Alcesti (Euripide - Romagnoli)/Terzo episodio

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Terzo episodio

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Euripide - Alcesti (438 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Terzo episodio
Secondo stasimo Terzo stasimo
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Dalla reggia esce il corteo funebre che reca Alcesti al sepolcro.

admeto

Cittadini di Fere, amici miei,
la morta spoglia recano i ministri
già nei funebri arredi, al rogo eccelso
ed al sepolcro. La defunta or voi,
com’è costume, salutate, mentre
lascia la casa pel viaggio eterno.

primo corifeo

Tuo padre vedo, che l’antico piede
muove; e seco ha ministri, che ad Alcesti
gli estremi doni dei defunti recano.

ferete
Entra, seguito da servi che recano vesti, vasi, collane ed altri doni funebri.

Figlio, son qui. Pel cruccio tuo mi cruccio.
Una buona consorte, una consorte
saggia hai perduta. Chi lo nega? Eppure

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convien piegarsi al Fato, anche se grave.
Per lei gradisci questi doni. Ed ella
sotterra scenda. Onore abbia la salma
di lei, che die’ la sua per la tua vita;
e non permise ch’io privo dei figli
restassi, e senza te mi consumassi
in dogliosa vecchiezza; e con quest’atto,
nobile tutta la femminea stirpe
e illustre ha reso. — O tu, che salvo il figlio
hai fatto, noi cadenti hai sollevati,
salve! Prospera sorte anche in Averno
t’arrida. Oh!, tali spose sceglier gli uomini
dovrebbero; o non mai stringere nozze.

admeto

Invito io non ti feci a queste esequie,
né so dir grata la presenza tua.
Dei doni tuoi costei non s’ornerà:
senza nulla di tuo sarà sepolta.
Quando presso alla morte ero, dovevi
crucciarti del mio cruccio. Allor, da parte
rimanesti, lasciasti che per me
morisse un altro, un giovine, tu vecchio.
Ed or su questa morta versi lagrime?
No, padre mio non sei, quella che chiamano
mia madre, a luce non mi die’. D’un servo
io sono sangue, e al sen della tua donna,
di sotterfugio avvicinato fui.
Arrivato al cimento, hai ben mostrato
chi sei: d’essere tuo sangue non credo.
Pusillanime sei come niun altri,
che, cosí grave d’anni, giunto al termine

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della vita, morir pel figlio tuo
né volesti, né ardisti. E a morte andò
questa donna straniera, che a buon dritto
io crederò mia sola madre e padre.
Eppure, egregia prova era per te
morir pel figlio tuo, quando a ogni modo
sol breve tempo a te di vita resta.
E con Alcesti ancor vissuto avrei,
né solo piangerei le mie sciagure.
Quanto uom beato può godere, tutto
goduto hai tu. La gioventú passasti
regnando: avevi me, tuo figlio, erede
della tua casa; né, morendo, i beni
lasciati avresti alla rapina altrui:
né dir potrai che a morte mi lasciasti,
perché negassi a tue canizie onore:
ché reverente io sempre fui. Per questo
tale mercè mia madre e tu mi date.
Ma or, t’affretta a procreare figli,
che curin gli anni tuoi tardi, che morto
ornino te, che la tua salma espongano:
mai questa mano ti seppellirà:
ché, per tua parte, io sarei morto. Or, s’io,
grazie ad un altro, ancor la luce veggo,
di quello figlio mi dirò, di quello
curerò la vecchiaia. I vecchi fingono
quando invocan la morte, e gli anni tardi
biasimano, e che troppa sia la vita.
Se morte appressa, niuno vuol morire
piú: né piú grave la vecchiezza sembra.

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primo corifeo

Basta! Già troppa è la sciagura vostra!
Non irritar l’alma del padre, o figlio!

ferete

Figlio, che tracotanza è la tua? Sono
un Lidio, un Frigio schiavo tuo, da battere
di contumelie? Non sai tu che tessalo
sono io, di padre tessalo, legittimo,
libero? Troppo m’offendesti; e i detti
fanciulleschi che tu contro me scagli,
non andranno impuniti. Io di mie case
signor t’ho generato, e t’ho nutrito;
ma debito non è che per te muoia.
Legge patria non è, non legge ellèna,
che la vita pel figlio il padre dia.
O prospera o infelice, è tua la vita
tua. Quel che aver da me devi, tu l’hai:
di molte genti sei signore, molti
campi e vasti io ti lascio, che dal padre
ebbi in retaggio. In che ti feci torto?
Di che ti privo? Non dar la tua vita
per me, né io la mia per te. La luce
t’è cara. Pensi che al tuo padre cara
non sia? Della mia vita, certo, poco
mi resta; e il poco è pur dolce: ben lunghi
giorni sotterra passerò; ma tu,
tu combattesti svergognatamente,
per non morire; e vivi; e sei sfuggito
al tuo destino, e uccisa hai la tua sposa.
E poi la viltà mia biasimi, o tristo

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fra i tristi, tu confuso da una femmina,
che s’uccise per te, bel giovinetto!
Ingegnosa trovata, ad evitare
sempre la morte, se saprai convincere
sempre a morir per te qualsiasi sposa
tu abbia. E tu, sí vile, anche vituperi
i cari tuoi, che a ciò non son disposti?
Taci. Sappi che se la vita è cara
a te, è cara a tutti. E se m’offendi,
altre offese udrai: molte, e meritate.

primo corifeo

Troppe le offese sue, troppe le tue.
Taci, non oltraggiar tuo figlio, o vecchio.

admeto

Dille, e risponderò. Se udire il vero
ti cruccia, errar contro me non dovevi.

ferete

Piú errato avrei, se per te morto fossi.

admeto

Ugual cosa è morire un vecchio e un giovine?

ferete

Una sol vita abbiamo, e non un paio!

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admeto

Lunga tu possa piú che Giove averla!

ferete

Nessun torto hai sofferto, e imprechi al padre?

admeto

Perché di viver molto sei troppo avido.

ferete

E tu, non mandi in vece tua la sposa?

admeto

Grazie alla tua viltà, tristo fra i tristi.

ferete

Dirai che morta sia per salvar me?

admeto

Ahimè!
Possa un giorno aver tu di me bisogno!

ferete

Sposane molte, tu, spacciane molte.

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admeto

Vergogna tua, che morir non volesti.

ferete

Caro è il fulgor di questo cielo, caro!

admeto

Vile è l’animo tuo: non è virile.

ferete

Non riderai nel dar sepolcro al vecchio.

admeto

Senza gloria morrai, quando morrai.

ferete

Che mi fa, dopo morte, mala voce?

admeto

Ahi ahi! Vecchiaia spudorata troppo!

ferete

Spudorata costei non fu: fu pazza.

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admeto

Vattene! lascia ch’io la seppellisca!

ferete

Seppelliscila, dopo averla uccisa.
Vado! Ma tu render dovrai ragione
ai suoi congiunti. O Adrasto piú non vive,
o la sorella a vendicar verrà.

admeto

Alla malora, tu e la donna ch’abita
con te. Senza figliuoli invecchierete,
pur vivo essendo il figlio vostro. Tanto
meritate. Né piú la stessa casa
ci accoglierà. Se rinunciar potessi
col bando d’un araldo al tetto avito,
rinuncerei! — Su via, poi che bisogna
chinarsi al mal presente, or noi moviamo:
sopra il rogo poniamo il corpo estinto.
Il Coro si avvia lentamente, cantando, col corteo funebre.

coro

Ahimè, ahimè! Che cuore fu il tuo, misera!
Oh generosa, oh nobile,
salve! Benigno Ermète sotterraneo
te accolga, e l’Ade. E se la nobile opera
anche lí si remunera,
sendone tu partecipe,
sedere possa a lato di Persèfone.

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Da una porta secondaria della reggia esce un servo, tutto pieno d’indignazione e di cruccio.

servo

N’ho visti molti, forestieri, e d’ogni
parte del mondo, giungere alla reggia
d’Admèto, e il pranzo gli ammannii. Ma uno
piú tanghero di questo, non ci ha messo
mai piede. Prima, trova il mio padrone
in lutto, ed entra, senza farsi scrupolo
di varcar questa soglia. Poi, saputa
tanta disgrazia, non ha mica accolta
con discrezione l’ospitalità!
Ci scordavamo qualche cosa? E lui
tempestava, per farsela portare.
E messa mano ad una coppa d’ellera,
dàlli a trincare puro sugo d’uva,
sin che il fuoco del vino, serpeggiandogli
nelle vene, lo accese. E, cinto il capo
con rami di mortella, abbaia e abbaia
fuori di tòno. C’erano due musiche:
quello berciava, senza darsi il menomo
pensier d’Admèto, e dei suoi guai: noi servi

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piangevam la signora; ma le lagrime
nascondevamo all’ospite: ché Admèto
ce l’aveva ordinato. — E adesso, io
devo servirlo a tavola, quest’ospite,
questo birbone, questo ladro, questo
brigante! E intanto, la padrona mia
la portan via di casa, ed io non l’ho
seguita, verso lei non ho potuto
tender la mano, sfogarmi a singhiozzi,
lei che per me, che per i servi tutti,
era una madre, che ci risparmiava
mille castighi, mitigando l’ira
dello sposo. Ho ragione o no, se odio
lo stranier che piombò fra i nostri guai?
Dalla stessa porta esce Ercole, ubriaco, con una coppa in mano ed una corona in testa.

ercole

Perché stai lí cogitabondo e scuro,
amico? Un servo non ha già da fare
quel muso lungo agli ospiti, ma accoglierli
con garbo e grazia. Tu, vedi l’amico
in casa del padrone, e lo ricevi
accipigliato, con un viso d’uggia!
Sentimi qui, che metterai giudizio.
Lo sai qual è la sorte dei mortali?
Credo di no. Chi può avertelo detto?
Debbon morire tutti quanti gli uomini;
né tra i mortali alcuno v’è che sappia
se dimani vivrà: ché oscuro è l’esito
della ventura; e non s’impara; ed arte
non te l’insegna. Adesso che sai tanto,

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che l’impari da me, datti alla gioia,
trinca, pensa che il giorno che tu vivi
è tuo, della Fortuna è il resto. E onora
Cípride, delle Dee la piú soave,
la piú benigna pei mortali. E l’altre
malinconie, lasciale stare, e dammi
retta, se non ti par ch’io dica male.
A me, pare di no. Dunque, non startela
a pigliar troppo, cingi una corona,
varca la soglia, e bevi insiem con me:
e ti so dir che il tintinnio del calice
farà mutare subito di rotta
a quella grinta amara, e all’umor negro.
Chi è mortale, ha da pensare da
mortale; e per la gente ammusonita
sempre e accigliata, credi pure a me,
la vita non è vita: è un’agonia.

servo

Tutto questo lo so; ma non passiamo
un momento da risa e da bagordi.

ercole

È morta una straniera: non pigliartela
troppo: i signori della casa vivono.

servo

Vivono? Non sai dunque i nostri mali?

ercole

Vivono! o il tuo signor mentito m’ha!

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servo

Troppo amico è il mio re, troppo, degli ospiti!

ercole

Dovea, per lutto estraneo, male accogliermi?

servo

Davvero estraneo, sí: troppo era estraneo!

ercole

Forse mi tacque alcuna sua sciagura?

servo

Va’ in pace: noi del re piangiamo i mali.

ercole

Non parli no, come d’estraneo lutto!

servo

Crucciato mi sarei del tuo bagordo?

ercole

Che? M’ha l’ospite mio tratto in inganno?

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servo

Non giungi in punto da ricevete ospiti!

ercole

Morto è dei figli alcuno? O il vecchio padre?

servo

D’Admèto, ospite, spenta è la consorte!

ercole

Che dici? E in casa pur m’avete accolto?

servo

Troppo si peritava di respingerti.

ercole

Di quale sposa orbato fosti, o misero!

servo

Tutti perduti siam, non solo Alcesti.

ercole

Ben sentito l’avea, vedendo il pianto
scorrere, e il volto, e il capo raso. Ma
mi convinse, dicendo che un estraneo

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alla tomba recava. E, a mal mio grado,
questa soglia varcata, entrato in casa
dell’amico ospitale, immerso in tanta
calamità, sto qui gozzovigliando.
E un serto cinge il capo mio! — Ma tu,
perché tacere, quando sulla casa
tanta sciagura era piombata? Dove
la seppellí? Dove potrei trovarla?

servo

Per la via dritta che a Larissa mena,
vedrai la bianca tomba, oltre il pomerio.

ercole

Cuor mio, temprato a mille prove, or mostra
qual figlio a Giove diede Alcmèna. Io devo
salvar la donna or ora spenta, Alcesti,
e a questa casa ricondurla, e all’ospite
degna mercede ricambiare. Andrò,
affronterò dei morti il sire, Tànato
dal negro peplo. Vicino alla tomba,
certo, a suggere il sangue delle vittime,
lo troverò. Lo apposterò. Né s’io,
balzando dall’agguato, potrò cingerlo
nel cerchio delle mie mani, sarà
chi sveller possa dalla stretta l’ansimo
del fianco suo, se Alcesti non mi rende.
Che se mai questo agguato mi fallisce,
né venga alla sanguigna epula, giú
nella dimora senza sol di Cora1,
discenderò, la chiederò. Sicuro

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sono, di ricondurre al mondo Alcesti,
e consegnarla nelle man dell’ospite
che non mi rimandò, ma in mezzo a tanta
sciagura, in casa sua mi diede albergo,
e la nascose, nobil cuore, ed ebbe
riverenza di me. Chi mai, fra i Tessali,
piú ospitale di lui? Chi nelle terre
d’Ellade tutta? Ora ei, sí generoso,
non dirà che fu largo ad un ingrato.
Esce di furia. Il servo si ritira.

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Scena come nel principio. Torna Admèto, seguito dai cittadini che formano il coro.

admeto

Ahimè!
Ritorno odïoso,
aspetto odïoso dei tetti deserti!
Ahimè ahimè, ahi, ahi!
Dove andrò? Dove starò?
Che devo dire? Che favellerò?
Deh! morte mi colga!
A trista ventura mi nacque mia madre:
invidio gli estinti, di loro ho vaghezza:
ché i raggi del sole mirare non godo,
né muovere i piedi sovressa la terra:
tal pegno mi tolse, per darlo all’Averno,
il Nume di morte.

primo corifeo

Avanza, avanza, alla tua casa in seno!

admeto

Ahimè!

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primo corifeo

Degna di pianto è la sciagura tua!

admeto

Ahi, ahi!

primo corifeo

T’opprime il duolo,
bene lo so!

admeto

Ahimè, ahimè!

primo corifeo

Ma nulla a lei ch’è in buia terra, giova.

admeto

Misero me, misero me!

primo corifeo

Mai piú vedere della tua consorte
il carissimo viso! Oh amara sorte!

admeto

La doglia rammemori che il cuore mi piaga:
qual male peggiore per l’uomo, che perdere
la fida compagna? Deh!, mai questo tetto

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accolto m’avesse, con simile sposa!
Invidio chi sposa, chi figli non ha.
Abbiamo una vita, dolersi per questa
è pena mediocre; ma i morbi dei figli, ma il talamo
di nozze, soffrire
da morte deserto, perché,
se pur senza sposa né figli, si vive?

primo corifeo

T’opprime il Fato, il Fato ineluttabile.

admeto

Ahimè!

primo corifeo

Nessun confine alla tua doglia poni!

admeto

Ahi!

primo corifeo

Duro è patirla;
ma pur bisogna.

admeto

Ahimè, ahimè!

primo corifeo

Tòllera: il primo tu non sei che perda...

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admeto

Misero me, misero me!

primo corifeo

la sposa. Sovra i miseri mortali
sciagura piomba con diversi mali.

admeto

O lunghi dolori, tormenti pei cari
che sceser sotterra!
Perché proibiste che giú nella tomba
mi precipitassi, che spento giacessi
vicino alla donna mia cara?
Avrebbe l’Averno, non uno
ma due fidi spiriti visti
insieme varcare la buia palude.

primo corifeo

Strofe
Io m’ebbi un parente
a cui nella casa si spense,
ben degno di lagrime, l’unico figlio.
E pur, benché orbo di prole,
benché già vicino a canizie,
già oltre con gli anni,
sostenne con forza il suo male.

admeto

Deh!, come abitar la mia casa,
come entrarvi potrò, poi che tanto

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mutò la mia sorte? Oh, me misero!
Un dí tra le fiaccole pelie
v’entrai, fra clamor d’imenei,
tenendo per mano la sposa
diletta; e il sonoro corteo
seguía, me felice dicendo,
felice la sposa defunta:
ché nobili entrambi, di nobile
progenie, ci fossimo uniti.
Ma grido suona or ben diverso
dai canti di nozze; ma invece
di candidi pepli, le fosche gramaglie
m’adducono al talamo vuoto.

secondo corifeo

Antistrofe
In prospera sorte
su te, non esperto del duolo,
il duolo piombò. Ma la vita, ma l’alma
salvasti. Morí la tua sposa,
perdé l’amor tuo. Cosa nuova
ti sembra? La morte
a molti rapí la consorte!

admeto

Amici, il fato della sposa giudico
piú felice del mio, sebben non pare.
Ché niun dolore lei piú toccherà,
e glorïoso fin pose alle ambasce.
Ma io, che viver non dovea, schivata
la sorte, condurrò misera vita:

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ora lo intendo. Come in casa io posso
entrare? A chi rivolgerò parole,
da chi parole udrò, sí che l’ingresso
mi sia giocondo? Ove mi volgerò?
Via mi scaccia di qui la solitudine,
or che deserte della sposa vedo
le stanze, e il trono ove sedeva, e squallido
il suolo, e i figli alle ginocchie mie
caduti, piangan la lor madre, i servi
piangan perduta la signora loro.
Questo mi aspetta entro la casa. E fuori,
dalle tessale nozze cruccio avrò,
e dai convegni femminili. Come
sopporterò la vista delle donne
negli anni uguali alla mia sposa? E quanti
mi son nemici, diranno cosí:
«Vedi chi vive lunga vita, chi
morire non ardí, ma, dando in cambio
la sua consorte, per viltà schivò
l’Averno. D’essere uomo forse ei reputa?
E aborre i genitori, ei che non seppe
morire!» — Questa mala fama avrò
tra i maligni. E che piú mi giova, amici,
vivere in mala sorte, in mala fama?

Rimane in atto di profonda angoscia.


Note

  1. [p. 337 modifica]Nella dimora di Cora, cioè nell’Averno, dove Cora (Persefone) era signora.