Verona illustrata/Parte prima/Libro secondo
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DELL’ISTORIA
DI
VERONA
LIBRO SECONDO
Non poteano i Veneti non esser nazione di molto grido, e non esser sozietà di gran forza, mentre sì ampio paese occupavano, quanto è dal Chiesio al mare, e quanto è tra ’l Po e l’Alpi, e regioni teneano, delle quali difficilmente in qualunque parte si troveranno le più fertili, le più deliziose e le più felici. La prima notizia de’ fatti di questa gente, e per conseguenza de’ Veronesi, si ha per occasion della guerra de’ Galli Senoni contra Roma, già che per lo più tanto sappiamo degli antichi popoli occidentali, quanto ebbero a far co’ Romani. Bella memoria adunque ci ha unicamente conservata Polibio (lib. 2: Τῶν Οὐενετῶν ἐμβαλόντων ec.); cioè che quando i Senoni con l’aiuto degli altri Galli Cisalpini entrarono vittoriosi in Roma, l’anno 364 dalla sua fondazione, furono al fine costretti a ritirarsi e a far pace, per aver prese l’armi i Veneti contro di essi, ed essere entrati ne’ lor confini. Gran corpo e gran comunanza fin dal quarto secolo di Roma convien però dir fosse quella, che contra i tanti popoli Gallici non dubitava intraprender guerra, e la quale, a fronte di così feroci confinanti e invasori, in possesso delle sue città e de’ suoi paesi si mantenne sempre.
Nello spazio delli cento settant'anni che corsero dalla detta guerra alla Punica seconda, non lasciarono i Galli d’infestar ben sovente i Romani, avendogli più volte vigorosamente assaliti. Molto spesso in tal tempo ebbero guerra co’ Galli anche i Veneti; o fosse ciò un effetto di perpetua lega che questi avessero co’ Romani, o fosse che altramente non potesse avvenire nella vicinanza di due nazioni, l’una formata nell’antiche età d’un composto d’Etrusci e d’Asiatici o Greci, l’altra settentrionale e barbara, e dalla quale altra legge non si riconoscea che la forza. Tal frequenza di guerreggiare tra Galli e Veneti noi ricaviamo da un luogo di Tito Livio (lib. 10: Accolae Galli), in cui raccontando lo sbarco alla metà del quinto secolo di Roma fatto sul Padovano da una partita di Greci, che cominciarono a predar gli armenti e a saccheggiar i Vici, dice, che giuntone l’avviso a Padova, per reprimer tal incursione, in poco d’ora e con poca fatica si pose gente in ordine, stante che i vicini Galli teneangli sempre in armi. Malamente è stato inteso questo passo da chi ha creduto ritrarne che il tener de’ Galli arrivasse fino a Padova. Le guerre de’ Galli, come appare dal consenso dell’Istoria, non erano co’ Padovani in particolare, ma co Veneti tutti: però manifesto è che tenuti sempre in armi da’ Galli non intende qui Livio fossero i Padovani solamente, ma generalmente i Veneti; quindi è che col general nome di Veneti chiamò in quell’istesso luogo coloro che si opposero a’ Greci fuggitivi (Graecis Veneti obsistunt). È dunque patente che vicini o contermini chiama Livio (lib. 10: accolas Gallos) i Galli alla Venezia, non a Padova, appunto come poco dopo con l’istesso vocabolo contermini gli chiama all’Etruria, e, come significa altrove, che il regno d’Eumene era confinante con quel d’Antioco (lib. 35: regem accolam).
Scacciati finalmente del tutto i Senoni, e sconfitti i Boj da’ Romani, stettero cheti i Galli per quarantacinqu’anni: dopo i quali confederati i due Popoli più potenti (Pol. 2: τὰ μέγιστα τῶν ἐθνῶν), Boj ed Insubri, chiamarono in aiuto i Gessati di là dall’Alpi, e unita al Po una grand’armata, marchiarono nell’anno di Roma Varroniano 529 verso la Toscana e verso Roma. I Veneti anche in quest’occasione tennero co’ Romani, ricevuta da Roma una legazione, talchè posero insieme venti mila uomini per entrar nel paese de’ Boj, e richiamar come l’altra volta i Galli a difendere il proprio. Uniti a’ Veneti furono in quest’incontro i Cenomani, quali come prossimi alla Venezia e più deboli, per non restare esposti, si congiunsero co’ Veneti contra i lor nazionali. Ma ottenuta dal console Lucio Emilio una insigne vittoria in Toscana, e trucidati i nemici e dispersi, venne in animo a’ Romani di domare interamente i Galli cisalpini, e spedirono contra Boj ed Insubri ambedue i Consoli. Passarono allora il Po per la prima volta l’armi Romane, e terminò la guerra con la espugnazion di Milano, avendo perciò Claudio Marcello trionfato degl’Insubri, come insegnano i marmi Capitolini. Fino a questo tempo, che vuol dire fino all’anno 532, appar chiaramente che nè Veneti nè Cenomani furon soggetti a’ Romani. Quando e come passassero quelli e questi sotto la Romana Republica, è da porre in chiaro, e prima quanto a’ Cenomani.
Si ha in Polibio (lib. 2, c. 35) che debellati gl’Insubri, poco tempo dopo furono anche discacciati i Galli da tutte le pianure d’intorno al Po, eccettuati solamente alcuni luoghi posti alle radici dell’Alpi. Impariam da questo che tentarono ben tosto i vinti di scuoter l’imposto giogo, e che tumultuarono in lor favore con gli altri popoli Gallici anche i Cenomani, quali come possessori di bella pianura e adiacente al Po, non ha dubbio essere dei compresi quivi dall’Istorico sotto il general nome di Galli, e degli scacciati e soggiogati allor da’ Romani. Avvenne ciò ne’ quattro anni che passarono dalla depressione degl’Insubri, al principio della seconda guerra Punica; e conferma incontrastabile ce ne dà l’Epitome Liviana, in cui si ha come immediatamente avanti la guerra Punica furono da’ Romani condotte le Colonie di Piacenza e di Cremona, e queste nel terreno preso a Galli (Epit. lib. 30: in agro da Gallis capto). Tale era l’uso Romano, e però veggiamo in Livio (lib. 37, 39, 41) come alle Colonie mandate a Modana, a Bologna, a Parma si distribuì terreno tolto a’ Boj, e a quella di Lucca terreno tolto a’ Liguri. Ecco però come in pena furon parimente allora privati i Cenomani di buona parte del territorio loro con l’edificazion di Cremona; poichè i Romani per imbrigliare i Galli, la forza de’ quali era d’intorno al Po, sul Po piantarono due Colonie, una delle quali, secondo il buon ordine sempre tenuto e mostrato poco dopo nel fondar a Colonia Aquileia, fu nell’ultimo distretto da tal gente posseduto, cioè nel Bresciano. Non si può da chi abbia lume di conoscenza dubitar punto che questa nel tener de’ Veronesi non si fosse più tosto condotta, s’anche questa città fosse stata di ragion de’ Galli; mentre il Veronese ancora arrivava al Po, ed avea Ostiglia, ch’era sito niente men opportuno: o ne sarebbe certamente almeno stata quivi condotta un’altra, per tener Verona a freno, come con Cremona si tenea Brescia, e per guardare il confine, e far fronte non meno a’ Galli ch’eran di qua dal Po, che a qualunque altra molestia dalla parte dell’Alpi venir potesse, che fu il fine della Colonia Cremonese, come Tacito (Hist. lib. 3: adversus gallos trans Padum agentes, et si qua alia vis inter Alpes rueret) espressamente dichiara. Ma appena nell’anno 536 si sparse il grido della marchia d’Annibale versò l’Italia, con la quale alla guerra Punica seconda si diè principio, che Boj ed Insubri, prese l'armi, si ribellarono. Non ebbero in ciò parte i Galli Bresciani, come parla Livio (lib. 21), quali tenuti a dovere dalla Colonia Cremonese, diedero anzi aiuto a Lucio Manlio pretor della Gallia, e soli de’ Galli nel prim’anno senza ribellarsi mantenner fede, e nella battaglia al fiume Trebia stettero co’ Romani. Ma cambiarono ben tosto anch’essi al vedergli allontanati, e dall’avversa fortuna abbattuti: però nelle giornate al Trasimeno e a Canne non si veggon più Galli se non nell’esercito d’Annibale; e tra’ popoli passati allora al suo partito, dichiara lo Storico che furono i Galli cisalpini tutti (Liv. lib. 22: et cisalpini omnes Galli). Quindi è che nel 548 Piacentini e Cremonesi mandarono Legati a Roma per querelarsi delle incursioni e de’ saccheggi che da’ vicini Galli soffrivano (lib. 28). Terminata con tanta gloria de’ Romani quella guerra, l’anno susseguente 554 Insubri, Boj e Cenomani, fattosi duce Amilcare, che rimaso era fra loro, e suscitati più altri popoli, abbrugiaron Piacenza ed invaser Cremona: rotti però e disfatti da Lucio Furio pretor della Gallia, che n’ottenne a Roma il trionfo (Liv. lib. 31). Tre anni dopo ribellaron di nuovo: separatisi però i Consoli, Cornelio Cetego marchiò contra gl’Insubri, i quali presi seco i Cenomani, come parla Livio (l. 32: Cenomanis assumtis), s’erano ritirati al fiume Mincio. Il parlar di Livio ben mostra che i Cenomani non si stendeano fuor del Bresciano, poichè nel marchiar gl’Insubri al Mincio, gli presero seco. Quivi Cetego, avendo col mandar ne’ villaggi de’ Cenomani ed in Brescia, che di quella gente era capo, compreso non esser essi in armi per publica deliberazione, gli sollecitò nascostamente ad abbandonare i compagni, come nella battaglia fecero; avendo non pertanto degl’Insubri e de’ Cenomani il vittorioso Console trionfato (Liv. lib. 33: de Insubribus Cenomanisque). Con questa vittoria rimasero finalmente i sudetti popoli sottomessi. De’ Cenomani però in avvenire non si trova più nell’Istoria nè pure il nome, se non pochi anni dopo, allorchè avendo il Pretor della Gallia senza giusto motivo tolte loro l’armi, querelandosene a Roma in Senato, le riebbero, e fu in pena richiamato dal governo il Pretore.
Or veggiam de’ Veneti, quali, mirabil cosa è, che quando e come venissero alla divozion de’ Romani, nè in verun Istorico si legga, nè alcun finora si sia dato pensiero d’investigare. Questi ancora, e Verona con essi, ne’ medesimi quattro anni che precedettero alla seconda guerra Punica, noi crediam che passassero sotto Romani. C’inclina a così credere l’osservare nell’Epitome Liviana (l. 20) come dopo sottomessi i Galli, e avanti la venuta d’Annibale, furon debellati gl’Istri, situati di là da’ Veneti: benchè per verità sia credibile fossero questi assaliti per mare, riferendo Eutropio (l. 3) che aveano infestate a modo di corsari le navi frumentarie de’ Romani. Ci muove ancora più il vedere in Silio Italico (lib. 8) annoverata la Venezia insieme con l’altre parti d’Italia sottoposte a’ Romani, che contribuiron gente avanti la battaglia di Canne; e molto più il non veder parola in Tito Livio d’un così grande e così importante aumento di Stato; la qual cosa dimostra, secondo noi, ch’egli avea ciò riferito ne’ libri smarriti, dove le cose si narravano alla seconda guerra Punica antecedute, Nell’anno 568 (Liv. lib. 39) si conosce con sicurezza la Venezia tutta già soggetta a’ Romani, per aver essi impedito ad una truppa di Transalpini passati nel territorio, che fu poi Aquileiese, di edificar quivi. Dalla mossa d’Annibale al detto tempo racconta Livio a disteso e con diligenza quanto di notabile a’ Romani avvenne: non è dunque mai da credere che sfuggito gli fosse un tanto ingrandimento, e l’acquisto di così illustri città; e tanto più, che si trattava anche della patria sua, essendo appunto lui di questa region nativo. Manifesto è però l’indizio che il racconto di questo fatto cadeva nel suo vigesimo libro dal tempo involatoci.
Questo è quanto al tempo; ma quanto al modo, quasi per certo abbiam noi che non per forza d’armi, ma per volontaria dedizione all’Imperio Romano s’incorporassero i Veneti. Primo indizio ci par di trarne dal non vedersi il lor nome ne’ Fasti trionfali; e poichè tanto i marmi ne son mutilati, ancor maggiore, dal non farne menzion alcuna Polibio, il quale nel secondo libro le guerre alla Punica seconda precedute tocca diligentemente. Non avrebbe ancora l’Epitome di Livio trapassata in silenzio cotal conquista, se per guerra fosse avvenuta, come non vi trapassò poco appresso il soggiogamento dell’Istria; poichè le guerre non sogliono dagli Storici anche ne’ compendj trascurarsi. Così Floro di guerra Veneta non fa motto. Ma prova in oltre più certa ne dà il costume inalterabile de’ Romani, che in que’ secoli non portaron mai l’armi contra chi che sia, se non provocati, e non le avran però mosse contra Veneti lor perpetui collegati ed amici. Dimostrazione in fine certissima ne fa l’osservare, come Colonia non fu condotta allora, nè per cento trent’anni appresso, di qua dal Chiesio; dal che apparisce che non fu acquistata la Venezia per forza d’armi; insegnandoci Appiano (Bel. Civ. lib. 1) che Roma nelle regioni dentro l’Alpi in tal guisa soggiogate costumò di far Colonie in vece di fortezze, mandandovi cittadini suoi per abitar nelle città, o di nuovo quivi fabricate, o co’ proprj abitanti divise; il che non potendosi eseguire senza torre ai popoli buona parte del lor terreno, instituto de’ giusti Romani fu di non mandar Colonie se non in paesi prima nimici, e fatti di lor ragione per gius di guerra; di che le Colonie nella cisalpina Gallia condotte spezialmente fanno fede. Narrando lo Storico che nell’anno 565 fu condotta Colonia Latina a Bologna, soggiunge subito: “il terreno si era tolto a’ Galli Boj” (Liv. lib. 27: ager captus de Gallis Boiis fuerat). Osservisi adunque come nelle parti di qua fu unicamente edificata e fatta Colonia Aquileia; ma oltre che quello era paese non de’ Veneti, ma de’ Carni, avvertasi ancora come fu terren di conquista: poichè nel 568 uno stuolo di Transalpini, penetrati per boschi e disusate vie fin presso al sito ove, come dice lo Storico (Liv. lib. 39: ubi nunc Aquileia est), poi fu Aquileia, se ne impossessò, e cominciò a fabricarvi una piccola città: costoro da Livio son detti Galli; potrebbe darsi con tutto ciò fosser venuti di men lontano, poichè il nome di Galli, come quel di Celti, fu dato anticamente talvolta a tutti i popoli transalpini: ma forse ancora fu gente staccata dall’Alpi Galliche. Mandarono i Romani a dolersene; ma nell’anno 571 continuava tuttavia il lavoro: ordinarono però al pretore Lucio Giulio d’impedirlo anche con l’armi occorrendo, e di cacciargli: così fu fatto, accorsovi anche il console Claudio Marcello; senza però spogliar costoro, nè offendergli, essendosi scusati con dire che spinti dalla penuria de’ lor paesi, non aveano creduto di far errore, occupando un terren solitario ed incolto. Marcello chiese poi licenza al Senato di portar la guerra nell’Istria tumultuante; per la quale molto opportuno essendo di piantare una Colonia su la frontiera, fu deliberato di fabricare Aquileia poco lungi dal luogo ove poco avanti aveano preso a fabricare i Galli. Eretta contra i Barbari confinanti la disse però Strabone (lib. 5: Ἐπιτειχισθὲν τοῖς ὑπερκειμένοις βαρβάροις). Il nome, come a molt’altre, le venne forse dal fiume che le scorreva a canto; poichè Aquilo par che Zosimo (lib. 5, c. 29: τὸν Ἄκυλιν ποταμόν) chiami quel fiume istesso che scende dall’Alpi Noriche, e il cui nome in Plinio e in altri si scrive Natiso. Si opposero gl’Istri, e fu necessario che l’altro console Fabio Labeone guerreggiasse con essi: ma nel 573 vi fu finalmente da’ Triumviri, eletti due anni avanti, condotta una Colonia Latina. Ecco però come in paese prima da nimici tenuto anche questa Colonia fu posta, ond’è che dice lo Storico, essere stata nel terreno de’ Galli condotta (Liv. lib. 40: in agro Gallorum est deducta), avendo i Romani avuto in uso di considerar come paese di conquista qualunque fosse stato avanti da straniere e nimiche genti occupato. Comprovasi da tutto questo, che non essendo altra Colonia per sì lungo tempo dopo il dominio Romano stata in tutta la Venezia condotta, non fu altra parte in essa, che fosse da’ Romani con l’armi acquistata: e se ne prova in oltre con piena evidenza che questa città singolarmente fu sempre Veneta, e non mai Gallica, indubitato essendo che in Verona o nel Veronese si sarebbe fondata Colonia, se questo paese fosse stato prima de’ Galli; e tanto più in questa che in altra parte, quanto che alle straniere nazioni e a un sì frequentato varco dell’Alpi si fa qui frontiera. Presso chiunque abbia lume degl’instituti Romani, e dell’ordine perpetuamente da lor tenuto nelle conquiste in tempo della Republica fatte, e ne’ paesi a’ Galli tolti, niun altro argomento abbisogna per sicuramente conoscere che nè de’ Cenomani, nè d’altra gente Gallica fu mai Verona. Ma venuta adunque la Venezia spontaneamente alla divozion de’ Romani, non per questo smarrì mai l’antico nome o l’antica stima. Fino in tempo dell’lmperador Claudio (Tac. Ann. lib. 11) tutti i popoli Cisalpini venivan dinotati co’ due soli nomi di Veneti e d’Insubri, come i più illustri e diffusi: per Insubri s’intesero tutti i Galli; per Veneti coloro che fin nell’ultima età dell’Imperio una delle più nobili provincie d’Italia da se composero e denominarono.
Benchè tanto chiaramente si sia dimostrato che la Venezia non per forza d’armi, ma per volontaria dedizione s’incorporò all’Impero Romano; alcuni son tuttavia che non vogliono persuadersene, e non sanno indursi a credere che corpo tanto potente consentisse mai per elezione di passare in potestà altrui. Ma per giudicar di ciò rettamente, converrebbe aver fatta considerazione sul sistema de’ Romani, chè fu differentissimo da tutti gli altri. I Re conquistatori costumarono di porre i popoli in mera condizion di soggetti: ma i Romani considerando che il far compagni era un farsi altrettanti aiuti, e il far servi era un prepararsi altrettanti nemici, spezie d’Imperio vennero componendo, che riuscì una sozietà di tulle le genti vincolata insieme dal comun benefizio. Osservisi però il linguaggio Romano, che ben ci apparisce negli antichi Scrittori. Non solamente trattando d’Italiani, ma trattando parimente di Provinciali, il termine non si usava di sudditi, che quasi era ignoto, ma di sozii (Socii): ne son piene l’antiche carte, e basta scorrer tra gli altri Cesare, Cicerone e Tito Livio. È stato per alcuni creduto che di tal denominazione venissero solamente onorati i Latini; e per altri, que’ popoli ancora ch’eran privilegiati di libertà: ma con grand’errore; poichè de’ Galli, degl’Ispani, de’ Cilicj e d’altre provincie così parlano gli Autori regolarmente. Tullio spessissimo i Pretori e i Magistrati d’ingiurie a’ Compagni (Sociis) fatte riprende e accusa, e più volte i Provinciali d’esser cattivi Compagni rimprovera. Ove disputa in favor della legge Manilia, noi, dice, per l’innanzi potevamo con l’ autorità del nostro imperio far sicuri i Sozii tutti anche dell’estreme regioni (omnis Socios in ultimis oris, ec. ); e forse dieci volte nell’istessa Orazione così nomina i soggetti popoli. Ravvisasi tale instituto ne’ Greci Scrittori ancora, benché usati ad abusare assai spesso i termini Romani. Dice Dione (lib. 36: οὐ τὴν Συμμαχὶδα μόνον ἀλλὰ καὶ τὴν Ἰταλίαν αὐτὴν) che i corsari infestarono l’Italia stessa, non che li Collegati: così suona il vocabolo ch’egli usò per significar le Provincie. Strabone più volte per dir d’una gente, ora è sottoposta a’ Romani, così si esprime: ora sono Romani (νύν δ´ ἐισί Ῥωμαῖοι). Quinto Curzio chiamo il dominio Romano tutela, ove disse di Tiro (lib. 4): ora sotto la tutela della mansuetudine Romana riposa. Così affermò Cicerone (Off. lib. 2, c. 5) che potea nominarsi anzi protezione e difesa, che imperio. In questo modo non è da far maraviglia che i Veneti, benché di tanta forza, spontaneamente si dessero a’ Romani; anzi niuna maraviglia è da fare che con sì fatti instituti occupassero tutto il mondo i Romani, dove gli altri dominii dentro angusti termini si rimasero: perchè giovava più a’ popoli d’entrare in consorzio con una sì grande e insuperabil Republica, che di fare un piccolo e debil corpo da se. Di un tal sistema conseguenza era infallibile, e pur ancor sarebbe, il signoreggiar la terra: perchè l’utile e l’interesse furon sempre e in ogni età saranno il gran movente degli uomini; e ben si mutano le persone, ma la natura e la ragion delle cose è l’istessa. Traluce così fatta idea de’ Romani anche nell’uso, fattoci poco fa avvertire da Appiano, che ne’ paesi soggiogati facean Colonie in vece di fortezze. Cosi Aquileia contra gl’Istri, così Eporedia, oggi Ivrea, dice Strabone che fu fondata perchè servisse di presidio contra i Salassi. Non per fortezze adunque assicuravano il loro Stato i Romani, ma con popolazioni benevole e interessate nel dominio, o per sangue, o per legge: cioè o per esser nate Romane, o per esser fatte. L’effetto di che videsi fin ne’ primi tempi, quando gli Equi mal soffrendo una Colonia quasi rocca imposta su i lor confini (Liv. lib. 10), l’attaccarono con gran forza, ma furono da’ Coloni bravamente respinti. Continuaron sempre in tal costume i Romani, per avere osservato che le fortezze occupate da nimici talvolta, diventano lor perpetuo nido; là dove gli uomini ben affetti, e con qualche spezie di comunanza vincolati, o non si espugnano dagli estranei già mai, o tanto si tengon da essi in catena, quanto tarda l’occasione e la possibilità di redimersi.
Nel modo che abbiam veduto, intorno all’anno di Roma 534 insieme col rimanente della Venezia passò la città nostra ancora sotto i Romani. Ch’essa fin d’allora molto si distinguesse tra l’altre, Silio Italico (lib. 8: Tum Verona Athesi circumflua) palesa, quando i popoli annovera, che contra Annibale mandarono in quella guerra, e prima della battaglia di Canne, a’ Romani aiuto; poiché Verona dall’ Adige circondata distintamente vi nomina1. Ove di tanto rimote età si favelli, così rare son le menzioni che di queste città in antico Scrittor si rinvengano, che non bisogna lasciarsi fuggir senza riflessione la recita che in quel luogo fa il detto Poeta di molte. Osserviamo adunque primieramente, come si segnalò Verona mandando aiuto a’ Romani nel maggior uopo; con che d’altra progenie che Gallica par si mostrasse, preciso carattere de’ Galli, come attesta Livio (lib. 3: proprio atque insito in Romanos odio), essendo stato allora l’odio ingenito verso i Romani: dal che forse nacque che furon gl’Insubri tra que’ popoli, nelle antiche paci ed accordi, co’ quali si fermò che niun d’essi alla Romana cittadinanza fosse ammesso, come da Cicerone si ricava (pro Balb.). Osserviamo in secondo luogo, che se bene non poche città di considerazione erano nella Venezia, come Vicenza, Concordia, Altino e più altre, non altre sperò si nominano dal Poeta, che Verona, Padova, e Aquileia, con Mantova ancora per merito dell’immortal suo Virgilio. Ben da ciò traluce, come quelle tre considerava egli per le maggiori e per le più illustri di questo tratto. Dal modo con che Silio nomina Aquileia e Padova, par ch’ei riputasse principal città de’ Veneti la prima, e degli Euganei la seconda: ma noi sappiamo ch’Euganei e Veneti eran l’istesso; e sappiam di più che Aquileia in quel tempo non c’era ancora, onde non potea far gente in favor de’ Romani, nè computarsi per distinta città. Così Virgilio tra quelle che furon del partito d’Enea, annoverò Nomento, quale avvertì Servio (ad lib. 7: nam adhuc, civitas Nomentana non fuerat) come non era per anco in essere: ma bisogna perdonar questi anacronismi a’ Poeti, e prender da loro quel che di certo se ne ritrae. Osserviam dunque in terzo luogo, come tra le favorevoli a’ Romani non mette Silio Brescia; non Bergamo, non Milano, perchè i Galli, come abbiam veduto, furon del partito d’Annibale; ci mette bensì Cremona e Piacenza, ch’eran Colonie Romane; e mettendoci Verona e Mantova, indisputabilmente dimostra che queste non eran Galliche, ma d’altro corpo, cioè del Veneto.
Si aspetterà qui senza dubbio che passiam ora a ragionar della via Emilia, che lastricata nell’anno 567 fino in Aquileia dal console Emilio Lepido, ha creduto non che altri il Panvinio e il Sigonio ancora, e fino in Aquileia, vien dal Bergierio descritta (lib. 3, sect. 22). Di questa via non possiam rimanerci di favellare, perchè si tiene passasse per Verona, e più cose per cagion di essa si sono affermate da’ nostri Storici. Ma sia detto con tutta pace di chi a tal equivoco avesse preso affetto, via Emilia per Verona, o ad Aquileia non fu mai; il che con pochi versi farem conoscere. Provincia del console Emilio Lepido fu in quell’anno la Liguria, non la Gallia, qual toccò in sorte al pretore Marco Furio Crassipede, come si può leggere in Tito Livio (lib. 38); non potea però Lepido por mano in giurisdizion non sua, e far lavorare una strada a traverso della provincia altrui2 Ma che occorre? non potea condursi ad Aquileia una strada, quando Aquileia non c’era ancora. Abbiam veduto distintamente poc’anzi, come ad Aquileia si pose mano solamente nel 573, che vuol dire sei anni dopo. Con le ragioni cospira l’autorità, poichè narra Tito Livio (l. 39: viamque ab Placentia, ec.) come Lepido una strada fece, che dal suo nome gentilizio si disse Emilia, non da Aquileia, ma da Piacenza fino a Rimini, acciocchè quivi con la Flaminia si congiungesse, che correva da Rimini a Roma3. Fonte di tanto inganno fu il leggersi presso Strabone (lib. 5) che la via di Lepido da Rimini, ove terminava la Flaminia, procedeva ad Aquileia: però il Cellario (Geogr. Ant. lib. 2, c. 9) osservando venir diversamente da Livio e da Strabone indicata, lasciò la cosa indecisa: ma è patentissimo, Piacenza doversi leggere in quel passo di Strabone, non Aquileia, e de’ scrivani, non dell’accurato Geografo esser l’errore. Dirassi di nuovo che tal emendazione non ha fondamento di manoscritti; ma tanto c’è per questa bisogno di tal sussidio, quanto nell’altra di Cremona cambiata da’ copisti di Livio in Verona, non essendo qui niente meno da se patente la verità: sì perchè d’un così grave e pesato Autore non si può credere che scrivesse condotta una strada ad Aquileia, quando Aquileia non c’era; e sì perchè ripugna questo errore al contesto suo. Descrive questa via Strabone (lib. 5: παρὰ τὰς ῥίζας τῶν Ἀλπεῶν ἐγκυκλούμενος τὰ ἔλη), e dice che da Rimini andava a Bologna, e di là (com’or si legge) fino ad Aquileia, lungo le radici dell’Alpi, rigirando intorno alle paludi. Qual Alpi, o quai montagne trova mai chi va da Bologna in Aquileia? e che paludi incontra, intorno alle quali rigirar debba? Ma per passare da Bologna a Piacenza, lungo i monti Apennini si marchia non poco spazio; e ben si sa che ad ogni alto giogo di monti nome d’Alpe fu dato talvolta: indi intorno alle paludi adiacenti al Po era forza rigirarsi allora, perchè gran tratto di paese occupavano nel Parmigiano e nel Piacentino, come dal medesimo Strabone s’impara, ed impedivano però di portarsi dirittamente a Piacenza. Manifesto è dunque che Piacenza scrisse il Geografo; e però pochi versi prima della distanza fra Rimini e Piacenza fece due volte menzione. Quelle paludi sono le istesse asciugate poi gran tempo dopo da Emilio Scauro con aprir canali navigabili, in cui l’acque scorrendo si raccogliessero. Che Piacenza scrivesse Strabone, e che da Piacenza a Rimini procedesse la via Emilia di Lepido, si dimostra ancora dall’Emilia provincia, la quale da quella strada poi prese il nome, e i due termini della quale furono appunto Rimini e Piacenza.
Convenevol cosa è, prima di passar oltre l’Istoria nostra, di fissare la positura e il sito della città ne’ più antichi tempi; moltissime essendo quelle che col volger de’ secoli l’hanno del tutto, o almeno in gran parte, cambiato. L’Adige, ch’è il maggior fiume d’Italia dopo il Po, fa ora dentro Verona quel giro che può nella premessa Pianta osservarsi. Ma se noi ce ne riportiamo agli Storici Veronesi, non facea già così anticamente; ma giunto pressa al sito ov’ora abbiamo il Castel vecchio, proseguiva per la linea che fa ora quella sua piccola derivazione che chiamiamo Adigetto, e senza accostarsi alla città, la lasciava a sinistra dalla parte del monte. Così prima dogli altri fu scritto dal Saraina, e confermato dal Panvinio (Ant. Ver. lib i ,c. ii ), se pure del Panvinio si ha da credere lutto ciò che in quel capo della sua postuma opera si legge, facendovisi perfin dire a quel grand’uomo che la Sarca, cioè il fiume influente del nostro lago, entri nell’Adige. Ma in somma restò fin d’allora fermato che il presente corso fosse preso dal nostro fiume solamente nella piena mentovata da S. Gregorio; e tal opinione da dugent’anni in qua è così radicata, che passa per principio primo nelle Antichità Veronesi, e ad essa, fidandomi del comun grido, m’attenni io pure, ove scrissi dell’Antica Condizion di Verona. Ma così piacesse a Dio ch’anche degli altri errori miei mi venisse fatto d’illuminarmi, come di questo son ora venuto in chiaro, e fossi a tempo di ritrattargli tutti, come questo al presente ritratto: poichè nè fondamento c’è alcuno per asserir tale stravaganza nè si può farlo senza ripugnar direttamente alle autorità degli antichi Scrittori, ed a ciò che tuttora apparisce. Da Silio Italico poco fa addotto chiamasi Verona Athesi circumflua, che viene a dire dall’Adige circondata; avendo lui usata quella voce poeticamente e alla Greca in significato passivo (περίῤῥυτος), come usolla Ovidio parlando dell’isola del Tevere (Met. l. 15: circmflua Tibridis alti Insula). Servio parimente scrisse che l’Adige fiume della Venezia rigirava d’intorno la città di Verona (ad Æn. lib. 8: Veronam civitatem ambiens). Or chi non vede che fece adunque sempre l’istesso giro, e che l’antica città stette dentro il seno da esso formalo, come il suo folto sta pure ancora? Non si sarebbe mai potuto dire chi il fiume la circondasse, quando le fosse solamente passato a canto, anzi buon tratto lontano da essa e dalle sue mura; ma ben potea dirsi, rigirandola, e quasi abbracciandola da tre parti.
Testimonio in oltre abbiamo di questa verità ancor presente; cioè il ponte situato nell’ultimo ripiegar del fiume, e detto della Pietra, quasi la metà del quale dalla parte del colle è un insigne avanzo d’antichità. Il secondo arco è conservato per modo, che si riconosce tutto d’opera antica, ed intatto da ristaurazioni, senza pur una pietra rimessa. Tanto basta a render manifesto che l’istessa via fece pur sempre il corpo del fiume; poichè si fatto ponte, detto da Liutprando (lib. 2, c. 11), novecent’anni fa, ampio, marmoreo, di maravigliosa opera e di mirabil grandezza, non fu certamente edificato per ruscelli, o per rami d’acqua, com’altri ha scritto. Ma gioconde cose si son qui immaginati i nostri: che fosse altro simil ponte in poca distanza; che con acque quivi condotte nello spazio fra l’uno e l’altro si formasse un lago; e che in esso si celebrassero Naumachie, cioè spettacoli di combattimento navale. Per gli spettatori poi di maggior conto sontuoso edifizio senza risparmio alcuno in forma di gran palazzo inalzarono coll’inchiostro, e nelle Antichità Veronesi del Panvinio intrusero4. Ma tutte queste, secondo l’uso miserabile e pur troppo comune di far dell’antichità un’arbitraria chimera, son favole e sogni, nè provati per monumenti o Scrittori, nè verisimili per congetture o vestigi. Difficoltà ho trovato nascere in alcuni contra il creder la città abbracciata anticamente dal fiume, per aversi da Latini e da Greci Scrittori ch’essa anche ne’ tempi antichi era grande, parendo in tal modo che troppo venga a ristringersi. Ma in primo luogo a bastanza grande era allora un tal circuito a paragone dell’altre città, benché angusto ci paia in oggi a paragon del moderno eccessivo ed inutile. Secondariamente conforme all’uso antico molta gente abitava in poco sito, dov’ora in molto sito suole abitar poca gente; e l’attributo di grande non tanto derivava dall’ampiezza del recinto, quanto dalla popolazione e dallo splendore. È da considerare in oltre che poco stette dopo le prime fondazioni la città ad ampliarsi, la prossima collina occupando, e di parte e d’altra assai spazio; onde tanto più strano fu il credere che il fiume sul fine del sesto secolo Cristiano a traverso di essa si fosse fatto strada, sbaragliando le case, portandone via anche i fondamenti, e a dispetto de’ continuati edifizj accomodandosi il letto. Non è anche da pensare fossero le città, benché serrate di mura, comprese tutte dentro le mura. Molto fabricavasi allora fuori: si vede in Vitruvio (lib. i, c. 7) che fuor di città anche per disciplina Etrusca era approvato di fare i tempj di Marte, di Venere, di Vulcano e di Cerere. D’edifizj assai lontani dalle prime mura gran reliquie si son qui vedute. Quinci fu, che per comprender tutto, si fecero poi gli altri recinti; anzi tanto venner crescendo le fabriche di là dal fiume, che non più circondar la città, ma parve dividerla; però già da molti secoli scrisse Liutprando, ch’esso le passava per mezzo, come il Tevere a Roma.
- Testi in cui è citato Polibio
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