Tacito abburratato/IV. - Discorso settimo

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IV. - Discorso settimo

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III. - Discorso sesto V. - Discorso decimo

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IV

DISCORSO SETTIMO

Argomento.

Crispo Salustio fu favoritissimo presso Tiberio; ma di lui racconta Tacito che, aetate provecta, speciem in amicitia principis quarti vim tenuit. Idque et Maecenati acciderat, fato potentiae raro sempiternae, an satias capit, aut illos cum omnia tribuerunt, aut hos cum iam nihil reliquum est, quod cupiant. (Annalium, lib. III).

Questo Salustio Crispo, per quanto si ritrae da Tacito, mentr’egli di lui dice: incolumi Maecenate proximus, inox praecipuus cui secreta imperatorum inniterentur, era stato intrinsechissimo a Tiberio. Or s’ei veramente avea giá posseduta l’amicizia sostanziale, come poi cadendone, era sol rimasto con l’apparenza? Dirá alcuno, perciò che Tiberio aveva preso a odiarlo, come consapevol della morte scelerata, fatta dare all’innocente Agrippa, cosa attissima a destar aborrimento, conciosia che quegli, il quale sa le nostre sceleraggini segrete, sia da noi temuto, e chi è temuto molto agevolmente venga aborrito. Dirá un altro, con motivo dallo [stesso] Tacito somministratoli, che i prencipi son facilissimi nel ristuccarsi; onde, essendo ciò avvenuto nell’imperator verso Salustio, quindi giú lo avea balzato dal possesso vero della sua grazia. Ma per veritá, se Crispo possedea nell’amicizia la sodezza, fosse od odio o sazietá che avessel tracollato, non avria né quel né questa ciò operato in modo, ch’egli ancor amico di apparenza si rimanesse. Troppo poco sa di corte, chi non sa che i grandi passati con gli affetti da un estremo all’altro, senza che si fermino dentro alcun mezzo. Sono tutti ambizione, e tutta eccessi è l’ambizione. [p. 220 modifica]

Hanno sollevato alcuno? vogliono parer di averlo sollevato sopra tutti i cieli: ma lor non parria che ciò paresse, se, quando il precipitan, lasciasser che nella mezz’aria di amichevole apparenza ei rimanesse, poiché chi non cade fino all’ultimo profondo non dimostra di esser fin dalla suprema altezza precipitato. Unde altior esset casus, et impulsae praeceps immane ruinae.

Son ben fulmini alla forza dell’uccidere, ma non alla discrezione dell’uccider in maniera, che sorbendo l’anima, lascin (come spesso fa la folgore) le membra intiere nell’estrinseco sembiante, posciaché non sanno odiar l’originale, e consentire, che l’imagine pur duri loro appesa davanti gli occhi. E si come dalla qualitá delle vendette derivar si può argomento, qual sia stata quella delle offese: cosí ancora dal veder che i popoli, qualora ammutinati metton man nel prencipe, non si contentano, se dietro alla caduta dell’ucciso corpo non fanno anche andare le sue statue, può dedursi che abbian tale arte appresa dallo stesso prencipe, che dopo aver percosso alcuno nello scoglio della sua disgrazia, non permette ch’egli, benché spento, possa sopra l’onde galleggiar piú in alcun modo, ma si studia, che di lui si spenga ogni rimembranza. — No, risponderammisi: ei cadé soavemente in guisa da restarsi intiera in lui d’amico almen la faccia, se non la sostanza, perciò ch’egli non fu spinto giú dall’odio, ma dalla sazievolezza, che assai facilmente in petto a’ principi germoglia verso gli amici. — Or, che i principi si stufin facilmente, è vero: perciocché qualora io vedo presso del piacevol Luciano, che lo stesso Giove fa querele con Menippo, perché gli uomini, dopo i novelli dèi, s’eran di lui ristucchi in guisa ch’egli, il quale per lo addietro era possente a pena di alzar gli occhi pel gran fumo delle nobil ecatombe, adesso, senza alcun onor rimaso, si moria di fame assiderato su gli altari, piú assai nudi e freddi che le leggi di Platone o i sillogismi di Crisippo: io da ciò, vedendo preso il suddito da sazietade del sovrano, crederò altresi, che assai piú facilmente venga a noia del sovrano il suddito; e addur di ciò ragione non è difficile. Perocché [p. 221 modifica] le qualitá dell’animo alla tempera del corpo usano sempre di conformarsi. Quindi, sí come veggiamo, che i palati de’ piú grandi personaggi sono quelli che van sempre in traccia di novelli cibi, perché agevolmente stufansi dei primi, dove per contrario il vile fantaccino pascerá per lustri intieri sempre con ben saporita fame il pane stesso, le lattuche stesse, lo stesso cacio: cosí ancor gli affetti, che dell’anima sono il palato, piú negli uomini sublimi, che nella plebaglia, sono facili ad infastidirsi. Quindi ottimamente nella vita di Apollonio fu notato da Filostrato il costume del leone, re degli animali, che una volta attinta la primiera preda, mentre fuma ancor di caldo sangue, sdegna poi di piú toccar gli avanzi, confidando di poter ben tosto in robba fresca abbattersi con l’ugna altera. Quello aver esposti al proprio arbitrio tanti oggetti, proprietá del grande, e non poter fruirne piú che un sol per volta, proprietá dell’uomo, necessariamente dalla brama di ciò che può aversi nascer fa il fastidio di ciò che si ha, acciocché in cotal maniera, se non può godersi il tutto in uno, almeno ad uno ad uno si goda il tutto. Cosí il sole per mostrar di aver dominio sopra tutto il cielo a pena abbraccia nel zodiaco un segno, che tantosto stufo di esso passa ad un altro. Con ragion perciò a Platone, uscito appena dalle mani di Dionisio, disse un tale, che col principe volea trattarsi o soavissimamente o rarissimamente. E se ciò debba osservarsi dagli altri uomini ordinari, veggasi da ciò, che avviene a’ principi verso le mogli stesse, che son pur cara metade di lor medesimi. Il buono omiciattolo plebeo, sotto un angusto tetto, modellato sulla botte cinica, entro un letticciuolo, sol di due capace qualor stian come il cappello e ’l capo, con la sua donna consumerá ben quarant’anni, e sempre piú di lei famelico la tratterá da sposa ancora quando sia in etá di avola. Ma il principe per lo contrario in un palagio, al quale tutto un popolo non bastarebbe per famiglia, fa dormir la principessa alle Molucche mentr’ei dorme sul mar Baltico; va a ritrovarla non piú spesso che lui venga a ritrovar la veritá: né va mai, che prima non si chiamino a consulta medici e astrologhi, onde non ha tanta aspettativa una [p. 222 modifica] congionzion di luna e sole che abbia a fare eclissi in cielo, come quella di due uomini che sian per rompere un divorzio ambizioso in terra. E tutto ciò non è per altro, sol acciò que’ volontari impedimenti spargan i diletti di un cotal sapore piú di furtivo e di amoroso, che di maritale: onde si tolga via la nausea, ma si doni insieme campo tratto tratto di esser nobili Agiluf a’ palafrenieri.

Io consento dunque, che si generi nel prencipe con grande agevolezza la sazietá. Ma ciò non consente, che se sazietá fu la cagione, onde Salustio fece vera perdita dell’amicizia del signore, egli potesse esser rimasto col possesso dell’apparenza. Perciocché la sazietá sempre va unita all’odio, anzi produce l’odio.

Il lungo conversar genera noia,
e la noia disprezzo, et odio alfine.

Qual basilico, che se stropiccia il naso, sí che il fastidisca, mentre vuole confortarlo, con la nausea gli scorpioni insieme vi partorisce. Né le luci godon di vivanda, ch’è aborrita dal palato, né l’infermo, s’egli è schifo del sapore, può soffrir l’odor della medicina. Anzi, se potessero odio e sazietá dividersi, mi è avviso ch’ella fora piú possente anche dell’odio in toglier la benevolenza, cosí vera come apparente. Perocché colui che si odia può pur rimirarsi con diletto, qual materia di quella dolcissima vendetta che contro esso altri va ordendo, come arciero che riguarda con diletto quel bersaglio cui vuol trafiggere; ma colui che si ha in fastidio, conciosia che non ti paia di esser da lui stato offeso, perché se ciò fosse tu lo avresti parimente in odio, rimprocciandoti d’ingiusto con la sua presenza, quindi avviene, che per nessun verso non si può soffrire di averlo inanti.

Ecco dunque come o non è vero, che Salustio uscisse dalla grazia del signore, o se pur rimase solamente finto amico, odio non fu né sazietá del principe cagione ch’egli vero amico lasciasse di essere. Onde prese un granchio il nostro Tacito, che tal pensò. Forse non lo arebbe preso, s’ei creduto avesse, che Salustio, non caduto dalla grazia per avversion del genio [p. 223 modifica] del signore, ma ben si rimosso fosse stato dal maneggio de’ negozi per difetto dell’etá grave. Perché, in somma, che altri perda vim nell’amicizia del suo principe e ritenga speciem, non può entrar in capo a niuno, a cui non sia dal capo il cervello uscito.

Dirò ancora contro Tacito, ch’egli non può distinguersi tra la sostanza e l’apparenza, perocché chi ha l’apparenza anche ha la sostanza. Eccone la prova: il favorito in tanto stima l’amicizia del padrone, in quanto ne divien padrone degli amici, perocché ciascuno cerca dalle cose il frutto, ch’è per lui migliore. Quindi non si cerca di essere inalzato dal signore per riguardo del signore stesso, posciaché, per quanto ei ti alzi, rimarrai sempre di lui piú basso, ma ben sí in riguardo agli altri pari tuoi, sopra de’ quali tal sollevamento viene a ripôrti. E perché ama per esempio il cardinal... di esser amico del suo re? Sol che per rimirarsi a’ piedi supplichevoli le teste piú superbe, per aver con un sol cenno il fato di nazioni intiere; per girar con un sol guardo le fortune, or fortunate or misere, d’innumerabili; per aver un gabinetto, il quale sia quel luogo ove Archimede desiava porre il piede per voltar a suo talento sottosopra il mondo con mirabil facilitá? Or per ottener un simil fine non è necessario di essere, ma basta al cortigiano di parere amico: dunque in ordine a ciò ch’egli vuole l’apparenza stessa intieramente gli fa sostanza. Testimonio ne fa un certo, il quale chiesto dal suo principe: — Che vorresti? — Cosa, che a voi nulla costerá, o signore; cioè a dire, che qualor voi siete in pubblica assemblea, su gli occhi della corte tutta, piacciavi di avermi al fianco e sol per un ottavo di ora pispigliarmi nell’orecchio, con sembiante o affettuoso o serio, non alcun de’ vostri affari piú importanti, ch’io non chieggo tanto, ma piú lievi sogni, o se anche vi par troppo, sol movete il labro, e dell’articolare i detti non ne sia nulla. — Fugli liberale il principe di un dono, di cui prodiga sarebbe stata anche l’avarizia. Quale effetto oprò tale amichevole apparenza in tutti gli altri cortigiani, che ciò videro od intesero da chi ciò vide? — Fabio in tal dimestichezza col nostro principe? — Su, ossequi a Fabio, [p. 224 modifica] corteggi a Fabio, conviti a Fabio, statue gemme musiche pitture a Fabio. Fabio, in cocchio od a cavallo o in nave, a mano dritta di ciascuno, sberrettato o incensato da per tutto, libero padrone di ogni casa, per non dire di ogni letto, sempre con le scale in flusso e in reflusso, per diluvio nulla men di donativi che di doni: onde, se caso od arte appicca fuoco a sua magione,

          ardet adhuc, et iam accurrit qui marmora donet,
          conferat impensas, hic nuda et candida signa,
          hic aliud praeclarum Euphranoris, et Polycleti,
          Phoecasianorum vetera ornamenta deorum;
          hic libros dabit, et forulos, mediamque Minervam.

(Juv., sat. III.)

Tanto può una opinione, benché solamente da un’estrinseca apparenza sia generata. Perciò un tale citaredo di una corda di liuto o cetera volea pregio ingordissimo, quantunque fosse tutta logora, dicendo che la cetra di Nerone giá ne fu armata. Cosí par che il cortigiano, tosto che ha ventura di esser all’orecchio del padrone, venga tutto prezioso dalla testa ai piedi. Né si dica: agevolmente scoprirassi la finzione; ché si vago è l’uomo di menzogna, che anche quelle che son di suo danno, o non conosce, o conosciute, pure ad onta di se stesso vuole adorare. Non si sente un cuore tôrre affatto la sua pace da quel viso ch’egli idolatra? Non sa forse, che quando anche tutta al minio e alla biacca non si riducesse sua bellezza, si riduce però tutta ad un po’ po’ di pelle, che via tolta, rimarrebbesi atto solo a innamorare i vermini con la schifezza? E pure niega fede a se medesimo, e s’ostina, imaginando, che anche infin nelle midolla all’osso tutto sia beltá, tutto leggiadria. Tanto piú nel caso nostro, che in ambir la grazia del padrone son rivali i cortigiani tutti, onde avviene, che i favori, anche piú finti, fatti ad uno, sono all’altro da gelosa invidia per verissimi rappresentati. Sí che con indubitata veritade chi ha la grazia del padrone in apparenza, può in sostanza ancora affermar di averla. [p. 225 modifica]

Ma se pure vuoisi l’amistá del prencipe pregiar in ordine all’istesso prencipe, ond’egli convenga averne la sostanza veramente; io dico, che in sí fatto caso abbagliò Tacito avvisando, che quel cotal Crispo avesse in alcun tempo avuto vim, perocché favorito alcuno nella grazia del suo principe giammai non giunge a posseder piú che l’apparenza.

Che assioma filosofico si è quello, che Natura mai non faccia cosa indarno, quando nel nostro animo ad un desiderio intenso della veritá si unisce un’impossibile sí grande a conseguirla, che altro infino ad or del vero, fuorché non poter sapersi il vero veramente, noi non sappiamo? Fa l’ingannatrice ciò che costumiamo noi co’ bamboli, qualora invece di uomini pupazze imitatrici di uomini loro doniamo. Se l’intender nostro fanno gli accidenti, chi vantar può la conquista della sostanza? E quei sensi, che gli dánno il cibo, quanto sono mai sleali, mentre gli presentan rotto, e ripiegato un remo dentro l’acqua, il quale è retto, e intiero, e dánno a credergli per pelle di un figliuolo quella di una fiera, e per accenti di uomo quelli di una iena frodolente, e ingannatrice? onde con ragione la filosofia nel suo corteggio avea la veritá, ma tutta quanta oscura, di colore cangiante, rabuffata, sempre mai fuggiasca, e ignuda per isdrucciolare agevolmente dalle prese di chi mai giungesse a porle le ugna adosso; ma non men della Natura la Fortuna, ch’è il secondo polo sopra cui si aggira il mondo, fa che i suoi seguaci ne’suoi doni, non pur mai ne conseguiscan ciò, che cercano, ma spesso vi ritrovino con infelice inciampo ciò che paventano. L’avaro cerca l’oro per desio di divenir posseditore, e si rimane il posseduto; quanto sembra ricco piú alle vesti, tanto è posto in povertá di cuore piú miserabile. L’ambizioso crede di inalzarsi a volo a pari del suo proprio fumo sopra ogni altro, e si rimane per gli stessi mezzi con la gola incatenata vile schiavo di que’ voti, ond’egli aspetta rovinosi sollevamenti: ha le membra imporporate, cenciosa l’anima, lampeggia agli altrui occhi per di fuori, fulmina se stesso nel di dentro con se medesimo. L’innamorato pensa di portarsi in casa con felici nozze un paradiso dentro bella donna, lungamente [p. 226 modifica] seguitata: ma s’avvede poscia, aver condotto quel Plutone, brutto in veritá, ma caro sol per essere orpellato, con cui sempre va l’insania, la mollezza, la contumelia, la frode, il fasto, a far dovunque alloggia un crudele inferno. Cosí con ottima ragione nel dolersi degli scherni, onde Natura e Sorte, sommamente avare di se stesse, non concedon fuorché qualche fallacissima apparenza all’intelletto e alle voglie de’ seguaci loro, possiam far tenore alle bestemmie, che que’ pescatori scaglian contro il mare, i quali nel tirar la rete, dal gran peso posti in isperanza di alcun pesce titolato, trovan poscia di essersi slenati solamente per tirar sul lido un inutil sasso.

Or crediamo noi, che il principe, vedendo la Natura e la Fortuna cosí avare della realtá de’ doni loro, anch’egli, che superbo stima la sua umana grazia poco men che una celeste gloria, non sia per volerne fare ad uom terreno gran carestia? Ah, ch’è solo un debole accidente lo splendor col quale il sole degna di toccar il fango; non è sostanza. Consentir altrui la sua amicizia porta seco di necessitá l’ammetter altri nel suo cuore; e i principi non hanno maggior arte del non lasciar mai conoscere il loro cuore, né penetrarlo.

Or potrá mai dirsi, ch’esser possa amico chi non ama? potrá dirsi che ami chi è diverso tanto dall’amore, sempre ignudo, nel coprir il proprio petto piú, che quegli che avrebbe arsa la camicia ogni qualunque volla avesse i suoi pensieri subodorato? Chi ama il fa per voglia di goder di un bene, di cui privo è egli, e n’è fornito l’oggetto amato: e cotal bene nell’amore di amicizia è un bene onesto, il quale, conciosia che solamente sia il pregiabile, perciò parrebbe al principe vergogna sua il cercarlo in altri, quasi non ne fosse egli fornito in se medesimo bastevolmente: onde se pur cerca da altri qualche bene, solamente è di quel bene, che ha con seco la ragion dell’utile, contraria all’amicizia, dalla qual ragione possiamo esser mossi a ricercar di medica erba, diligenti sí, ma non giá amanti per accarezzarla, anzi per stritolarla, per pistarla, spremerla, ed estrarne il giovevole succo, gittarne poscia il fracidume al ciacco, come giá dicea Corisca nel Pastor Fido. [p. 227 modifica]

E quando anche il cortigiano fosse ammesso dentro il cuore del suo padrone in ordine a’ negozi, questo stesso fora gran motivo a escluderlo in riguardo dell’amicizia. Esser favorito e segretario mal si convengono: sol per essersi di te fidato prende a diffidare il principe di te: ti odia come suo tiranno, perché pargli che abbi in mano la sua libertá, mentr’ei vi ha posta la sua coscienza. Perciò Giuvenale, che il sapea benissimo, introduce il cortigiano piú favorito con sembianza, nella quale miser magnaeque sedebat pallor amicitiae. E questa è l’amicizia? che fa impallidire? che fa tremare? — Oh, mi mira di buon occhio piú di qualunque altro. — Anche il cane fa lo stesso con la pernice: si moria di fame prima che staccarsi da vagheggiarla.

Ma per grazia, come può mai darsi il cortigiano a credere che gli sia amico quel padrone, al quale egli non è amico? Io non so con qual coerenza di discorso Seneca commendi da una parte l’essersi lasciato di far legge su gli ingrati, per non ritrovar, che troppo è grande il loro numero, e dall’altra lodi al principe la povertá, perch’ella a quibus ameris ostendit. Perciocché se allora, com’ei dice, discedet quisquis non te, sed aliud sequebatur, come non sará sventura grande quel successo che nel mezzo alla cittá piú folta gran romito fará restarti? Ora perché il principe e i cortigiani, come relativi, hanno fra loro un simile riguardo, quindi avviene, che mentr’essi sotto spezie di servire alla sua grazia aspirano a predar la sua fortuna, cosí anch’egli, sotto spezie di far dono lor della sua grazia, lor va incatenando acciò accompagnino spontanei schiavi il fasto trionfal della sua fortuna. Essi sono come tante statue o tanti quadri, cosí in custodir immobili una porta od inchiodarsi a un muro, come in non aver fuorché la superficie di quel personaggio adoratore che rappresentano. Egli è come una di quelle calme, dove eadem hora, dice Seneca, ubi lusere navigia franguntur. Trattano essi all’apparenza da fenice col corteggio idolatrante il principe, ma in veritá il trattano da vile astore, che giammai del cuore degli uccelli non si nutrica: egli tratta loro come tanti miseri Apulei, posciaché presenta fiori, che [p. 228 modifica] nell’apparenza sembrano di quelle rose, onde cibati possan d’asini ritornar uomini, ma son salvatiche rosaccie, che gl’inasiniscono piú che non erano. Essi con ossequiosi inchini, e con mentite altezze, o con serenitadi cercan di abbagliarlo, o côrlo nelle gambe in guisa, ch’egli cada loro nelle braccia opima spoglia; ed egli con palpar di spalle o soavitá di ghigni e di occhi cerca di dar loro a creder, che gli sian, felici predatori, nel sen caduti. Con fallaci balzi sono palla l’un dell’altro in perpetuo giuoco. Fallendo docuerunt falli, dice Seneca. Il non giunger a veder giammai la veritá non è miseria men del cortigiano, che sia del principe. Quello la nasconde a questo, perciò che non osa; questo a quello, però che non degna di palesarla.

Quel poeta o quel filosofo, perciò che il principe l’invita a assister sopra la sua mensa, forse piú a cacciar le mosche col ventaglio della barba, che il rincrescimento con le erudizioni, avvisa, che il signore tenga in pregio e assapori il suo valore; ma non sa, che se quel ricco di Luciano mettea studio grande ne’ calzari, benché avesse i piè di legno, parimente il principe, quantunque inarchi il ciglio nell’udir degli entimemi, ha però molte piú lettere nelle monete intorno il capo il suo ritratto, ch’egli nel capo. Ma che, noi stessi c’inganniamo volentieri, perciocché crediamo ciò che vorremmo. Miramur parietes tenui marmare obductos, cum sciamus quale sit quod absconditur, oculis nostris imponimus. Conosciam chiarissimo, che quelle dimostrazioni, che fa il principe tutto benigno, sono un bel belletto: e pur vogliamo creder vivo sangue il cinabro falso, simili a chi, guasto di una meretrice, con la spugna delle dolcitudini prova congionto il fier rasoio, che lo scortica e lo spolpa e giunge fino a disossarlo, e a dispetto nondimeno de’ suoi strazi, in credersi riamato s’incaponisce. E certo buon mi tengo di tal paragone quando mi sovvien, che presso il facetissimo Luciano i gran signori fanno co’ seguaci loro ciò che fan le scaltre cortigiane co’ loro idolatri. — E che fanno elleno? — dice costui. Sempre di speranza gli nutricano, non mai di frutto, acciocché né il possesso intiero con la sazietá, né l’assoluta negativa con la disperazione spengan l’affetto. I [p. 229 modifica] principi son le iridi del mondo, tra perché, tirando a sé le luci tutte de’ mortali, paion veramente figli della maraviglia, e perché la lor grandezza è un cotal mezzo, il quale sembra posto a collegar le eteree cose con le terrene: onde in quella guisa, che dall’iride i vagheggiatori solo di color bugiardi sono pasciuti, il cortigiano parimente vien dal principe ricompensato sol di apparenza. Cosí l’ammirabile Ariosto fa da schifo nano offrire al buon dottore quel bellissimo palagio, tutto finto paradiso a forza sol di vero inferno, acciò di sottoporsi ad un bruttissimo patire egli non rifiuti. Presta pur tu dunque, o favorito mal condotto, fede a quell’affetto, che ti mostra il tuo padrone sol per sottoporti ad ignobil soma: egli è appunto come rosa, che, per testimonio di Plutarco, è tutta fredda, benché rappresenti alla sembianza non so che di fuoco, mercé il debol suo calore, che cacciato dalla naturale sua freddezza, nella superficie delle foglie fugge a nuotare. Ti avvedrai ben tosto ch’egli di te si vale, non sí come amico, ma sí come mercatante, confermando il bel pensier di quell’Oronte, che alle dita assomigliava i regi amici, con le quali or mille or uno suol computarsi. Guarda or tu, s’egli è segnale di amicizia l’esser peggio di ogni vil buffone in modo tal balzato, che or sí numerosa quantitade t’ingrandisca, or tutto a un tratto un repentino scemamento quasi quasi ti faccia un zero. E se quelle fervide svisceratezze ti si danno a creder nel principio della tua privanza per fedeli prove di una grazia posseduta sinceramente, applica al tuo caso quel che dice Seneca a quei crapuloni, che si lasciano abbagliar nel giudicar de’ cibi dalla lor vaga apparenza quando vengono al principio in tavola. Non gli contemplar quando fumanti compariscono alla mensa. Exitum specta. Cosí ancora: vuoi conoscer di qual tempra sia la grazia, che si viva ti comparte il principe? Non la giudicar da ciò che ti rassembra adesso sul cominciare. Exitum specta. Che dirai quando conoscerai, ch’ella è come un de’ giorni indiani, che sol nell’aurora sono fervidi, non nel meriggio? Ti fia forza il confessare, che se falso è un appetito, che si avventa ingordamente al cibo, ma tantosto a’ due bocconi sviene, falso ancor sia quell’affetto, che, con un [p. 230 modifica] violento e non durevol caldo, serve solo a brustolir, non a stagionare. Ti verranno quei bei fiori, i quali nascon nel Mar rosso sulla superficie all’onde senza aver radice, e servon solo a ritardar il prospero viaggio de’ passaggieri: e ti parran ritratto degli affetti del tuo principe, che, vagamente coloriti, sono in tutto privi di fermezza, e sol ti s’attraversano a impedirti il ritrovar il porto di una cara tranquillitá; se piú tosto nel vederti in brieve tempo trapassato dalle amabili dimestichezze alla sperienza de’ rigor piú ferrei, non ti sovverranno gli amoretti di Filostrato, de’ quali mentre due stanno scherzando col lanciarsi quinci e quindi amiche poma, tosto gli altri due rabbiosamente scagliansi all’incontro fiere saette. Ed allor conchiuderai, non esser amicizia, ma apparenza di amicizia, dove non è fermo fondamento, né trovarsi fermo fondamento dove agevolissima sia la caduta. Qui cecidit stabili non erat ille gradii.

E per veritá, se la filosofia c’insegna, che le sostanziali tramutazioni sempre inanti mandansi i dovuti alteramenti, quando per contrario un crudelissimo tracollo mostreracci l’infelice cortigiano esser rimasto nudo della grazia del padrone tutto a un colpo, converrá pur dire, ch’ei non la sostanza, ma alcun’apparenza accidentale, atta a svanire senza disposizione alcuna precedente, ne possedesse. Or, [per mostrar] che ciò di tutti avvenga, basterebbe il dimostrar che di coloro, i quali piú parean sedersi stabilmente in cima al cuore del padrone, e men soggetti a giú cadérne, sia succeduto. Ma il parlare di Presaspe, cortigiano favorito di Cambise, [che] sol da lui ripreso del l’aver bevuto troppo vino, gli mostrò non esser ebro col piantar una saetta nel bel mezzo [del] cuor del suo figliuolo, a cui se volle poter fare l’esequie col rimaner vivo, gli convenne anche lodar il colpo, e dir che Apollo sií aggiustatamente non sapea toccare il segno; di Arpago, che ammesso al segnalato onore di sedere col re a mensa, spense la sua fame con le carni de’ figliuoli propri, le cui teste, quasi per confetti fattigli dal barbaro signore in ultimo recar davanti, e interrogato, come gli sapesse buono, gli convenne anche aver voce per rispondere, che [p. 231 modifica] appresso il re gioconda si era ogni cena; di Pizio, che chiedendo a Serse la vacanza dalla guerra per un sol figliuol di cinque che ne aveva, dopo aver per ordine del Re quel scelto, che piú gli piaceva, il vide in due partito, e per le miserabili metadi, appese da ambe parti del cammino, passar lo esercito; di uno Amano, dal seder e quasi che giacer sul letto del Re stesso, subito saltato sopra infame forca; di uno sfortunato Clito, quasi padre venerato da Alessandro, poi trafitto in un momento dallo stesso con mortal lanciata; di un famoso Belisario, dispensante testé palme, tirator degli occhi stupefatti di tutto il mondo, adesso privo de’ suoi propri, accattante un tozzo: il favellar di questi dico, e di trecento altri tali, per lievissime cagioni fulminati da piú fieri strali regi, fora un abusar le vostre orecchie; quindi a un sol Seiano, in cui s’adunan quante circostanze possan dar rilievo alla veracitá della mia opinione, ristringerommi. Dirò molto in poco. Consumò sopra di lui tutte le stelle piú efficacemente favorevoli l’intiero cielo. Il bramar di farsi imperatore fu necessitade in lui, non elezione, conciosia che non si permettendo starsi ozioso al desiderio umano, trattone l’impero, nulla a lui mancava in questo mondo. Trionfavano gli antichi duci in Roma due o tre volte alla lor vita: egli in Roma trionfava ogni dí di Roma, che per il giogo di Seiano s’era tutta unita in quel sol collo, che Caligola le desiava per la sua scure; onde benissimo quei disse: Seianum in cervices nostras non imponi, sed ascendere. Il giurar per lo suo nome era un giurar per Giove: i piú sacrosanti asili eran le sue statue, ad una delle quali venia dato per ufficio di calcar le ceneri del gran Pompeo. In somma, conciosia che il trono non capisse due regnanti, cioè a dir l’imperatore e lui, quegli che ritirossi in Capri, e cedé all’altro il luogo, non fu Seiano. Sembrava egli questi ben alzato ed internalo e rassodato e inviscerato nel midollo della grazia del suo padrone? Chi averia creduto poter mai trovarsi ariete, fulmine, o bombarda, o terremoto, che osasse scuoterlo? Piú tosto si saria aspettato, che cadessero dagli epicicli loro le pianete, che di Encelado alle scosse Mongibello, od Etna, si rovesciasse, che al soffiar di un zeffiretto [p. 232 modifica] i frassini del bosco ercinio si svellessero dalla radice, che al baciar, non che al fiottar dell’onde, gli schiavoni scogli si sfracellassero. E pure, quo die illum senatus deduxerat populus in frusta divisti, in quem quidquid cangeri poterat dii hominesque contulerant, ex eo nihil superfuit, quod carnifex traheret. Quegli, il quale a suo talento dispensava a’ popoli le buone, o ree fortune loro, vide dispensate per le mani degli stessi le proprie carni; quegli ch’era divenuto grande in guisa, che al monarca stesso con la sua grandissima ombra togliea la luce, sol fuggi l’infamia di essere da un boia strascinato perché prima fu da cento mila boi lacerato, sol fuggi lo strazio di essere inghiottito da cani e lupi, perché l’aria e ’l vento col disfarlo in atomi si anticiparono. Quegli, le cui scale poco men salivansi che ginocchioni, misurò, precipitato, le Gemonie col capo inanti. Le sue statue diventarono paiuoli, caldaie, e peggio. I suoi figliuoli, che se non avean di soli e lune il nome, come quei di Antonio e di Cleopatra, avean però da ognuno titoli tutti spiranti Altezza, Maestá, Serenitade, e Luce, furono strozzati dal carnefice; e la misera figliuola, in etá non ancor atta al matrimonio, prima che provar il laccio del manigoldo, provò lo stupro.

Oh Seiano, oh Seiano: e per quai mezzi da sí grande altezza a sí grande abisso? Forse precederon certe sospensioni delle solite dimestichezze fra Tiberio e te: gravitá severa di maniere, guatatura non ridente, porte non piú facili, qual per l’addietro? Succedermi poscia a poco a poco le adorazioni delle turbe sminuite, gli applausi de’ teatri divenuti fiochi, le statue trapassate senza inchini o sberrettamenti, le anticamere sfornite di cortigiani, le scale piú non ondeggianti pe’ foltissimi marosi di chi andava e di chi veniva, fino ad arrivar pian piano a segno di fuggir come appestata, non che il tuo contatto, ma la vista? Furon queste le disposizioni accidentali, che, se veramente possedevi la sostanza nell’amor del tuo padrone, eran pur troppo necessarie per ispogliartene? Ah no: in un dí medesimo al capestro dal diadema, dagli adoratori al manigoldo, dalle vittime sagrificate al sagrificarti come vittima, dal [p. 233 modifica] moltiplicarti in mille statue al niente. In un giorno stesso, in un’ora stessa. Dir di te si puote ciò che disse Stazio di cittá sforzata per assalto, quando in essa sbocca il fier torrente degli assalitori: nec urbem invenias, vix signa audita. Ben te lo averebbe alcun filosofo od astrologo potuto presagir quel giorno, che Tiberio alla presenza del pontefice e del popolo romano, nella morte di unico figliuolo, da esso generato, da esso adottato, col cadavero ancor caldo avanti gli occhi, per dir cosí, senza gittar lagrima, mentre le turbe ne facean torrenti, con intiera voce e fermo viso, nel lodar l’estinto meglio assai che padre apparí oratore. Experiendum se dedit Seiano ad latus stanti quam patienter posset suos perdere. Ben avresti allor potuto accorgerti, che i principi non sanno amare, e solo sottopongonsi ad affetti, da cui di esser sopraposti ponno sperare. Non sa amare il favorito chi il figliuolo né men sa amare. Né sa amare il figlio chi nella morte va cattando titoli, ambizioso nella costanza.

Svegliatevi, sgannatevi, o piú favoriti cortigiani, che credete di essere nel firmamento della grazia principesca stelle ben fisse.

               Dulcis inexpertis cultura potentis amici,
               ’expertus metuit;

perché? perché, dice Giuvenale:

          Quis timet, aut timuit gelida Praeneste ruinam?
          Nos urbem colimus tenui tibicine fultam
          magna parte sui.

Fra piccoli è sicura e stabile amicizia, ma quella de’ grandi attiensi a cosí debol filo, che non puoi tirar sí dolcemente, che non si rompa. Potentior amicus vos non in amicitia, sed in apparatu habet. Oh, bene. In apparatu: cioè a dir figura di tapezzarie, solo fatte per istare appese ad un’anticamera. Ed appunto ho giá osservato, che per mantener tali figure intatte contro le tignuole fregansi soavemente con mazzuoli di assenzio; ond’io ritraggo quanto siano veramente amari que’ soavi [p. 234 modifica] palpamenti, che fa il prencipe al suo favorito, sích’ei va tirando inanti tanto, che lui ingratus superiorum cultus voluntaria servitute consumit. Maggiormente, che dall’assenzio viene a trar lo stomaco gran robustezza, ben è forza, che tal cibo pasca il cortigiano, il quale, sia pur favorito quanto ci vuole, pur si vede che convengli digerir bocconi propri da struzzo. Intervenerant quidam amici, propter quos maior fumus fieret, lessi giá in Seneca, mostrante con cotali detti aver per la venuta de’ nuovi ospiti accresciuto robba al focolaio da stagionare. Ma io, acconciando sí bel testo sul mio dosso, dico che cotali son gli amici de’ gran principi. Servon solamente, acciocché il fumo del padrone ambizioso con gli ossequi lor maggior divenga. Essi fan miracoli (virtú forse della pazienza loro, che gli fa santi): san nel prencipe risvegliar fumo, senza svegliar fuoco, poiché son cagione della sua superbia, non del suo amore.