Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo VI

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Capitolo VI - Dei Pelasghi Tirreni

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Capitolo V Capitolo VII


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CAPO VI.


Dei Pelasghi Tirreni


Nessun argomento di controversia ha occupato da più lungo tempo, nè con maggiore sagacità, la mente di grandi eruditi, quanto il nome e la storia dei Pelasghi; e tuttavia nessun argomento è più incerto. Gli antichi stessi non ebbero che poche, e assai dubbiose notizie sopra questo popolo enimmatico, il qual era di già svanito quando incominciò per i Greci la loro istoria. Onde ciò che ne scrissero i mitologi e genealogisti, che ricopiati d’età in età sono ancora il fondo di tutto quel che sappiamo della razza pelasga, è talmente insufficiente, contradditorio, e di più rivestito di tali e tanti colori poetici, che può quasi dirsi opera perduta, dopo sì molti naufragi della filologia, il voler ridurre a certezza istorica le tradizioni di secoli, dove appena si vede luce. Senza toccar perciò nè della problematica origine dei Pelasghi, nè delle spesse migrazioni, di cui va intessuta la loro istoria, sì per l’Asia, come per l’Europa, materie fuor del tema da noi divisato, ci limiteremo soltanto, e secondo che porta il nostro debito, a trattare più particolarmente delle tribù o schiatte di questa nazione mischiatesi, come si dice, nei fatti italici dell’età vetusta1.

[p. 84 modifica]Narrava Ferecide, che molti Arcadi condotti da Enoteo e da Peucezio, ambedue figli di Licaone, presero terra con loro navilio nella bassa Italia, là intorno al golfo Ionio, diciassette generazioni prima de’ tempi troiani2. Qui stanziatisi vi diedero l’essere e il nome agli Enotri, e ad altri popoli circostanti; perlochè, secondo quel racconto, tutto appoggiato alla storia favolosa de’ Licaonidi, sarebbero dessi i primi originarj Pelasghi, che occupavano sotto nomi diversi buona parte dell’Italia meridionale. Ma nè costoro, inabili al navigare, poterono colà trasferirsi per mare3, nè l’Arcadia, regione sì piccola nel centro del Peloponneso, tutta montuosa, agreste, ed in particolar modo usata alla vita pastorale, abbondava di tanti abitatori da poter mandare di fuori sì numerose colonie, senza mai spopolare se stessa: massimamente ad una età, in cui nella Grecia intera, piena di violenze e di ladroneggi, viveva ciascuno per natura vita salvatica e fiera4. Dimostreremo appresso con ragionevoli argomenti che gli Enotri, i Conj e gl’Itali, occupanti una stessa terra, anzichè di stirpe arcadica o pelasga, s’appartenevano insieme al tronco originario degli Opici: talchè in somma tutto questo fatto de’ Licaonidi, comunque accomodato in altre leggende [p. 85 modifica]greche5, non può in verun modo accettarsi dalla critica istorica.

Ellanico al contrario nella Foronide6 riferiva, che altre tribù di Pelasghi scacciati dalla Tessaglia dal ramo degli Elleni, che allora abitavano più indentro nelle montagne a settentrione, se ne vennero per variate fortune nell’Epiro. Di quivi solcato il mare approdarono a Spina, una delle foci del Po: indi s’avanzarono nella Tirrenia, e vi si collocarono. Ma, secondo che prosegue tutta la narrativa di Dionisio, il quale compilava in forma d’istoria le relazioni stesse degli antichi poeti e dei mitologi7, molta parte di loro stanziarono a Spina: altri ne partirono, dirigendosi alla volta degli Umbri nelle montagne. Questi popoli fieri ed agguerriti, che tenean sue dimore in quelle alture, costrinsero a viva forza gli stranieri a varcare di colà i gioghi dell’Appennino. Giunsero i Pelasghi intorno al Tevere: si collegarono quivi con gli Aborigeni sfuggiaschi anch’essi, e nemici ai Siculi; e guerreggiando insieme in quel tumultuoso movimento di popoli paesani e stranieri, che abbiamo di sopra toccato8, si fecero pure signori di [p. 86 modifica]gran tratto di paese, nel centro stesso d’Italia. Cotanta fortuna non ebbe per li Pelasghi lunga durata: perocchè, afflitti da calamità e discordie, come narrava Mirsilio Lesbio9, la più gran parte di loro, abbandonate sue stazioni sessant’anni avanti la caduta di Troja, si disperse per abito di vita vagante in più lontane provincie. I luoghi già tenuti dai Pelasghi vennero così di mano in mano occupati dai circostanti vicini, e singolarmente dai più prossimi Tirreni od Etruschi.

Questi medesimi Pelasghi, per avanti abitatori della Tirrenia, son giusto coloro che portarono indi appresso il nome di Pelasghi-Tirreni, e lo trasmessero alla loro discendenza. Comparvero essi dopo molte vagazioni nell’Attica: ebbero ricovero dagli Ateniesi sotto Imetto: vi costruirono nell’Acropoli il muro chiamato pelasgico: abitarono gran tempo in Lenno ed Imbro, di poi che n’ebbero scacciato i Minii: e finalmente costretti dagli Ateniesi a nuova emigrazione andarono a posarsi parte nell’Ellesponto, parte in sulla costa della Tracia, e nella penisola di Atho10. Quivi si terminarono le sue lunghe e penose peregrinazioni; ma la schiatta di loro ritenne ovunque il soprannome di Tirreni, a ricordanza del paese donde venivano11. Nè certo di poco momento erano i motivi dell’ereditato cognome se, come dice Dionisio, i padri loro [p. 87 modifica]appresero l’arte marinaresca per la pratica avutane cogli Etruschi12. La qual sentenza non parrà neppure irragionevole, qualora si ponga mente, che venuti di lungi paesi per l’interna Tessaglia non potean questi Pelasghi, abitanti della terra ferma, essere dapprima in alcun modo assueti al mare. Dove che, dopo la loro partita dall’Etruria, si mostrano di per tutto non solo esperti, ma temuti navigatori e pirati.

Al tempo in cui Dionisio scriveva era comune credenza, che Pelasghi e Greci fossero originalmente uno stesso identico popolo: e questa falsa opinione è ancor sì famigliare a noi per istudio giovanile di poeti, ed è sì comoda alla nostra ignoranza della vera provenienza dei Pelasghi, che sarà difficile il vederla mai affatto sradicata dai libri. Non però di meno formavano i Pelasghi una nazione diversa e ben differenziata per dissomiglianze di vita da quella degli Elleni: son detti barbari o strani13; e la loro lingua, che sì notevolmente Erodoto distingue per barbarica14, sonava altrimenti della greca. Grandemente incerto, così nell’antica geografia, come nella storia, si è questo nome stesso di Pelasghi, vago quanto il popolo; ed ora attribuito a una sola razza distinta, ora a tutte le tribù nomadi, che se n’andavano erranti fino nel cuore della Scizia. Sicuro è bene che la prima stazione [p. 88 modifica]europea della gente cognominata pelasga ebbe luogo nella Tracia, sia che ivi pervenissero dalle mobili tribù asiatiche del Caucaso, che si portarono innanzi tra il mare Caspio e il mar Nero, sia che fossero usciti di più oltre, dalle nazioni indo-scitiche. Ed il lor continuo vagare guerreggiando da una regione all’altra, come mostrano le molteplici e instabili dimore in paese altrui, è anche pruova certissima, che dessi vivevano nel duro stato di pastori erranti. Nè diverso a questo era il concetto che s’avea di loro nell’Ellade antica sino da quando v’apparvero i Pelasghi la prima volta15: a tal che Eforo, il quale li teneva per Arcadi originali, ricusava loro fin l’essere di nazione, giudicandoli anzi una turba di feroci malviventi, a cui s’univano di luogo in luogo altre bande di animosi16. Con tutto questo i Greci, che per le proprie loro tradizioni domestiche nulla conoscevano di più antico delle razze pelasghe, incominciavano per lo più da quelle ogni origine ignota, greca o straniera si fosse, dopo massimamente che i Pelasghi divennero Elleni, e riceverono da questi il genio della lingua e delle fogge greche. Così dunque Dionisio, gran rettorico, il quale scriveva pe’ Greci, e per mostrare che i Romani, illustri insino dalla nascita, erano parenti e quasi d’uno stesso sangue, fondò [p. 89 modifica]nel racconto di Ferecide la sognata ipotesi, che gli Aborigeni, o sia i prischi popoli del Lazio, fossero Enotri o Arcadi Pelasghi: e di tal forma, dimentico egli stesso de’ suoi propri insegnamenti dei doveri dell’istorico17, mirava a tessere nel primo libro quel suo pensato sistema, che ad ogni modo dovea congiungere insieme le antichità italiche con quelle di Grecia18. Pure, conferma egli stesso, nè poteva occultarlo, non avere altra guida fuorchè le narrazioni mitologiche19: il che ci avverte, non ch’altro, con quanta cautela e dubitanza, considerato la natura di quelle storie poetiche, dobbiamo noi medesimi prestare orecchio alle facili narrative di eventi sì poco certi, e che per tante vie poterono essere trasmutati in novelle da relatori creduli, e di sì lunga età posteriori dalle cose narrate. Anzi, errava ancora inavvedutamente Dionisio, là dove pigliando Crestona città della Tracia fra Assio e Strimone, mentovata da Erodoto20, per la nostra Cortona, o sia la città di Corito secondo [p. 90 modifica]i poeti, faceva di questa con le parole d’Ellanico, la sede principale dei Pelasghi Tessali nella Tirrenia21.

Se però il racconto di Ferecide vuol aversi in tutto per favoloso, non può non riconoscersi in quello di Ellanico un qualche fondamento istorico. Che genti stranie sieno passate anticamente in Italia dall’altra riva dell’Adriatico, e nominatamente Liburni e Illirici, è un fatto certo. Che questi venissero in Europa per torme innumerabili da più lontani paesi, avanzandosi d’oriente in occidente, si può accertare ugualmente. Emigrazioni di tanta forza, e di sì gran numero d’uomini, comechè appena accennate nelle storie, doverono generare per fermo straordinari movimenti e rivoluzioni di popoli, se non ancora dar cagione al transito di coloro, che scacciati o respinti dai nuovi occupanti delle regioni più prossime all’Epiro, passarono di colà alla ventura nel lido italico del mare superiore. Gli stessi che i Greci nominarono Pelasghi tessali o epiroti, trasportati, come dicevasi, per fortuna di vento a Spina; e in sulle tracce de’ quali gl’Illirici, traversando il golfo, si condussero più di sotto alle marine inferiori dell’Italia, di dove, con la tumultuaria mossa degli Umbri, seguitarono quelle grandi mutazioni di popoli, che commossero insieme tutto l’interno della penisola da un lato all’altro22.

[p. 91 modifica] Così le nostre genti indigene si ritrovarono più o meno appressate agli stranieri, lo che assai per tempi mischiò le lingue, non meno che il sangue. E molto probabilmente le tradizioni raccolte da Ellanico intorno al passaggio dei Pelasghi in Italia per l’Adriatico, ed alla parte viva che eglino vi presero nelle guerre interne, si riferivano a queste medesime vicissitudini de’ nostri popoli, che il narratore da Lesbo non poteva conoscere se non imperfettamente. Forse ancora, come porta un’altra vecchia leggenda riferita da Nicandro di Pergamo23, venian confusi insieme da narratori imperiti Illirici e Pelasghi per sola corrispondenza di eventi. Onde dobbiamo pure attenerci al fondo di quel racconto credibilissimo, che talune delle genti che scorrevano in allora il mondo si ponessero ad abitare Italia, e quivi temporalmente vi partecipassero anche, come di luogo in luogo vedremo, nelle sue venture.

È vero che nella somma della letteratura greca e romana ritroviamo fatta menzione di molti luoghi e città d’Italia, che diconsi abitate o edificate da Enotri, Siculi, Tessali, Arcadi, Tirreni e Pelasghi. E chiunque crede ravvisare a suo senno in tutti questi popoli un medesimo ceppo pelasgo, è ben naturale che attribuisca loro altresì un esteso dominio, ed altrettanta parte nella civile istituzione. Ma, oltre che gli antichi stessi discordano assai sopra l’origine di ciascuno dei [p. 92 modifica]mentovati popoli; e che parecchi di loro son qualificati nativi di questa terra; non dobbiamo pure perder di mira, che viveva in Italia una gente italica numerosissima, prima che la straniera, e che dessa, come notiziano le memorie che abbiamo, e il complesso de’ fatti, già trovavasi aggregata in tante tribù, datesi di buon’ora alla vita pastorale ed agricola, e disciplinate da religioni e costumi suoi propri, quanto almeno comportava la grossa rusticità dei tempi. Gli scrittori latini ripetevano senza esame le narrative greche, e singolarmente quelle che più tendevano a nobilitare le origini di Roma, onde l’opinione che i Pelasghi, tenuti onninamente per Greci, avessero avuto dominazione in Italia, non fu solo cantata da Ennio, ma vi prese radice per ciò n’avea detto l’oracolo del saper romano Varrone24. Il perchè fino Tacito, che mira alle volte inopportunamente a far mostra di erudizione volgare, replica egli pure il racconto, che le lettere furon recate nel Lazio da un arcade pelasgo. Quest’uso bensì e sperienza di lettere attribuita ai Pelasghi del Peloponneso, è un mero detto di mitologi25, posto in credito dai soli scoliasti e grammatici. Ancorchè essi stessi, quando scrivevano, si può presumere ignorassero al pari di noi (nè di ciò vogliamo sdegnosi i poliglotti) quali si fossero questi caratteri e questa lingua dei Pelasghi. Nè fa [p. 93 modifica]prova di vero alcuna l’ipotesi, che il ramo semi-greco della lingua latina sia unicamente pelasgo; perciocchè il latino stesso ha tuttavia gran bisogno di essere sottoposto ad un’analisi critica, che scerna e distingua più rettamente i differenti e non tutti ben conosciuti elementi di cui si compone. Tra i quali non sono tampoco di disprezzarsi le derivazioni, che si van cercando nell’idioma indico dalla erudizione moderna. E allora forse apprenderemo una volta quali sieno le vere radici ed i temi della lingua, o delle lingue madri, che formarono la famiglia di queste nostre lingue italiche. Antiquarj e poeti non cessavano però di ricantare origini pelasghe, e si credean di più ravvisare o nell’Etruria o nel Lazio mostra di riti pelasghi: anzi, per poetici ingrandimenti, che ognor più viziarono la storia, essi posero da per tutto, a titolo d’onore, il suono e la signoria dei Pelasghi26. Ma tutte queste eran voci, non fatti istorici: per modo che quantunque non si nieghi la venuta di qualche sciame di venturieri nomadi portanti il nome generico di Pelasghi, con tutto questo la dimora loro in Italia, avanti che passassero altrove come Tirreni, fu troppo instabile, passeggiera e travagliata, per creder mai possibile che occupassero stabilmente e civilmente il paese dell’Etruria insino all’estrema Calabria: e vi tenessero di per tutto [p. 94 modifica]per tutto popoli grandi, città numerose, e reggie27. È così lieve la certezza istorica, o piuttosto il credibile, in ciò che fu detto concernente ai Pelasghi, che si rischia molto con siffatti materiali d’edificare in sulla sabbia. In oltre, chi non sa quanto siasi abusato finora senza discrezione del nome di questo disputabile popolo, sia per ispiegare con fantasie quel che manca alle storie, sia per accomodarvi a talento di scrittori ogni qualunque supposto delle comunicate dottrine pelasghe? Grandi motivi a dubitare sono e saranno ad ognora le aperte dubbietà, incertezze e contradizioni, che sì gli antichi come i moderni eruditi, a sazietà divulgarono sopra un tale argomento di tanto congetturale. Talchè se pur sempre si vuol esser cauti, specialmente poi in così oscura, avviluppata e insolubil quistione, ci guarderemo noi stessi proseguendo avanti da un troppo facile assenso, memori della filosofia.


Note

  1. Vedi Prideaux in Marm. Oxon. p. 127-190, dove con erudizione mirabile tutto ha raccolto il commentatore circa l’epoca pelasga. Niebuhr, Geschichte o sia Ist. dei Romani T.I. p. 16-65, Berlin 1827
  2. Dionys. I. 13.
  3. ἐπεὶ οὔ σφι θαλάσσια ἔργα μεμήλει: dice degli Arcadi Omero. Iliad. II. 121.
  4. Thucyd. I. 2. Cf. Ocell. Lucan. 3.
  5. Apollodor. iii. 8. i.; Pausan. viii. i. 3. Quest’ultimo, sebbene riferisca le tradizioni stesse degli Arcadi, dice cosa affatto puerile: che Enotro, cioè, col danaro di suo fratello Didimo si procacciasse le navi.
  6. Dionys. I. 28.
  7. παλαιῶν ποιητῶν τε καὶ μυθογραφῶν. Dionys. i. 13
  8. Vedi pag. 69 e 75
  9. Dionys. 1. 2. 3.
  10. Herodot. VI. 137.; Thucyd. IV. 109; Dionys. I. 28.; Pausan. VI: 28.
  11. Hellanic. ap. Dionys. I. 28.
  12. καὶ (οἰ Πελάσγοι) τῆς κατὰ τὰ ναυτικὰ ἐπιστήμης διὰ τὴν μετὰ Τυῤῥηνιῶν οἴκησιν, ἐπιπλᾶστον ἀπολελαυκότες. Dionys. i. 25.
  13. Hecateus ap. Strab. vii. p. 222
  14. Herodot. i. 57.
  15. γενεαῖς ὕστερον πελαλοὶ πλανώμενοι διὰ τὰς συνεχεῖς στρατείας καὶ μεταστάσεις. Diodor. v. 80
  16. Strabo v. p. 153
  17. Epist. ad Cn. Pomp. p. 767 sqq.
  18. Sic. in proem. 5. 6. et in I. 89. 90.
  19. Καὶ τὰ μὲν οὔν ὑπὲρ τοῦ Πελασγικοῦ γένους μυθολογούμενα τοιάδε ἐστί.
  20. I. 57. L’opinione posta innanzi dal Vesselingio (in Herodot. p. 26) è la sola accettabile. In cotesto paragone importante della lingua viva pelasga coll’ellenica. Erodoto, che non conosceva l’interno dell’Etruria, non poteva avere in mira Cortona sì distante, e forse a lui stesso ignota. Dionisio all’opposto senza molta considerazione, intese quel passo come gli tornava meglio. I. 29.
  21. Dionys. I. 28.
  22. Vedi p. 75 e appresso cap. viii.
  23. Ap. Anton. Liberal. 31.
  24. Serv. iii. 600; Macrob. Sat. i. 7.
  25. Diodoro nomina tra questi un Dionisio. iii. 66.
  26. Tal era il regno d’Aso, signor dei Pelasghi nel Piceno, cantato (ut fama docet) da Silio viii. 445. Ma chi potrebbe numerare le novelle dei grammatici, come Igino, che per la forma della loro calzatura trovava negli Ernici una razza pelasga?
  27. Qui soltanto fo menzione di Regisvilla, sedia d’un re Maleote tra Cossa e Gravisca, mentovato da Strabone, perchè si cita tuttodì gravemente, (chi lo crederebbe?) come una prova certa della signoria pelasgica in quelle contrade.