam le razze; che faremo in questi,
     Che son fallaci più ch’altri animali?
Di vacca nascer cerva non vedesti,
     Nè mai colomba d’aquila, nè figlia
     Di madre infame, di costumi onesti.
Oltra che il ramo al ceppo s’assomiglia;
     Il domestico esempio, che le aggira
     Pel capo sempre, ogni bontà scompiglia.
Se la madre ha due amanti, ella ne mira
     A quattro, a cinque, e spesso a più di sei,
     Ed a quanti più può la rete tira;
E questo per mostrar, che men di lei
     Non è leggiadra, e non le fur del dono
     Della beltà men liberali i Dei.
Saper la balia e le compagne è buono:
     S’appresso il padre sia nodrita, o in corte,
     Al fuso, a l’ago, oppur in canto e in suono.
Non cercar chi più dote, o più ti porte
     Titoli e fumi, e più nobil parenti,
     Ch’al tuo aver si convenga o alla tua sorte.

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Che difficil sarà, se non ha venti
     Donne poi dietro, e staffieri, e un ragazzo
     Che le sciorini il cul, tu la contenti.
Vorrà la nana, un buffoncello, un pazzo,
     E compagni da tavola e da giuoco,
     Che tutto il dì la tengano in sollazzo.
Nè tor di casa il piè, nè mutar loco
     Vorrà senza carretta; bench’io stimi
     Fra tante spese questa spesa poco.
Che se tu non la fai, che sei de’ primi
     E di sangue e d’aver ne la tua terra;
     Non la faran già quei, che son degl’imi:
E se mattina e sera ondeggiando erra
     Con cavalli a vettura la Giannicca;
     Che farà chi del suo li pasce e ferra?
Ma se l’altre n’han due, ne vuol la ricca
     Quattro se le compiaci più che ’l Conte
     Rinaldo mio, la t’invviluppa e ficca.
Se le contrasti, pon la pace a monte,
     E come Ulisse al canto, tu l’orecchia
     Chiudi a pianti, a lamenti, a gridi ed onte.
Ma non le dire oltraggio, o t’apparecchia
     Cento udirne per uno, e che ti punga
     Più che punger non suol vespa nè pecchia.
Una, che ti sia ugual, teco si giunga:
     Che por non voglia in casa nuove usanze,
     Nè più del grado aver la coda lunga.

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Non la vo’ tal, che di bellezze avanze
     L’altre, e sia in ogn’invito, e sempre vada
     Capo di schiera per tutte le danze.
Fra bruttezza e beltà trovi una strada,
     Dov’è gran turba, nè bella nè brutta;
     Che non t’ha da spiacer, se non t’aggrada.
Chi quindi esce a man dritta trova tutta
     La gente bella, e dal contrario canto
     Quanto bruttezza ha il mondo esser ridutta:
Quinci più sozze, e poi più sozze, quanto
     Tu vai più innanzi, e quindi trovi i visi
     Più di bellezza, e più tener il vanto.
Se ove dei tor la tua vuoi che t’avvisi,
     Dirò in la strada, o a man ritta ne’ campi;
     Ma che di là non sien troppo divisi.
Non ti scostar, non ir dove tu inciampi
     In troppo bella moglie, sì ch’ognuno
     Per lei d’amore, e di desire avvampi.
Molti la tenteranno, e quando ad uno
     Repugni, a due, a tre, non stare in speme
     Che non ne debba aver vittoria alcuno.
Non la tor brutta, che torresti insieme
     Perpetua noia: medíocre forma
     Sempre lodai, sempre dannai l’estreme
Sia di buon’aria, sia gentil, non dorma
     Con gli occhi aperti; che più l’esser sciocca
     D’ogn’altra ria deformità deforma.

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Se questa in qualche scandalo trabocca,
     Lo fa palese in modo, che dà sopra
     I fatti suoi faccenda ad ogni bocca.
L’altra più saggia si conduce a l’opra
     Secretamente, e studia, come il gatto,
     Che l’immondizia sua la terra copra.
Sia piacevol, cortese, sia d’ogni atto
     Di superbia nimica; sia gioconda,
     Non mesta mai, non mai col ciglio attratto.
Sia vergognosa, ascolti, e non risponda
     Per te, dove tu sia, nè cessi mai,
     Nè mai stia in ozio; sia polita e monda.
Di dieci anni o di dodici, se fai
     Per mio consiglio, sia di te minore;
     Di pari o di più età non la tor mai:
Perchè passando, come fa, il migliore
     Tempo, e i begli anni in lor prima che in noi,
     Ti parría vecchia, essendo anco tu in fiore.
Però vorrei lo sposo avesse i suoi
     Trent’anni; quell’età che ’l furor cessa
     Presto al voler, presto al pentirsi poi.
Tema Dio, ma che udir più d’una messa
     Voglia il dì, non mi piace, e vo’ che basti
     S’una o due volte l’anno si confessa.
Non voglio che con gli asini, che basti
     Non portano, abbia pratica, nè faccia
     Ogni dì torte al confessore e pasti.

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Voglio che si contenti de la faccia,
     Che Dio le diede, e lasci il rosso e ’l bianco
     A la Signora del Signor Ghinaccia.
Fuor che lisciarsi, un ornamento manco
     D’altra ugual gentildonna ella non abbia:
     Lisci non vo’, nè tu, credo, il vogli anco.
Se sapesse Ercolan dove le labbia
     Pon, quando bacia Lidia, avría più a schivo,
     Che se baciasse un cul marcio di scabbia.
Non sa che ’l liscio è fatto col salivo
     De le Giudee, che ’l vendon, nè con tempre
     Di muschio ancor perde l’odor cattivo?
Non sa che con lo sterco si distempre
     De’ circoncisi lor bambini il grasso
     D’orride serpi, che in pastura han sempre?
Oh! quante altre sporcizie a dietro lasso,
     Di che s’ungono il viso quando al sonno
     Si dà lo steso fianco e il ciglio basso.
Sì che quei, che le baciano, ben ponno
     Con men schivezza e stomachi più saldi
     Baciar lor anco a nuova Luna il conno.
Il solimato e gli altri unti ribaldi,
     Di che ad uso del viso empion gli armari,
     Fan che sì tosto il viso lor s’affaldi:
O che i bei denti, che già fur sì cari,
     Lascin la bocca fetida e corrotta,
     O neri e pochi restino e mal pari.

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Segua le poche e non la volgar frotta;
     Nè sappia far la tua bianco nè rosso,
     Ma sia del filo e de la tela dotta.
Se tal la trovi consigliar ti posso,
     Che tu la prenda; se poi cangia stile,
     E che si tiri alcun galante a dosso;
O faccia altra opra enorme, e che simíle
     Il frutto in tempo del ricor non esca
     Ai molti fior ch’avea mostrato Aprile;
De la tua sorte, e non di te t’incresca;
     Che per indiligenza e poca cura
     Gusti diverso a l’appetito l’esca.
Ma chi va cieco a prenderla a ventura;
     O chi fa peggio assai, che la conosce,
     E pur la vuol, sia quanto voglia impura;
Se poi pentito si batte le cosce;
     Altri che sè non de’ imputar del fallo,
     Nè cercar compassion de le sue angosce.
Poi ch’io t’ho posto assai ben a cavallo,
     Ti voglio anco mostrar come lo guidi,
     Come spinger lo dei, come fermallo.
Tolto che tu avrai moglie, lascia i nidi
     De gli altri, e sta’ su ’l tuo, che qualche augello,
     Trovandol senza te, non vi si annidi.
Falle carezze, ed amala con quello
     Amor, che vuoi ch’ella ami te; aggradisci,
     E ciò che fa per te paiati bello.

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Se pur tal volta errasse, l’ammonisci
     Senza ira con amor; e sia assai pena,
     Che la facci arrossir senza por lisci.
Meglio con la man dolce si raffrena,
     Che con forza il cavallo; e meglio i cani
     Le lusinghe fan tuoi, che la catena.
Questi animai, che son molto più umani,
     Corregger non si den sempre con sdegno,
     Nè al mio parer mai con menar le mani.
Ch’ella ti sia compagna abbi disegno;
     E non, come comprata per tua serva,
     Reputa aver in lei dominio e regno.
Cerca di soddisfarle, ove proterva
     Non sia la sua dimanda; e compiacendo,
     Quanto più amica puoi te la conserva.
Che tu la lasci far non ti commendo
     Senza saputa tua ciò ch’ella vuole:
     Che mostri non fidarti anco riprendo.
Ire a conviti, e a pubbliche carole
     Non le vietar a i tempi suoi, nè a chiese,
     Dove ridur la nobiltà si suole.
Gli adulteri, nè in piazza, nè in palese,
     Ma in casa di vicini, e di comadri,
     Balie, e tal genti han le lor reti tese.
Abbile sempre a i chiari tempi e a gli adri
     Dietro il pensier, nè la lasciar di vista;
     Che ’l bel rubar suol far gli uomini ladri.

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Studia che compagnía non abbia trista:
     A chi ti vien per casa abbi avvertenza,
     Che fuor non temi, e dentro il mal consista.
Ma studia farlo cautamente senza
     Saputa sua, che si dorría a ragione,
     Se in te sentisse questa diffidenza:
Levale quanto poi l’occasíone
     D’esser puttana: e pur, s’avvien che sia,
     Almen ch’ella non sia per tua cagione.
Io non so la miglior di questa via,
     Che già t’ho detto, per schivar che in preda
     Ad altri la tua Donna non si dia.
Ma, s’ella n’avrà voglia, alcun non creda
     Di ripararci; ella saprà ben come
     Far, ch’al suo inganno il tuo consiglio ceda.
Fu già un Pittor (non mi ricordo il nome)
     Che dipinger il Diavolo solea
     Con bel viso, begli occhi e belle chiome:
Nè piè d’augel, nè corna gli facea,
     Nè facea sì leggiadro nè sì adorno
     L’angel da Dio mandato in Galilea.
Il Diavol reputandosi a gran scorno,
     S’ei fosse in cortesía da costui vinto,
     Gli apparve in sogno un poco innanzi ’l giorno:
E gli disse in parlar breve e succinto,
     Chi egli era, e che venía per render merto
     Dell’averlo sì bel sempre dipinto.

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Però lo richiedesse e fosse certo
     Di subito ottener le sue dimande;
     E d’aver più che non se gli era offerto.
Il meschin, ch’avea moglie d’ammirande
     Bellezze, e ne vivea geloso, e n’era
     Sempre in sospetto ed in angustia grande,
Pregò che gli mostrasse la maniera
     Che s’avesse a tener, perchè il marito
     Potesse star sicur de la mogliera.
Par, che ’l Diavolo allor gli spinga in dito
     Un anello, e ponendolo gli dica:
     Fin che cel tenghi esser non puoi tradito.
Lieto, ch’omai la sua senza fatica
     Potrà guardar, si sveglia il mastro, e trova
     Che ’l dito a la mogliera ha ne la fica.
Questo anel tenga in dito, e non lo mova
     Mai, chi non vuol ricevere vergogna
     Da la sua Donna, e a pena anco gli giova;
Pur ch’ella voglia, e farlo si dispogna.