I conti di Ventimiglia, il priorato di San Michele e il principato di Seborga/Capo I

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CAPO I


L’Abbazia di Lerino o di sant’Onorato, che già esistette nell’isola di questo nome presso alle coste di Provenza e di cui ancora oggi rimangono molti vetusti ruderi di claustri gotici, di campanili merlati, di robusti bastioni, e che ora da nuovi monaci si vanno man mano ristaurando, ebbe prima del secolo xi una gloriosa pagina di storia; fu sede dell’Ordine di S. Benedetto, ebbe potenza e dottrina, ebbe santità e martirio. Illustri baroni di quei lidi mediterranei largirono a quel monastero vistosi possedimenti e ricchezze e fra i suoi più insigni benefattori si distinsero a quell’epoca i Conti di Ventimiglia.

Le largizioni che da certe venerande famiglie si fecero ai monasteri in quei lontani tempi del Medio Evo, per quello spirito religioso ridestatosi più gagliardo all’avvicinarsi del misterioso millennio, divennero sovente il più bel titolo della loro istoria, e ne tramandarono ai posteri la memoria. L’origine dei Conti di Ventimiglia da diplomi al tutto sicuri, che nell’insigne Archivio di Stato in Torino si conservano, risale ai primi anni del secolo xi, ed anzi fino al secolo x a mezzo di una donazione da essi fatta all’Abbazia di Lerino della terra di Seborga; diploma per vero apocrifo, ma di somma importanza per investigarne la origine e la figliazione. [p. 4 modifica]

Al di là dell’epoca accennata non vi hanno che congetture che fino ad ora la critica storica non ha riuscito a stabilire in modo inconcusso; anzi la stessa illustrazione di questa famiglia fu causa che moltissime ipotesi si fantasticarono su tale questione. Noi infatti vediamo certi storici supporre che dalla Corte Imperiale di Costantinopoli essa avesse ottenuto il titolo comitale. Il Giustiniani negli Annali di Genova crede che Ventimiglia fosse eretta a contado da Carlo Magno in favore di un C.te Ademaro che avrebbe così avuto sotto il suo dominio Genova e Ventimiglia. Il genealogista Filadelfo Mugnos ci dice che lo stesso Carlo Magno nell’anno 806 vi stabilisse un Teodorico suo parente di soprannome Lascar; di costui sarebbe figlio un Guglielmo marito di Berengaria dei Marchesi di Spoleto, da cui sarebbe nato Alberto padre di un Guido Guerra sullo scorcio del x° secolo. Francesco Zazzera1 e Giulio del Pozzo2 cercarono le loro tracce nella Real Famiglia dei Normanni. L’abbate Rocco Pirro3 ce li dimostrò discendenti al pari dei Marchesi di Monferrato dalla Casa di Sassonia. Il Moreri da Corrado figlio di Berengario marchese d’Ivrea e re d’Italia. Gioffredo da uno dei figli d’Aleramo. L’Alberti ed il Durante, autori pure nizzardi, dal C.te Guido Guerra ligure, stabilitovi da Carlo Magno.

Tali sono le idee emesse dai vari storici che di questa illustre prosapia vollero studiare le origini, ma bisogna pur dirlo, le loro ipotesi, che non sarebbe pregio dell’opera il combattere una ad una, peccano tutte allo stesso modo, cioè nell’essere semplici asserzioni, da nessuna seria prova, da nessun documento avvalorate.

[p. 5 modifica]Ci si permetterà adunque di esporre qui il risultato dei nostri studi sulle remote origini di questa famiglia, origini che noi crediamo poter stabilire su basi affatto nuove, ma corredate e sanzionate da documenti, sebbene finora inosser vati, pure esatti e veridici.

Non sarà però inutile il far prima una breve rassegna del sistema che nel x° secolo reggeva le Marche ed i contadi di questa parte della nostra Italia e delle primarie famiglie che ne erano titolari. Osserva il chiar.mo storico De Simoni come dall’anno 890 al 950 l’Italia fosse in preda ai molti competitori che, se non di nascita, pure di razza eran tutti più o meno stranieri.

I Marchesi d’Italia quali Grandi Elettori aveano in mano loro i destini della sgraziata nazione, sia per la distesa dei territorii a loro sottomessi, sia per la possanza militare che era loro retaggio. Uffizio delle Marche era infatti il custodire i confini dell’Impero e perciò eran possenti d’armi e di nome e sotto alla loro signoria stavano sovente soggetti vari contadi retti da altre famiglie o da rami cadetti di loro famiglia, e talvolta essi medesimi erano conti per certe regioni dalla Marca dipendenti.

Noi troviamo la Marca del Friuli stabilitasi contro gli Slavi, quella di Spoleto contro i Longobardi, quella d’Ivrea e Susa contro i Borgognoni, quella di Toscana, che si esten deva fino in Corsica, e quella di Liguria contro i Saraceni. Tale si era il sistema di difesa dell’Italia, che contro gli stranieri altri stranieri signori suoi avevano stabilito allo sfasciarsi dell’Impero di Carlo Magno. Le Marche del Friuli e di Spoleto furono allora occupate da marchesi di razza Franca, che acquistarono in Italia molta importanza e riuscirono a cingere al capo loro la sua corona reale. La Marca di Susa fu illustrata dalla famiglia degli Arduini, [p. 6 modifica]anch’essa di razza Francese, che ebbe i suoi principii con due fratelli Roggero e Ardoino, i quali sul nascere del x° secolo si stabilirono in Val di Susa, già posta a soqquadro dalle invasioni delle orde Saracene. Essi ottennero poi dall’Imperatore le dignità di conti e colle nozze di Roggero e della redova Contessa d’Auriate dirennero i potenti signori di tutto il Piemonte occidentale. Il figlio Ardoino, detto Glabrione, fu padre d’Olderico Manfredo, di cui la figlia Adelaide portò al C.te Ottone di Moriana tutti i suoi dominii. Ardoino, figlio cadetto di Olderico, fu padre dei due marchesi Guido e Bosone citati in un diploma dell’imperatore Corrado nel 1026. Questi inarchesi Ardoino e Guiu, li vedremo reggere parte dell’antico contado d’Auriate. Un altro Guido, fratello o cugino del M.se Olderico Manfredo, fu padre del M.se Olderico, nel 1040 signore di Romagnano, Virle, Carignano, Pancalieri, stipite dei nostri Marchesi di Romagnano. I confini di questa Marca si estendevano dalle Valli d’Aosta a Vercelli, a Susa, a Torino, Alba, ecc. fino a Tenda nelle Alpi Marittime. A fianco di questa Marca noi troviamo quella di Ivrea, i di cui signori, perchè di origine più italiana e mercè della loro stretta parentela coi Marchesi di Spoleto, riuscirono ad ottenere la corona Italiana. Noi vediamo sul cadere del ix° secolo in Ivrea Anscario parente di Guido di Spoleto. Suo figlio Adalberto, marito di Gisla figlia di re Berengario ed in seconde nozze di Ermengarda di Toscana, resse Ivrea e Torino. Adalberto ebbe due figli: Berengario re d’Italia nel 949 e Anscario conte di Torino, poi marchese di Spoleto e Camerino. Uno dei figli di Berengario, Corrado, detto anche Dadone4 e Chonone, fu padre di Ardoino re d’Italia [p. 7 modifica]nel 10025. Questa Marca ebbe in suo dominio per lungo tratto di tempo il contado di Torino e trovavasi limitata dalla Marca di Susa e Monferrato. La sua grande potenza fa piuttosto personale, e causata dalla particolare abilità di quei marchesi e dalle alleanze da loro strette coi sovrani d’Italia e di Provenza.

La Marca di Monferrato, a tal dignità innalzata nel 951 da re Ugo in favore del C.te Aleramo di razza Salica, non ebbe l’importanza delle altre Marche, ma possenti famiglie ne derivarono poi, quali furono quelle dei M.si del Bosco e di Ponzone, quelle del Vasto da cui discesero i M.si di Savona e d’Albenga, poi i Del Caretto ed i M.si di Pareto, Incisa, Saluzzo, Ceva a Busca. Finalmente noi abbiamo la Marca di Toscana e Liguria, la maggiore per distesa di possessi o per posizione militare.

Da questi marchesi derivarono nel x° secolo i Conti di Ventimiglia, come cercheremo di dimostrare e più tardi i M.si d’Este, da cui i M.si Malaspina, Pallavicini, Mazza, Gavi e Parodi come chiaramente ce lo ha dimostrato nelle Antichità Estensi il Muratori. Vediamo ora chi fossero questi Marchesi di Toscana.

Nell’anno 812 signoreggiava in Lucca, allora capitale di Toscana (Luca super universam Tusciae Marchiam caput ab exordio constituta, Arch. Sarzana 1124) on C.te Bonifacio, come dal diploma datoci dal Fiorentini, in cui l’abbate Adelardo missus Imperialis pronunzia un giudizio a Lacca coll’intervento di Bonifacius dux, titolo equivalente a quello di marchese. Nell’anno seguente lo stesso Adelardo [p. 8 modifica]s’indirizza a Bonifacio illustri comiti nostro. Altri atti fattisi a Pistoia provano egualmente questo titolo. Poi un diploma posteriore di 10 anni, fatto in Lucca, datoci dal Cosimo della Rena prova l’esistenza di un altro C.te Bonifacio figlio del precedente; esso contiene una donazione fatta da Richilde badessa, figlia del C.te Bonifacio o vi troviamo firmato Bonifacius comes, germanus supradictae abbatissae, per cujus licentiam hoc factum est. Dobbiamo notar qui che si dice di questo primo C.te Bonifacio esser egli di nazione Bavara (Baiuvariorum). È da supporsi che questo personaggio sia quello che ebbe il governo della Corsica di cui ci parla la cronaca di Eginardo: Bonifacius comes, cui tutela Corsicae Insulae tunc erat commissa, assumpto secum fratre Berehario et aliis quibusdam comitibus, de Tuscia Corsicam atque Sardiniam parva classe circumvectus cum nullum in mari piratam invenisset, in Aphricam traiecit (828). Quivi a Cartagine ed Utica fu più volte vittorioso e pare tornasse prima dell’830 in terraferma. In quell’anno dopo aver tolta da Tortona Giuditta moglie di Ludovico Pio imperatore, che dal primogenito Lotario era stato cacciato, la tenne con sè e nell’834, accompagnato da altri potenti signori, la riconduceva all’Imperatore ad Acquisgrana.

Qui si potrebbe già far la supposizione che dall’imperatore Ludovico Pio questo Bonifacio avesse il contado di Ventimiglia in ricompensa dei servigi prestati, ma altri fatti ci attendono su questo proposito o ci conviene andare innanzi.

Al C.te Bonifacio succedeva verso l’840 Alberto ossia Adalberto. Gli Annali di Fulda parlano di lui ed il Fiorentini ha di lui molti diplomi in cui gli si vede il titolo di conte e marchese di Toscana. Una bellissima carta dell’anno 884, [p. 9 modifica]scoperta dal Della Rena, ci palesa molti particolari sulla famiglia e presenta il più grande interesse per l’origine dei Ventimiglia.

Dessa è l’atto di fondazione del Monastero di S. Caprasio in Lunigiana al confluente della Magra e dell’Aulla vicino alla Spezia. Questa donazione vien fatta a Lucca da Adalbertus comes et marchio, filius b. m. Bonifacii olim comitis, alla presenza dei due suoi figli Adalberto, che ha la qualificazione di conte, e di Bonifacio; vi si parla della moglie Rothildis e di una prima moglie Anonsuarae. Egli dona al Monastero dell’Aulla molti beni e diritti e, fra gli altri, le decime dei luoghi di cui ha parlato et quantum in iam dictis locis Lunianense et Garfanianense iure patronatus nomine habeo. Queste ultime parole del documento riavvicinate con altre di un documento, che negli Archivi di Stato in Torino si conserva, furono per noi uno sprazzo di luce e ci misero sulle tracce dell’origine dei Conti di Ventimiglia.

Queste due regioni di Lunigiana e Garfagnana erano infatti egualmente possedute con titolo comitale dal C.te Guido di Ventimiglia, come risulta dalla donazione a Lerino del 9546. Questo diploma che, sebbene falsificato, è certamente, come si vedrà, la riproduzione d’un diploma anteriore, contiene quei due nomi, scritti: Carfanbanae e Lusanae. Ella è cosa naturalissima il vedere in queste due parole l’errore materiale di un falsario ignorante e disattento, che trascrivendo l’atto originale ha messo nella prima parola il b al posto della lettera h, lettere facili a confondersi e nella parola Lunisanae ha omesso la seconda sillaba ni, tanto più che secondo lo stile di quell’epoca la lettera n non doveva [p. 10 modifica]trovarsi scritta, ma rappresentata con un trattino e la sillaba ni mancare affatto se l’atto fa malamente trascritto da copia di epoca più moderna. Il nome di Garfagnana si è infatti scritto anche Carfanhana e quello di Lunigiana Lunisana.

Noi troviamo dunque nel documento del 954 che il conte Guido, oltre il titolo di C.te di Ventimiglia e di Marchese delle Alpi Marittime, prende quello di Garfagnana e Lunigiana, avendo egli così una giurisdizione comitale sopra due regioni lontanissime l’una dall’altra e questa seconda facendo parte a quell’epoca dei dominii dei M.se di Toscana.

Questa ci pare una prima prova dell’identità d’origine fra le due famiglie e della derivazione del C.te Guido dal M.se Adalberto donatore al Monastero dell’Aulla. Questo supposto è poi maggiormente avvalorato dal fatto che lo stesso M.se Adalberto possedeva allora in Provenza dei contadi che evidentemente non poterano essere altro che quelli di Ventimiglia e forse d’Albenga.

Questo fatto di così alta importanza pel nostro asserto risulta da una lettera che papa Giovanni VIII scrivere al C.te di Provenza in favore del M.se Adalberto.

Questo Pontefice disgraziato aveva avuti a fierissimi nemici Lamberto di Spoleto ed Adalberto di Toscana. In una prima lettera a re Ludovico egli così s’esprime: Lambertus Widonis quondam Spoletani ducis horrendus filius fatemur membrum antichristi, cum mœcha sorore Rotilde, cumque complice suo infido Adalberto Marchione7. Egli descrive la lotta ad oltranza, le persecuzioni, i saccheggi commessi a Roma e nei dintorni e ne implora l’aiuto. La scomunica fulminata contro i due marchesi non ebbe alcun effetto ed [p. 11 modifica]il povero Pastore fu costretto a lasciar l’Italia. Alcuni anni dopo però Adalberto di Toscana riebbe la sua buona grazia, ne ottenne l’assoluzione, quia conversum et fidelem circa sanctam Romanam Ecclesiam et nos cognovimus.

Si fu allora che ponendo in oblio le sofferte ingiurie papa Giovanni divenuto suo protettore (verso 879), scriveva per raccomandarlo a Bosone, conte di Provenza, in questi termini: de parte quoque Adalberto gloriosi marchionis seu Rotildae comitissae coniugis eius cognoscat nobilitas vestra quod vobis in omnibus fideles et devotos amicos eos esse cognoscimus. Ideo rogamus ut eorum comitata in provincia posita sicut iam tempore longo tenuerunt ita deinceps pro nostro amore securiter habeant. Come dianzi lo dicemmo questi contadi in Provenza posseduti da Adalberto di Toscana sono certo quelli di Ventimiglia ed Albenga8. E anzi da credersi che a quell’epoca questo marchese distaccasse dal suo marchesato questi contadi in favore del figlio Bonifacio e quelli di Garfagnana e Lunigiana li avesse per diritto di allodio o che alla morte di Adalberto a Bonifacio fossero caduti in retaggio.

La ragione cronologica ci autorizza eziandio a supporto che il detto Bonifacio fosse padre del C.te Guido indicato nella mentovata donazione del Monastero di S. Michele nel 954. Un’altra ragione ci si appalesa poi considerando che in quell’atto il C.te Guido stabilisce che i Benedettini dovranno accordar loro ospitalità del Monastero di Ventimiglia e perciò se a quell’epoca i Conti non risiedono ancora in [p. 12 modifica]modo stabile nel paese, è prova che altre signorie lontane possedevano e questa avessero allora appunto ottenuta.

Aggiungeremo qui di passaggio essere cosa probabilissima che precisamente in quest’epoca dalla Toscana venissero nelle Alpi Marittime al seguito del C.te Bonifacio le famiglie degli Alberti, Galleani, Guidi, Degubernatis, Bardi9 ecc., originarie tradizionalmente di quei lontani paesi e per le quali sarebbe altrimenti difficile lo spiegare come si sarebbero stabilite nelle regioni Nizzarde e, ciò che è degno di considerazione, appunto nelle terre dipendenti dai C.ti di Ventimiglia, come Ventimiglia, Tenda, Briga, Gorbio, Peripaldo.

Un altro indizio ci è par dato dalla simiglianza dei nomi nelle due famiglie.

Rotilde, madre dei C.ti Adalberto e Bonifacio, era sorella, di Lamberto e Guido M.se di Spoleto; or bene noi troviamo questi nomi di Lamberto a Guido ai suoi due nipoti M.si di Toscana ed appunto parallelamente il nome di Guido all’altro suo nipote C.te di Ventimiglia.

A queste prove della nostra asserzione noi ora desideriamo di aggiungerne un’altra di genere diverso o nascente da un fatto particolare che si osserva in vari documenti riflettenti i contadi di Ventimiglia e d’Albenga. Noi abbiamo infatti trovato che in quelle due regioni i beni dei C.ti Ventimiglia e quelli dei M.si di Susa sono alcune volte in contatto e dire [p. 13 modifica]quasi conglobati, senzachè alcun diploma ci dimostri queste regioni del littorale essere state vassalle dei M.si di Susa. Cosi noi troviamo nel 1028 il M.se di Susa e Berta sua moglie dei M.si di Toscana aver donato al Monastero di Caramagna parte dei castelli di Pradariolo e Caramaniola, e dell’Isola Gallinaria siti nel C.do d’Albenga10.

E d’altra parte noi troviamo che i C.ti di Ventimiglia nel 1177 ricevono dai Benedettini in iscambio nel C.do d’Albenga; totum quod habebant de comptile11 in toto Marchia Albingaunae Ecclesia Sancti Michaelis Vintimilii ab aqua Armene12 usque Pream et a collibus iugum usque in mare per helemosinam comitum predecessorum13. In secondo luogo nel territorio di S. Remo noi abbiamo la donazione fatta nel 1036 dalla C.ssa Adelaide di Susa al Monastero di Santo Stefano di Genova di Porciana, ubi nuncupatur Villareggia, come pure di Sancta Maria de Pompeiana. E per altra parte noi troviamo per i C.ti di Ventimiglia in un diploma inedito citato dal chiar. prof. Gerolamo Rossi che nel 1206 il C.te Oberto vendeva al Monastero di Santo Stefano le terre di Cipressa14, Porciana, Trezoli15 con tutti i diritti su questi luoghi del territorio di S. Remo, anticamente dipendente dal C.do di Ventimiglia, come dalla petizione fatta nel 962 al vescovo di Genova, Teodulfo, dagli abitanti della Villa Matuciana16 in comitatu Vigintimiliense17, chiaramente si scorge.

[p. 14 modifica] Osserviamo qui fra parentesi, che fra i possedimenti della famiglia Toscana dei C.ti Guidi nel secolo xii vi era presso a Fiesole quello di Porciana e quello di Fons Taonis18, nome pure nizzardo19.

Quell’avvicinarsi dei beni in Liguria delle due famiglie di Susa e di Ventimiglia noi crediamo derivare dall’essere pervenuti quei beni ai M.si di Susa dal matrimonio del marchese Olderico Manfredo con Berta figlia del M.se Autberto ossia Oborto della famiglia d’Este discendente dai Marchesi di Toscana20, nello stesso modo che i beni finitimi, appartenenza dei C.te di Ventimiglia, eran loro pervenuti direttamente dai loro antenati, gli stessi M.si di Toscana, loro stipite comune.

Senonchè sebbene le prove diverse che da noi qui si sono esposte ci paiano essere abbastanza convincenti, pure dobbiamo soffermarci alquanto innanzi ad una gran difficoltà che ci s’affaccia e che si è quella della differente dichiara o professione di legge e di nazione fatta dai membri delle tre famiglie di Toscana, di Ventimiglia e d’Este.

Per i M.si di Toscana della prima stirpe vi ha, come già lo notammo, un documento in cui dessi si professano di legge o nazione Bavara, quelli d’Este professano la Longobarda e quelli di Ventimiglia la Romana ex nacione nostra. Ci si conceda qui il dire che questa difficoltà non pare doversi ritenere come invincibile: e questo sentimento non avressimo certo espresso, poichè in contraddizione con diversi [p. 15 modifica]eruditissimi moderni scrittori, se altri autori quali il Leibnitz, il Muratori, il Sechemberg ed altri moderni non ci avessero già preceduti in questa via.

Noi osserviamo che questa dichiara o professione non istabiliva in un modo assoluto la nazionalità; non conviene il soffermarsi troppo su di essa, poichè l’interpretazione della parola natio può modificarsi ed avere il significato non solo di razza, ma quello di nascita e di condizione di famiglia, condizioni che si stabilivano e si modificavano colle particolari circostanze di soggiorno e di dignità. Noi troviamo in autori Romani l’espressione natione Arretio, natione Foro Voconii. Del resto si ha in documenti di quell’epoca esempi di variazioni di questa dichiara fatta dalle istesse persone.

Muratori dice di aver esaminati negli Archivi del Monastero di S. Prospero di Reggio degli atti della famiglia Bianco di Morognano grandi vassalli delli Msi d’Este, atti che gli parvero sincerissimi. Or bene in atto del 1104 Ottone, figlio d’Alberto, di legge e nazione Romana fa una transazione con quel Monastero. Anche nel 1104 Roberto di Moregnano, altro figlio d’Alberto, fa l’istessa dichiara. Ma pochi anni dopo, nell’1119 i figli di quell’Ottone fanno professione di fede e legge Longobarda. Forse anche il diritto di borghesia che dovevano prendere i feudatari nelle città ove essi fissavano la loro dimora o che erano sede della loro giurisdizione, loro imponeva alle volte di cambiare di nazionalità. Leibnitz dice a tal proposito che i M.si d’Este avevano presa la nazionalità Longobarda perchè più in uso che la Bavara nei paesi ove essi regnavano. Altrettanto dovette succedere ai C.ti di Ventimiglia stabiliti su un territorio formante allora alla Turbia il confine fra Provenza ed Italia, viventi in mezzo & popolazioni di razza Romana o [p. 16 modifica]Gallo-Romana e che facevano continuamente negli atti pubblici professione della legge Romana di loro nazione. E così dovettero farla essi pure questa professione, onde meglio assimilarsi a quelle popolazioni, essi venuti dall’estremo della Liguria, ed anzi in quel modo stabilire una linea di contrasto coi popoli Provenzali e coi principi loro, delle famiglie d’Italia nemici acerrimi.

Autori seri asseriscono anzi esplicitamente che tale facolta del cambiare dichiara di nazionalità fosse sempre permessa fuori del caso di successione od eredità.

Noi dunque con quegli autori crediamo di non doverci fermare a quella difficoltà, che c’impedirebbe di stabilire un fatto che cost valide ragioni ci fanno credere esatto, e così crediamo di poter stabilire che verso l’890 il M.se Adalberto stabilisse a Ventimiglia il figlio Bonifacio e che a costui Barebbe stato successore il figlio Guido.

L’esistenza del C.te Guido, come si è detto, ci è dimostrata dal diploma di donazione del 954, apocrifo disgraziatamente, ma pure senza alcun dubbio formato sulle tracce di un documento esistente. Quest’asserto ci è provato da una sentenza autentica del 1177, in cui vediamo gli arbitri del litigio fra i Monaci di S. Michele ed il Comune di Ventimiglia, aver esaminato il titolo di donazione che si era loro presentato ed aver essi riconosciuto quella esser stata fatta anticamente dal C.te Guido di Ventimiglia all’Abbazia di Lerino21. Ci sono altra prova gli stessi errori comniessi nel documento che possediamo, scrivendosi Carfanbana e Lusana, errori che non si sarebbero fatti, se il diploma non fosse stato copiato, ma di sana pianta composto.

Il C.te Guido assume il titolo di M.se delle Alpi Marittime [p. 17 modifica]e sapponendo che questo suo titolo non sia invenzione del falsario, esso in fatti starebbe ad indicare la giurisdizione di cui godovano i C.ti di Ventimiglia sull’alto C.do di Nizza, come Tenda, Briga, Saorgio. Il titolo di Garfagnana e Lunigiana gli compete come dominio avito della famiglia, in Toscana, suo paese d’origine.

Il C.te Guido fa quella donazione con forma anche di atto di ultima volontà nel paese di Varigotti, mentre sta in procinto di partire per combattere i Saraceni a soccorso di un re Idelfonso. Intervengono all’atto i suoi figli Corrado, Ottone e Rolando e molti potenti signori, quali un C.te Tommaso di Savoia suo cognato, un M.se di Monferrato ed altri. Egli divide i suoi Stati fra i tre figli e fa donazione all’abbate di Lerino di una vastissima regione che dalla Chiesa di S. Michele si stende sino alla Roia e più in là verso S. Remo al Monte Negro e comprende nel suo circuito Seborga, Castrum de Sepulchro cum mero et libero imperio cum eius habitatoribus et territorio. Egli ordina sia eretta la sua tomba innanzi all’altare di S. Antonio22, che si edifichi un ospedale, che i monaci debbano dare ospitalità ai membri della famiglia nel Monastero di S. Michele finchè essi non avranno abitazione in Ventimiglia, provvedendo inoltre ligna, salem, aquam, et mapas cum utensilibus ad coquinam. Prima di esaminare più a fondo questa pergamena, ci è d’uopo il dichiarare quanto ci arrechi meraviglia l’osservare che la sua falsità per tanti secoli non siasi palesata. I monaci Benedettini di Lerino, pur essi, credevano alla sua autenticità, quando vendettero il principato di Seborga a Casa Savoia e la tradizione non aveva trasmesso loro ombra di dubbio [p. 18 modifica]su tale riguardo, poichè quell’atto non necessario a provare i loro diritti secolari su Seborga, essi presentarono come titolo autentico di possesso, mentre il medesimo conteneva una condizione sfavorevole al loro monastero, cioè la sostituzione in favore dell’Abbazia di Montemajor d’Arles in caso di cessione, diritto di sostituzione che da verun altro documento non appariva e che costò loro gravi imbarazzi.

Desta pur meraviglia che le varie autorità ecclesiastiche e secolari cui moltissime volte si presentò quel documento non avessero mai avuto a sospettarne l’autenticità. Noi vediamo anzi l’avvocato Lea, che d’incarico del Re di Sardegna contrattò e conchiuse la rendita di Seborga ed esaminò quel titolo, non aver dubbi in proposito. Fu solo verso l’anno 1757 che ne fu rilevata la falsità in Torino dagli Archivisti di Corte. Dobbiamo però aggiungere che l’abbate Gioffredo, cui dalla lettura di una copia di quel documento era nata legittima diffidenza, ci narra che si recò apposta a Sant’Onorato onde meglio esaminare l’originale diploma e che questo esame lo convincesse pienamente della sua falsità.

Questo diploma infatti è di una così grossolana fattura che da sè pare tradirsi.

La pergamena ci appare ad arte invecchiata, i caratteri della scrittura non sono per nulla quelli dell’epoca, l’insieme dello stile e delle voci non è conforme al gusto dell’epoca, finalmente gli errori cronologici più manifesti valgono a togliergli tutto quel rispetto a quel prestigio, che ispirano quelle venerande reliquie del passato.

L’imperatore Ludovico, Idelfonso d’Aragona, Tommaso di Savoia, il M.se di Monferrato sono anacronismi e confusioni da non parer possibili. Guichenon, è vero, pone nel 1189 un C.te Guido di Ventimiglia e di Lusana, M.se delle Alpi Marittime, marito di Eleonora di Savoia sorella del Conte [p. 19 modifica]Tommaso e cita un testamento che detto C.te Guido avrebbe fatto nel partire per un’impresa di guerra. Egli denomina i suoi figli allo stesso modo e lo dice anche nipote di Alfonso d’Aragona. Ma sebbene col Guichenon altri antichi scrittori, o fra i moderni il Wanderbruck, abbiano ammesso questo documento, non ci pare di doversi ritenere buona tale opinione, dacchè il Guichenon non è autore da ammettere ad occhi chiusi, ed inoltre noi troviamo il C.te Guido di questa seconda epoca col soprannome di Guerra, marito della C.ssa Ferraria d’Albizzola, senza prole: a nessun indizio, nessun documento ci appalesa alcuno dei particolari enunciati.

Nei R. Archivi di Stato si conserva con questa pergamena un sigillo che anticamente doveva esservi appeso23. Esso è di piombo e sebbene nel suo insieme e nei particolari del suo disegno, come l’erudito paleografo Cav. Vayra ebbe la gentilezza di osservarmelo, ci presenti in guisa meravigliosa i caratteri dell’epoca che deve rappresentare, pure vi si vadono le tracce della stentata contraffazione. Sopra uno dei lati è rappresentato il C.te Guido a cavallo, la spada in pugno, sulla gualdrappa uno scudo con leone24, sta in giro in caratteri gotici la leggenda: Guido comes Vintimil. et Lusanae. Su l’altro lato in mezzo on leone araldico di grandi proporzioni e intorno la leggenda Et Marchio [p. 20 modifica]Alpine Maritime. Questo leone ha però piuttosto le sembianze di un griffone della Repubblica di Genova a cui si fossero tarpate le ali. Noi troviamo un griffone alato del medesimo disegno in un sigillo illustrato dal Generale Dufour especialmente in quello del Museo di Cluny illustrato dal cavalier Belgrano, che ha per leggenda Sigillum Consullatus Januae in Francia e pare potersi ascrivere all’anno 1220.

Parrebbe probabile che il falsario si fosse servito di un simile modello per l’esecuzione di una delle facce del suo sigillo e per l’altra faccia di una medaglia già esistente, poichè non si accorse che il suo guerriero avrebbe tenuta la spada dalla mano sinistra. In quanto al piombo di cui è formato, il Gioffredo dice a torto che quello fosse privilegio delle cancellerie apostoliche o dell’ordine di Malta, mentre nelle Monete e Sigilli di Casa Savoia del Promis e Cibrario abbiamo trovate citate moltissiine medaglie in piombo di vari potentati e repubbliche.

Quel diploma di donazione, vero o falso che fosse, ai Conti di Ventimiglia ed ai monaci Benedettini assai premeva il conservare: ed a questo fine a più riprese ne fecero ritrarre copie autentiche.

Nel 1304 li 12 luglio sull’istanza di Filippo, conte di Ventimiglia, il P. Sicard, priore di S. Michele, presentò giudiziariamente questa pergamena al Vescovo Ottone: Nos Otho Dei et Apostolicae sedis gratia Vigint. Episc. supradictum privilegium vidimus et legimus et cognovimus non vitiatum esse, nec abrasum, nec in aliqua sua parte abolitum. Il notaio Sartoris ne fece la trascrizione che concorda pienamente coll’atto originale da noi posseduto ed in quella egli afferma ch’esso è antiquum et multum legibile, non tamen cancellatum, rasum, seu abolitum, sex vitiatum in aliqua sua [p. 21 modifica]parte, scriptum in pergamena, bullatum bulla plumbea appensa ipsi privilegio cum crocco cordono serico, in qua bulla in una parte est effigies militis armati, armis insignitis leonis, tenentis spatam in manu, et in circuitu eius in illa parte extat scriptum Marchio Alpinae et Maritmae, superius sancti Michaelis de Vigintimilio. È pregio dell’opera osservare che la trascrizione di questa leggenda è diversa da quella che esiste ora sul sigillo. Di questa trascrizione se ne tirarono posteriormente diverse altre copie, di cui una fra le altre il 18 settembre 1469 sull’istanza del C.te Antonio di Ventimiglia, grande ammiraglio di Sicilia. È fuori di dubbio che si è un’altra copia che Gioffredo dice aver visto negli Archivi della famiglia Alberti della Briga, poichè essa ha la data delli 11 dicembre 1426 e fu fatta in presenza di Ottobono de Bellonis, vescovo di Ventimiglia, per domanda del priore di S. Michele, Giorgio dei C.ti di Ventimiglia, che l’aveva presentata a Giuliano De Giudici, vicario generale. Gioffredo aveva anzi il pensiero che questo priore potesse essere il falsario dell’atto, ma la copia anteriore che esiste del 1304 ne dimostra erropea la supposizione, e si potrebbe piattosto congetturare che fosse il P. Sicard nel 1304 od altro monaco di quell’epoca, forse anzi un benedettino di Montemajor, per trovarvisi quella clausula di sostituzione e perchè certi caratteri di questo diploma si assomigliano pienamente a quelli della fine del secolo xiii e specialmente la lettera b di Brenguerius e di Bonasius, che è appunto dello stile di quell’epoca.

Questo diploma del C.te Guido era dunque, nella forma precisa in cui ci si è conservato, ritenuto come autentico fin dal principio del XIV secolo, ma la sua esistenza ci è provata, come già si disse, fin dall’anno 1177.

[p. 22 modifica]In sentenza arbitrale del 24 di febbraio25, si giudicava a favore dell’abbate Lerinese. Questi per cerziorare i suoi diritti sul territorio e sui confini del medesimo avea prodotto innanzi agli arbitri il diploma stesso di donazione del C.te Guido, sicut dicto monasterio donatum et terminatum fuerat per dominum Guidonem quondam comitem et dominum Vintimilii et dicti Castri do Sepulchro, quod per privilegium bullatum bulla dicti comitis comprobabat. Questa sentenza di alta importanza per i diritti del monastero fu presentata li 10 settembre 1305 dallo stesso priore di San Michele, P. Sicard, al giudice di Ventimiglia, Guglielmo de Baraditis26, che ne fece fare una trascrizione dal notaio Guglielmo di Sarzana: ut solemniter publicatum sit in perpetuum valiturum, non obstante si iam fortunato casu dominium nostrum devastaretur vel aliquo modo perderetur; egli dichiara pure: quoniam lungissimus tempus est quod fuit factum dictum instrumentum et dubitatur si amitteretur quod postea non posset reperiri cartularius sive protocolus notary qui ipsum scripsit, ecc. Il notaio aggiunse che quell’atto è munito di due sigilli di cera bianca di cui uno del vescovo sul quale è incisa una figura episcopale tenente dalla mano sinistra il bastone pastorale, intorno sta la leggenda S. Stephani epi. Vint.; l’altro sigillo è dei consoli della città ed ha un leone e l’iscrizione S. Consulum Vint. Sette notai sono firmati in calce alla copia di quest’atto. Sulla pergamena originale si vedono le tracce dell’esistenza dei due sigilli di cui è caso in questa dichiara.

Osserveremo ancora come nell’antica pergamena fu alterata la denominazione di uno dei punti di confine della [p. 23 modifica]Seborga scrivendovi Castrum de Junco dopo aver raschiata la sottostante scrittura, mentre nella trascrizione sta scritto Podium Raynaldi. Il Castello di Junco era una frazione di Perinaldo e forse si avea interesse nell’alterare il punto preciso del confine.

Noi ci siamo così un po’ attardati a esaminare questi due documenti del 954 e del 1177 essenzialissimi per l’istoria dei C.ti di Ventimiglia e del Monastero di S. Michele, e crediamo di avere a sufficienza provato che il primo di essi esisteva già nel 1177 e se il tenore poteva esserne alquanto diverso e forse avere confini meno favorevoli ai monaci e mancare chi sa anche della clausola di subingresso pei monaci di Montemajor, pure esso doveva averne le medesime essenziali disposizioni e per lo meno contenere il nome del C.te Guido come donatore del monastero; cosicchè si può ora stabilire, senza timore di essere reputati temerari, l’esistenza formale del C.te Guido a quella probabile dei suoi figli Ottone I, Corrado I e Rolando.

Osserveremo qui come questo Rolando, a cui nel suo testamento il C.te Guido assegna i beni di Garfagnana, fu forse lo stipite di una famiglia possente di Garfagnana che il Cianelli27 ne dice aver avato per stipite un Rolandus o Rodilandus nel 939, il figlio di costui Giovanni viveva nel 955 e fu padre di due figli Rolando e Alberto Azzo 994. Sarà puro caso, ma ecco ritrovarsi qui anche un nome particolare dei M.si di Toscana.

Seguendo l’ordine cronologico dei documenti relativi alla famiglia di Ventimiglia noi dobbiamo esaminare quello che ci arreca il Gioffredo nella Storia delle Alpi Marittime verso il 1002 e che ci fissa l’esistenza di due altri fratelli [p. 24 modifica]Ottone II e Corrado II28. È desso un atto di franchigia concesso agli abitanti di Tenda, Briga e Saorgio dal M.se Ardoino, che non è certo il M.se d’Ivrea a quell’epoca re d’Italia, come lo suppone il Gioffredo, ma bensi il M.se Ardoino V, della famiglia di Susa, di cui già si fe’ cenno; il che si avvalora dal considerare che se i dominii dei C.ti di Ventimiglia sui lidi del Mediterraneo dipendevano dalla Marca di Toscana e di Liguria, quelli all’interno dipendevano dalla Marca di Val Susa Torino come successione dei C.ti d’Auriate, di cui il seggio pare essere stato verso il centro della regione ove più tardi si innalzarono Saluzzo e Cuneo. Diffatti i C.ti Ottone e Corrado intervengono a quell’atto, ma dal contesto appare chiaramente che per quella regione essi sono sotto la dipendenza del Marchese. Vi si parla dell’investitura accordata agli abitatori di questa regione: quae dedit et investivit ad omnes habitatores de onibus rebus nostris et comitis que nos tenemus et de hic in antea laboraverimus aut laborare fecerimus. Questa espressione di comitis indica bene che i C.ti Ottone e Corrado presenti a quest’atto non intervengono solo a guisa di testimoni, ma bensl come conti di essi luoghi e forse anche quali delegati del padre loro Corrado I ancora in vita; ce lo provano anche le altre espressioni di dominus huius terrae, comitis senioris nostri, de comite et de homines de sua masnata. Malgrado dunque l’alta signoria del Marchese e le franchigie e privilegi ad essi concessi, questi paesi dipendevano dai C.ti di Ventimiglia o ne erano ancora al possesso intiero nel 1157, quando il C.te Guido Guerra loro discendente facea cessione delle sue terre ai Genovesi, fra cui vediamo comprese quelle di Tenda, Briga e Limone29. Un’ampia [p. 25 modifica]conferma eziandio l’abbiamo nelle parole di placitum residente semel in anno per tres dies dell’atto di franchigia, poichè circa tre secoli dopo noi ritroviamo questo diritto del placito in potere dei C.ti di Ventimiglia, nell’epoca in cui la dipendenza di Tenda e Briga da questi Signori è fuori di dubbio. Una sentenza del C.te Pietro Balbo nel 1282, che esisteva negli Archivi di Tenda nel 178630, e da lui data circa i litigi esistenti fra Tenda e Briga per i pascoli di Vellega, Malaberga, Baccialona e Senechi, ci arreca lo dichiare fatte dai testimoni, che interrogati quale specie di giurisdizione avessero in quei luoghi i C.ti Pietro Balbo e Guglielmo Pietro suo fratello, risposero che essi erano signori in solidum di detti borghi, che secondo la vecchia costumanza erano soliti esigere 12 denari per ogni capo di casa in detti luoghi, e che nell’ano e nell’altro portavansi ogni anno per tre giorni a render giustisia ad ogni persona, che avevano il jus gladii in facinorosos, che il loro padre avea nome Guglielmo e l’avo Ottone. Questa sentenza era la conferma di un’altra data dal C.te Gerbardo di Lussemburgo legato dell’imperatore Federico in Italia sulla stessa vertenza nel 1162 a Triora e nel 1163 a S. Dalmazzo di Tenda, nella quale sentenza si fa menzione di Ottone e Guido C.ti di Ventimiglia senza che abbiano la qualifica di C.ti di Tenda e Briga, come appunto nell’atto del 1002.

Dall’insieme però di questi documenti chiaro risulta aver essi avuto fin da quei tempi remotissimi una certa giurisdizione su questi borghi, poichè i loro abitatori benchè si dichiarino sciolti da altra prestazione di servizi, si riconoscono però astretti a sostenere oste publica i diritti di proprietà e quelli feodali (comitalis), qui sunt comitis senioris nostri [p. 26 modifica]tam infra comitatu quaminfra marca, e per contro in loro favore, spetterà la facoltà di prendere la legna, di cacciare, di usar delle acque e dei pascoli fino al mare, (dunque lungo il corso della Roia fino a Ventimiglia) sine contradictione supradicti comitis vel eorum heredibus.

Nè della famiglia dei Marchesi di Susa, questo marchese Ardoino fu il solo ad avere giurisdizione sovra quelle regioni, poichè eziandio del figlio di lui marchese Guido si rintracciarono documenti, che lo dimostrano possessore della stessa Marca.

Non è da confondersi questo Guido ancora vivente nel 1047 con altro marchese Guido già morto nel 1040, fratello o cugino di Olderico Manfredo31, che ebbe per figlio un Olderico donatore al Monastero di San Silano di Romagnano il 20 ottobre 104032 e stipite presunto, con validissimi criterii, dei Marchesi di Romagnano.

Del marchese Guido dianzi accennato sappiamo che ebbe per padre un marchese Ardoino, come dall’atto di conferma datogli nel 102633 dall’imperatore Corrado per i suoi diritti e beni ereditari o di acquisto, che possedeva in un col fratello Bosone a Susa, a Torino, ecc.; e pochi anni dopo, nel 1036, lo troviamo menzionato con titolo di marchese nelle terre dell’antico contado d’Auriate, in documenti che dal Doglio, dotto raccoglitore di storia patria, furono ritrovati nell’archivio dei Marchesi Morozzo.

Il primo di tali documenti e dell’anno 1036. Anno Domini MXXXVI, VII Kal. Jun. ind. IV. Chartam donacionis fecit dompnus Wido Marchio ecclesie sancti Dalmacii de Pedona ad luminaria ipsius ecclesie, eorum [p. 27 modifica]que possidet in hoc suo marchionatu in Rebullando34, in Alvernando35 et in valle de Gecio et in Pedona. Actum in Roca...36.

Il secondo docemento dell’anno 1047.

Anno Domini MXLVII non. Jun. XV. Dompnus Wido Marchio fecit donacionem ecclesie sancti dalmacii de Pedona suo .....ad luminaria eorum que possidet in suo marchionatu terras aratorias et: in Entraquis, Valderio, Bovisio,37 Lemono,38 et en ..... et Turpia ...39

Un terzo documento del 1151 ci dà il nome di un altro marchese Guido, figlio del marchese Guglielmo, nipote o pronipote certamente del primo. È desso un atto di conforma di quanto possedeva il Monastero di Pedona in Rupis40, Alvernandi, Robilandi, usque ad Limum41 et superius in pascheriis montanarum usque ad locum qui dicitur tana de renaudo42 et in ea parte montium que vergit ad occidentem.

L’osservare queste terre di Robilant, Alverdant, Roccavione, Limone, Boves, Entraque, Valdieri, formare parte della Marca di un marchese Guido o congiungersi al versanto meridionale colle terre soggette ad un marchese Ardoino mezzo secolo prima; il sapore dai documenti dei Monumenta Historiae patriae l’esistenza all’istessissima epoca [p. 28 modifica]dei marchesi Ardoino e Guido, padre e figlio; il non trovarsi allora marchesi di discendenza Aleramica di tal nome da potersi con questi confondere; ci fanno credere esatto il nostro asserto nel ritrovar qui la discendenza della famiglia Arduinica. Essa però anche in questo ramo si estinse a quest’epoca e parte della Marca caduta in potere della Camera Imperiale, venne concessa ad Enrico ed Ugolino, nipoti del marchese Teotone del Vasto, per diploma di Federico del 116743. Ne pervenne un’altra parte ai nostri Conti di Ventimiglia, poichè in una carta delli 21 agosto 1279: Pacta tractata et confirmata, fra il nobile signore Pietro Balbo conte di Ventimiglia, ed il Comune di Cuneo, si legge l’articolo seguente: Quod fuit et sit fraternitas inter predictum dominum Petrum Balbum per se et per homines comitatus Vintimilii qui per se distinguantur, videlicet per homines Tendae, Brigae, Saurgii, Brelii, Pignae, Rochettae, Castellarii, Busanae, Limonis, Alvernanti, ecc.44. Esaminato così la dipendenza di una parte dei dominii dei Conti di Tenda dai Marchesi di Susa sal sorgere del secolo xi, passiamo ora a svolgerne la genealogia colla scorta dei documenti che qui abbiamo radunati.

Abbiamo supposto che questi due fratelli Corrado II ed Ottone II fossero figli di Corrado I, perchè nel diploma del 954 il C.te Guido qualifica il primogenito dei suoi figli di C.te di Ventimiglia; ma se ne ha una seconda prova dall’atto posteriore dell’Archivio di Genova45 dell’anno 1035 III kal. feb. Desso è una conferma46 fatta dal C.te Corrado figlio di altro C.te Corrado al Vescovo di Genova dei diritti [p. 29 modifica]che alla propria famiglia competevano sulle terre e genti di S. Remo e vi si fissa che d’ora in avanti i confini del contado di Ventimiglia saranno all’Arma47, al Monte Bugnone48 ed in diverse altre località che non sarebbe facile cosa rintracciare ai nostri giorni49, Il C.te Corrado ricave dal Vescovo a titolo di Launehild vestimentum unum. Non sarebbe forse questo Launehild una reminiscenza dell’origine Longobarda e della discendenza dai Marchesi di Toscana?

Un altro atto del 104150 dato dal Gioffredo e facente parte del Cartulario di Lerino, ci fa quindi conoscere il nome di due altri fratelli, Ottone III e Corrado III, della contessa Ermellina moglie secondo ogni apparenza di Corrado III o di Adelaide loro madre. Un atto del 1063 di cui parleremo prova esser stata codesta Adelaide moglie di Corrado II.

L’atto del 1041 è una donazione fatta ad Adalberto abbate di Lerino dal Monastero di San Michele, cum omnibus ad se pertinentiis. Quello poi del 1063, 13 kal. jan:51 che si conserva nell’Archivio di Stato in Torino nomina pure questi due fratelli e gli dice figli di Corrado II.

Per quest’atto l’Abbazia di Lerino, ebbe una specie di conferma della donazione del 1041, sebbene non se ne faccia verun cenno; vi si specificano le dipendenze della Chiesa di San Michele: Ecclesia Sancti Michaelis cum caseis, [p. 30 modifica]vineis, cum areis suarum, terris coltis et incoltis et jerbis et omnibus rebus ad eadem basilica pertinentibus. Se ne fissano i limiti che sono la Roia, il castello e la città di Ventimiglia, il Monte Apio e Auriana.

Nell’anno seguente 1064 e nel mese di giugno questi stessi fratelli fanno un’altra donazione52, quasi conferma delle precedenti, all’abbate di Lerino, Dalmatius ed al monaco Amicas; con essa anzi si estendono i dominii del Monastero di S. Michele nelle località detto Vincedelo e Incanedelo, di cui i confini toccano al Monte Negro, a Valle Buona, a Dosepelago, alla Croce del Sepolcro (Seborga). Nell’anno 1077 noi abbiamo un quarto diploma di donazione degli stessi fratelli Ottone e Corrado e della moglie di quest’ultimo Donella, figlia del marchese Alberto di Savona. I nobili signori danno al Monastero un’isola (I Gorretti) sulle rive della Roia, unitamente ai mulini, acquedotti ecc.53.

Trascorsi alcuni anni nel 1082, 16 marzo, si cita dal Gioffredo una nuova donazione fatta da un C.te Corrado IV, figlio di altro Corrado e dalla propria moglie Odila (Odila jugalis filia Laugerii)54, della Chiesa di S. Martino di Carnolese. Intervengono a quest’atto diversi cugini del donatore Ottone II, Mauro, Guglielmo, Giovanni, Alberto.

Noi crediamo con questi diversi diploni di aver stabilito in modo inappuntabile la genealogia dei C.ti di Ventimiglia in questo primo secolo della loro istoria. Il Gioffredo, Moreri, l’Abbate Robert, Tisserand specialmente, hanno commessi moltissimi errori, di tutta evidenza e che sarebbe troppo lungo il voler qui discutere.

[p. 31 modifica]Vi è ora una notevole deficienza negli atti che ci venne fatto di ritrovare e che hanno tratto alla famiglia di Ventimiglia.

Il Priorato di S. Michele non pertanto continuava ad esser beneficato con donazioni.

Nel 1072 15 luglio vi è una donazione55 di Lauterio figlio di Berulfo di case, vigne ed altri beni nel contado di Ventimiglia, nella valle di Nervia e nel territorio di Valdoasca e Camegna.

Verso quest’epoca pure, Giovanni Cavarie56 dona a S. Michele, & Ponzio Giraldo e ad altri monaci la quarta parte di un molino nel quale egli abita e l’ottava parte di altro mulino coll’obbligo di nutricare unum porcum per unumquemque annum; egli fa promessa di non costrurre altro mulino sulla Roia, da S.ta Maria di Voraio sino alla foce e dopo il proprio decesso lega ogni suo avere al Priorato.

Un’altra donazione dei propri beni fa il monaco Amaricus, priore di S. Michele, coll’usufrutto a vita in favore di Alberto Ruvericio57.

Nell’anno 1079 il C.te Spedaldo58, forse della famiglia di Ventimiglia, dona tutti i beni ch’egli possiede a Sebolcaro (Seborga) ed al Conio, donazione che fu causa di lunghissimi fastidi ai monaci fino allo scorso secolo, per le usurpazioni continue che ivi si praticavano dalla gente di S. Remo, a quei possedimenti confinanti. L’atto originale di questa donazione andò smarrito, per colpa forse del monastero al principio del secolo scorso, come si dirà. Lo stesso anno un [p. 32 modifica]certo Fondaldo59 donò all’abbate Dalmazzo, priore di S. Michele quanto possedeva al Conio ed altrettanto fecero Romualdo coi suoi fratelli, Mauro e la consorte, Guglielmo Razo e vari altri. Questo documento non ci pervenne che per un estratto da un libro coperto di pergamena esistente a Lerino e quella copia porta la firma dell’abbate Jordanis alli 7 luglio 1729.

Noi citeremo ancora una donazione delli 18 dic. 109260 di un certo Andrea, figlio di Martino, di tutto il proprio avero, un altro delli 10 marzo 109661 di Leda, figlia di Genoardi, che dono una vigna con terra incolta in Val di Bevera.

Queste considerevoli liberalità dei C.ti di Ventimiglia e dei privati in favore del Priorato di S. Michele eccitarono la gelosia degli abitanti di Ventimiglia e dei canonici della Cattedrale e furono fin da quei tempi occasione & continui dissapori ed a non mai finite vertenze fra di loro. Molte sentenze dei Sommi Pontefici e dei vescovi ci danno a conoscere le cause di quelle discordie.

Esse avevano avuto principio verso il 1138 fra il capitolo della Cattedrale ed i monaci. I canonici senza richiedere facoltà all’Abbate, celebravano le esequie nella chiesa del monastero escludendone monaci e seppellivano i fedeli nel cimitero prossimo alla loro chiesa; essi aveano anzi innalzata ivi una chiesetta con grave pregiudizio dei monaci. Già da vari anni aveano la pretesa di aver diritto a certe deoime sui beni del Priorato e nel giorno della festa di S. Michele, usando intervenire alla processione, esigevano che al ritorno fosse loro imbandita dai monaci una refezione, esigenza a [p. 33 modifica]tal punto, che era accaduto che questa refezione dai monaci negata, per violentiam extorsissent. Tali erano i rimbrotti dei monaci, a cui rispondevano i canonici, che il diritto alle esequis era loro dovuto e dal buon diritto e dalla usanza, il cimitero essere comune e dipendere anzi dalla Cattedrale, perchè per mancanza di spazio entro le mura, altro non po- tovasi costrurre, le decime esser state fino allora esatte senza reclami, alla festa di S. Michele i canonici d’allora, non meno che i loro antecessori, esser stati sempre ricevuti al Priorato con tutte le onoranze che loro competevano.

Papa Alessandro affidò l’esame della vertenza a tre cardinali che, assentendo le parti, decisero in via di transazione, che il vescovo ed i canonici potrebbero celebrare le esequie ai defunti insieme ai monaci nella chiesa e nel Cimitero di S. Michele, che la chiesetta in quello innalzata verrebbe abbattuta, che quanto in essa era stato dai canonici collocato i medesimi avrebbero potuto esportare, che i canonici avrebbero diritto a macinare il grano nei mulini del monastero prossimiori alla città, ma solo quanto era necessario al loro personale consumo ed a quello dei loro servitori. Papa Eugenio con Bolla data in Sutri nel maggio 1145, nella quale si espone lo stato della questione e la decisione dei delegati Apostolici, ratifico la sentenza e la pace fu per qualche tempo ristabilita62.

Ma non passarono molti anni che nuove cause a dissensi insorsero fra capitolo e priorato. Nel 1177 le parti avverse elessero ad arbitri il vescovo Stefano ed i consoli della Città.

I canonici muovevano lamenti perchè i monaci entravano nella chiesa Cattedrale coll’incenso, coll’acqua benedetta e [p. 34 modifica]gli abiti sacerdotali, celebrandovi i funerali ai defunti. Rispondevano i monaci non altrimenti che i loro contraddittori aveano altra volta risposto, tale essere l’usanza quando i fedeli ne esprimevano il desiderio. Ma il vescovo Stefano od i consoli Arnaldas de la Porta, Altionus, Guil. Trentamoia, Rainaldus Amedeus, Guil. Lecar decisero che al Priore di S. Michele non spettava tale diritto per i religiosi defunti che però sarebbe stato loro concesso purchè in presenza del Vescovo o del suo vicario secondo i riti dei benedettini e dei Santi Padri: per gli altri parocchiani i funebri sarebbero celebrati col concorso dei canonici e dei preti; che qualora il decano del capitolo, un canonico od alcun loro cappellano fossero stati invitati a celebrare la massa, questi l’avrebbero cantata all’altare di S. Giovanni ed il Priore coi suoi monaci a quello di Santa Maddalena, in guisa tale che nè gli uni nè gli altri la cantassero all’altare di S. Michele o di S. Pietro; se però i soli monaci erano invitati a celebrare questi funerali, era lor diritto di celebrare la messa all’altare di loro scelta.

Avrebbero pure avuto per lecito di fare sepolture nel loro monastero senza l’intervento dei canonici, purchè in presenza del vescovo o del suo vicario.

Così fu sentenziato dagli arbitri, come dall’atto redatto dal notaio Celonio nel giugno 117763. Ma tre anni non erano ancora trascorsi che si venne a nuove contestazioni. L’abbate Raimondo ed i canonici comparvero innanzi al cardinal Manfredo, Vescovo di Preneste, Legato in Lombardia e costui, assunto consiglio da Guidone vescovo di Savona, dichiarò che era venuto a sua conoscenza che i monaci cantavano talvolta messe funebri nel medesimo tempo che il [p. 35 modifica]vescovo ed i canonici, con molto scandalo, rumore e divisione dei fedeli, diceva inoltre ciò succedere a solo fine di puntiglio fin dal tempo in cui i dissensi erano cominciati.

I monaci appoggiavano il loro dire presentando testimonianze che provavano l’antica usanza; i canonici muovevano poi speciale lagnanza del ricevere che facevano i monaci i fedeli nella loro chiesa a Natale, a Pasqua, a Pentecoste, malgrado fossero tutti parrochiani della Cattedrale. Il vescovo a sua volta muoveva rimprovero si monaci perchè quando egli si recava nella loro chiesa per la benedizione delle Palme, essi non lo ricevevano in processione.

Il Legato del Papa deciso che quando il vescovo od il suo vicario cantavano, i monaci non principierebbero la messa che dopo l’oblazione, che quando sarebbe un canonico, essi potrebbero cantare contemporaneamente, colla condizione pero che i canonici fossero all’altar maggiore ed i monaci agli altri, ma a bassa voce in modo da non recar disturbo ai canonici; quanto alla domenica delle Palme i monaci dovevano ricevere il vescovo processionalmente, col suono delle campane, offrendogli l’incenso e l’acqua benedetta e preparandogli l’ostia da consacrare e gli abiti pontificali. I fedeli avrebbero avuto facoltà di far le proprie devozioni alla chiesa di S. Michele, ma a condizione che con ciò non si derogasse ai diritti parocchiali. Il 15 gennaio 1181 papa Lucio pubblicò una bolla 64 ratificando la deliberazione suddetta.

È questo l’ultimo atto di tal genere che possediamo e con esso pare fossero terminati i dissapori fra i canonici ed il Priorato di S. Michele.

Di assai maggior mole furono le querele insorte col Comune di Ventimiglia.

[p. 36 modifica]I confini stabiliti dalle diverse carte di donazione per signoria di Seborga e per gli altri possedimenti del monastero nelle vicinanze di Ventimiglia eran così lungi dall’esser chiari, che le difficoltà cominciarono fin da quella remota età e si può dire non ebbero fine se non quando la Repubblica di Genova e la città di Ventimiglia si trovarono riunite agli Stati dei Re di Sardegna.

Noi troviamo fin dall’anno 115265 una sentenza in favore del Priorato, data dai Consoli di Ventimiglia, in cui si fissano i limiti dei beni di esso all’isola dei Gorretti.

Nel 115666 un’altra sentenza dello stesso genere contro certi abitanti di Ventimiglia che possedevano beni in prossimità di quell’isola.

Finalmente nell’anno 1177 i Sindaci e gli abitanti, forse resi più audaci da occulta assistenza della Repubblica Genovese, pretendevano che il paese ed i particolari di Seborga facessero parte integrale del loro territorio e che in tal qualità fossero soggetti alla loro giurisdizione e dovessero contribuere in obsequiis et avariis dictae universitatis.

Gli abbati di Lerino non volevano riconoscere tale pretesa a sostenevano invece che il castello di Seborga, l’annesso territorio ed i suoi abitatori dipendevano unicamente dall’Abbazia di Lerino, sicut dicto monasterio donatum et terminatum fuerat per dominum Guidonem quondam comitem et dominum Vintimiliense et dicti castri de sepulchro; essi dicevano ancora che tutte le terre, case, mulini, giardini che stendevansi dalla porta del lago di Ventimiglia fino al Podio, Apio, Cogalono e la Rosa, come pure i canali dalla porta del lago alla Bevera, erano dipendenza [p. 37 modifica]dell’Abbazia di Lerino e dovevano essere unicamente alla sua giurisdizione sottomessi. I Sindaci negavano che l’Abbazia avesse il menomo diritto di giurisdizione ed anche in parte quello di proprietà. Dalle qui formolate pretese delle parti avversarie facilmente s’intenderà l’importanza vitale della questione insorta. Dopo vari litigi fu concordato un arbitrato. Il vescovo ed i consoli riuniti a pubblico parlamento, uditi vari testimoni, ed esaminati gli atti e titoli dai monaci prodotti, emavarono sentenza scritta per mano di Guglielmo di Sarzana assistito da quattro altri notai. Questa fu favorevole all’Abbazia. Si stabiliva che i possessi del castello di Seborga colle sue dipendenze aveano principio al sommo del Monte Negro e nel sito detto Elesebella e che seguivano indi il vallone del monte fino al passo del Gargo, poi per Roccascura, il passo di Lalona, il vallone di Batalho fino al territorio di Junco. Quanto era fra questi limiti compreso, era dominio e giurisdizione dell’Abbazia di Lerino e per nulla aveano da dipendere dal Comune di Ventimiglia; il possesso di Massatorta era pure dell’Abbazia, toltone il diritto al pascolo a favore di quei di Ventimiglia nei siti incolti; in quanto alle terre che l’abbate diceva estendersi fino al Podio, Apio, Cogalono, e la Roia, coi molini, prati, giardini, terre colte od incolte che stavano fra la porta del lago e le rocche di Paramura e luogo la via che esisteva al disopra della chiusa dei molini di S. Michele e sotto S. Stefano e verso Rolino, come pure tutte le case, campi, orti dell’Oliveto di S. Michele alle mura di Ventimiglia erano di appartenenza dell’Abbazia, all’eccezione sola dei fondi di Santa Maria e di S. Stefano. L’Abbazia aveva poi il diritto di prendere l’acqua d’irrigazione a mezzo di acquedotti ove meglio le tornava conveniente, dalla porta del lago alla Bevera. In quanto agli altri possedimenti dell’Abbazia indicati a dicta [p. 38 modifica]via et supra versus montem la sentenza diceva essere di coloro che in allora ne erano al possesso, quas habuerunt in cambium pro Massatorta, nisi abbas de illis aliud probaverit67.

Ci è parso utile cosa il render conto particolareggiato di questa sentenza, perchè essa ci dà una idea della grande distesa che aveano i possedimenti del Priorato di S. Michele e perchè essa fu di una grande importanza per accertars i suoi vari diritti.

Noi abbiamo ancora su tali questioni una sentenza del 1248 ed una convenzione del 1460.

Altri contrasti pochi anni prima, nel 1174, erano anche stati fra i monaci e un certo Merlo di S. Remo por beni siti in territorio di Vallebuona ed i Consoli di Ventimiglia avean sentenziato in favore dei primi, rappresentati dal priore Gioffredo di Scrocs68. Così pure nel 1192 il priore Alberto area ottenuto un favorevole giudicato contro Corrado Nonclar per una vigna sita in territorio d’Aurignana e per l’usurpazione di una strada alle chiuse dei mulini dell’acqua della Roya alla chiusa dell’isola dei Gorretti69.

Si fu in questo tempo che il conte Ottone di Ventimiglia e Laugiero, abbate di Lorino, fecero una permuta di beni70, che paiono esser stati di un certo rilievo. L’abbate cedeva al conto e l’investira di quanto dal Priorato di S. Michele possedevasi de comptile71 pel contado d’Albenga, dal Rio Armena72 fino alla Prea e dai gioghi al mare, possedimenti che il priorato teneva dalla liberalità (helemosinam) [p. 39 modifica]degli antenati del conte Ottone. Questi a sua volta rilasciava loro il possedimento compreso fra la Chiusa e il Garayan, e la metà dei prati siti presso alla Roia al di là del ponte. Questo atto è scritto dal notaio Celonio nel marzo dell’anno 1177.

Per un lungo intervallo di anni non si hanno ormai altre largizioni da annoverare. I nostri documenti ci danno però un testamento fatto nell’anno 126473 da certa Guglielmina Vixdomina e sebbene i lasciti in esso enunciati non sembrino cospicui, pure l’atto è abbastanza curioso come studio degli usi del tempo. Gioverà notare fra gli altri legati quello all’opera del ponte di Ventimiglia, di cui del resto già ci era nota l’esistenza fino dal 1177.

Altro atto d’importanza pare non fosse fatto in quell’epoca all’infuori di alcune permute o vendite di poco riguardo e di moltissimi contratti enfiteutici di case e poderi in Ventimiglia e nei dintorni: contratti però che per l’incuria dei monaci riuscivano il più spesso di danno anzichè di benefizio ai medesimi. Cosicchè il pontefice Urbano III cercando a togliere simili sconcerti nell’anno 1187 mandò ai monaci di Lerino una bolla74 che concedeva potere al priore di prendere ad esame le vendite e le concessioni enfiteutiche di ogni specie che si eran fatte dai predecessori, con facoltà di annullarle se alcuna disposizione fosse trovata contraria ai diritti dell’Abbazia.

Anzi più tardi, nel 1278, l’abbato di Lerino Pietro e il Capitolo75 proibirono formalmente a tutti i monaci di rendere o di prender parte a vendita o permute di beni del Priorato [p. 40 modifica]di S. Michele, cum permutatio ipsius ecclesiae in gravamine importabile nostro monasterio verteretur. E la gravità dei fatti che doveano succedere a tale proposito ci si addimostra da quella delle penalità minacciate dal Capitolo in caso di disubbidienza dei monaci; questi se riconosciuti colpevoli saranno scomunicati, privi delle cariche e vantaggi monastici ed anzi saranno eiiciendos nulla spe reversionis aliqua reservata.

Infatti sebbene questi atti inconsulti dei monaci non presentino interesse ad esame per noi, pure cagionarono per quelli interminate usurpazioni e confusioni di proprietà. I concessionari poco a poco cessarono di pagare le annualità; i monaci tralasciarono prima di far valere i loro diritti a finirono poi nell’ignorarne la massima parte. E ciò non sola a Ventimiglia, ma eziandio a Seborga, ove gli abitatori di Vallebona andarono man mano impossessandosi di molte terre ai limiti del territorio di Seborga e del Cuneo e i monaci dovettero iniziare allora inutili rivendicazioni, come fra poco si vedrà.

Tali furono le cause che condussero poco alla volta i monaci di S. Michele a perdere la maggior parte dei beni del Priorato.

Ma è tempo che la nostra relazione ritorni di vari anni indietro specialmente per Ventimiglia; poichè mentre i monaci litigavano coi canonici del Duomo per le cerimonie del culto, e contro il Comune e gli abitanti per proteggere diritti o beni dai vecchi Conti loro concessi, questi medesimi e la loro città si vedeano addensare intorno quella procella che in breve rovesciava la potenza quasi sovrana dei Conti di Ventimiglia, imponeva alla loro città il giogo genovese, l’umiliazione della sconfitta, il sorgere delle due fazioni.

Si svegliava in quest’epoca l’ambizione della [p. 41 modifica]Repubblica Genovese. Essa rivolgeva avido lo sguardo su tutta la Riviera e fino ai lidi di Provenza, dappoichè il prestigio della marittima possanza era divenuta la meta d’ogni sua impresa. Guerre, alleanze, trattati di pace, tutto per lei era tappa alla via che si era tracciata. Ventimiglia per la prima dovea diventare avanposto alle conquiste cui agognava e i pretesti erano facili a trovarsi. Le cronache Genovesi narrano come nel 1130 la Repubblica cominciasse ad innalzare una torre al di là di S. Remo, come in luogo di sua giurisdizione, per la dipendenza di quella regione dalla chiesa di S. Siro di Genova. I Conti di Ventimiglia pretendevano alla lor volta una specie di vassallaggio sulle terre di S. Remo, malgrado le antiche loro donazioni. Abbiamo già citato diplomi del 962 e del 1038 che dimostrano quella antica dipendenza. Aggiungeremo qui che nel 1100 essendo nati contrasti per le decime fra il Priore di S. Lorenzo di S. Romo e gli abitanti i Consoli di Genova presentarono al conte Oberto di Ventimiglia le querele degli abitanti e questi emanò la sua sentenza in proposito, nella città di Ventimiglia, in Curte comitis Hoberti, alla presenza di Umberto di Magro suo giudice, del Priore di S. Lorenzo e dei Consoli di Genova. Egli fu di nuovo arbitro nel 1124 insieme al vescovo di Genova, Sigelfredo, fra le medesime parti e pronuncið la sua sentenza in S. Remo presso alla Chiesa di S. Siro76.

Ma ora i conti Raimondo e Filippo, di quel ramo che avea principalmente i suoi dominii verso quei confini, videro nella costruzione di quella torre una minaccia alla loro indipendenza, ed armati i vassalli cercarono di vita forza opporvisi. Nulla bramava più la Repubblica che un simil fatto. I due fratelli sorpresi a tradimento e fatti prigioni vennero [p. 42 modifica]condotti a Genova. Furono trattati con ogni riguardo, ma si dichiarò loro che non avrebbero ricuperata la libertà, se prima non giuravano fedeltà alla Repubblica. E furono costretti questi fieri e possenti signori a piegar per la prima volta l’orgoglio loro e a sottomettersi alle pretese dei Genovesi. I loro vassalli di Baiardo, Poypino furono ancor essi costretti a recarsi a Genova ed a giurare eguale fedeltà. Solo allora i Conti di Ventimiglia furono liberi di far ritorno ai propri Stati. Ma ridottisi appena al sicuro nei loro castelli, rialzarono il capo e protestando non esser tenuti a mantenere quanto per violenza avean promesso, presero ad afforzarsi, sbarrando i loro castelli, armando i vassalli e cercando a tirar dalla loro gli altri Conti di Ventimiglia loro cugini, ai quali l’atto arbitrario dei Genovesi era al tempo stesso insulto e minaccia. Ma sventuratamente malgrado l’estesa dei loro dominii e la lontananza della città di Genova su cui facevano a fidanza, i Conti di Ventimiglia non erano di forza a sostener lotta colla potente Repubblica. Questa d’altronde ebbe cura di cercarsi alleati sul suo passaggio onde non correre pericolo di vedersi tagliata la ritirata in caso d’insuccesso. Fe’ alleanza coi Marchesi di Savona. Hec est concordia inter marchiones filios Bonifacii scilicet Manfredum et Ugonem et Anselmum et Henricum et Ottonen et populum Januensem . quod marchio Mayfredus ad presens debet esse in exercitu cum Januensibus cum centum militibus et cum mille pedestribus . siue Saonensibus . Nabolensibus.77 et Albinganensibus ad acquirendum Vintimilium et comitatum eius ubicunque pertineat ad comitatum cum proprietate comitis ab armedano in iussum . et quod pertinet de Buzana ad comitatum tali modo ut de [p. 43 modifica]predictis rebus debet esse medietas consulum januensium et medietas marchionum etc. Alla città di Ventimiglia fu posto assedio dal lato di mare a da terra. I suoi abitatori si difesero con energico valore ed a lungo, ma nel mese d’agosto (1140) si videro astretti a schiudere le porte ai vincitori. Questi, occupata la città, spogliarono i conti d’ogni autorità e cominciarono immantinente a costrurre un forte castello che tenesse in briglia la città e li rendesse padroni al posto degli antichi suoi conti.

La loro sovranità sui lidi del Mediterraneo è da quest’ora al tutto terminata, non rimane loro che a sottomettersi ai Genovasi e prestando ad essi omaggio, provarsi a ritenere un ombra di essa. Sul fine di questo mese Oberto, conte di Ventimiglia78, sottomette alla Repubblica a titolo di donazione e di transazione quanto egli possedeva nella città e nel contado il giorno in cui Ventimiglia si è arresa all’armi della Repubblica. I Genovesi vogliono anzi umiliare e sottoporre pienamente quei potenti signori e li costringono a iurare habitaculum Januae et compagnam secundum consuetudinem comitum et marchionum . filii eius debent in Janua uxores accipere et filiae eius virum . si convenionter secundum illarum honestatem facere poterint.

Nel 1146 i Genovesi profittano della loro posizione e quei di Ventimiglia sono obbligati & partire sulle loro galee per combattere i Saraceni sulle coste di Spagna. I Ventimigliesi si comportarono da prodi e Genova per renderseli più ligi li rimunerò di vari privilegi, fra cui potestatem omendi et vendendi in civitate Januae, hanc vero laudem fecerunt quia honorifice in exercitu Almarie et Tortuose se habuerant. Nel 1157 Guido Guerra, conte di [p. 44 modifica]Ventimiglia79, donò ai Genovesi i paesi di Roccabruna, Gorbio, la Penna, Castiglione, Sospello, Breglio, Saorgio, Tenda ed altri; al tempo medesimo, con altro atto80, prestò giuramento di fedeltà e vassallagio e tal giuramento si obbliga pure a far prestare dagli uomini tutti da sè dipendenti, mentre la Repubblica a sua volta gli concede l’investitura di questi feudi fino allora patrimonio di sua casa.

Questo medesimo Guido Guerra (di cui il nome proveniva da sua madre Armellina, figlia del conte Guido Guerra, dell’illustre famiglia dei Guidi di Toscana) era forse stato costretto dalla Repubblica a sposare una genovese, poichè troviamo aver egli avuto in isposa Ferraria, figlia di Guelfo d’Albizzola marchese di Sezzė, discendente dal marchese Anselmo, figlio d’Aleramo. Era questa la seconda alleanza matrimoniale fra le due famiglie, poichè già il conte Ottone, suo antenato, area sposato Donella, nipote dello stesso marchese Anselmo. Ferraria pure era stata vittima del despotismo genovese.

Rimasta orfana in giovine età avea dovuto sottoporre i suoi averi alla città di Savona onde sottrarli all’ambizione dei Genovesi, come ca lo dice quest’atto del 1136. Ego Tederada, filia q. domini Coste, et Ferraria, filia q. Welfi marchionis, promitto et dono vobis Saonensibus maioribus et minoribus castellum Albisole. Et Ferraria non accipiet maritum sine voluntate consulum qui tunc erunt siue consilio bonorum hominum Saone in bona fide sine malo ingenio. Et habeant duos homines in turri si voluerint et uni victualia tribuam . quos supra legitur iuravi et filia mea Ferraria81. Ma ciò malgrado dopo tre anni essa dovette [p. 45 modifica]sottomettere ai Genovesi questo Castello d’Albizzola, obbligandosi a non alienarlo per vendita o dono e di recarsi ad abitare nella città di Genova.

Di questo Guido Guerra rimane ancora un altro documento conservatoci dal Gioffredo nella Nicea Civitas. In esso egli rimette al vescovo di Nizza il diritto d’albergo del castello di Drappo che era in suo potere per pegno di 500 scudi dovutigli da Raimondo d’Arles. Egli promette di tenere quel vescovo sotto la sua protezione, non che i suoi vassalli. Vi si fa menzione della moglie Ferraria che dà il suo consenso. Ciò nell’anno 1164.

Venti anni erano trascorsi dacchè Guido erasi sottomesso ai Genovesi, e noi vediamo Ottone di lui fratello dover farne altrettanto. Alli 5 sett. dell’anno 1177 egli cede loro Roccabruna, Gorbio, Poipino82. Egli diede loro l’investitura nomine feudi, per baculum quem manu teneo protestando del suo buon volere verso la Repubblica come verax et fidelis vassallus salva fidelitate Friderici Romani Imperatoris. Dal canto loro i consoli dicevano: Reddimus in feudun tibi et heredibus tuis castra omnia que pro nos ipsis dedisti in feudum e promettevano di essere per lui boni domini83.

A tali miserande condizioni eran dunque in quella età ridotti i Conti sovrani di Ventimiglia, a tale era cresciuta la possa della Repubblica Genovese! I monaci di Lerino, [p. 46 modifica]essi pure, sia per mettersi nelle loro grazie, sia per avere una salvaguardia contro i Saraceni donavano nel 1181 ai Consoli di Genova, nomine feudi medietatem insulae sanctae Margaritas (prossima a quella di S. Onorato) pro castro edificando et burgo in ea videlicet parte in qua competentius construi possit ad habendam et tuendam quiete pro Com. jan. in perpetuum; tali modo videlicet quod tota insula, excepto territorio in quo castrum et burgum construi debeat, per comunes amicos dividatur84, I Genovasi prendevano cosi sotto loro protezione l’Abbazia di Lerino contro tutti, ma specialmente contro i Saraceni.

Anche dall’Abbazia di San Ponzio presso Nizza essi ottennero nel 1197 consimili favori85. Si è una notevole parte del territorio di Monaco di spettanza di quell’Abbazia: quartam partem pro indiviso in qua parte voluerit totius podii de Monacho: i Genovesi doveano garantire e difendere totum aliud ius quod predictum monasterium ibi habeat e la chiesa, che ivi col tempo si fosse costrutta, sarebbe stata sotto la giurisdizione dell’Abbate di S. Ponzio.

Perfino dal comune di Peglia essi ottengono quel po’ che posseggono in monte Monaci, sive in podio faciendum, tabulas quinquaginta.

Così con quella tenacità di propositi propria del loro carattere essi Genovesi allargavano le loro dipendenze e stavano per prendere intiero possesso di quella posizione strategica formata da quello scoglio, su cui dovea poi edificarsi la città di Monaco, punto d’attacco e di difesa per Ventimiglia già loro e per Nizza che miravano a conquistare. Su quella rocca aveano anzi alcuni anni prima, nel 1174, [p. 47 modifica]ottenuto facoltà di porre un castello stringendo alleanza col Conte di Tolosa che avea patteggiato fra altro: Item do vobis similiter nomine communis Januae Salinas de Bucco Podium quoque et montem Monachi cum suis pertinentiis ad incastellandum et quidquid volueritis precario nomine faciendum etc. Similiter vobis dono et nominatim cum castro Turbie et eius territorio. Item simili modo do vobis medietatem Niciae86, salvo et excepto posse Guglielmi Richerii et nepotum quod eis in integrum excipiemus per omnia et conservamus87. Questa alleanza rimase priva di conseguenze, ma l’anno 1191 l’imperatore Enrico II a mezzo di legato imperiale fe’ loro concessione intera di Monaco: possessionem corporalem podii et montis Monaci et portus eiusdem et terrae adiacentis territorii ad castrum et burgum Deo propitio aedificandum et perpetuo habendum et in feudum tenendum ad honorenz imperii et profitum et utilitatem Com. Januae. Ne fu preso possesso. Per podium illum Monachi deambulaverunt circumquaque superius et infra insieme ai legati imperiali e ne furono investiti a feudo dell’Impero per ramos olivarum. Ma i Conti di Provenza riuscirono per lungo tempo ad impedir loro il costruirvi borgo o castello, specialmente per la dipendenza di Monaco dalla Turbia i di cui signori eran vassalli loro.

Questo punto ci è provato da atto del 26 luglio 1245 che qui abbiamo creduto opportuno il rapportare88 per essere il medesimo, solo indicato dal Gioffredo nella storia delle Alpi Mar. Per questo atto passato innanzi ai delegati degli abitanti di Monaco, agli ambasciatori di Genova, al [p. 48 modifica]Castellano della Turbia e di Salomone, giudice di Nizza per i Conti di Provenza, quei di Monaco riconobbero la loro dipendenza da Rostagno e Feraudo d’Eza, signore della Turbia, per i diritti di pascolo, di banno di far la legna, ed altri. Finalmente nel 1215 i Genovesi cominciarono a fabbricare il loro castello, come ce lo narra il cronista Oggero Pano: in mense junio sexto die Fulco de Castello cum pluribus nobilibus civibus ivit cum galeis tribus et aliis lignis portantibus lignamen et calcinam et ferramenta multa ad podium Monachi et decimo die junii castrum edificare ceperunt et antequam redirent ad proprium aedificarunt turres quatuor et murum in circuitu altitudine palmorum XXXIII. Essi ottennero poi nel 1220 dall’imperatore Federico la conferma di Monaco e della facoltà di costruirvi una fortezza; concedimus eidem comuni ut liceat eis edificare et edificatum tenere et habere castrum videlicet super portum Monachi ad honorem Imperii et utilitatem Comunis Januae.

Anche colla stessa città di Nizza la Repubblica di Genova avea stretti patti obbligando quella ad hostem et cavalcatam faciendam et collectam moris dandam et januensem compagnam.

Che potevano fare in siffatte condizioni di cose i Conti di Ventimiglia e la loro antica città? Erasi questa rivolta verso i Conti di Provenza quando gli affari dei Genovesi parean meno favorevoli, ma con poco buon frutto.

I Conti essi pare abbandonavano poco alla volta i loro possessi presso la città e l’ombra di giurisdizione che si era loro lasciata.

Così li 8 settembre 1185 il conte Ottone fratello di Guido cedeva e confermava al Comune di Ventimiglia i diritti e privilegi che già gli erano stati concessi dal fratello [p. 49 modifica]alla presenza dell’Imperatore e che ora si riconosceva impotente a proteggere.

I suoi figli Gugliemo ed Emanuele furono bersagliati da sventura, in guerra coi Genovesi, assediati in Ventimiglia; poi in discordia fra loro, e perciò or l’uno or l’altro, ora alleato or nemico dei Genovesi. Guglielmo nel 1217 cede la metà di Pigna e del Maro, tutta Roccabruna e in parte Pieve, Aurigo e Val di Oneglia dal Monte Arasio sino al Rio di Taggia.

Nel 1220 fa alleanza con Albenga, nel 1220 di nuovo coi Genovesi. Insomma una vera dissoluzione. Nel 1257 suo figlio Guglielmo proscritto dai Genovesi cedeva a Carlo d'Angiò i suoi dritti tutti sopra Tenda, Briga, Gorbio, Castiglione, Castellaro, oltre quanto era suo in Val di Lantosca e le sue pretese sul contado di Ventimiglia e specialmente su Roccabruna, Monaco, S. Remo e Ceriana. Questo trattato fu origine di lunghe contestazioni fra Genova e il Conte di Provenza. Si venne a transazione in Aix nel 1262.

Il figlio di Emanuele, Bonifazio, vendette la sua metà di Dolceacqua o si ritirò in Provenza. Emanuele, figlio di lui, sposo Sibilla d’Evenas di Signa e fu lo stipite dei Ventimiglia di Provenza.

Nell’altro ramo di Ventimiglia, Filippo, figlio di Enrico signore del Maro, Prelà, Lezinasco, Carrù ecc. fu anch’esso in preda a molti sfortunii, alle scomuniche papali, all’abbandono dei suoi sudditi, alla necessità dell’esilio. Ei passò in Napoli e Sicilia e ivi la famiglia dei nostri conti rifulse di nuova gloria. Suo figlio Enrico sposò Isabella, figlia di Ardoino signore di Gerace e d’Isola Maggiore, e fondo la famiglia che al nome suo aggiunse questi titoli siciliani e fu tra le primarie del Regno.

Un altro ramo ancora, quello di Pietro Balbo stabilitosi [p. 50 modifica]a Tenda, quasi fra quelle montagne e fra fedeli vassalli fosse più al riparo della tracotante insolenza dei Genovesi, fu lo stipite della famiglia che oltre Tenda ebbe Briga, Limone, Alvernante e Castellar; suo figlio Guglielmo Pietro impalmò Eudossia Lascaris della famiglia imperiale d’Oriente e unì al vecchio nome Ligure quello Greco col quale altamente s’illustrò la famiglia di Ventimiglia. Col nuovo nome di Lascaris essa fiorì in varie parti delle Alpi marittime ed in Nizza specialmente, trasmise il feudo sovrano di Tenda alla discendenza di Renato di Savoia89, feudo passato poi per permute ai Duchi di Savoia: trasmise finalmente l’illustre sangue nella famiglia del grande statista italiano il Conte di Cavour.





Note

  1. Fam. illustr. ital.
  2. Gen. imp. Fam. Lascaris.
  3. Chron. Reg. Sicil.
  4. Corradone.
  5. Vedi la lettera del Terraneo al Muratori data dal Bne G. Claretta nelle Memorie storiche su Terraneo ecc., dalla quale risulta la difficoltà di accertare questo punto di storia. La nostra versione è quella del Carutti nel dotto suo scritto su Umberto Biancamano.
  6. Doc. 1.
  7. Labbeus Concil.
  8. Nell’atto d’accordo passato fra la regina di Sicilia duchessa d’Angiò Yolanda e il duca Amedeo di Savoia alli 5 ott. 1419 per confermare a riconoscere a Casa Savoia il possesso di Nizza, si dice di Ventimiglia: qui quidem comitatus Vintimilii est ab antique et esse solet in, et de, seu sub comitatu Provinciae. V. Dupuy, Traité des droits du roy.
  9. La famiglia Bardi abitava Perinaldo nella metà del secolo xiv ed aveva allora il soprannome di Marardi (v. doc. xxxv), il che ci proverebbe che la famiglia del generale Giacomo Maraldi ora comandante la divisione militare di Roma avesse anticamente il nome di Bardi. Furono di questa famiglia Giacomo Filippo Maraldi astronomo, nipote di Cassini, nato & Parinaldo il 21 aprile 1665, morto a Parigi nel 1729, Gian Domenico Maraldi, 17 aprile 1709, morto a Parigi nel 1778, antenati del moderno generale, v. Uns semaine sur la frontière, opuscolo del cav. Ippolito Cais di Pierlas.
  10. Mon. hist. patr.
  11. Giurisdizione comitale.
  12. Arma, rivo di Taggia.
  13. V. doc. 21.
  14. Presso Pompeiana,
  15. Terzorio.
  16. S. Remo.
  17. Liber iur. Reip. Jan.
  18. Muratori, Antich. Est.
  19. Patronimico della famiglia dei Msi Thaon conti di S. Andrè e di Revel, illustri patrizi di Nizza che ebbero due luogotenenti generali del Piemonte, tre collari dell’ordine dell’Annunziata, duo vicerè di Sardegna, tre governatori di Torino, ecc.
  20. V. Muratori, Leibnitz, ecc.
  21. Doc. 23.
  22. Patrono speciale della famiglia, cosicchè certe antiquate tradizioni narravano fosse della famiglia dei Ventimiglia la madre di S. Antonio.
  23. Mon. hist. patr. (Lib. iur. Reip. Jan.).
  24. Stemma dei Conti di Ventimiglia a quell’epoca e poi della città come un atto del 1177 lo addimostra. Il Gioffredo nel suo più antico ms. della storia delle Alpi Marittime esistente nell’Archivio di Stato, dice che alcani Conti di Ventimiglia aveano per stemma un leone leopardato ed altri un castello vicino al mare: posteriormente portarono lo stemma dei Lascaris inquartato col loro, che era al 2° e 3° quarto di rosso al capo d’oro. Tale stemma fu forse loro concesso dalla Repubblica di Genova quando essa investiva nel 1157 Guido Guerra dei feudi da esso ceduti giurava la campagna di Genova insigna rubea ei propterea tradita al ipsis consulitus,
  25. Doc. 23.
  26. Doc. 23.
  27. Doc. per la Storia di Toscana,
  28. Doc. 2.
  29. Doc. 18.
  30. Ms. Archiv. Pierlas.
  31. Terraneo, Adelaide illustrata.
  32. Mon. Hist. patr. Chartarum, T. II, cvii.
  33. Mon. Hist. patr. Chart. T. I, cclvvi.
  34. Robilant.
  35. Alvernant.
  36. Forse Roccavione, una delle sedi supposte del contado d’Auriate.
  37. Boves.
  38. Limone.
  39. Turbia?
  40. Roccavione.
  41. Limone
  42. Forse Tanarda (come da Podium Rainaldi, Perinaldo), colle appuato situato al punto probabile di confine fra i tre contadi di Ventimiglia, Bredulo ed Auriate.
  43. Moriondo, Monum. Aqu.
  44. Rolfi, M. S.
  45. Liber iur. Reip. Jan.
  46. Doc. 3.
  47. Taggia.
  48. Bignone.
  49. Di questa donazione parla Jacobo de Varagine nella sua Cronaca. Egli dice: «Isti Episcopo confirmatum fuit castrum Sancti Romuli at Cecilianae cum omnibus pertinentiis sais per nobilem virum Couradam comitem Vintimilii sicut patet per p. p. instrumentum quod in Archiepiscopatus scrinio reservatur».
  50. Doc. 4.
  51. Doc. 5.
  52. Doc. 6.
  53. Doc. 8.
  54. Lodegario Rostagno dei Conti di Nizza, Cart. di Lerino.
  55. Doc. 7.
  56. Doc. 11.
  57. Doc. 2
  58. Doc. 9.
  59. Doc. 10.
  60. Doc. 12.
  61. Doc. 13.
  62. Doc. 15.
  63. Doc. 22.
  64. Doc. 24.
  65. Doc. 16.
  66. Doc 17.
  67. Doc 23.
  68. Doc. 20.
  69. Doc. 26.
  70. Doc. 21.
  71. Giurisdizione feudale.
  72. Arma.
  73. Doc. 29.
  74. Doc. 25.
  75. Doc. 31.
  76. Lib. iur. Reip. Jan.
  77. Noli.
  78. Doc. 14.
  79. Doc. 18.
  80. Doc. 19.
  81. Lib. jur. Reip. Jan.
  82. Sito nella vallette di Carey presso Montone e menzionato negli statuti di Mentone del 1316, di cui l’originale in codice membranaceo esiste nella Bibl. del Re in Torino. Forse un altro castello collo stesso nome esisteva nel sito detto Capo Pino fra S. Remo e Bordighera presso Baiardo e Ceriana, Su questo monte esistono rovine che paiono essere state di notevole importanza. Questa rocca fu distrutta nel 1318, i suoi abitatori dispersi costrussero un nuovo paese detto la Colla verso il 1400 e nel 1491 vi si innalzarono la parrocchia e torri di difesa.
  83. Libr iur. Reip. Jan.
  84. Liber iur. Reip. Jan.
  85. Doc. 27.
  86. Non sarebbe forse Hixia, Isia, Eza, feudo in appunto allora tenuto anche dai Richieri.
  87. De Turris, Cirologia.
  88. Doc. 33.
  89. Figlio del Conte Filippo di Bressa e di Libera Portoneri, detto il Gran Bastardo, sebbene dal Duca Emanuele Filiberto abilitato a succedere al trono.