Storie incredibili/Edgardo Poe
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Traduzione dall'inglese di Baccio Emanuele Maineri (1869)
L'uomo della folla | ► |
EDGARDO POE
Tra le facoltà più atte a destare in noi il sentimento della meraviglia e dell’ammirazione vuolsi per certo annoverare la fantasia o, a dirla altramente, l’imaginativa; la quale, allora che si chiarisce col suo più fervido e brillante colorito e mostrasi d’una singolarità più unica che rara — la singolarità del genio — si rende capace degli effetti più mirabili e grandiosi. È in essa e per essa che, in arte, abbiamo il genere fantastico, il meraviglioso, genere tanto più raro e difficile quanto più facili e spessi possono essere gli scogli in cui s’imbatte l’artista cadendo nelle trivialità del ridicolo e del grottesco, soliti peccati delle nature pusille e mediocri.
La letteratura che convenientemente appropriasi le qualità del meraviglioso e le doti felici del fantastico, otterrà sempre gli effetti più forti e ammirabili, in modo speciale per gli spiriti mobili e dilicati e per le gentili e peregrine nature portate alle speculazioni mentali ed al ritiro.
Ogni manifestazione letteraria, presa nel suo complesso, ci appalesa una peculiare forma del pensiero; e la letteratura, se per un lato è varia e molteplice secondo la differente energia delle umane facoltà, rappresenta sempre per l’altro una specie di local colorito, assume, cioè, un aspetto che riflette costantemente l’indole, le aspirazioni, i bisogni d’una data gente, d’un dato paese; è la spontanea forma della coscienza e del pensiero della nazione cui serve.
Giova pertanto ammettere la perenne influenza del clima, del cielo, delle ragioni storiche, topografiche, tradizionali, ecc. sugli atti della nostra mente, sui moti del nostro cuore, in modo che il lavoro dell’arte chiarisca nel suo complesso la fisonomia della propria epoca, l’indirizzo di una speciale gente.
Dalle quali ragioni di fatto emergono le così dette letterature nazionali, che sono altrettante caratteristiche dello spirito dei vari popoli, legate nullameno tra loro e poste in armonia nell’uniformità e comunanza dello scopo, ch’è incontrastabilmente e invariabilmente per tutti umanitario e civile.
Tuttavia è qui pregio il notare che la singolarità d’uno scrittore non vale sempre a riflettere l’indole speciale d’un popolo; avvegnachè di spesso i requisiti delle sue facoltà, rifiutando ogni norma stabilita dall’uso o consecrata da’ principii, rivelino piuttosto una prerogativa nobilissima e svariatissima dell’individuo, riottosa ad ogni freno e legge, anzi che una partecipazione o derivanza d’uno spiccato carattere della propria razza.
Allora, cotali individui entrano a rappresentare nel campo letterario quanto di più volubile o lato esservi possa nelle elocubrazioni della mente; e, maestri abilissimi nell’arte d’esporre le più minute e cangianti parvenze del pensiero, usano i modi mirabili del fantastico a trarre, a commuovere, ad affascinare gli animi. — E qual più valente coloritore del letterato e del poeta, visionari per eccellenza, interpreti sagaci e geniali de’ più intimi entusiasmi, ministri primissimi e fecondi d’ogni più varia ragion dello spirito e del cuore?
Tra le nazioni che per ispeciale tendenza di natura sieno maggiormente tratte a quelle grandiose e strane manifestazioni dello spirito, certo è da annoverarsi in modo singolare la tedesca; la quale o per leggi dell’antica sua mitologia, o pei fasti conseguenti de’ suoi primi abitatori, o per la fosca natura de’ suoi cieli e l’influsso delle stesse sue terre, sembra compiacevolmente aggirarsi in una vaga nebulosità, ottemperare allo spirito mistico di sue leggende, discorrere gli astrusi e reconditi cicli delle speculazioni sue.
E nondimeno tali cause o disposizioni o caratteri, dissimili secondo i tempi, i luoghi e le genti, hanno sempre una ragion di essere congetturale o relativa, e molte fiate anzi la specialità o virtù di certe nature pare venga a distruggere ogni saggia e logica induzione a’ generali principii dell’osservatore; fatto che, nel caso, comproverebbe giustamente non tanto le qualità universali dell’uomo individuo quanto il privilegio d’individue nature.
Le quali idee appunto trovarono accesso, per rispetto al Poe, in noi, considerando la sua larghissima vena nel creare il fantastico, nello svegliare il meraviglioso, e studiando questo scrittore incontrastabilmente massimo in un genere sì poco consentaneo e poco a verso della propria nazione, dispregiatrice suprema d’ogni sottigliezza e ripiego metafisico; imperciocchè nessun popolo, com’è noto, per principii ed indole è più materialista ed utilitario del popolo delle Americhe.
Sotto il quale rispetto Edgardo Poe nel nuovo mondo potè sembrare un’anomalia e un controsenso; e la stessa sua vita errante e travagliata varrebbe ad offrire giuste e curiose osservazioni a chi si piacesse di perscrutare le recondite cause di un troppo apparente disordine.
In Germania puossi trovare chi più spiccatamente lo somigli in Ernesto Teodoro Guglielmo Hoffmann; e la vita stessa di questi due scrittori fantastici offre tali punti di contatto, che quasi quadrerebbe il rilevarli, pur indipendentemente dal loro merito artistico. Le loro abitudini morali, le sregolatezze, i contrasti dell’uno e dell’altro stabiliscono rapporti curiosi e degni delle più sottili induzioni. E nondimeno nell’appresentare all’occhio le mende d’uomini forniti delle più nobili e mirabili facoltà dello ingegno, havvi sempre qualche cosa che impone e addolora nello stesso tempo; vi è un non so che di pietoso o meglio di amorevole che ci spinge all’obblio, facendoci quasi persuasi che là dove gli entusiasmi della mente si mostrano più fervidi e pieni, ivi sia maggior debito d’indulgenza, una più forte ragione a miti consigli. Forse qui taluno potrebbe levarsi oppositore a cotal modo di vedere; ma non abbiamo noi inteso a sentenze, non mirato a pronunziare apoftegmi. Crediamo tuttavia che tale sentimento individuale possa avere il suo lato di buono; ed anzi egli è di tale natura che onestamente teniamo debba averlo.
A proposito dell’Hoffmann ecco quanto scriveva Gualtiero Scott: «Allevato pel foro, cuopriva da principio in Prussia parecchi uffizi inferiori nella magistratura; ma ridotto presto a vivere della sua industria, ebbe ricorso alla sua penna ed alla sua matita, oppure compose musica per teatro. Questo cambiamento continuo di occupazioni incerte, quest’esistenza errante e precaria produssero senza dubbio il loro effetto sopra uno spirito particolarmente suscettivo di esaltazione e di scoraggiamento, e resero più variabile ancora un carattere già tanto incostante.»
«Hoffmann infiammava ben anche l’ardore del suo genio con frequenti libazioni, e la sua pipa, compagna fedele, lo involgeva in una ammosfera di vapori. Il suo esteriore stesso indicava la sua irritazione nervosa. Egli era piccolo di statura, il suo sguardo fisso e selvaggio, che sfuggiva attraverso ad una folta capigliatura nera, svelava quella specie di disordine mentale, di cui sembra avere avuto conoscenza egli stesso quando scriveva nel suo giornale questo memorandum, che non si può leggere senza un movimento di raccapriccio:
« — Perchè nel mio sonno come nelle mie veglie i miei pensieri si portano soventi, e mio malgrado, sul tristo soggetto della demenza? Mi sembra, lasciando libero il corso alle idee disordinate che s’innalzano nel mio spirito, che esse mi scappino, come se il sangue spicciasse da una delle mie vene, che fosse per rompersi. »
Nullameno, havvi per l’osservatore una causa, cui deve attribuirsi un grande influsso, non solo in ogni opera d’arte, ma e specialmente negli atti e nell’intiera vita dell’ artista. — Ogni lavoro essendo, complessivamente, determinato dallo stato generale dello spirito e dai costumi predominanti di questa o di quell’epoca, l’arte non fa che afferrare e mettere in evidenza il carattere dominante degli oggetti e delle cose. In oltre, com’è noto, il sommo della coltura tende a risciogliere maggiormente le idee, a dare loro fluidità maggiore, più estensione, una elasticità sommamente analitica e quasi perfetta: lo spirito quindi si allontana sempre più dalle immagini, dai rapporti, dalle forme materiali e sensibili, raccogliendosi completamente in sè stesso e completamente usando l’energia d’ogni sua nobile facoltà. — Ora, se avvenga che per ragione d’indole, di tendenze e di principii l’artista trovisi affatto in urto con la maggior parte dei suoi concittadini; se avvenga che, soggiacendo ad una grande mobilità di sentimento, ad una fatale prerogativa di fantasia, più duramente risenta l’attrito e provi l’isolamento della società in cui vive, — ei certo scivolerà di facile nelle crudezze dello sconforto, si volgerà men restío alle tentazioni dello scettismo, s’abbandonerà quasi baldo alla foga delle passioni delire.
Tra le quali circostanze eccezionali l’ingegno si desta, si avviva e piglia, diremmo, una tensione d’elasticità straordinaria, di moltiforme potere, donde ha luogo una fantasia tutta propria, sui generis, singolare nell’arte, singolare nel carattere stesso della nazione. Ma è una forza tutt’affatto subbiettiva, la quale tuttavia nella sua estrinseca manifestazione ha o mostra di avere un non so che di somigliante a quella dei venerati responsi delle Sibille a Babilonia, a Delfo, a Cuma. Specialità, se vuolsi, fatali e talor disgustose, ma che non sono perciò meno atte a comprovare il fatto. — In Hoffmann, per esempio, allorché il vino aveva scaldato la sua fantasia, la conversazione si faceva gaia, copiosa di epigrammi, di frasi argute e di sali; e, se non parlava, davasi al disegnare, e in una taverna di Berlino scorgesi ancora conservato un albo istoriato di suoi umoristici disegni.1 La pipa ed il bicchiere erano i dispensieri obbligati degli estri più stravaganti e proteiformi di quell’uomo singolare.
Ma qui ci sembra dover estendere maggiormente le nostre idee, affinchè qualche sagace osservatore non ci appunti di avere trascurato certe ragioni filosofiche del caso.
La natura in ogni suo procedimento s’addimostra con legge d’antitesi, e le stesse moltiformi e molteplici faccie della sua eterna bellezza sono, in ogni suo ordine, perennemente nuove e perennemente splendide, appunto per la fatale e feconda legge dei contrasti, che manifestasi dappertutto nella materia, nell’intelligenza e nelle stesse forme morali.
Ogni grande individualità artistica spicca generalmente pei suoi medesimi oppositi. Essa ha, come Giano bifronte, due faccie — la luminosa e la oscura; due istinti — il fisico o animalesco e l’eroico o angelico; due coscienze — la buona e la malvagia. Nè è tanto superficiale e frivola la vecchia sentenza, «che ogni poeta o artista abbia dello stranio;» che anzi nessun adagio ebbe maggior dose di vero del presente. Noi non accenneremo i presumibili criteri nostri sulla ragione filosofica o fisica o morale per cui un individuo, per esempio, roso dal verme dell’ambizione o dall’avarizia o dalla crudeltà, abitualmente e con ostentazione favelli di modestia, di prodigalità e di filantropia e simili; o viceversa. Potremmo benissimo chiamare in aiuto le scienze mediche e i criterii comparativi delle discipline biografiche; ma, a nostro avviso, non avremmo maggiormente affermato l’esistenza di certi principii, poichè questo fenomeno — se tale dirsi voglia — appartiene esclusivamente all’essenza della natura umana.
L’idealità è il mondo del poeta, e l’idealità gli rappresenta in fantasmi, coloriti mirificamente dalla fantasia e vivificati dagli affetti, l’anelito finale di quella bellezza e di quella felicità ch’ei va sognando. Per lui la contemplazione della vita si fissa sui modi, sulle forme e sul fine intimo della perfezione; e tanto più il suo spirito si accende e si esalta nel campo infinito di quelle ispirazioni, quanto più forte ed anormale è la reazione che prova ritornando alla coscienza della realità che lo stringe. Ei considera ciò che dovrebb’essere, e si ribella a ciò che veramente è; in una parola, è coscienza ed istinto di tutto quanto lo circonda e lo comprende.
Per lo quale rispetto il poeta è reazione, reazione potente dello spirito sulla materia, è il rovescio della medaglia umana nell’età che discorre. Le cause che traggon le masse alla materiale speculazione, al cómpito positivo, all’utilitarismo, son quelle medesime che spingon lui nella via opposta dell’ideale, che lo disgiungono, lo separano, t’elevano in un’ammosfera strania, di antitesi, opportuna o inopportuna a’ suoi tempi. Nè credansi questi fatti di natura proprio singola, particolare; no: e’ si moltiplicano e dilatano con mirabile facilità, quasi con esiziale influsso. Ne volete una prova? Rivolgetevi alla stessa giovane America, questa grande e fortunosa patria dell’utilitarismo; e là troverete le prime e più potenti aberrazioni dello spiritismo — tavole semoventi, parlanti, evocazioni dei morti, ecc., ecc. — E non soltanto turbarvi le coscienze piccole, gl’intelletti deboli, ma uomini di conosciuto criterio, di fermi propositi, tanto da svegliarvi una specie di pubblica commozione e trarre la inferma quistione persino nella aula del Senato. Nè questi son fatti esclusivi, ma si potrebbero riscontrare, sotto, veste diversa, usando bene dei criterj, nelle più differenti plaghe del gemino emisfero, perchè son dovunque figli della natura, che in ogni luogo e in ogni tempo si addimostra con le sue anomalie, si rivela, con la sua alterna bellezza e singolarità.
Con questi dati vi sarebbe più forse a stupire di trovare Edgardo Poe in America?
Che! non è forse con questo stesso metodo, metodo d’antitesi, che noi potremmo rinvenire in questi ultimi tempi in Italia un valido esempio, d’indole assai ben diversa, nel grande ed infelice Recanatese? Non potrebb’egli il filosofo, studiando la solenne, virtuosa e sconfortante immagine di Giacomo Leopardi leggervi le miserie della patria, le umane nequizie, la lotta e l’obblio della ragione? Ma che andiam noi mai citando il Leopardi? Non abbiamo forse, più innanzi, il Tasso e il Galileo, i quali se valgono a dimostrare la perennità, la varietà, la fecondità dell’ingegno italiano, anche in secolo di massima decadenza, le loro vite bastano a dimostrare a viceversa quanto fosse indegna di essi, da essi discorde la nazione in quel secolo? Osservazione giustissima, convalidata dalle stesse parole del Balbo2.
Con ciò non intendemmo che ad alzare come il velo di certi fatti che di per sè varrebbero a suscitare una quistione altrettanto ardente quanto profonda; ma ci basta avere accennato una causa che riduce al suo vero valore i più appariscenti e cozzanti fenomeni dell’ordine morale — intellettivo con quello della materia.
Le eccezioni poi a queste disarmonie della materia con lo spirito costituiscono la vera sintesi della perfezione artistica umana, la quale nell’antichità pigliò nome da Omero, nel medio evo da Dante, nell’era moderna da Goethe.
Enrico Heine, Vittore Hugo, Schelley, Keats, Elisabetta Browning, Edgardo Poe, Balzac, Delacroix, Decamps e non pochi dei nostri connazionali poeti e pittori, passati e contemporanei, varrebbero a comprovare le antitesi, superiormente accennate, dei primi.
Ma torniamo al Poe.
Carlo Baudelaire, che tradusse in Francia i Racconti straordinarj, discorse della vita e delle opere di sì fantastico scrittore con critica saggia ed erudita, quasi addimostrando più che il freddo interesse dello studio e dell’arte, un amore profondo, amichevole e fraterno nel rivendicare la fama del Poe dai giudizj dell’americano Griswold, notissimo scrittore, il quale parvegli mettere a nudo i difetti dell’infelice suo compatriota ed amico con colorito men degno d’un’imparziale censura storica, che di un’invida e partigiana natura di privati sentimenti.
Non si spetta qui a noi il giudicare sulle ragioni del biografo americano e del francese, alieni così da ogni controversia come da un minuto e fisicoso esame al proposito: ma se ei pare aversi a rispettar in ogni sentenza privata e pubblica la verità, non è men vero però che le si debba far correre di conserva una cotale discrezione o fratellevole carità. Chè, nel dire il vero, questo havvi sempre di pregievole e imprescindibile — il decoro, qualità la quale senza offendere i fatti sa rispettare le persone, la cui assenza potendo parere inurbanità o invidia coi vivi, non di raro si qualifica irriverenza e sacrilegio con i defunti.
Il perchè ci riduce a prodigare la nostra debole ma giusta lode al Baudelaire, che tanto amore ci pose nelle cose del Poe, sebbene (e da ciò vegga il lettore l’imparzialità di chi scrive) nelle brevi notizie sul gran novelliere siasi per noi studiato di pigliare imparzialmente le orme dall’uno e dall’altro, anzi qua e là pure tener d’occhio Guido Cinelli, che per sua confessione accostavasi al Griswold. Il Cinelli, dico, che non solo con penna schietta e forbita diceva del Poe, ma dava ancora una degna versione del Doppio assassinio in via Morgue e del Ritratto ovale nella Biblioteca Nuova del Daelli, il quale, come ognun sa, dovette scontare ben amaro la colpa di dare buone opere al paese, perchè sventuratamente oggidì in Italia ha corso privilegiato sul libro il foglio volante, volgarmente gazzetta, il libercoletto ed il libercolo.
Rimettiamoci in carreggiata.
Or ecco per mettere in armonia le affermazioni nostre sulla forza di certe circostanze e più peculiarmente su l’influsso di certe abitudini, qual’è in tal caso quella dello sbevazzare, rispetto all’attività di nostre facoltà intellettuali; ecco, ripeto, come il Baudelaire, con parole che riflettono una sottile saggezza ed una cortesia pietosa, conchiude a proposito delle eccessive e perniciose libazioni cui abbandonavasi il prediletto suo scrittore:
«In molti casi, non certamente in tutti, io ho per fermo che l’ubriachezza di Poe fosse un mezzo mnemonico, un metodo di lavoro, metodo energico e mortale, ma proprio della passionata sua natura. Il poeta erasi dato al bere così come un letterato compíto s’esercita a far quaderni di note. Ei non poteva reggere, il meschino, al disío di svegliarsi visioni meravigliose e terribili, que’ sottili ed artificiati concepimenti che egli aveva incontrato in una precedente tempesta; eran vecchie conoscenze che imperiosamente il traevano, ed egli, il buon uomo, per riappattumarsi con esse pigliava la via più pericolosa, ch’era però la più dritta. E parte oggi giorno di ciò che forma, leggendo, il nostro vivo piacere, è ciò che l’uccise.»
Per verità se quest’ultima frase può sembrare truce, è non pertanto profondamente filosofica e mesta...
Taluno invero parve pigliarsela con quella sottigliezza metafisica, con quella quasi indefinita linea di scopo, con una specie di fantasticheria troppo allucinatoria non sempre adatta a stomachi digiuni ed agl’ingegni men che colti e gentili; con quel fare, insomma, che nell’analisi acuta del fatto superiormente trascende, alieno talora da ogni rispetto a’ principj così come da convenzionali ragioni. E pure questo fare per noi è criterio di ben altri giudizj, e ci dà prova speciale di sue elevate e straordinarie facoltà.
Nè il silenzio giova.
In questo secolo della materia, delle società di credito e delle borse, osare, come Poe, immettersi nel fantasmagorico mondo degli spiriti, evocarne i sogni e le molteplici svariate parvenze, non sarebbe stato cómpito possibile senza una virtù d’immaginazione potentissima come la sua; e tanto più quando si pensi ch’egli, americano, trovavasi di fronte al più duro positivismo, in mezzo ad un popolo sommamente, completamente utilitario, materialista, in somma, in tutta la forza delie tendenze, delle teorie, dei principj. Accoppiare la terribilità al valore dei concepimenti, disposare la satira alla filosofia con l’efficacia di una forma nuova, con un tessuto letterario d’una singolarità più unica che rara, egli è certamente proprio d’una natura fervida, d’una potenza di peculiari facoltà, a cui il dado dell’avversa sorte riesce come di sprone e d’incitamento.
Sui meriti poi di quest’arte noi cediamo intieramente la penna al succitato scrittore francese, i cui giudizj oltre all’essere perfettamente cónsoni ai nostri, rivelano un’esattezza compiuta, una dirittura per ogni verso squisita. Si vegga.
«Nel seno di questa letteratura dove l’aria è rarefatta, lo spirito può patire una angoscia vaga, una tema pronta alle lagrime e quel malessere del cuore ch’è proprio dei luoghi immensi e singolari. Ma fortissima si leva l’ammirazione e, d’altronde, l’arte è sì grande! Gli sfondi e gli accessori sono propri ai sentimenti dei personaggi. Solitudine di natura o moti di città, tutto ivi è descritto con brio nervoso, con fantastica vena. A guisa di Eugenio Delacroix, che sollevò l’arte sua all’altezza della grande poesia, Edgardo Poe si compiace di muovere le sue figure sugli sfondi azzurri e verdastri di quadri solenni, dove si distende la fosforescenza di corpi dissolventisi, e si presente l’avvicinarsi della tempesta. La natura così detta inanimata partecipa della natura degli esseri viventi, e, com’essi, è côlta da brividi ed impaura per tremito soprannaturale e galvanico. E l’oppio misura lo spazio immane, e l’oppio dà un senso magico a tutte le tinte, e fa vibrare ogni romore con una sonorità più significativa e solenne. Di quando in quando scene di grande magnificenza, sprazzate di luce e di colori incantevoli che s’aprono d’improvviso su intieri paesaggi, dove in fondo in fondo ai loro strani orizzonti vedi levarsi città orientali, e forme architettoniche perdentisi in distanze su cui il sole versa mirifico i mille colori della sua pioggia d’oro.»
I personaggi del Poe, o piuttosto l’ideale di Poe, l’uomo dalle facoltà acutissime, l’uomo dai rilassi nervi, l’uomo la cui volontà focosa e paziente lancia una sfida alle difficoltà più irte, quegli il cui sguardo si fissa con la durezza di una spada sugli oggetti che grandeggiano man mano ch’ei li fissa, — questo tipo, dico, è Poe stesso. E le sue donne, tutte luminose e malate, che muoiono dei mali più bizzarri, che parlano con voce ch’è suon musicale, — quelle donne non sono che lui, lui stesso; o almeno con le loro aspirazioni strane, col loro sapere, con la eterna loro melanconia, fortemente partecipano alla natura del loro creatore. Quanto poi alla sua donna ideale, alla sua Titanide, essa appare sotto aspetti differenti, ci mostra vari ritratti messi quà e là nelle sue poesie poco numerose, ritratti o piuttosto maniere di sentire la bellezza, che il temperamento dell’autore accosta e confonde in vaga ma sensibile unità, e dove vive forse più delicatamente che altrove quest’insaziabile amore del bello, ch’è il suo grande e vero titolo, o il sommario de’ suoi titoli all’effetto ed al rispetto dei poeti.»3
Si può dipingere meglio?
Che se talora, come sopra cennammo, la fisionomia dello scopo ha potuto parer indecisa e vagante, la sagacia dell’osservatore non seppe però molte fiate convenientemente addentrarsi nello spirito del poeta e nelle ragioni dell’argomento; — nè certo noi con ciò disconosciamo il fin supremo dell’arte, che in ogni tempo e in ogni luogo esser deve costantemente lo stesso, accoppiare cioè indissolubilmente il bello ed il buono, e facendola così ancella operosa e costante dello spirito e della morale coscienza.
Nè tuttavia sarebbe il caso di grande severità, se meglio si fissasse il principio, o se con più convenienza si tenesse dietro a tutte le manifestazioni sue. Che! non ci commuove essa dunque con sempre nuovi ed ineffabili tripudi la eterna danza degli astri s’un cielo? — Non è sempre religiosamente solenne il miracolo del creato in sul tramonto del sole? o lo spettacolo della vita esuberante alle prime linee porporine dell’aurora? — O una distesa di cielo interminata? o le rabide convulsioni della bufera devastatrice? o l’imperversare furente dell’Oceano? Anzi l’arte, imitando la natura secondo le aspirazioni dell’ideale, non fa che versare un raggio della sua eterna bellezza, che ne circonda, accendendo il cuore al vero per tutte le possibili e indeterminabili parvenze del bello, comprovando la moltiforme virtù delle nostre facoltà nel cómpito dell’imitare e del creare.
Nel quale uffizio il Poe riesce poeta sommo e straordinario davvero, e nessun più di lui sa con maggior finezza e grazia colorire metafisiche fantasie, nessuno scuoprire quella specie di meccanica del pensiero, la quale d’ipotesi in ipotesi, d’idea in idea, di principio in principio trae ad induzioni sottili, curiose e stravaganti quanto vuolsi, ma veramente ingegnose, piene di spirito e fino artifizio e talora d’una mirabile filosofia, non indegna di speciali apprezzamenti.
Non lo dissimuliamo certo: no; questa non è letteratura per noi; non è letteratura del nostro cielo, dell’indole e delle tradizioni nostre, del genio italiano. Noi possiamo benissimo comprenderle, queste forme dello spirito, possiamo ammirarle e valutarne convenientemente i pregi, non trasfonderle, immedesimarle in noi. Il classicismo greco— romano, tutto classicismo di plastica, che offre le sue tele con colori vivaci, semplici, armoniosi, sensibili, naturali, non è pretta convenzione di questa o quella scuola, di una setta, di un’accademia qualunque; ma deriva dalle suddette fonti, proviene da cause che possono essere modificate nelle differenti ragioni di epoche o di civiltà, non distrutte nella natura o sorgente loro, che rimane essenzialmente la stessa. — Ma è dessa forse letteratura americana, o inglese, o francese, o alemanna o qual’altra si voglia? — Ad altri più sagaci interpreti dei motivi dell’estetica il rispondere. Noi teniamo, sì, che il pensiero umano manifestisi con parzial colorito a seconda di questo o di quel luogo, di quella o di questa êra, ma non teniamo tale principio come assoluto, specialmente quanto agl’individui, le cui facoltà possono andare modificate e corrette, o rimanere in piena balía di sè stesse per virtù di certe circostanze e privilegio specialissimo di loro natura.
Per lo che l’individuo artista entra a rappresentare una delle più strane e mirifiche faccie della grande personalità umana, ossia della nostra mente; e tramanda un raggio fulgidissimo di una delle potentissime facoltà dello spirito, tanto più stupendo ed efficace quanto più avrà saputo approdare ad una nobile meta. E lì crediamo di giudicare con giustizia e verità!
E questo abbiamo noi avuto di mira nello studiarci di diffondere maggiormente in paese, mercè la presente versione, alcuni dei molti Racconti straordinarj, qua e là spigolati secondo il nostro gusto, di questo scrittore singolare; e li intitolammo Storie incredibili, quasi a qualificarne con giusto rigore l’indole e la natura loro.
Del merito poi della versione stiamo ansii alquanto, chè misurando la debolezza delle nostre forze e l’arte squisita da simili lavori richiesta, ne abbiamo ben donde; avvertiamo tuttavia che, appropriandoci il più che ci fu possibile le fantasie del poeta; insinuandoci secondo il debil nostro gusto e tendenze nelle regioni dell’animo suo, ci siam renduti scrupolo d’incarnarle, diremmo, nel pensiero italiano e di colorirle con forme e modi che riuscendo più aggradevoli al gusto nostro, traducessero nondimeno con efficacia maggiore e con ispirito di maggiore evidenza i concetti del grande americano.
Ci saremmo per avventura riusciti?
Non osiamo sperare tanto, e molto facciamo a fidanza con la cortesia del pubblico.
Intanto noi crediamo aver fatto opera buona, per intento, s’intende, con l’esposizione di questo saggio, avvegnacchè ci parve degno far conoscere ogni nuovo aspetto del pensiero letterario universale, — ogni fase, ogni rappresentazione di ogni raggio d’una delle più fulgide nostre facoltà — l’immaginazione.
Altri invero l’avrebbe potuto fare con maggior dirittura di criterj, acume di critica, valor di senno; noi invece ci siamo solo armati delle nostre buone intenzioni, e...
Ma bando alle parole vane: affrettiamoci solo a compiere al cortese lettore le notizie biografiche sul Poe.
Davide Poe avendo veduto un giorno Elisabetta Arnold, attrice inglese, celebre per la sua bellezza, ne fu preso irresistibilmente; e, abbandonati i suoi studi legali, fuggì con essa, la rendette sua moglie e, quasi a fermare in più soda maniera il proprio al di lei destino, si diede pure all’arte comica.
Era ragguardevole in Baltimora la famiglia Poe. In fatti, nella gloriosa guerra dell’indipendenza americana il di lui avo aveva fatto servizio in qualità di quarter-master-general, riportandone la stima e l’amicizia dello stesso Lafayette; il quale nel visitare più tardi gli Stati Uniti, alla cui redenzione aveva tanto efficacemente cooperato, volle vedere la vedova del generale e mostrarle la gratitudine serbata ai servigi del defunto marito.
Per sei o sette anni Davide Poe trasse sua vita sui principali teatri dell’Unione; ma la fortuna non poteva arrider molto ai talenti di una ordinaria mediocrità; e quando l’un dopo l’altro, a brevissimo tempo, i due coniugi vennero a morte, i figli loro trovaronsi senza tetto e senza pane, e, com’era naturale e forse peggio, senza un avviamento al mondo.
Gli orfani sventurati nomavansi Enrico, Edgardo e Rosalia.
Edgardo era nato a Baltimora nel 1813, come ei stesso sostiene contro il Griswold, che ne fissò a due anni prima la data. Ma il giovinetto trovava tosto un protettore amorevole nel signor Allan, ricco negoziante di quella città, uomo cordiale e già intimo dei Poe, che così divenne il patrono di rampolli infelici; e fece adozione di Edgardo, e il tirò su con benevolenza e cura paterne: onde il giovane nomossi da allora Edgardo Allan Poe.
Era desso di forme bellissime, di spiriti precoci e pronti, in modo che non tardò a dare nel genio della signora Allan che, non essendo confortata di figli, quasi lo predilesse di materno affetto; ed ei pure a ricambiarla, onorandola, di condegno amore.
Nulla mancava quindi alla sua prima educazione; — e gli adottivi genitori in un viaggio che intrapresero per l’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda, il lasciarono per quasi un quinquennio presso il dottore Bransby, alla scuola di Stoke — Newington, presso Londra. Le rimembranze di quella sua beata fanciullezza vennero dappoi mirabilmente disegnate e dipinte nella nota novella: Guglielmo Wilson.
Rimpatriato nel 1822, frequenta per alcuni mesi la scuola di Richmond, e, più tardi, fra il 1825 entra nell’Università di Charlottesville, dove le vivaci e potenti qualità del suo ingegno non tardano a dargli spicco e favore nel pubblico. Nè soltanto la singolar vivezza di sua mente lo rende primo negli studi, ma l’esuberanza di ogni sua facoltà lo spinge innanzi a’ compagni nell’esercizio della scherma e del nuoto, nella prontezza e facondia del dire; e da quel suo fare fervido e ghiribizzoso, dalla sua tendenza al declamare, dalla sua grazia e riuscita nel recitare ed esporre, si chiarisce ch’egli è preso dell’arte e figlio d’artisti.
Nondimeno, a che celarlo? gli amici ed amorevoli suoi furon côlti da tristi presagi. Rivelavansi nel giovane istinti e tendenze di passioni sinistre, tumultuose, audaci: la fervida natura e lo straordinario ingegno, sdegnosi di freno, prorompevano già con pertinace violenza; nè i consigli sennati e severi parevano allentare la balda foga dei baldissimi anni. Da allora, il giuoco, la crapola e la sfrenatezza lo strinsero nelle loro spire, e lo fecero colpevole di tali eccessi, per cui l’autorità scolastica videsi costretta di espellerlo dall’universitario consorzio.
Lo stesso Allan, l’amico e protettore suo, si era ormai scosso e spazientito alle ripetute scappate, facendo sentire di non volerne più sapere del pagare i debiti del giuoco, che Poe con grave sconsideratezza andava facendo, mercè tratte spiccate sul nome di Allan. Allora, stizzito e stracco, lascia l’America e s’avventura all’Europa in cerca di emozioni nuove, di più soddisfacente avvenire. E un’idea cavalleresca gli è sprone e sembra compiacevolmente esaltarlo nei sogni di un classico passato. Lo commuovono i fasti della Grecia risorta, della Grecia che, emula delle eroiche virtù de’ suoi maggiori, rompeva il giogo odiato del Turco per rimettersi nel seggio delle civili nazioni. Ma il viaggio del Poe in Oriente è incerto, misterioso ed oscuro, e, tra mezzo a scapigliature molteplici, eccolo un anno da poi a Pietroborgo, dove pare che la rilassatezza de’ modi e le giovanili ebbrezze gli abbian procurato nuovi disgusti, peripezie novelle.
Se non che per gli obbliganti uffizi di Enrico Middleton, ministro americano, fatto libero dall’arresto in cui era incorso, e ottenute dal medesimo gentilezze e sussidj, lancia la fortunosa Europa e nuovamente passa in America. Dove, riabbonitosi con Allan, entra per ispeciale sua cura nell’accademia di Westpoint (il primo istituto militare, com’è noto, dell’Unione), nel quale tuttavia, incapace a rimettersi degnamente in sè, non tarda a cadere negli antichi falli. Per i quali, casso in fine ed espulso, è costretto a dar nuovo indirizzo alla sua vita, in considerazione soprattutto delle mutate e difficilissime sue circostanze.
L’Allan di fatto, caduto in vedovanza, era passato in seconde nozze nell’ancor valida età di quarantasei anni; ma gli umori della nuova moglie trovando vivo attrito e grave disarmonia in Edgardo, ne avvennero scede, bisticci ed allusioni d’ogni sorta amare sulle nuove nozze. Onde, non atto al cedere, nè al contenersi capace, il giovane diè un ultimo addio alla casa del vecchio protettore, confidente a pieno nelle speranze della giovinezza e nei favori di una sorte men restia ed ingrata.
Nè più si volsero a suo favore le disposizioni di Allan, il quale venuto a morte dopo otto anni di convivenza con la seconda moglie, senza menomamente risovvenirsi dell’antico figliuolo adottivo, divise ogni avere a’ suoi tre figli ottenuti da questo matrimonio.
All’epoca della quale morte, 1834, il Poe, contava appena i vent’anni; onde, tenendo conto che già da otto s’era allontanato dall’antico protettore, se ne può inferire ch’ei si trovasse in pienissima balía di sè stesso tocchi appena i quattordici anni, attore incauto ed inesperto in questo pericoloso e fatale teatro della umana società, tra la livida miseria che da mane a sera allibivalo e il fuoco di passioni proterve che gli esaltava il fervore degli spiriti ridondanti.
Si conobbe. Era d’uopo lavorare percorrendo un cammino; lo tiravano le belle lettere e la fantasia facile e pronta; ei chiese l’ispirazione alla sua musa. Allora, occorrendo cioè i diciannove anni, diede fuori un volumetto di poesie, accolte dal pubblico con benevolenza discreta; ma, siccome il bisogno stringeva e quelle strettoje rendevansi ognor più insopportabili, pensò volgersi a scrivere pei giornali, occupazione tuttavia che non gli valse il prezzo da lui atteso e dalla quale non molto dopo si tolse, afflitto di disinganni e di nuove noie. Nè ormai più sapendo dove dare del capo, entra semplice soldato nell’esercito federale, in cui però fermasi brevissimo tempo; chè, ivi egualmente non sentendosi a suo posto, sempre irrequieto e preso di novità, diserta la bandiera proprio in quella che i suoi amici facevano ogni studio per facilitargli un avanzamento. — E di nuovo a ripigliare le lettere.
Or avvenne che il proprietario del Saturday Visitor di Baltimora avendo costituito un premio al miglior offerente di non so quale novella, il Poe pensasse di mandare al pallio certo suo Manoscritto trovato in una bottiglia, da lui pazientemente steso con bello e nitido carattere; idea che riuscì a felicissimo intento. Avvegnachè non sì tosto un de’ giudici ebbe gittato gli occhi su quel libriccino, e lettone come di volo alcune pagine, lo faceva passare ai colleghi, i quali poi di comun consenso deliberarono, il premio si dovesse assegnare «al primo dei geni che avea scritto leggibilmente». Tra i quali esaminatori e giudici trovavasi il noto e lodato scrittore Giovanni P. Kennedy.
Curiosa ma non rara! — Allora che l’editore ebbe presentato il Poe al signor Kennedy, questi rimase come trasecolato nel vedersi d’innanzi un giovinotto tutto pallido e spunto, col vestito abbottonato sino al mento, per non dar a vedere ch’era senza camicia, tutto lacero e malcalzo, tale insomma ch’avrebbe benissimo potuto passare pel ritratto della miseria o della disperazione. Pure, da’ suoi occhi brillava una intelligenza penetrante e viva che, unita a non comune beltà di volto, mostravasi presaga delle felici doti d’una speciale natura. La sua parola suonava mite e soave, i modi dolci e gentili, tanto che il Kennedy ne fu sedotto e se gli prese d’affetto. E quando l’editore, inviatolo al bagno, l’ebbe presso un sarto intieramente provveduto d’abiti e della biancheria occorrente, il giovinetto scrittore apparve uomo rifatto e tutto inclino a percorrere la retta via.
Il sul volgere del 1834, pe’ buoni uffizi del Kennedy otteneva il Poe d’essere ammesso scrittore al Southern Literary Messenger, dato fuori di recente a Richmond da Tommaso White; e siccome i letterari talenti del White valevano poco, il raccomandato del Kennedy, che allor correva i ventidue anni, conobbe d’avere ei solo sopra le spalle il grave peso d’una Rivista, della quale fissar doveva e rendere prosperi i destini.
Stanziatosi a Baltimora sino al settembre dell’anno successivo, di là spediva i suoi pregevoli scritti, che invero riuscivano molto a verso del suo protettore, specialmente per quel non so che di terrifico e per quelle tinte di strana fosforescenza che vi traspariano, massime nelle novelle: nel qual giornale tra le altre cose pubblicò la curiosa storia di Hans Pfaall.
Ma ei continuava a darsi ben poco pensiero d’una vita seria ed ordinata e, recatosi a Richmond, ricadde nelle antiche abitudini, talmente che, un giorno in cui aveva riscosso i suoi stipendi, tanto lascíossi andare al bere, che rimase un’intiera settimana bestialmente briaco ed inetto. E White allora a discacciarlo, e gli amici a rabbonirlo, ed egli ad arrendersi a condizione che il poeta smettesse una volta dallo andazzo funesto. — E dire che la prosperità del Southern Literary Messenger dovevasi alla maledetta bizzarria di quest’uomo, di questo incorreggibile briacone!
Ma se il Poe prometteva di buona voglia e talora con propositi convinti, sventuratamente non era più da lui il sapersi saviamente governare, chè la forza dell’abito tanto il tirava, che la memoria dell’odierna promessa perdevasi nella occasion del dimani. Sì che tra questo procedere ineguale e funesto, giunto il 1837, lasciò la Rivista per recarsi a Filadelfia, e a Nuova York da poi, dov’entrava scrittore della New York Riview, dalla quale nullameno tolse commiato non sì tosto ebbe messo fuori la sua prima scrittura di critica. Ed è nel frattempo ch’era passato a nozze unendosi a sua cugina Virginia Clemm, fanciulla di bellezza sorprendente, di natura amabile ed eroica, ma che non possedeva un solo quattrino. Il fatto è notato dal Griswold con una tal quale ironia: ma, se il Poe, artista compíto, credette appunto passare a matrimonio giusta le ragioni del cuore eccellentissime, certo i bisogni accresciuti e i moltiplicati doveri, del nuovo stato lo avrebbero dovuto far entrare in un metodo di vita più uniforme e sennato.
In su lo scorcio del 1838 lo troviamo fisso di stanza a Filadelfia, dove da attore ripassa a lavorare per giornali e scrive nel Gentleman’s Magazine di Burton, nel Literary Examiner di Pittsburg, componendo varie delle più strane ed interessanti novelle. Notiamo di preferenza La caduta della casa Usher e Ligeia, che i nostri lettori troveranno nella raccolta presente: ci condurrebbe tropp’oltre l’abbandonarsi a rilievi di merito speciale; e, d’altronde, ci spiace il prevenire l'indipendenza degli’altrui criteri. La fama intanto del Poe s’estendeva e le lusinghe de’ toccati favori pareano arrestare alquanto la foga delle solite inclinazioni; tuttavia non andò molto che la di lui condotta indispettì Burton; e così nuovi bisticciamenti, altre contese. E per verità non di rado avveniva che l’esattezza de’ suoi scritti non lievemente patisse delle scappate dello scrittore, incidente assai grave e disgustoso per una rivista o giornale, cui viene rigorosamente imposta la regolarità delle pubblicazioni. Da lì dunque i reciproci difficili umori, il rappiastrarsi e le paturnie che si protrassero sino al 1840, epoca in cui divenne inevitabile la rottura col Burton; onde, sebbene l’opra sua riuscisse sempre importante e precipua, nondimeno si dovette ritrarre. E vuolsi che in tale querela, oltre gli abituali suoi trascorsi, il Poe ci avesse la colpa di avere lasciato la stamperia senza originale, studiandosi così di mettere in esecuzione il disegno d’una sua Rivista, tutta propria; per cui avrebbe sottratto notizie dai libri dei soci e dei conti dello stesso editore.
Il Burton però non tarda ad unire la sua Miscellanea al Casket di Giorgio R. Graham, facendone venir fuori il Graham’s Magazine, al quale il Poe invia le sue migliori novelle, le sue più mordaci critiche, i suoi tanto noti scritti sull’Autografia e sulla Crittologia e le cifre. Nell’Autografia, svolgendo le idee del Lavater, o degl’italiani Pomponio Gaurico, G. B. Porta e dell’Ingegneri, intendeva all’affermazione dell’indole, carattere e natura degli uomini secondo la loro maniera di scrivere: sosteneva nella seconda, che l’arte della scrittura coperta, ascosta o in cifra, per quanto misteriosa ed arcana, non avrebbe potuto sfuggire alla penetrazione ed allo svolgimento dell’umano ingegno. — Era in questo stesso anno, ci pare, 1840, che Ch. F. Vesin stampava in Brusselle un volume in-8.° sotto questo titolo: La cryptographie dévoilée, ou art de traduire ou de déchiffrer toutes les écritures en quelques caractères et en quelques langues que ce soit, quoique l’on ne connaisse ni ces caractères, ni ces langues.
Questa forza penetrativa ed induttiva del Poe spiega il valore dimostrato nella deciferazione dei vari crittografi speditigli, e quell’arte di congettura veramente sottile ed unica delle sue novelle, non ultimo certo de’ meriti ch’ammiransi in questo scrittore.
Ma, come già col Burton, così ora per le stesse ragioni si stacca dal Graham appunto nel momento che la Rivista The Stylus era in sul prosperare, auspice di bell’avvenire. E nullameno tira innanzi un anno lavorando per sè e scrive Lo scarabeo d’oro, che gli procaccia un premio di cento dollari; e nell’autunno del 1844 piglia stanza a Nuova York.
Sin da che era entrato scrittore nel Messaggiere letterario, aveva il Poe cominciato una sua storia marittima, da poi pubblicata con questo titolo: Racconto di Arturo Gordon Pym, di Nantuket, ove si parla d’un ammutinamento e d’un atroce macello a bordo del brigantino americano Grampus, durante il suo viaggio ai mari del Sud, ecc. In quest’opera, la maggiore del Poe, studiasi con grande, semplicità di stile d’ottenere fede al racconto descrivendo minutamente le cose nautiche, particolareggiando fatti e circostanze a dar così alla narrazione sua quell’aria di verità e finitezza onde precipuamente si regge ogni subbietto. Nel qual lavoro però ei certo non arriva alle singolari attrattive del Robinson Crosue, e rimane pur addietro a sir Edoardo Seward: onde il Griswold afferma che la storia di Poe è piena zeppa di prodigi come Munchausen e di atrocità come il libro dei pirati, e colma di stragi e d’orrori a guisa o più dei libri di Anna Radcliffe e di Giorgio Walker.
Ma la fama del Poe erasi specialmente estesa e fatta grande pel merito singolare delle sue novelle o racconti, ch’avean sempre incontrato dovunque la più gioconda accoglienza. Le quali pompeggiavano di forma veramente nuova, e per genere singolarissime, tra un’ammosfera di soprannaturale che parve influire grado a grado anche su gli animi più pertinaci e severi; e ciò a causa di quella stessa finezza, acuità e maestria del grande coloritore. Sino al 1840 egli aveva pubblicato in due volumi le sue: Tales of the Grotesque and the Arabesque, a cui aveva man mano fatto seguire gli altri con soddisfazione del pubblico sempre più gradita, tanto in America che in Europa. In Francia specialmente vennero concesse in appendice le colonne dei più notevoli giornali, come Le Commerce, La Quotidienne, La Democratie pacifique ed altri. Più autorevolmente degna e propizia, la Revue des deux mondes, periodico in cui il valor delle materie onoratamente mantiensi in armonia con la distribuzione loro. Nelle cui pagine il citato Baudelaire mostrossi entusiasta eccellente dell’egregio scrittore e d’una sì fatta letteratura, con geniale calore e paziente sagacità voltando nella propria lingua i tanto rinomati Racconti o Novelle.
I lavori del Poe intanto si succedevano nella stessa febbrile attività de’ suoi eccessi.
Una mattina a Nuova York mentre mille e mille occhi avidamente scorrevano la sua notissima poesia del Corvo, e proprio allora che il suo nome di bocca in bocca volava segno di ammirazione e d’elogio, non pochi poteron vedere Edgardo traversare Broadway sconciamente barcollante pei cioncati liquori. Fatalità dolorosa che ormai uomo sì fatto fosse irresistibilmente trascinato a svegliare ed a spegnere nell’ebbrezza i più stupendi concepimenti del genio suo! — Seguì la sua Rivelazione mesmerica, ultima conversazione d’una morente sonnambula col proprio magnetizzatore; e dappoi: La verità intorno il caso del signor Valdemero, dove trovasi in iscena un soggetto mesmerizzato «in articulo mortis». E per vero la sua tenerezza ai principii mesmerici traspira dovunque ne’ suoi racconti, ed anzi i più geniali ed attraenti paiono derivare appunto da quegli arcani e mistici influssi ch’ei sa con tanto dilicatissima arte suscitare. Tali, a modo di semplice citazione, sentonsi aliare nella Caduta della casa Usher, nella Berenice, nella Morella e nella stupenda Ligeia. Ed ei sa così e così tendere le sue fila, che, sebbene molto tese, non si rompon mai.
Per sollecitazione del signor Willis e del generale Morris diessi a scrivere nel Mirror, dove trattennesi sei mesi appena, aggiugnendosi dappoi al signor Briggs nel condurre il Broadvay Journal, divenuto sua proprietà nell’ottobre del 1845. Ma questo, giornale durò breve tempo, cessando cioè nel gennaio del seguente anno; nel quale ei s’ebbe tirato addosso le calde ire dei Bostoniani per aver in un suo discorso vivamente frecciato il Longfellow. — Dal maggio, all’ottobre pubblica in sei numeri del The Lady’s Book «I letterati di Nuova York» ma nell’autunno di quest’anno cade di nuovo in miseria e si ritira in solitudine a sette miglia da Fordham. Che se la sorte ognor più gli mostrava il viso dell'arme, è forza affermare ch’ei ben poco faceva per rendersela amica; e, in mezzo a tanti guai, altri guai aggiugnevansi, e — massimi ed irreparabili — i dolori intimi, la più profonda ferita del cuore. Virginia Clemm, la prediletta compagna de’ suoi giorni, finiva la sua mortale carriera; e, come se ciò non bastasse, vivi è scandalosi ragguagli apparvero su pei giornali, relativi alla moglie, a lui ed alla nuda loro miseria, tra cui d’improvviso una nota crudele che gli rimproverava il suo disprezzo e disgusto del mondo e poneva a nudo le inclinazioni e le stranezze sue, acri requisitorie, come le chiama il biografo francese, dell’opinione, contro cui quasi sempre dovette vivamente combattere; e quest’ultima, una delle più dolorose ed opprimenti.
Compimento a tanti mali, poco dopo la perdita della consorte ebbe a patire i primi assalti del delirium tremens: il veleno del suicidio indiretto apertamente cominciava a divorargli la esistenza!
Disioso di metter da sè in piedi una Rivista e raggiungere quell’indipendenza che tanto stavagli a cuore, diessi alla speculazione delle letture pubbliche che in parte il confortarono delle toccate sofferenze. La lettura del suo Eureka, poema cosmogonico in prosa, che suscitò vive ed interessanti discussioni, venne fatta alla Society Library di Nuova York addì 9 gennaio 1848 in una lunga lezione di ben due ore e mezzo consecutive, di cui è del caso riferire alcune sue idee sulla cosmogonia dell’universo.
«Intendo parlare — sono sue parole — dell’universo fisico, metafisico e matematico; dell’universo materiale e spirituale, della sua essenza, della sua origine, della sua creazione, del suo destino. L’idea direttiva che mi studierò di far valere in questo libro si è che nell’unità originale della prima causa è riposta la causa secondaria di tutte le cose, insieme al germe del loro inevitabile annichilamento.»
Discorse egli poi il mezzodì e l’occidente degli Stati Uniti, sperando nel concorso de’ suoi amici in lettere e nelle vecchie conoscenze del collegio e di West-Point, visitando la Virginia e Richmond che, memore della povera e stentata fanciullezza dell’illustre suo compatriota, rividelo con gioia splendido di beltà e brio e corretto nei propositi nuovi. Aveva egli scelto a tema di sue letture Il principio della poesia, che trattò con la nota sua lucidità e finezza, sostenendo essere scopo di quella la stessa natura del suo principio e ch’essa non doveva aver di mira che sè stessa.
Ma i buoni propositi, cui da qualche tempo erasi dato, ebbero breve durata; omai la sua stella volgeva al tramonto e il corso dell’esistenza doveagli immaturamente essere tronco dall’avara parca. — Ecco intanto un aneddoto che vale a dar un’idea della singolar bizzarria del suo carattere.
Era corsa voce ch’ei dovesse stringere matrimonio con una delle più famose donne della Nuova Inghilterra, cui aveva un tempo consegrato il suo amore e celebrato ne’ suoi versi; pareva che la cosa non ammettesse più dubbi. Di fatto un giorno ecco come fassi ad apostrofarlo una sua amica:
— Vi faccio dunque le mie congratulazioni, signor Poe, per questo matrimonio.
— V’ingannate; amica, questo matrimonio non verrà mai fatto.
— Che! se io stessa ne udii le pubblicazioni alla chiesa?
— Lo credo benissimo, ma il matrimonio non sarà che una fiaba.
E qual prova ne dà il Poe?
Partito di Nuova York, recasi nella città ove abita, la supposta promessa sposa; v’attende la notte e, riscaldato quindi da forti libazioni, rendesi sotto le finestre della casa di lei; e lì a metter grida, a fare scede ed altre sì fatte sconvenienti diavolerie senza fine. La polizia interviene; il fatto si diffonde tra la disapprovazione generale, e il matrimonio è a monte. E di questa scena erasi egli fatto attore la sera stessa che precedeva le sposalizie; cosa per lui naturale; aveva mantenuto la parola data!
Nell’agosto del 1849, passato di Nuova York nella Virginia, imbattesi a Filadelfia coi suoi vecchi camerata che con le briose ricordanze del passato gli fan presto scordare i virtuosi propositi del presente; per cui dièssi ancora in braccio all’immoderata allegria, alla spensieratezza, e, scialandola come meglio poteva, prorompe ne’ funesti suoi eccessi. — Consumato sin l'ultimo quattrino e trovandosi povero in canna, si leva a proponimenti sodi, vuol porsi a nuova, stabile e sennata vita; e parve darne prove vere ed efficaci con entrare in una Società di temperanza!
E la vita più calma e serena gli suscita idee più miti, ed adequate, lo riconcilia con più dolci affetti e sembra fargli provare il bisogno di nuovo matrimonio con una signora già seco lui in relazione sin dai migliori anni; di fatti, decidesi a sposarla. Ma era dunque veramente rinsavito? — Conscio del proprio stato sentivasi egli abbastanza forte per conseguire la più difficile delle vittorie, la vittoria sopra sè stesso? — Le abitudini fortemente inveterate costituiscono ciò che nomasi seconda natura, la cui forza d’ordinario è delle più inflessibili e dure; nè si doma certo in pochi giorni l’opra lenta ed assimilatrice degli anni.
Ecco or l’ultimo, mestissimo atto della sua vita, che narriamo con le stesse parole del Cinelli, seguace del Griswold, cui tuttavia non risponde esattamente il Baudelaire.
«Il 4 ottobre mosse verso Nuova York per adempiere ad un impegno letterario e far gli apparecchi del suo matrimonio. Arrivato a Baltimora, diede la sua valigia ad un facchino con ordine di portarla ai carri che dovevano partire fra una o due ore per Filadelfia. Entrò intanto in una taverna a ristorarsi, e trovò conoscenti che lo invitarono a bere. Dimenticati d’un tratto i suoi proponimenti ed obblighi, venne in poche ore a tale stato da doverlo portare allo spedale, dove la sera di domenica, 7 ottobre 1849, morì in età di trent’otto anni».
Il francese non parla di matrimonio, e dice che il 4 ottobre, quando partì per Nuova York, si lagnava di brividi e di noiosa spossatezza. Che la sera del 6, mandata allo scalo la sua valigia per recarsi a Filadelfia, entrò in una osteria a prendervi un liquore qualunque; dove trovate vecchie conoscenze, obbliò il viaggio, i sani propositi, sè stesso, e vi passò la notte.
E prosegue:
«Nel mattino, in sul primo punto dell’alba, un cadavere fu trovato nella via (ci dovremmo spiegare diversamente?); bene, un corpo tuttora in vita, ma ch’era omai già stato impresso del fatal marchio della morte. Su questo corpo, del quale s’ignorava il nome, non si rinvenne nè una carta nè un quattrino, e fu trasportato allo spedale. — È lì che spirò Poe, la sera della stessa domenica, 7 ottobre 1849, nell’età di 37 anni, vinto dal delirium tremens, questo terribile visitatore ch’aveva già una o due volte tocco il suo cervello».
Ed è siffattamente che disparve dalla scena del mondo uno dei maggiori eroi della letteratura, l’uom di genio ch’ebbe scritto nel Gatto nero queste fatidiche parole: « E quale malattia può mai paragonarsi all’alcool?!»
No, noi non lasceremo il lettore sotto la dolorosa impressione di questo tristo dramma. E senza nulla detrarre al peso ed agli effetti di certi trascorsi, amiamo tuttavia meditare sull’influsso prepotente che inoculò la fatale cangrena nel cuore dell’infelice poeta. Avvegnachè coi morti, non ostante il massimo rispetto alla verità, hassi costantemente ad usare pietà civile, tanto più, come già si è alluso, doverosa e fraterna, quanto son maggiori i meriti dell’artista, i cui dolori, hanno forse più potentemente contribuito all’opra del suo genio. Nel che la soprabbondante bontà del cuore divenia profumo di virtù per estensione d’esempio e religione di civiltà per tutti, specialmente rispetto alle nature privilegiate come il Poe.
Che se del cuore sono giudici esimii le donne, nessuno poteva tesserne più degno elogio di madama Clemm; per la quale, rimasto solo, lo scrittore tennesi con temporaneamente come figlio e figliuola. Questa donna, che tanto aveva fatto per lui, scrivendo al Willis: «...Non ho bisogno — così chiudeva la sua lettera — di pregarvi di annunziare la sua morte e di dirne bene; so che lo farete. Ma vogliale dire quanto affettuoso figlio ei fosse per me, sua povera desolata madre».
E madama F. Osgood, amica al poeta, così diceva allo stesso Griswold: «Forse egli era tale quale voi lo dipingete, e, come uomo, avrete forse ragione. Ma posso assicurarvi in fatti che con le donne egli era tutt’altro, e che niuna donna potè mai conoscere Poe senza provar per lui un profondo interesse. Ei fu costantemente per esse un vero modello di eleganza, di generosità, di gentili maniere ».
Edgardo Poe era un bell’uomo, di quella bellezza fisica che riesce tanto a genio alle donne, perchè l’insieme della sua fisonomia arieggiava quel non so che di romantico la cui espressione ottiene sempre, e soprattutto col bel sesso, un influsso singolare. L’ampia sua fronte, in cui levavansi certe protuberanze che i frenologi avrebbero preso a ricettacolo degli organi della costruttività, del paragone e della causalità, pareva il degno seggio dell’idealità e dell’estetica più squisita. Grandi i suoi occhi, cupi e stranamente scintillanti; nobile e sodo il naso; fini e melanconici i contorni delle labbra, sebben talora a inesprimibil sorriso atteggiati; d’un colore bruno chiareggiante, aveva la faccia generalmente pallida, la fisonomia un po’ distrutta, su cui vedevasi lieve lieve errare abituale melanconia.
Notevole e proficuo il suo conversare, quantunque, non facile od elegante parlatore nel senso della parola; ma pieno di vasto sapere, di forti studi, d’impressioni variamente acquisite. La sua era eloquenza poetica per essenza, di metodo, immaginosa, sagace e talora strana e capricciosa.
Ma è tempo che l’uomo scompaia nella grande individualità dell’artista: qui è finito il nostro cómpito.
B. E. Maineri.
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