Scientia - Vol. VIII/Ipotesi e realtà nelle scienze geometriche

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Francesco Severi

Ipotesi e realtà nelle scienze geometriche ../Star-streams IncludiIntestazione 20 febbraio 2023 75% Matematica

Ipotesi e realtà nelle scienze geometriche
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IPOTESI E REALTÀ


NELLE SCIENZE GEOMETRICHE



La matematica è una scienza nella quale non si sa mai di che si parli, nè se ciò di cui si parla sia vero. Così almeno afferma Bertrand Russell. Ed è indubitabile che, quando si consideri la matematica come una severa catena di stringate deduzioni, sgorganti, colle leggi della logica formale, da un gruppo di principii esplicitamente enunciati — è questo il cosidetto punto di vista logico-deduttivo — nulla di più paradossalmente giusto del mot d’esprit di Russell.

Si affronta l’interlocutore e lo si invita ad ammettere senza discussione alcuni principii primordiali: padronissimo egli di formarsi degli oggetti del discorso un’idea completamente diversa dalla mia, o di non formarsene addirittura nessuna. Resteremo d’accordo lo stesso, a patto che durante l’implacabile ragionamento logico che mi propongo d’infliggergli, egli non pretenda di far uso di proprietà diverse da quelle che, di comune accordo, abbiamo postulato dal principio.

E il risultato del nostro discorso? Una proposizione ipotetica di questo tipo: Se è vera la proprietà tale, lo è pure la tal altra. In particolare, se parlassimo di geometria, non dovremmo di necessità riferirci a quel qualche cosa che tutti chiamiamo spazio, ma ad un qualunque altro ente, pel quale fossero soddisfatte le proprietà postulate.

Lo spazio in questo modo diventa un concetto capace di infinite interpretazioni o determinazioni, diversissime tra di loro1.

La cosa è di certo utile. Guadagnando in astrazione si guadagna in generalità. Ma per fortuna di noi matematici, la [p. 2 modifica] geometria non è tutta qui. Altrimenti mentre noi voleremmo fuori della realtà della vita, coi sensi ermeticamente chiusi alle impressioni esterne, chi ci guardasse potrebbe ben a ragione ripetere qualcuno dei frizzi, che ci ha lanciato — con quanta simpatia non so — l’umorista inglese Bernardo Shaw.

No, la geometria sa bene di quel che parla: del mondo fisico. Essa differisce dalla fisica soltanto nel metodo: prevalentemente sperimentale per l’una, deduttivo per l’altra. E anche il metodo perde il suo carattere deduttivo quando si tratta di scoprire. Ai confini della scienza, nelle posizioni di avanguardia, la severità logica è quasi completamente dimenticata. Si va avanti a furia di fortunate induzioni e di esperienze mentali. E non mancano casi in cui si è ricorso a vere e proprie esperienze fisiche. È risaputo che Archimede determinò colla bilancia l’area d’un segmento parabolico e che, nei nostri tempi, il Klein illustrò certe questioni di analisi colla considerazione di correnti elettriche sulle superficie chiuse.2

Considerando la geometria come una scienza applicata, si affaccia subito una questione pregiudiziale. Qual valore positivo si deve attribuire ai teoremi geometrici, dal momento ch’essi riferisconsi a figure ideali, che non è assolutamente possibile di realizzare in modo rigoroso?

È vecchia e ripetuta l’affermazione di Stuart Mill che la retta del geometra non esiste in natura. E nessuno — neanche se matematico — ha mai pensato a contraddire una affermazione così giudiziosa nella sua banalità.

È ormai superfluo ripetere per la millesima volta che le figure geometriche non sono che imagini astratte, schemi che si fanno corrispondere ad oggetti aventi una reale esistenza fisica.

Un filo teso, un raggio luminoso non sono rette; tuttavia la loro visione desta in noi l’imagine della retta. Nè ciò accade perchè in quegli oggetti noi troviamo alcun che di rispondente ad un’imagine che già preesisteva nel nostro cervello come qualcosa d’innato; ma sibbene perchè quando guardiamo il filo o il raggio luminoso senza che ragioni speciali c’indu[p. 3 modifica]cano a tenerne d’occhio lo spessore, che è trascurabile di fronte alla lunghezza, quel che ci colpisce di più sono certe caratteristiche di omogeneità e di simmetria dell’oggetto. Ed allora per un processo di astrazione, ci formiamo un’immagine che del filo o del raggio possegga soltanto le proprietà che più ci hanno colpito.

E neppure deve credersi che quest’immagine s’imprima subito nella nostra mente, dopo una prima osservazione. Si può ritenere con Ardigò3 che l’immagine percepita per mezzo della retina, non sfumi dal nostro cervello dopo che l’oggetto non ci è più dinanzi, ma che col tempo vadano vieppiù illanguidendosi le caratteristiche che meno ci hanno colpito. Così a poco a poco e con successive integrazioni dei dati visivi con altri dati, forniti specialmente dal senso muscolare, si compie il processo d’astrazione.

Le figure geometriche non sono dunque che pure creazioni dello spirito. Ma non è perciò men vero che le nostre deduzioni intorno ad esse possono avere ed hanno un’effettiva portata pratica, nelle questioni in cui sieno praticamente trascurabili gli elementi dai quali abbiam fatto astrazione figurandoci lo schema e ragionandovi d’attorno.

Questa condizione segna anzi i limiti d’applicabilità della matematica. Per arrivare ad una previsione concreta sopra un determinato oggetto, ci è spesso giocoforza di trascurarne alcune caratteristiche, onde ottenere uno schema semplice attorno a cui sia possibile ragionare senza smarrirsi. Orbene, il processo matematico perde tutta la sua forza, quando non si possa anticipatamente segnare l’ordine di approssimazione che così può conseguirsi. In pratica tale ordine di approssimazione non dipende dalla nostra volontà, ma dalla maggiore o minore complessità del fenomeno che si schematizza, e sopra tutto dal genere di strumenti che si adoperano nella ricerca sperimentale.4

Le varie scienze potrebbero così graduarsi rispetto alla loro minore o maggiore docilità a lasciarsi trattare dall’istru[p. 4 modifica]mento matematico. Il criterio gerarchico, secondo il Klein, potrebbe esser dato dal numero dei decimali che in ciascuna di esse si usano. In capo a tutte starebbe senza dubbio la astronomia.5

Ma qui ritorna insistente un’obiezione che ci si rivolge tante volte, non senza un certo pizzico di sarcasmo.

Non poniamo in dubbio — ci dicono i benevoli — che la matematica abbia fornito e fornisca risultati utili e mezzi di ricerca talora indispensabili nelle scienze applicate, ma dobbiamo per questo menarvi buone tutte quelle astruserie, che vi trasportano così spesso nel mondo delle nuvole?

Ebbene, io non voglio difendere la matematica dall’accusa di dar diritto di cittadinanza a tante teorie che colla vita di tutti i giorni nulla hanno da vedere. A sua scusa potrei osservare che difficilmente, tra coloro che coltivano le scienze pure, si potrebbe trovare chi potesse assumere, in modo legittimo, il diritto di scagliare la prima pietra.

Ma adduco invece due ordini di considerazioni. Tra le teorie matematiche più astratte ve ne sono di quelle che hanno un valore filosofico generale o che, in particolare, sono necessarie per lo sviluppo del pensiero matematico o per affinare gli stessi strumenti d’indagine, che vanno poi usati nelle applicazioni.

Per restare nel campo elementare, chi vorrà negare che il concetto di numero irrazionale entri sovente come indispensabile anche in ragionamenti i quali hanno di mira le applicazioni?

Eppure, quando si scende alla valutazione numerica del fenomeno, di numeri irrazionali non si può più parlare, perchè il concetto di grandezza incommensurabile è contradditorio con la realtà fìsica.

Fisicamente non ha nessun senso il dire che non esiste una comune misura del lato e della diagonale di un quadrato. L’unità di misura non si può infatti praticamente impicciolire al di là di certi limiti, e d’altronde il numero che nelle applicazioni esprime la misura di un segmento, non è che un dato approssimativo. [p. 5 modifica]

E chi vorrà disconoscere i servigi resi in tante questioni di fisica-matematica e di elettrotecnica, dai numeri immaginari, che pure appariscono a prima vista così lontani dalla realtà?

Ma il diritto di vivere, e magari di moltiplicarsi delle teorie matematiche più astratte, deriva sopratutto da ciò, che la nostra scienza illanguidirebbe a grado a grado se si volesse costringerla nei limiti che, ai loro fini, potrebbero segnarle le scienze applicate. La vita piena e rigogliosa vuole la libertà!

Non bisogna pretendere di togliere ad una disciplina il valore estetico ch’essa acquista di fronte a chi la coltiva liberamente, senza alcun vincolo di fini pratici. La soddisfazione artistica vuol la sua parte, e se non si ammettesse la legittimità della formola «la scienza per la scienza» il fuoco sacro si spegnerebbe per mancanza di Vestali.

Quello che dai più è sentito nelle grandi manifestazioni dell’arte, è soltanto una parte infinitesima del sentimento che vi ha profuso l’artista. Ohi mai potrebbe perciò limitare i liberi voli del genio?

Il sistema — se proprio occorre convenirne — non è ottimo, nè conforme a quel principio di minimo sforzo a cui il Mach vede subordinato tutto lo sviluppo del pensiero scientifico; ma si può qui ripetere la frase arguta rivolta a Napoleone I dal mio concittadino Fossombroni: «Où il n’y a pas d’autre, Sire, c’est toujours le meilleur».

Ho parlato poc’anzi di teorie che hanno un interesse filosofico generale. Tra queste, ed in prima linea, debbono porsi le questioni che toccano i fondamenti della scienza.

E qui conviene che ponga innanzi qualche concetto, che mi sarà utile d’aver chiarito, prima di parlare di quella pangeometria che Schopenhauer giudicava la parodia e la caricatura del metodo di Euclide.6 [p. 6 modifica]

Come nasce in noi la nozione del continuo? Vi pongo dinanzi una successione di piccolissime macchie. I più lontani non distinguono le singole macchie; ma tuttavia nell’insieme vedono qualcosa: una linea. E tutti s’accorgono che la macchia estrema A è distinta dall’altra macchia estrema B.

Così in una successione di macchie, di cui ciascuna è indistinta dalla precedente e dalla seguente, la prima e l’ultima appariscono distinte. I successivi indistinti conducono insomma al distinto.

Per togliere — dice il Poincaré7 — il disaccordo intollerabile di questo fatto col principio logico di contraddizione, siamo stati costretti ad inventare il continuo matematico. È una specie di rivincita che le nostre facoltà induttive prendono sopra i nostri sensi, i quali si ostinano a non distinguere al disotto della soglia della percezione. La circostanza che, sotto condizioni più favorevoli, per es. coll’uso di opportuni istrumenti, sia possibile d’intercalare nuove sensazioni tra due altre, che prima ci apparivano indistinte, favorisce la tendenza ad imaginare quella possibilità proseguibile oltre ogni limite, e dà alla nozione del continuo un sentimento di necessità da cui non sappiamo spogliarci.

Secondo Enriques questo sentimento si riattacca alla possibilità di associare in un unico concetto le rappresentazioni di una linea forniteci dai varî sensi.8

Ma forse il sentimento medesimo ci è anche imposto dall’unità stessa della nostra coscienza, che si ricostruisce nella molteplicità infinita delle sensazioni e dei ricordi, che è una, nonostante risulti in ogni momento, come dice Ardigò,9 dal «brulichìo di uno sciame immenso di pensieri».

Comunque si tratta di una nozione puramente astratta, che la realtà ci suggerisce, ma di cui non esiste alcun modello fisico adeguato.

Il continuo, come sopra l’ho considerato, presuppone già acquisita la nozione logica di ordine, che interviene quando [p. 7 modifica] si parla di sensazioni successive, di sensazioni inserite tra due altre, ecc. Mediante la stessa nozione si può completare il concetto del continuo, com’è stato fatto da Dedekind in poi.

Se da un continuo — per es. di sensazioni, che si assumono in tal caso come elementi — s’imagina tolto un elemento, il continuo resta diviso in due parti, costituite l’una da tutti gli elementi che, in un certo ordine, precedono quello che si è tolto, e l’altra da tutti quelli che lo seguono. Orbene, nel concetto del continuo matematico resta incluso che ogni divisione in due parti non possa ottenersi che così.

In sostanza quest’ulteriore attributo rispecchia il fatto banale che per dividere un filo in due parti bisogna tagliarlo in un punto.

Il continuo, cui mi son finora riferito, dicesi ad una dimensione.

È ora facile passare alla definizione del continuo a più dimensioni.

Prendo un foglio di carta. Cosa voglio dire quando affermo che è tutto di un pezzo? Niente altro che questo: due punti qualunque del foglio possono sempre esser congiunti da una linea su di esso tracciata. Questa proprietà noi matematici la esprimiamo dicendo che il foglio è connesso.

Per dividere in due pezzi il foglio di carta bisogna ch’io lo tagli lungo una linea. In generale un insieme connesso, che sia divisibile in parti tra loro sconnesse, mediante l’esclusione degli elementi d’uno o più continui ad una dimensione (tagli ad una dimensione) si dice un continuo a due dimensioni.

E similmente, se per dividere in parti un insieme connesso occorre escludere da esso uno o più continui a due dimensioni (tagli a due dimensioni), si dirà che quello è un continuo a tre dimensioni.

Il continuo a quattro dimensioni si definisce ormai come quello la cui connessione vien rotta da tagli a tre dimensioni; e così di seguito.

Queste considerazioni appartengono all’Analysis situs, che trae origine dalle immortali ricerche di Riemann. È però bene aggiungere che il Riemann nel suo celebre scritto sulle ipotesi fondamentali della geometria10, riattacca il concetto di [p. 8 modifica]dimensioni di un continuo alla determinazione locale degli elementi mediante coordinate. Entro un continuo ad n dimensioni un elemento si può localizzare coi valori di n numeri, che restano coordinati all’elemento11.

Così nella mia stanza la posizione di un punto può esser determinata da tre numeri: le distanze dal pavimento, dalla parete dietro di me e da quella alla mia destra.

Ma a proposito dei continui a più di tre dimensioni, mi si obietterà che la definizione riferita è del tutto ipotetica.

Va bene, li avete definiti; ma ce ne sono poi?

Sì; anche restando nel campo dell’ordinaria intuizione, si può darne quanti esempi si vuole, purché naturalmente si rinunci a prendere come elemento del continuo il punto.

Il nostro stesso spazio diventa un continuo a quattro dimensioni, quando s’imagini generato dalle rette, anziché dai punti. Ciò vuol dire insomma che per fissare la posizione di una retta nello spazio, ci vogliono quattro coordinate. La cosa è molto semplice e non bisogna perciò lasciarsi suggestionare dalle parole e far loro dire più di quanto i matematici abbiano con esse voluto significare.

La nozione di spazio ad n dimensioni è una delle cose che i profani — senza andar troppo al di là del nome — citano spesso come una delle maggiori stramberie della geometria moderna. E non mancano di quelli che, avendone una conoscenza meno superficiale, ci costruiscono sopra le più giocose fantasticherie.

E non sempre fanno le cose per burla. Son troppo note, perchè io abbia bisogno di ricordarle anche una volta, le [p. 9 modifica] teorie singolari che Zöllner, colla massima serietà, ha pubblicato nel 1872 in cinque grossi volumi12. Il nostro mondo, del quale qualche volta audiamo così orgogliosi, non sarebbe che l’ombra di un mondo, diciamo così più evoluto, a quattro dimensioni. Gli spiriti vagherebbero in questo ambiente più perfetto: donde tutte le loro soperchierie a nostro danno e a scorno della scienza. In sostanza, noi che chiamiamo ombre gli spiriti, saremmo più ombre di loro:

E che dire poi delle deliziose fantasie dello scrittore inglese Wells, il quale, in uno dei suoi brillanti romanzi, ci narra l’istoria di un certo signor Plattner che, essendo stato lanciato nello spazio a quattro dimensioni, è ritornato fra noi con tutti gli organi rovesciati: cuore a destra, fegato a sinistra, e così via?13

Orbene, io credo che se i matematici invece di parlare di «spazio ad n dimensioni», avessero detto, per es., «continuo ad n coordinate», nessuno si sarebbe occupato delle loro novità. Ma in tal modo però sarebbe mancato tutto l’aiuto che posson dare gl’iperspazi nella rappresentazione di quei fatti — anche meccanici o fisici — i quali, dipendendo da molteplici elementi di variabilità, non sono facilmente schematizzabili nello spazio ordinario.

Beltrami ed Hertz hanno appunto mostrato come si semplifichi la trattazione di un problema meccanico che comporti n gradi di libertà, quando si ricorra alla rappresentazione iperspaziale.

E non è escluso che anche la stereochimica possa avvantaggiarsi da rappresentazioni di questo genere. Son note le difficoltà di trovare nello spazio ordinario uno schema adatto per costruire una stereochimica dell’atomo dell’azoto, analoga a quella dell’atomo del carbonio. Ciascuno degli schemi immaginati spiega certi fenomeni, ma non s’adatta ad altri. Parrebbe che la rappresentazione delle cinque valenze per mezzo di un pentaedro dello spazio a quattro dimensioni, dovesse esser più fortunata. Quel che dà noia è un prodotto recente[p. 10 modifica]mente ottenuto da Wedekind.14 Per la buona riputazione dello spazio a quattro dimensioni, se non fosse un desiderio un po’ maligno di fronte ad uno scienziato distinto, m’augurerei che qualcuno demolisse questo risultato.

In conclusione: gl’iperspazî forniscono un linguaggio opportuno e suggestivo che ravvicina fatti apparentemente disparati, suscitando analogie e quindi induzioni feconde.

Ma tutto ciò che si fa cogl’iperspazî potrebbe ottenersi anche senza, come tutti i risultati cui si perviene col simbolismo algebrico, potrebbero ottenersi anche col linguaggio comune. E chi nega per questo l’utilità dell’algebra? È una questione di economia del pensiero.

E dopo ciò, ritorniamo tranquilli allo spazio che ne circonda. Non entrerò — et pour cause — nella questione delle sue tre dimensioni. Dovrei discorrerci su troppo, se non altro per discutere tanti ingegnosi argomenti coi quali il Poincaré sostiene che lo spazio ha tre dimensioni, per la semplicissima ragione che a noi riesce comodo ed economico di attribuirgliene tante!.15

Mi permetto di non arrestarmi su questa tesi, perchè avrò più tardi da affacciare una specie di pregiudiziale che investe — o per lo meno vorrebbe investire — tutta quanta la visione nominalistica della geometria. [p. 11 modifica]

Ma non so resistere alla tentazione di riferire — sia pure a larghissimi tratti — le idee dell’illustre fisiologo von Cyon sulle tre dimensioni dello spazio.16

I canali semicircolari non hanno una funzione propriamente acustica, ma sono invece l’organo del senso di spazio (Raumsinn). Essi determinano tre piani, perpendicolari a due a due, che ci offrono un sistema..... spontaneo di coordinate cartesiane.

Nello spazio costruito per mezzo del sesto senso, noi proiettiamo tutte le sensazioni provenienti dagli altri cinque. La proiezione non è più possibile quando le sensazioni — per anormalità funzionali o per lesioni anatomiche — non si trovino più d’accordo. Le vertigini, p. e., non sono che l’effetto del disaccordo tra il senso visivo ed il senso di spazio.

Non mancano documentazioni sperimentali dirette a suffragare questa teoria singolare. I piccioni viaggiatori che, come tutti sanno, posseggono così squisito il senso di spazio, lo perdono coll’asportazione dei canali semicircolari; e le rane, dopo un’operazione meno radicale, che faccia loro grazia d’un canale per orecchio, posson muoversi soltanto in direzione di un asse.

Questi son fatti; ed io non vo’ contestarli. Ma occorre osservare che l’organismo vivente non è un edificio dal quale si possa togliere impunemente qualche mattone. Come è infatti possibile di circoscrivere sicuramente le conseguenze fisiologiche d’una lesione anatomica?

Un senso più imbarazzante di perplessità, ce lo danno invece i topi danzanti giapponesi, studiati dal Eawitz e dal Cyon. Questi topi non hanno che una coppia di canali semicircolari normalmente sviluppati. Eccoci dunque di fronte ad organismi sui quali si può sperimentare la teoria, senza vivisezioni. Ebbene, questi graziosi animaletti manifestano la loro concezione unidimensionale dello spazio, girando rapidamente in circolo, come fanno i ragazzi, con questa sola differenza: che invece di tenersi per mano, atterrano ciascuno il naso sotto la coda del precedente. Gli è che i poveretti non posson muoversi in linea retta. Ma v’ha di peggio: essi non riescono [p. 12 modifica]neppure a risalire un piano inclinato, se non nell’oscurità completa.17

È un vero peccato che, mentre si son trovati animali con una o due coppie di canali semicircolari, non se ne conoscano di quelli con quattro coppie. Sarebbe così curioso vedere com’essi manifesterebbero la loro concezione quadrimensionale dello spazio e, sopratutto, se e come potrebbero sparire da una stanza completamente chiusa!

Nonostante ciò, io non mi sento d’escludere che i canali semicircolari adempiano ad una funzione essenziale e caratteristica nella genesi del concetto di spazio. Mi pare che una critica di questo genere non possa tentarsi seriamente fuori del campo sperimentale. Ma non so neppur consentire nell’uso che il Cyon fa della sua idea, per sciogliere troppi nodi gordiani, filosofici e matematici.

Quand’egli, dopo aver definito la retta come «la percezione intuitiva d’una sensazione di direzione» (che ha la sua sede nei canali semicircolari), afferma che «la direzione come tale non ha limiti» e ne deduce l’assioma dell’infinità della retta; quando scrive che «basta fissare un istante la nostra attenzione su due direzioni di qualità diversa, per avere la certezza (?!) ch’esse non posson più incontrarsi», non dà affatto le ragioni psico-fisiologiche di queste affermazioni; un kantiano rileverebbe trionfalmente ch’egli invece le butta là a priori.18

Nè si accorge che in tal modo pone nel suo discorso i germi della conclusione cui mira: che cioè i nostri sensi non potranno mai rivelarci uno spazio diverso dall’euclideo, perchè la nostra stessa struttura fisiologica è, per così dire, euclidea.

Nè sembra facile documentare l’altra affermazione che Kant parteggiò lungamente per gli empiristi, finchè si convinse che le percezioni dovute ai nostri cinque vecchi sensi, non potevano spiegare da sole la nozione delle tre dimensioni, e che, allora soltanto, imaginò la dottrina dell’a priori!19 [p. 13 modifica]

E vengo finalmente alla questione delle parallele. È ben noto che, da tre secoli avanti Cristo, fino al secolo XIX, il celebre postulato euclideo delle parallele, è stato, come dice d’Alembert «lo scoglio e lo scandalo degli elementi della geometria».

La questione si può presentare così:

Attribuite allo spazio le proprietà relative alla continuità, alla connessione, alle relazioni di appartenenza tra punti, rette, piani e all’uguaglianza delle figure, enunciate tutte convenientemente sotto la forma rigorosa di postulati — che chiamerò in seguito i postulati A — si può da questi dedurre come conseguenza logica, che per un punto esterno ad una retta passa una ed una sola retta a quella parallela?20

Tralasciando di riferire dei tentativi fatti da Geometri greci ed arabi e dai commentatori di Euclide durante il Rinascimento, dirò soltanto, perchè è un motivo di legittimo compiacimento per noi Italiani, che le prime radici della moderna geometria non euclidea si trovano nell’opera di Gerolamo Saccheri. Ma il vero fondatore di questo ramo di geometria, che nonostante l’acre giudizio di Schopenhauer, è una delle più grandi conquiste dell’umano pensiero, il vero fondatore è C. F. Gauss.

I primi lavori organici di geometria non euclidea furono però pubblicati dal russo Lobacefski e dall’inglese Giovanni Bolyai nella prima metà del secolo XIX. Gli è che Gauss lasciò inediti i risultati delle sue meditazioni, perchè allora egli temeva «le strida dei Beoti».

Oltre all’ipotesi espressa dal postulato di Euclide (unicità della parallela), si presentano come possibili due altre ipotesi, che anche il Saccheri aveva considerate.

a) Per un punto si posson condurre due parallele ad una retta e tutte le rette comprese nell’angolo di quelle due, [p. 14 modifica]sono non secanti rispetto a questa. La geometria fondata su tale ipotesi va sotto il nome di Lobacefski.

b) Per un punto non si può condurre nessuna parallela ad una retta. La geometria corrispondente dicesi di Riemann.

Il risultato fondamentale, che la scienza ha ormai acquistato in modo definitivo, è che queste due ipotesi posson coesistere senza contraddizioni coi postulati A. Il che significa insomma che l’ipotesi euclidea non consegue logicamente da essi: ed in tal senso il postulato d’Euclide è indimostrabile.

Come si giunge a questa conclusione? Schopenhauer se la sbrigherebbe presto, giacchè secondo lui era chiaro che si sarebbe ricercato invano una dimostrazione del postulato d’Euclide, dal momento che non c’è nulla di più evidente. Ma noi vogliamo considerare la cosa un po’ più sul serio.

L’impeccabilità logica dei sistemi non euclidei si stabilisce a priori, mostrando come si possano effettivamente costruire dei continui a tre dimensioni, soddisfacenti a tutti i postulati A ed all’una o all’altra delle ipotesi non euclidee.

Darò tosto un’idea di questo genere di considerazioni. Prima una breve parentesi.

Noi attribuiamo allo spazio la proprietà d’essere infinito. Ora questa proprietà non può essere un dato sperimentale, giacchè i nostri mezzi d’osservazione non si esercitano che sul finito. Ma tuttavia quest’ipotesi ha un valore positivo: vuol dire insomma che l’ordine di grandezza dell’universo astronomico, non è praticamente paragonabile colle dimensioni che cadono di consueto sotto il nostro dominio.

Quel che invece ci apparisce con Riemann come un dato empirico, è la proprietà dello spazio di essere illimitato.21

La distinzione tra infinito e illimitato nel linguaggio comune non è ben netta. Ma a chiarirla basta un esempio. La sfera è una superfìcie finita ma illimitata; mentre il cerchio è una superficie finita e limitata: il limite o contorno essendo costituito dalla circonferenza.

L’ipotesi dell’infinità dello spazio, una volta accolta, conduce ad escludere senz’altro la geometria di Riemann, la quale vale bensì in uno spazio illimitato, ma finito. [p. 15 modifica]

Comunque, resterebbe sempre l’alternativa tra la geometria euclidea e quella di Lobacefski.

L’ultima parola spetta ai fatti. E Gauss e Lobacefski, profittando l’uno di dati geodetici e l’altro di dati astronomici, hanno saputo farli parlare.

È a tutti familiare come nella geometria euclidea la somma degli angoli interni di un triangolo rettilineo sia uguale a due retti. Questo teorema non sussiste nelle geometrie non euclidee. In quella di Riemann la somma stessa è maggiore di due retti, in quella di Lobacefski ne è minore. Si ha quindi, in questi casi, una differenza non nulla tra la somma dei tre angoli e due retti. Il rapporto tra questa differenza e l’area del triangolo, è un numero indipendente dal triangolo considerato. Si chiama curvatura dello spazio. Neil’ipotesi euclidea la curvatura è nulla, nell’ipotesi di Eiemann positiva, in quella di Lobacefski negativa. Orbene, Gauss e Lobacefski son pervenuti a questa conclusione: che la curvatura dello spazio, se mai non fosse nulla, differirebbe da zero di un numero inferiore all’ordine di approssimazione consentitoci per ora nelle esperienze, cosicchè, allo stato attuale, essa deve ritenersi positivamente nulla.

Ho accennato alla necessità di stabilire a priori la coerenza logica delle geometrie non euclidee.

Mi trattengo brevemente su ciò, limitando il discorso alla geometria a due dimensioni.

Ecco qua un pezzo di stoffa inestendibile, su cui è tracciata una linea A B; e un cilindro il cui raggio è abbastanza grande rispetto all’ampiezza della tela. Senza alcuna duplicatura io posso applicare la stoffa sul piano del tavolo e successivamente sul cilindro. La linea A B, che nel primo caso si era adattata lungo una retta, nel secondo caso ci apparisce incurvata. Tuttavia, passando dal piano al cilindro, io non ho affatto alterato la lunghezza della linea, la quale, anche sopra il cilindro, segna dunque la minima distanza tra i due estremi A, B.

Le rette del pezzo di piano che potevo ricoprire colla tela, si trasformano in tal modo — come la linea A B — in linee di minima distanza, o geodetiche, del pezzo corrispondente di superficie cilindrica. [p. 16 modifica]

E quindi ogni teorema di geometria piana si muta in un teorema di geometria sul cilindro. Le rette vengono sostituite dalle geodetiche, l’angolo di due rette dall’angolo di due geodetiche e così via.

Si noti per di più che il cilindro, come il piano, è liberamente applicabile su se stesso, nel senso che il solito pezzo di stoffa io lo posso adagiare dovunque sul cilindro, come sul piano. Si ha quindi anche sopra il cilindro il concetto di figure congruenti o uguali. Ma si badi che due tali figure non sono necessariamente uguali nell’ordinario senso della parola, perchè nel passare dall’una all’altra con uno scorrimento sulla superficie cilindrica, non si è supposta la rigidità, ma soltanto l’invarianza delle lunghezze, quale appunto si verifica in un pezzo di stoffa non elastica.

La geometria sul cilindro ci dà in conclusione, un’immagine completa dell’ordinaria geometria piana. Si può cercare similmente se, sopra convenienti superfìcie, possa ottenersi un’imagine concreta di ciascuna delle geometrie piane non euclidee, considerando sempre, in luogo delle rette, le geodetiche.

La geometria sopra questi modelli dovrà godere di tutte le proprietà espresse dai postulati A, che restano validi anche nel campo non euclideo. In particolare dovranno restare validi gli assiomi della congruenza, che si traducono, in ultima analisi, nella condizione di libera applicabilità della superficie su se stessa.

Le superficie che godono di questa proprietà, diconsi a curvatura costante. Mediante le solite trasformazioni senza estensione, esse riduconsi a tre tipi distinti:

1.°) Superficie a curvatura nulla: il loro tipo è il piano (o il cilindro).

2.°) Superficie a curvatura costante positiva: il loro tipo è la sfera.

3.°) Superficie a curvatura costante negativa: il loro tipo è la pseudosfera.

Ebbene la geometria non euclidea di Riemann si realizza sulla sfera. Quivi le geodetiche sono i circoli massimi ed il noto teorema che la somma degli angoli d’un triangolo sferico è maggiore di due retti, non è che la traduzione del teorema analogo, valido pei triangoli rettilinei, nella geometria riemanniana. [p. 17 modifica]

La geometria non euclidea di Lobacefski, come ha dimostrato il nostro Beltrami, si realizza invece sulla pseudosfera.22

Queste rappresentazioni provano a priori la compatibilità dei postulati A colle ipotesi non euclidee. Non può infatti esistere un modello concreto di ciò che è assurdo!23

Accennando poco fa alla ricerche di Gauss e Lobacefski sui triangoli geodetici ed astronomici, dicevo che allo stato attuale delle nostre esperienze, lo spazio deve ritenersi positivamente euclideo. Ma ciò non esclude che, ampliando il campo delle nostre osservazioni, mediante istrumenti più precisi e più potenti, si possa giungere a contraddire al postulato delle parallele.

Questa possibilità è chiarita da un’imagine che da Helmholtz e da Clifford in poi si rievoca assai di frequente.

Figuriamoci una sfera abitata da animaletti superficiali, intelligenti fino al punto da costruire una geometria rispecchiante le loro sensazioni. Per essi lo spazio sarà a due dimensioni; il minimo percorso tra due punti non sarà più la nostra retta, ma un arco di circolo massimo della sfera ambiente.

Se questi animaletti, data la ristrettezza dei loro mezzi di locomozione e degli apparecchi d’osservazione, non possono esplorare ed osservare che una regione molto piccola del loro ambiente, nei triangoli sferici che sono alla loro portata, la somma dei tre angoli sarà bensì maggiore di due retti, ma la differenza essendo proporzionale all’area dei triangoli, risulterà inapprezzabile di fronte agli errori strumentali.

Suppongo che nel loro linguaggio questi compiacenti animaletti continuino a chiamar rette i cammini di minimo percorso: la loro geometria viene allora a coincidere esattamente, anche nell’espressione verbale, colla geometria piana euclidea. [p. 18 modifica]

E noi che giudichiamo le cose da un mondo più completo del loro, vedendo ciò che essi non vedono, ci sentiremmo certamente tentati di prendere a gabbo la loro Filosofia, qualora essi volessero estendere dogmaticamente a tutto lo spazio, le constatazioni fatte in modo positivo nella regione esplorata.

Abbandoniamo ora gli animaletti nel loro piccolo mondo e non c’indugiamo sulle loro possibili discussioni, giacchè, purtroppo, anche tra noi le ragioni di disputa non mancano a proposito della geometria non euclidea.

La maggior parte di coloro che non sanno o non vogliono adattarsi alla filosofia dei matematici, s’accordano nel considerare la pangeometria come una vera aberrazione, incompatibile coll’austera severità della scienza.

Qui non c’è questione di scuole; si può essere kantiani, hegeliani o positivisti: l’accordo in questo attacco non manca.

Ed apparisce perciò singolare che proprio un filosofo, di cui è innegabile l’altezza dell’intelletto, e che, come scrive il Chiappelli «si assise arbitro tra due secoli nell’ordine del pensiero», il Kant, abbia nella sua prima opera filosofica, profetizzato la creazione della geometria non euclidea con queste parole:

«Una scienza di tutte le specie possibili di spazii, sarebbe senza dubbio la geometria più alta cui potesse aspirare un intelletto finito24».

Io non so quindi se l’apprezzamento di Kant sulla pangeometria sarebbe conforme a quello dei kantiani, i quali appuntano spesso i loro strali contro questo ramo della matematica, perchè lo trovano inconciliabile colla dottrina dell’a priori.

In ciò essi sono d’accordo con molti geometri. Ma questi ultimi però, a differenza dei primi, traggono da ciò un argomento per rafforzare altre correnti del pensiero filosofico.

Orbene, si può forse tentare di conciliar le due tendenze, che a prima vista appariscono così decisamente agli antipodi. [p. 19 modifica]

Uno degli argomenti addotti da Kant per proclamare l’apriorismo dello spazio, sta in ciò, che la geometria ha una certezza apodittica, in quanto si riferisce ad un’intuizione pura.

Nè da Euclide, nè dai suoi imitatori, Kant poteva trarre una convinzione diversa. Il procedimento dimostrativo consisteva allora in continui richiami all’intuizione, la quale perciò poteva sembrare a priori.25

Si aggiunga che il modo stesso con cui noi apprendiamo la matematica nella prima età, fidando quasi ciecamente sull’autorità del maestro, conferisce alle nozioni geometriche un tal sentimento di necessità, da cui difficilmente sappiamo spogliarci in età più matura, se non si riflette alla questione con una cultura matematica molto più larga. Nè va dimenticata la forza dell’atavismo, la persistenza incosciente di nozioni e di associazioni che si sono affermate attraverso alla vita secolare della razza!

Ciò che dalla geometria non euclidea è stato completamente rovinato, è l’argomento che Kant traeva dalla certezza apodittica della geometria di Euclide; ma non resta perciò escluso che nel concetto di spazio sieno effettivamente racchiuse alcune condizioni a priori all’infuori delle quali non sarebbe possibile l’esperienza mentale o materiale. Queste condizioni verrebbero perciò a costituire l’essenza comune alle varie geometrie, la quale non potrebbe essere infirmata da nessuna esperienza, perchè ogni esperienza fatta da noi, col nostro intelletto, così com’è organato, dovrebbe presupporla.

Eichiamo a questo proposito le seguenti parole di Russell (op. cit., p. 76): «Dal punto di vista della logica generale, le leggi del pensiero e le categorie, con le condizioni indispensabili per la loro applicabilità, saranno le sole a priori; ma dal punto di vista di una scienza speciale noi possiamo chiamare a priori tutto ciò che rende possibile l’esperienza che forma l’oggetto di questa scienza. In geometria, in particolare, noi possiamo chiamare a priori tutto ciò che rende possibile l’esperienza d’una esteriorità, come tale».

Questo modo di vedere corrisponde del resto a quello che Grassmann esponeva nel 1844 nell’introduzione alla sua celebre Ausdehnungslehre. [p. 20 modifica]

Ma è curioso però di mostrare che, pur concedendo questo, che mi sembra un acquisto inoppugnabile della filosofia kantiana, si giunga a confutare l’affermazione di Kant che noi possiamo immaginare lo spazio vuoto, lo spazio assoluto, come un quid che deve esser già presente al nostro intelletto perchè le sensazioni possano essere attribuite a qualcosa d’esterno.26

La nozione d’esteriorità, derivante dalla percezione e dalla rappresentazione di ciò che è fuori di noi, è una nozione essenzialmente relativa.27 Una posizione nello spazio non ha alcuna qualità intrinseca, ma ne acquista soltanto rispetto a me.

Supporre ch’io possa imaginare qualcosa che spetti intrinsecamente allo spazio, qualcosa di assoluto, importa di conseguenza la supposizione che io mi accorgerei se quel qualcosa cambiasse, pur restando fissi i rapporti tra l’esterno e me. In altre parole io dovrei esser dentro all’ambiente che si modifica, per subirne io stesso i cambiamenti, affinchè quei rapporti restassero immutati; e nello stesso tempo dovrei esserne fuori per potermi accorgere di ciò che è accaduto. Insomma nello spazio relativo avrei un me umano, che si presta docilmente alla metamorfosi, e nello spazio assoluto un me sovrumano, integro ed immutabile come una deità posta lì a giudicare i travestimenti d’un mondo volubile!

Si può scendere dalle nuvole del trascendente e concretare con un’imagine di Delboeuf.

Una notte il mondo, stanco della immobilità che gli conferirono i filosofi dello spazio assoluto, da Leucippo e da Democrito in poi, s’ingrandisce ad un tratto, in tutte le direzioni, mille volte di più, così che ogni corpo rimane simile a sè stesso.

Se io dico che questo portentoso fenomeno è accaduto ieri notte, niuno potrà darmi ragione o contraddirmi; a meno che in qualcuno non fosse avvenuto quel certo sdoppiamento di personalità cui ho alluso or ora e che, certo per la pochezza del mio intelletto, io non so concepire neppure chiamando al soccorso i fenomeni spiritici, cui una volta ebbi la ventura d’assistere.

Così, per ragioni puramente intellettuali, che sono a priori rispetto all’esperienza, conviene ammettere la relatività dello spazio ed in particolare la relatività della posizione. [p. 21 modifica]

Da qui si conclude — ed in ciò contrariamente all’empirismo di Helmholtz — che gli assiomi della congruenza sono un dato puramente intellettuale, il quale costituisce il substrato necessario di ogni geometria, che voglia adattarsi al mondo reale.

La relatività della posizione porta infatti che nello spazio non vi siano posizioni privilegiate, rispetto alle quali si potrebbe definire la posizione assoluta di ogni corpo. Ne consegue che la curvatura dello spazio è uguale in tutti i punti e quindi che son necessariamente verificati gli assiomi della congruenza.

Per illustrar sul concreto quest’affermazione, mi riferisco ad una superfìcie a tutti familiare: l’elissoide. Questa superfìcie, a differenza della sfera, non ha la stessa curvatura in tutti i punti; vi sono p. es. i sei vertici, che trovansi in condizione eccezionale. In essi la superficie presenta la curvatura massima o minima. Orbene, per quanto io m’ingegnassi, non riescirei ad applicare dovunque un pezzo di stoffa che fosse applicabile attorno ad un vertice. In questo spazio a due dimensioni, appunto per le ineguaglianze della curvatura, è vietata la libera movibilità e vi si distinguono delle posizioni assolute.

Che poi si possa, con Clifford28, far l’ipotesi che lo spazio abbia curvatura variabile e che i fenomeni fisici non siano che l’espressione del nostro modo di percepire le variazioni di curvatura, è cosa che non toccherebbe affatto la geometria, la quale dovrebbe ancora fondarsi sul presupposto della curvatura costante. Si tratterebbe soltanto di sapere se l’ipotesi di Clifford servirebbe a spiegare i fenomeni fisici meglio dell’altra che lo spazio sia riempito da un mezzo elastico imponderabile: l’etere. Nel qual caso non si farebbe che sostituire un’imagine metafisica ad un’altra.

Per illustrare la concezione dello spazio assoluto e per confutare la pangeometria, alcuni filosofi varcano di quando in quando la muraglia chinese della matematica, e vengono a darci battaglia nello stesso nostro campo. E siano i benvenuti! La [p. 22 modifica]battaglia delle idee è sempre feconda, nè possiamo davvero dolerci di quest’invasione, tanto più che noi pure talvolta — dimentichi del consiglio ne sutor ultra crepidam — osiamo scorrazzare fuor della nostra muraglia, attraverso al campo filosofico.

Lo stesso Kant per sostenere la tesi dello spazio assoluto e dell’a priori, ha addotto fra gli altri il famoso argomento delle figure simmetriche. Due triedri opposti al vertice, una elica destrorsa ed una sinistrorsa, le due mani, sono altrettanti oggetti simmetrici. Essi, pur non presentando a due a due alcuna differenza interna, che possa permetterne la distinzione, non sono sovrapponibili. Il guanto della mia destra non conviene alla mia sinistra, una vite destrorsa non s’adatta entro una madrevite sinistrorsa, che pure abbia lo stesso raggio e lo stesso passo.

La diversità dunque non si spiega considerando gli oggetti in sè. Si tratta, secondo Kant, d’una differenza che nasce dalla loro relazione collo spazio assoluto, ove si trovano immersi.

Che due oggetti simmetrici abbiano le stesse proprietà interne — obiettiamo noi — si può soltanto affermare quando ci si limiti alle relazioni di grandezza. In realtà invece lo spazio non perde il suo carattere di relatività, considerando insieme alle relazioni di grandezza, relazioni di ordine. E perchè mai queste ultime dovrebbero attribuirsi allo spazio assoluto, se pure son relazioni tra oggetti?

Riduciamo l’argomento a’ suoi minimi termini per comprenderne meglio la portata. Sopra una retta considero due coppie di punti AB, A’B’ simmetriche rispetto ad O. Per quanto nelle due coppie non si riscontrino diversità di grandezza, non è tuttavia possibile con uno scorrimento sulla retta, portarle a coincidere (in modo che A vada in A’ e B in B’). Gli è che le due coppie differiscono per l’ordine in cui si succedono i punti che le costituiscono, ed è questa una differenza che appartiene tanto poco allo spazio assoluto, all’intuizione pura, che si può esprimerla in termini logici indipendenti dalla stessa intuizione della retta.

Le critiche dei filosofi euclidei contro la pangeometria, si posson talora confutare anche più facilmente.

Prendo di mira Lotze, perchè è senza dubbio il filosofo che ha fornito agli euclidei gli argomenti in apparenza più [p. 23 modifica]formidabili. Mi basterà soltanto di rilevare come la trattazione matematica di Lotze s’apra con una petizione di principio. Egli comincia con questa definizione:29

Due rette diconsi parallele, quando, preso sull’una un segmento AB e sull’altra un segmento uguale A’B’, i due segmenti AA’, BB’ risultano uguali. E così fa a meno del postulato delle parallele.

Ma il più modesto matematico s’accorge, senza grande sforzo, cbe il postulato è incluso nella definizione stessa, la quale richiede appunto l’esistenza di due linee che soddisfino a quella certa proprietà.

L’errore di Lotze coincide sostanzialmente con quello che quindici secoli prima, in un’epoca di ben diverso sviluppo del pensiero scientifico, era stato commesso da Aganis. Il quale definiva come parallele due rette equidistanti e da ciò traeva la dimostrazione del postulato euclideo.

Un circolo vizioso anche questo, perchè l’ipotesi, implicitamente racchiusa nella definizione, che cioè sul piano il luogo dei punti equidistanti da una retta sia ancora una retta, equivale al postulato che Aganis si proponeva di dimostrare.

Nè più ne meno.

Il concetto della relatività dello spazio è stato spinto dal Poincaré sino ad un punto, che sembra veramente eccessivo.

Secondo quest’illustre matematico, gli assiomi geometrici non sono nè giudizi sintetici a priori, nè espressioni di fatti sperimentali; si tratta soltanto di convenzioni. L’esperienza ci serve come guida per sceglierle tra le mille possibili; ma la libertà di scelta è solo limitata dalla necessità di rispettare il principio di contraddizione. Una geometria non è più vera di un’altra: essa è solamente più comoda.30

Ora io non posso entrare in una critica dettagliata delle idee del Poincaré: altri matematici del resto l’hanno già fatta — il mio amico Enriques tra essi — e meglio di quanto io non potrei e non saprei. Mi basterà di considerare per [p. 24 modifica]poco una delle ingegnose e seducenti imagini del Poincaré, per mostrare come gli argomenti più formidabili ch’egli adduce in appoggio alla relatività dello spazio, si possano ritorcere contro la sua stessa tesi nominalista!

Imaginiamo un mondo racchiuso in una grande sfera e supponiamo che la temperatura assoluta sia ivi distribuita con una tal legge, che risulti massima al centro, decrescente continuamente dal centro alla superficie sferica e nulla sulla superficie stessa.31 Suppongasi inoltre che ogni corpo, animato o inanimato, movendosi dentro la sfera, assuma istantaneamente lo stato calorifico della regione che viene ad occupare.

Gli abitanti di un tal mondo fantastico si raffreddano avvicinandosi alla sfera limite ed essi ed i lor passi vanno perciò gradatamente impicciolendo, sicché se quei poveretti volessero raggiungere le colonne d’Ercole del loro mondo, s’accingerebbero ad un lavoro melanconicamente e infinitamente vano come quello delle Danaidi.

La vittoriosa spedizione polare del comandante Peary sarebbe un’inezia al paragone, giacchè l’ardito esploratore ha trovato ai poli qualcosa più dello zero assoluto e, almeno che si sappia, non è arrivato alla meta ridotto alle miserevoli condizioni di un punto!

In conclusione il mondo che noi ci figuriamo parrebbe infinito e illimitato a’ suoi abitanti. E che perciò? Dobbiam forse dire ch’essi scambiano l’illusione colla realtà? Per loro, con quelle date esperienze e con quel dato modo di percepirle, la sfera sarebbe positivamente, realmente, infinita e illimitata.

Affermare il contrario non si può, senza pretendere d’imporre la nostra geometria come verità assoluta, rivelata.... Cosa che nel caso presente potremmo forse fare senza troppi scrupoli, da che l’aver creato un mondo, come noi ora abbiamo fatto, dà pure qualche diritto.

Dire — come fa il Poincaré32 — che lo spazio è amorfo e che l’adottare una geometria piuttosto che un’altra significa soltanto dar lo stesso nome a cose diverse, non equivale forse a supporre l’esistenza di uno spazio di paragone indi[p. 25 modifica]pendente dai nostri sensi e dal nostro intelletto? E non si contraddice così alla relatività dello spazio, che pure il Poincaré sostiene con tutte le risorse d’una mente altissima?

Occorrono ancora nuove armi contro la tesi dell’assoluto? Ebbene, ce ne forniscono altre, e formidabili, le moderne vedute sopra i fondamenti della meccanica.

La meccanica classica, che il genio di Newton avea costruito nello spazio e nel tempo assoluti, cede ormai dinanzi alla nuova meccanica elettro-magnetica. La scienza, abbracciando una serie più ampia di fenomeni, rispetto ai quali gli ordinari fenomeni meccanici son giuochi grossolani d’ima natura primitiva, si vede costretta dai fatti ad abbandonare il comodo schema dell’assoluto, sul quale la mente umana s’era adagiata fiduciosa per tanti secoli!

Lo stesso concetto della misura del tempo, colla introduzione del cosidetto tempo locale di Lorentz, subisce una trasformazione profonda, che ne pone meglio in rilievo la relatività. Ne si tratta in vero di cose astruse o nebulose, ma al contrario di idee limpidissime e semplici.

Immaginiamo un osservatore in quiete in una posizione A dello spazio. Intendo parlare, beninteso, di quiete relativa, p. es. rispetto alle stelle più lontane, alle cosidette stelle fisse. Quest’osservatore, per discrezione, non si preoccupa di disquisizioni psicologiche sulla nozione di tempo, ma, bonariamente, prende come tempo l’indicazione del suo orologio. Egli è così in grado di stabilire il tempo di ogni avvenimento vicino a lui. Ma per un avvenimento che si svolga in un altro luogo lontano B, la cosa è diversa.

Supponiamo pure che in B vi sia un altro osservatore, col suo bravo orologio.

Il primo osservatore nota il tempo in A, il secondo il tempo in B, ma non perciò restano collegati temporalmente gli avvenimenti relativi ai due luoghi. Ci vuole un mezzo di segnalazione che sia istantaneo o che si trasmetta con velocità cognita. Da che la luce si propaga colla rispettabile velocità di 300000 km. al secondo, è probabile che i due osservatori si porranno in relazione mediante segnali ottici. Tanto più che nell’ambito dei fenomeni consueti — quando cioè [p. 26 modifica]non si tratti di fenomeni elettro-magnetici — essi potranno trascurare addirittura il tempo impiegato dalla luce nel propagarsi. I due osservatori dovranno cominciare ad accordare i loro orologi. Qual’è la condizione di sincronismo?

Conveniamo che il tempo impiegato da un segnale luminoso che emana da A per arrivare in B, si misuri facendo la differenza tra l’indicazione dell’orologio in B, all’arrivo, e l’indicazione dell’orologio in A, alla partenza. E analogamente per un segnale che da B ritorni in A.

Allora la condizione affinchè i due orologi siano sincroni, è che il tempo impiegato dal segnale per andare da A a B, sia uguale al tempo impiegato dal segnale stesso per riflettersi in B e ritornare in A.

In tal modo, se lo spazio è popolato da miriadi di osservatori muniti di orologi sincroni e di adeguati mezzi di segnalazione, si potranno estendere dovunque le osservazioni temporali relative ad un luogo. E si avrà una misura del tempo indipendente dal luogo, ma dipendente dal sistema — le stelle lontane — rispetto a cui i nostri osservatori stavano fermi.

Sarebbe quasi quasi un tempo assoluto, se le stelle fossero assolutamente fìsse, nello spazio vuoto, immobile, che i filosofi dell’assoluto sanno concepire.

Ma la cosa comincia ad imbrogliarsi quando i due osservatori si muovono e vogliono porsi in relazione coi soliti segnali, giovandosi di due orologi sincroni nello spazio in quiete.

Invaginiamo la semplice disposizione seguente: I due osservatori si trovano coi loro orologi alle due estremità A, B d’una sbarra rigida rettilinea, la quale scorre con moto traslatorio uniforme lungo una retta, nella direzione AB. Un raggio luminoso, lanciato da A verso B, arriva in B più tardi di quando la sbarra era in quiete, perchè mentre il raggio va da A a B, il punto B sfugge nella stessa direzione. Invece un raggio luminoso lanciato da B, arriva in A più presto, perchè mentre il raggio s’avvicina ad A, il punto stesso A gli va incontro. Concludendo: quando i due osservatori sono in quiete le segnalazioni impiegano lo stesso tempo per andare da A a B o da B ad A, mentre quando i due osservatori si muovono, pur restando sempre rigidamente collegati, le segnalazioni impiegano nei due sensi tempi diversi. In tutto ciò è implicito il postulato fisico seguente (principio della costanza della velocità della luce): La luce si muove rispetto al sistema [p. 27 modifica]in quiete con una determinata velocità, che è indipendente dallo stato di quiete o di moto della sorgente luminosa.

Se pertanto i due osservatori in quiete giudicavano contemporanei due avvenimenti, che si svolgevano nelle vicinanze rispettive di B, A, essi non li giudicheranno più tali durante il moto traslatorio.

Naturalmente questo divario si presenterà soltanto quando gli strumenti di misura, di cui dispongono i due osservatori, arrivino ad apprezzare il rapporto tra la velocità di traslazione e la velocità della luce. Non c’è perciò timore che questo scombussolamento del tempo si presenti a disturbarci nella pratica della vita. Quand’anche i veloci e leggeri aereoplani venissero di moda per tutti, la nostra velocità resterebbe pur sempre trascurabile rispetto a quella della luce.

Comunque sia, resta accertato che non si può dare alcun significato assoluto al concetto della misura del tempo.

Ecco dunque, che se noi ci troviamo in un ambiente mobile rispetto alle stelle fìsse, e imaginiamo definito il tempo entro quest’ambiente, mediante la solita folla di orologi sincroni, i quali siano ora in quiete rispetto all’ambiente, avremo un tempo diverso da quello dello spazio in quiete. Si tratterà di un tempo locale, di un tempo relativo all’ambiente considerato.

Questa concezione si è presentata del resto come una necessità fìsica, per spiegare certi fenomeni elettro-magnetici. Se nella elettrodinamica dei corpi in moto, fosse lecito riferirsi al tempo dello spazio in quiete, la teoria lascierebbe prevedere la possibilità d’avvertire il movimento traslatorio della terra rispetto all’etere, mediante esperienze interne elettromagnetiche. Mentre invece il noto esperimento di Michelson e Morley prova il contrario!

La meccanica newtoniana poteva rappresentare bene i fatti, pur fondandosi sul concetto di tempo assoluto, perchè i fenomeni ch’essa considerava erano di tal ordine, da lasciare in ombra le differenze tra i varî tempi locali. L’elettro-magnetica fa invece risaltare queste differenze e, almeno in certi casi, ci costringe a rinunciare a Newton.

Un’altra circostanza un po’ sconcertante, rispetto alle nostre abitudini mentali, è che della rivoluzione compiuta sull’idea di tempo, spetta la sua parte anche allo spazio. Una sbarra rigida, la quale strisci lungo una retta con moto [p. 28 modifica]traslatorio uniforme, viene per ciò stesso a subire una contrazione nel senso del moto.

Quest’affermazione, così brutalmente enunciata, sa subito di paradosso. Essa contiene infatti un’apparente contraddizione in termini. Si parla d’una sbarra rigida, e poi nel momento in cui la rigidità deve giuocare, rivelandosi nell’invarianza della lunghezza durante il movimento, s’afferma che la sbarra s’accorcia. Ma insomma, è rigida o no questa benedetta sbarra?

La prima volta che Lorentz, per completare il quadro dei fenomeni ch’egli voleva spiegare colla sua teoria, ha parlato di questa contrazione, Poincaré ha affermato piacevolmente che si trattava di un «coup de pouce». Ma dal 1904 in poi la cosa è stata notevolmente chiarita dalle ricerche dell’illustre fisico olandese, alle quali si riattaccano le analisi accurate e profonde fatte successivamente da Einstein e da Minkowski;33 così che oggi si può stabilire facilmente la portata del «coup de pouce» lorentziano.

Figuriamoci ancora il nostro spazio in quiete — rispetto alle stelle fìsse — e l’ambiente mobile, animato da moto traslatorio uniforme, entro cui abbiamo poco fa definito il tempo locale. Un medesimo fenomeno si presenta con apparenze diverse, secondo che venga osservato dallo spazio in quiete, o dall’ambiente mobile: si ha così un’immagine del fenomeno in ciascuno dei due spazi. Ognuna di queste immagini è determinata da un certo sistema di valori, che ne assegnano il luogo e il tempo nel relativo spazio. Il legame fra i due sistemi di valori, espresso in termini algebrici, dà la cosidetta trasformazione di Lorentz.

Nella elettrodinamica dei corpi in moto, il gruppo delle trasformazioni di Lorentz compie lo stesso ufficio, che, nella dinamica classica, è adempiuto dal gruppo delle traslazioni: anzi, quando la velocità della luce si possa ritenere praticamente infinita, il gruppo di Lorentz riducesi senz’altro al gruppo delle traslazioni.

Una volta ottenuta l’espressione effettiva della trasformazione di Lorentz, con facili sviluppi, che certo non è qui [p. 29 modifica]il caso di esporre, si riesce a determinare la lunghezza d’una sbarra rigida, collegata coll’ambiente mobile, rispetto ad un’unità di misura, la quale sia restata in quiete. Il numero che s’ottiene è diverso da quello che esprimerebbe la misura della sbarra, se pur essa fosse rimasta immobile. Ed è così che vien fuori la contrazione! Nè ripugna ammettere che si possa tisicamente arrivare a constatarla, mediante strumenti e dispositivi opportuni.

Ma allora, l’assioma della congruenza delle figure, che prima dichiarammo in un certo senso a priori rispetto all’esperienza, sì da dover esser posto alla base di ogni geometria che voglia rispecchiare una forma d’esteriorità, viene in tal modo demolito?

Adagio! Quell’assioma derivava dalla relatività della posizione e chi lo salva, nonostante la contrazione lorentziana, è ancora il principio di relatività. Per l’osservatore che è trascinato solidalmente coll’ambiente mobile, e che prima della partenza pel viaggio traslatorio si era munito della sua brava unità di misura, la sbarra non si contrae affatto. Il principio di relatività esige appunto che il risultato ottenuto entro l’ambiente mobile mediante successive sovrapposizioni dell’unità sulla sbarra, sia lo stesso di quello che s’otterrebbe se osservatore, sbarra e unità di misura fossero in quiete.

Per continuare senza sconcerto ad affermare che la sbarra che noi sentiamo sì solida e resistente, è veramente rigida, basterebbe che ci incomodassimo a seguirla nel suo viaggio!

Padova, Università.

Francesco Severi

Note

  1. Enriques, Problemi della Scienza; Zanichelli, Bologna, 1906; p. 278.
  2. Klein, Ueber Riemann’s Theorie der algebraischen Functionen und ihrer Integrale; Teubner, Leipzig, 1882.
  3. Ardigò, L’inconscio («Rivista di filosofìa e scienze affini», Padova, ottobre-dicembre 1908).
  4. Veggasi p. e. in Enriques (op. cit. pag. 274) la interpretazione fisica del teorema: In un triangolo isoscele gli angoli alla base sono uguali. Ivi si troveranno citate anche le lezioni in cui il Klein, pel primo, trattò questo ordine di questioni.
  5. Klein, Conférences sur les mathématiques faites au Congrès de Chicago; Hermann, Paris, 1898; pag. 46.
  6. Schopenhauer, Le monde comme volonté et comune représentation, traduit par Burdeau (Paris, Alcan, 1890-93-94), t. II, p 265. Del resto anche Euclide può star contento, che ha la sua parte: «Il metodo d’Euclide non è infatti che una brillante assurdità» (t. I, p. 76).
  7. Poincaré, La science et l’hypothèse; E. Flammarion, Paris, 1904; p. 35.
  8. Cfr. Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria («Rivista filosofica». Pavia, marzo-aprile, 1901) n. 6.
  9. Ardigò, Opere filosofiche, t. VII; Draghi, Padova, 1898; p. 343.
  10. Riemann, Ueber die Hypothesen welche der Geometrie su Grunde liegen (Göttingen,1867); Oeuvres mathématiques, p. 280; Gauthier-Villars, Paris, 1898.
  11. Con un’analisi un po’ accurata, che è stata fatta da Enriques (Sulle ipotesi che permettono l’introduzione delle coordinate in una varietà a più dimensioni, «Rendiconti del Circolo matematico di Palermo», t. XII, 1898), si riesce a precisare sotto quali ipotesi, non involgenti affatto determinazioni di misura, sia possibile localizzare un elemento entro un continuo ad n dimensioni, mediante n coordinate. Questo risultato si oppone ad una obiezione filosofica che è stata rivolta contro la tesi empiristica di Riemann. Volevate mostrare — gli è stato infatti obiettato — l’origine empirica degli assiomi geometrici, e non vi siete accorto d’aver posto a priori le condizioni per la misurabilità? (Cfr. B. Russell, Essai sur les fondements de la géométrie, traduit de l’anglais par M. Cadenat; Gauthier-Villars, Paris, 1901; pp. 80-83).
  12. Zöllner, Wissenschaftliche Abhandlungen, Leipzig, 1872.
  13. Wells, The Plattner Story and Others (Tauchnitz Edition, Leipzig, 1900, vol. 3436).
  14. A proposito della stereoisomeria dei composti d’azoto cfr. p. e., Ramsay, Stereochemistry (Longmans, London, 1907), Ch. IV. — Ved. pure l’articolo Chemische Atomistik di Hinrichsen e Mamlock nella Encyklopädie der Mathematisehen Wissenschaften, Bd. V, p. 382. — Pel prodotto cui s’allude nel testo veggasi E. Wedekind, Die Entvicklung der Stereochemie des fünfwertigen Stickstoff im letzen Jahrzehnt («Sammlung Chemisclier und Chemisch-technischer Vorträge», Stuttgart, Enke, 1909, Bd. XIV, 5 Heft). Questo prodotto offrirebbe un caso di stereoisomeria, pur non essendo tutti diversi i radicali che impegnano le valenze dell’atomo d’azoto pentavalente; mentre invece lo schema nello spazio a 4 dimensioni, farebbe prevedere la possibilità di stereoisomeri solo nel caso in cui si avessero 5 radicali diversi.
  15. Poincaré, La valeur de la Science; E. Flammarion, Paris, 1905. Ch. IV. Veggasi sopratutto il § 5, p. 124. Ved. anche del medesimo Autore, Science et méthode; E. Flammarion, Paris, 1908, Livre II, Ch. I. Ved. sopratutto a p. 117 e seguenti.
  16. E. von Cyon, Das Ohrlabyrinth als Organ der Mathematischen Sinne für Raum und Zeit; Springer, Berlin, 1908. Ivi si troveranno citati anche i lavori precedenti dell’A. sullo stesso argomento.
  17. Non si può tuttavia tacere che le osservazioni di Rawitz e Cyon sono state contraddette dal punto di vista fisiologico e anatomico da Panse, Alexander e Kreidl.
  18. Revue philosophique; F. Alcan, Paris, 1901, n. 7, p. 20. Lo stesso articolo trovasi riprodotto con aggiunte nel Cap. III dell’opera ora citata.
  19. Revue philosophique, 1902, n. 1, p. 87.
  20. Chi voglia vedere con precisione quali erano le premesse di Euclide, può consultare l’articolo di G. Fano, La geometria non euclidea, in questa «Rivista», 1908, t. IV, p. 257. Una chiara esposizione storico-critica della geometria non euclidea è dovuta a Bonola: La geometria non euclidea; Zanichelli, Bologna, 1906.
  21. Riemann, loc. cit. parte III, § 2.
  22. Beltrami, Saggio di interpretazione della geometria non euclidea, «Giornale di matematiche», Napoli, 1868, t. VI; pp. 284-312.
  23. Veramente, date le considerazioni del testo, sarebbe lecito concludere soltanto in relazione alla geometria a due dimensioni e per regioni superficiali limitate. La dimostrazione completa, cui qui non era affatto il caso d’accennare, deriva, nel modo più spedito, dalle cosidette metriche-proiettive di Cayley-Klein.
  24. «Eine Wissenschaft von allen möglichen Raumsarten wäre ohnfehlbar die höchste Geometrie, die ein endlicher Verstand unternehmen könnte». Kant, Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte, § 10 (1747).
  25. Cfr. Couturat: Les principes des mathématiques; F. Alcan, Paris, 1905; p. 181.
  26. Kant, Critique de la raison pure; F. Alcan, Paris, 1905; p. 66.
  27. Cfr. Russell, op. cit., p. 175.
  28. Clifford, Il senso comune nelle scienze esatte; Dumolard, Milano, 1886; pp. 269-270.
  29. Lotze, Metaphysik; Hirzel, Leipzig, 1884; p. 247.
  30. Poincaré, Science et Hypothèse, p. 66.
  31. Ibidem, p. 85.
  32. Poincaré, La valeur de la science, p. 60.
  33. Einstein, Zur Elektrodynamik bewegter Körper (Annalen der Physik, Bd. 17, Leipzig, Barth, 1905) pp. 891-921. — Minkowski, Baum und Zeit («Jahresbericht der deutschen Methematiker-Vereinigung», Bd 18, Hft 2, Leipzig, Teubner, 1909) pp. 75-88.