Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli (1920)/XVIII. Ser Pietro de' Faitinelli detto Mugnone
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XVIII
SER PIETRO DE’ FAITINELLI
detto MUGNONE
I
Nessuno può conoscer bene la natura femminile.
Uom può saper ben fisica e natura
e legge con Decreto e Decretali,
e conventare in divina Scrittura
4e in tutte sette l’arti liberali,
nigromanzia, alchimia o ver d’augúra,
e proprietá d’uccelli o di animali,
e le virtú de l’crbe, chi ’l procura,
8e ’l pregio de le gemme orientali.
Ma femmina, secondo mia parvenza,
non saccio chi conosca interamente,
11tanto ha fallaci e grige sue parole:
ché de’ profeti pieni di sapienza,
ed uomini quant’e’n’ha sotto al sole,
14gabbati ne rimaser malamente.
II
In dispregio della femmina.
In buona veritá, non m’è avviso,
avvegna ch’elio piaccia a la Scrittura,
che femmina pur veggia il paradiso,
4non che v’appressi a far dentro calura;
né che Dio padre li formasse ’l viso
a simiglianza de la sua figura:
anzi fu, per sacramento preciso,
8la femmina diabolica fattura.
La femmin’è radice de l’inganno;
femmin’è quella, che ogni fraude alletta;
11femmine pensali ogni mal e fanno.
Ma ben ho la credenza ferma e netta
che alquante, ma ben poche, ve ne vanno,
14per non lassar santa Maria soletta.
III
Scherza sulla morte della sua donna.
Io non sconfesso, Morte comunale,
che pur non tegna dono e cortesia:
ch’entrasti ’n corpo de la donna mia;
4e, s’io ne fosse ingrato, farei male.
Ma era si tua amica speciale,
e stata sempre a la speranza tia,
che non li dovei romper compagnia:
8or disdi’ poi che non se’ misliale!
Deh dimmi come ed onde fu tua entrata
e gita, ché v’avia piú forti passi
11e stretti, che tra Còrduba e Granata.
Gran maraviglia panni che v’entrassi;
e piú, che non vi se’ dentro affogata:
14ben credo, Morte, che ti disperassi!
IV
Impreca vedendo sovvertiti al mondo i valori morali.
Ercol, Cibele, Vesta e la Minerva
voglio adorare, e rinnegar la fede
di quel tortoso Dio, nel qual uom crede,
4che né diritto né ragion osserva.
Giudeo vo’ diventare: e, di conserva,
d’arianiste e di Fotino erede,
Neron tiranno, Erode e Diomede
8e senza pietá Medea proterva.
A Mecca intendo di finir mia vita,
lá, o’ Macometto giace e sta sospeso
11in aere per virtú di calamita.
Ch’i’ veggio ’l reo montato e’l buon disceso;
drittura, fé, leanza esser perita;
14e, da cui l’uomo serve, essere offeso.
V
Non conviene fidarsi delle apparenze d’amicizia.
Per ch’uom ti mostri bel piacer o rida,
e doniti saluto allegramente,
non l’appellar amico mantenente,
4e, s’tu sei ’n guerra, noi ti far tua guida.
Ché le parole son vento, e le grida,
e’n su quel punto non costan niente;
cosí costasse la profferta un dente
8a quei cotali e chi di lor si fida!
Ché tutto ’l mondo è pien di tradimento
con false viste e con infingardie,
11e d’asciugar berrette ad un bel vento.
E quest’è suon de le sentenzie mie:
chiunqua si fida in vista o mostramento,
14senz’altra prova, fa mille follie.
VI
Consiglia i potenti a non essere superbi.
L’orgoglio e la superbia poco regna,
che Cristo non gli ponga suo termino;
di ciò potem veder verace insegna:
4Lucifero ne fu messo al declino.
Carlo, per suo oltraggio e gran disdegna,
perdeo Cicilia, ch’era in suo domino;
ancor in Pisa, mente ciascun tegna,
8morto ne fu ’l gentil conte Ugolino.
Eccon’un altro esempio e simiglianza:
quei da la Torre, di Milan segnori,
11distrutti fúr per lor tropp’arroganza.
Però conseglio quei, che son maggiori,
ch’abbian umilitade e temperanza,
14non soperchiando lor par né minori.
VII
L’ignavia del re Roberto rovinerá lui e la parte guelfa.
Non speri ’l pigro re di Carlo erede,
non del valor, se ’l guelfo muta stato,
tener lo regno, Puglia e ’l principato,
4Abruzzo né Calabria, come crede.
Né in Provenza pensi metter piede;
levante con ponente i fie levato;
Currado e ’l re Manfrcd’i fie mertato
8da’ neri e ghibellin senza merzede.
Stiasi pur in Napoli o in Aversa,
in Capua, Teano o vuol in Calvi:
11ché l’aquila ha ghermito giá San Salvi.
Oiinè, ché sol a dirlo par ch’i’ smalvi!
La parte guelfa fu in esser dispersa:
14or sermoneggi, e dica prima e tersa.
VIII
Ma i guelfi son cosí sicuri di vincere!
Se si combatte, il mio cuore si fida
di vincer, per ch’avem piena ragione,
e tre figliuoi di re per nostra guida,
4e gente paladina un milione,
da non fuggir per le tedesche strida,
le quai ci spaventar una stagione;
chi Uguccion prenderá, pur non l’uccida,
8ma menilo in Firenze per pregione.
E simil faccia de’ guelfi pisani
e de’ lucchesi, che tradir lor terra,
11Pogginglii maladetti e Quartigiani.
Per tutta Italia lor briga si sferra!
E gli altri mandi senza occhi né mani,
14ad eternai memoria d’esta guerra.
IX
Invece la loro stoltezza e i loro errori li portano alla sconfitta.
Poi rotti séte a scoglio presso a riva,
guelfi, per vostro sciocco navigare,
non sbigottite di setta cattiva:
4brigate un altro stuol di ratinare
di quella franca gente, che non schiva
tedesca vista, che vi fa tremare;
ma questo in vostro cor sempre si scriva,
8che non si dé’ nemico disdegnare.
Di che sentite grossa disciplina:
chi non guata com’va, convèn che fugga;
11udite, ch’anco è buona la dottrina.
Signor, volete voi che si distrugga
la traditrice lepore marina?
14Qui fa mestier altre arme, che di fuga.
X
Ed è ormai imminente il trionfo decisivo dei ghibellini.
Veder mi par giá quel da la Faggiuola
re di Toscana: io dico d’Uguccione,
il qual tenia le volpe tutte a scuola;
4e parmi udir gridar giá le persone:
— Muoiano i guelfi! fuor fuor, mariuola
muoia re Berta, quell’avar treccone! —
Veggio ’l vicar gittar giú la mazzuola,
8e misser Pier fuggir senza ’l pennone.
E veggio incendio, taglia, ruba e stento
d’uomini e donne e fanciulli di cuna,
11e ’n tutta Italia il guelfo nome spento.
Berta ci vende per empir la Bruna
ben meglio; ma per un ne sto contento:
14che Federico avrá ciò, ch’e’ rauna.
XI
Quel, che occorre, per poter sopraffare gli avversari.
Giá per minacce guerra non si vénze
né per la borsa stringer, ciò m’è avviso,
né per dormir né per andar assiso,
4mirando le donzelle per Firenze;
non per gridare: — Viva viva il prenze!
non per giucar né per istar doviso:
ma per unirsi e per mostrar lo viso,
8per senni, per larghezze e provvidenze.
Di sopra siete, se ’l mio dir s’adempie,
in quanto non vi attuti lo dispendio
11la lepre, che vi fa grattar le tempie.
I’ ho compreso assai ’n breve compendio
Dio vi purgò l’altrieri de l’opre empie
14per eternai di Pisa morte e incendio.
XII
E spento l’antico valore dei fiorentini.
Voi gite molto arditi a far la mostra
con elmi e con cimiere inargentate,
e par che lo leon prender vogliate,
4per Firenze entro, quando fate giostra.
E, per magnificar la terra vostra,
che non n’è oggi de le piú onorate,
a guisa di conigli v’intanate:
8e ’l viso, ove si dèe, non si dimostra.
Lassate far la guerra a’ perugini,
e voi v’intramettete de la lana
11e di goder e raunar fiorini.
Voi solevate soggiogar Toscana;
or non valete in arme tre fiorini,
14se non a ben ferir per la quintana.
XIII
Rinfaccia a Castruccio Castracani il suo tradimento contro la propria cittá.
Si mi castrò, per ch’io non sia castrone,
Castruccio, quando Lucca fu tradita,
che de’ miei lombi è la lussuria uscita,
4e vivo in castitá per sua cagione.
Con tre lupin del mio faccio ragione,
e senza alcun multiplicar di dita;
messo di gabellier piú non mi cita,
8né per lo dazio temo di piccone.
Di ciò, c’ho detto, lui ringrazio e lodo;
ma sottomise a Pisa sua cittade,
11ed al crudel tiranno piú, ch’Erodo.
E non vi fu trovato umanitade,
potendosi passar per altro modo:
14di questo abbia quel grato, che vi cade!
XIV
Soffre nel trovarsi esule da Lucca caduta in soggezione dei pisani
Onde mi dèe venir giuochi e sollazzi?
onde mi dèe venir molti con risa?
onde, se non tormenti d’ogni guisa?
4onde mi dèe venir, se non ch’io impazzi?
Avròe mai novelle, che mi agazzi?
No, secondo che ’l mio cuore s’avvisa:
che veggio Lucca mia castcl di Pisa,
8e’ signor fatti servi de’ ragazzi.
Veggiola ontata, nuda ed abitata,
non da lo suo antico abitatore,
11ma da color, che l’hanno si guidata.
E non mi par veder fronde né fiore
di far cosí per fretta la tornata:
14ond’io porto asto grande a chi ci muore.
XV
S’intenerisce pensando al giorno, in cui rivedrá la patria.
S’io veggio in Lucca bella mio ritorno,
che fi’ quando la pera fie ben mézza,
in nullo cuore uman tanl’allegrezza
4giá mai non fu, quant’io avrò quel giorno.
Le mura andrò leccando d’ogn’intorno
e gli uomini, piangendo d’allegrezza;
odio, rancore, guerra ed ogni empiezza
8porrò giú contra quei, che mi cacciorno.
E qui me’ voglio ’l bretto castagniccio,
’nanzi ch’altrove pan di gran calvello;
11’nanzi ch’altrove piume, qui il graticcio.
Ch’i’ ho provato si amaro morsello,
e provo e proverò, stando esiticcio,
14che ’l bianco e ’l ghibellin vo’ per fratello.
XVI
Ma intanto, pur nell’esilio, si rallegra che la signoria di Castruccio
abbia spazzaTo il governo dei demagoghi.
Io non vo’ dir ch’io non viva turbato,
ch’io son di I.ucca nato,
e tengo del taulier la man di fòre:
ma, quando mi rimetto ben per core
5come ’l senno e ’l valore
e ’l nobil sangue v’era diventato;
e Truglio e Luglio e Mastin, Farinato,
Faben, Britto e Casato,
Migliaio e Argomento eran signore,
10e ’l Maestrello cestai’, Puccin tintore
e Cuper carradore,
Nuto, il Feccia, Antel, Vestito e Dato,
Gigliotto fabbro, Ner, Chele, Accordato,
Cinel, Din, Bigi e Mato,
15Cin pattumaio e Vita portatore;
odi, cittá gridata, per mio amore:
s’i’ riacquisti mio onore,
Lucca, è’ piú da piacer, che ’n l’altro stato.
Or non vi può far leghe e furerie
20Vippa, ser Lippo, Lotto e ser Comuccio,
Guercio, Michel, Borguccio,
Bontur né Pecchio, che spazzò le vie;
né Nello, mercenai’ popolaruecio,
germoglia per vigor di compagnie,
25né puote star colie
per tórre a bocca aperta, come ’l luccio.
Deh che ben abbia l’anno, l’ora e ’l die,
che fu signore il nobile Castruccio,
a ponere giú il cruccio:
30c’ha tutte spente queste tirannie.
XVII
I — AL. DA PISA
L’alleanza delle cittá toscane contro Pisa minaccia a questa lo sterminio.
Mugghiando va il leon per la foresta:
per allegressa egli ha ’l capo levato,
ed ha seco il caval, ch’è disfrenato;
4con l’orsa si trastulla e fa gran festa.
E la pantera del valor li presta,
e parte ne li ha dato da l’un lato,
per che’l inastili di ciò l’ha comandato:
8e questo pure è cosa manifesta.
Conviensi oMai la lepre di guardare;
il leone e la lupa odi c’han fatto:
tes’han le reti e vòglionla pigliare.
E di questo son fermi ad ogni patto;
non li varrá ’l fuggir, ch’ella sa fare,
14né ’l giucar de le volte, questo tratto.
Il leone e la lupa in posta stanno
per consumar la lepre e farli danno.
2 — RISPOSTA DI L. DA PISA
Ma Pisa saprá sfuggire al pericolo.
Amico, guarda non sia mal di testa,
o che noi punga suo dolore usato,
per che a mugghiar si mova, o altro fato,
4che forse il tuo leon forte molesta.
Ché menar d’allegrezza tal tempesta,
come tu di’, per che gli abbia donato
la pantera del suo, non per suo grato,
8ma per mostrarsi ne l’ubbidir presta,
non seria senno: ché, se annoverare
chiaro vuol’, vedera’ che del baratto
doler si può vie piú, che rallegrare.
Guárdisi non cavalchi come matto,
senza freno, il cavallo, che suol fare
14 talor di schiena, a chi lo sprona ratto.
La lepre allegra sta, né teme inganno
di reti, che quei falsi tese li hanno.
L’arguta lepre, con suo senno e forsa,
non teme lupa né ’l leon né l’orsa.