Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XXX
Questo testo è completo. |
◄ | Vol. II - Capo XXIX | Appendice bibliografica - Sezione prima | ► |
CAPO TRENTESIMO.
(1622). «Egli morrà! La vendetta di Dio non tarderà a manifestarsi contra l’empio che ha osato percuotere la tiara del santo suo vicario». Così dicevano i papalisti tosto appresso l’interdetto, persuasi che Frà Paolo, già di rotta salute, sarebbe fra poco morto o naturalmente o ammazzato. Ma egli sopravvisse ancora diciasette anni, sottratto da una mano invisibile a più di venti cospirazioni contro la sua vita; e in quel tempo di mezzo morirono, abbenchè di lui più giovani, il Baronio, il Bovio, il Bellarmino, il Colonna e quasi tutti insomma i patrocinatori dell’interdetto. A’ 28 gennaio del 1621 morì anco Paolo V, onde il Sarpi ebbe a dire facetamente: Ora posso morire anch’io, sicuro che della mia morte non se ne farà più un miracolo.
A Paolo V successe Gregorio XV il quale all’ambasciatore veneto che andò a complimentarlo disse che tra la Repubblica e la Santa Sede non sarebbe mai buona pace fintanto che quella si servisse di Frà Paolo, e chiese che fosse licenziato; ma il Senato gli diede così risoluta risposta che il papa non ne parlò più altro. Da qui il Consultore si accorse benissimo che la Corte non aveva dimenticati gli antichi dolori, e i desiderii della vendetta; e, vecchio settuagenario e acciaccoso, stimandosi omai inutile alla sua patria, fece il generoso disegno di abbandonarla affine di togliere ogni pretesto ai rancori che la Curia nutriva verso di lei.
Vogliono alcuni che Frà Paolo, già dieci anni prima, nutrisse il pensiero di trasportarsi in Inghilterra: congettura dedotta da un capo di lettera cui egli scrisse li 8 giugno 1612 al suo amico Isacco Casaubono che abbandonando la Francia si era trasportato in quell’isola condottovi e raccomandatovi dal cavaliere Enrico Wotton. «Mi rallegro, scriveva Frà Paolo, che tu goda la benevolenza del sapientissimo re, nel quale si accoppiano, per caso raro, le virtù di principe e d’uomo dotto. È un modello di principe pari a cui da più secoli nissuno fu formato; ed io mi riputerei fortunatissimo se fossi degno del suo patrocinio, nè tu potresti far cosa migliore di raccomandargli questo mio desiderio». Questo elogio, seguendo le idee di Frà Paolo, era giustissimo, perchè Giacomo I era certamente il più dotto principe de’ suoi tempi, ed il solo fra tanti che resistesse con perseveranza di principii alle pretensioni della Curia romana, abbenchè codesti principii non fossero tutti egualmente approvati dal Consultore.
Il Casaubono mostrò la lettera al re, il quale fece riscrivere al Sarpi che se voleva portarsi in Inghilterra sarebbe stato onorevolmente accolto e trovatovi agi e protezione.
Queste cose succedevano, come dissi, nel 1612; quando appunto Frà Paolo era vessato caldamente dalla Curia sostenuta dalla corte di Francia, quando la energia dei patrizi si attiepidiva ogni giorno, quando gli erano state intercette varie lettere, e il nunzio del papa intrigava contro di lui: onde non pare al tutto inverosimile che egli, consigliato dagli amici, pensasse a maneggiarsi un sicuro asilo nel caso che dovesse averne bisogno.
Se la cosa è in tali termini, bisogna dire che fu un’idea passeggiera. Ma tutta questa ipotesi non avendo altro fondamento tranne le poche e vaghe parole recitate qui sopra, io invece le crederei niente più che un complimento diretto al re, senza che l’autore vi sottomettesse alcuna intenzione personale. Molto più se si considera che all’epoca in cui furono scritte non pure Frà Paolo viveva onorato e sicurissimo in Venezia; ma per gli accidenti che allora correvano, il medesimo governo veneto era interessatissimo a conservarlo ed a difenderlo. Si aggiungeva ch’egli abborrì sempre dal cercar rifugio in paese protestante, bene ponderando quanto un passo così poco prudente avrebbe nociuto alla sua riputazione, e versato in dubbio quella illibata ortodossia di cui si vantava e che i suoi nemici volevano rapirgli. Infatti Giacomo I, che morì soltanto nel 1625, regnava ancora quando Frà Paolo nella sua vecchiaia pensava seriamente di espatriare, e nondimeno affissò il pensiero a tutt’altro paese che non era l’Inghilterra.
Fin da giovinetto aveva sempre avuto una passione particolare pei viaggi, che non soddisfatta, come ch’e’ avesse veduta quasi tutta l’Italia, appagava coll’udire i racconti dei viaggiatori e leggere le descrizioni dei paesi lontani. Ed ora settuagenario, pieno d’infermità, desideroso di quiete, travagliato dalle nemicizie romane, gli venne voglia di render pago l’antico suo desiderio, e pensò di cercare da penitente pellegrino la Terra Santa e poi chiudersi in qualche monastero del Levante. Ma chi crederebbe che questo disegno, il quale più che disegno era innocente delirio d’uomo vecchio che vagheggia i sogni della sua giovinezza, dovesse parimente soggiacere a censura? Lessi un libro da gesuita che Frà Paolo, disperando omai di commovere l’Italia con novità religiose, intendesse di trasportarsi in Levante per sollevare contro l’autorità del papa i Greci e forse anco i Turchi!!
Innamorato nella sua fissazione, quasi che il suo governo, che gli aveva prestato tante cure e tante ancora gliene prestava, l’avrebbe voluto lasciar emigrare, si diede a far masserizia e accumulò un migliaio circa di ducati, dicendo averne bisogno pel viaggio; raccoglieva notizia delle strade, delle spese, de’ costumi de’ popoli orientali, massime dei religiosi cristiani: ma non confidava quel suo proposito se non all’amico del suo cuore, Frà Fulgenzio. Era sicuramente una chimera puerile, uno di quei sogni consueti agli uomini ribambiti sotto il peso degli anni e stanchi da una vita piena di tumulto e di gloria. Ma probabilmente la fomentavano l’involontaria pubblicazione della sua Istoria del Concilio, il timore delle sue conseguenze, le domande di Gregorio XV, i rinati sdegni della Curia; e benchè fosse certo il patrocinio del governo, non gli mancavano nemici in Venezia, e col crescere della età essendogli scemato il coraggio e la confidenza e avendo perduti non pochi de’ suoi protettori ed amici, paventava forse che mutando cogli uomini anco le cose, un giorno o l’altro fosse egli per essere abbandonato alla discrezione di chi gli voleva tutt’altro che bene. Erano timori irragionevoli, ma naturali ai vecchi, sospettosi di tutto; e molto più ad uno che aveva veduto di molte cose e conosciuto così addentro la razza umana.
Le sue ansietà furono accresciute da due accidenti: il tragico fine di Antonio Foscarini suo amico e l’inopinato ritorno a Roma di Marco Antonio de Dominis. Il Foscarini usciva travestito di notte per amoreggiare una dama che abitava vicino al palazzo di Spagna. Fu accusato al Consiglio dei Dieci che mantenesse clandestine trattazioni coll’ambasciatore spagnuolo: arrestato, processato, e non volendo render ragione delle misteriose sue gite notturne, fu condannato a morte e impiccato a’ 21 aprile 1622. Alcuni mesi dopo fu riconosciuta la sua innocenza, ma non era più tempo. Questo infelice avvenimento, accaduto a persona sua dilettissima, ad un patrizio così illustre e che aveva prestato importanti servigi alla Repubblica, afflisse profondamente Frà Paolo. Intorno al medesimo tempo il de Dominis sedotto dalla propria incostanza, dalla vanità, dalle lusinghe dell’ambasciatore di Spagna a Londra, e da lettere de’ suoi amici che lo esortavano a rientrare nel grembo cattolico facendogli sperare dal nuovo pontefice dimenticanza di ogni trascorso, amorevole accoglienza ed onori, fuggì da Londra e andò a Roma dove trovò quello che doveva aspettarsi. Fu ricevuto severamente dal papa, con insulto dagli emoli, freddamente dagli amici; fu obbligato a ritrattarsi pubblicamente in forma tanto umiliante che dovesse sopravincere l’ingiuria fatta in Inghilterra, il che fece a’ 14 novembre 1622. Nè ciò gli valse a salvarlo; perchè di lì a non molto essendosi lagnato che gli fossero violate tutte le promesse, fu per ordine del Sant’Offizio arrestato e carcerato nel castello Sant’Angelo dove fini di vivere a’ 9 settembre 1624, avvelenato, dicesi, dagli stessi suoi parenti od amici che vollero sottrarlo ad una morte più ignominiosa. Infatti il genio vendicativo dei preti romani, che non perdona neppure ai morti, tre mesi dopo ne fece dissotterrare il cadavere, e portatolo nella chiesa dei domenicani detta la Minerva, dai frati inquisitori gli fu letto, come a persona viva, il processo e la sentenza che lo condannava ad essere decapitato, quindi arso insieme ad un fantoccio che rappresentava l’effigie del de Dominis, e a tutti i suoi libri. Il quale spettacolo atroce in uno e schifoso seguì il giorno 21 decembre 1624 sulla piazza di Campo Fiore a Roma. Ma quantunque la ritrattazione del de Dominis del 1622, pubblicata a stampa nel 1623, non giungesse a notizia di Frà Paolo, morto egli pure in quel mezzo, quel ritorno gli faceva temere nuove persecuzioni.
Intanto che pensava all’immaginato pellegrinaggio la sua salute deperiva sensibilmente: gli antichi suoi incomodi non gli lasciavano più tregua, la ritenzione di orina particolarmente lo travagliava; più frequenti le febbri; dolori di capo, tremori alle gambe, emorroidi, debilitata la vista, ed altri acciacchi si aggiungevano a prostrare il già esile suo corpo. Il Sabato Santo, giorno 26 marzo 1622, trovandosi nell’archivio detto la Segreta fu soprappreso da un freddo improvviso, che, siccome insolito, gli fece stupore. La voce divenne rauca, gli produsse un catarro, il primo in sua vita, che accompagnato da febbri durò per più di tre mesi. Non perciò tralasciava le consuete sue occupazioni, o variava il modo di vivere. Ma d’allora in poi si sentì sempre mancare le forze, e prendendolo per un’ammonizione del prossimo suo fine, vi si preparava da saggio.
Nelle ore vacue era solito leggere o scrivere, o farsi leggere da altri o far scrivere sotto dettatura; ma ora, tranne i doveri del suo impiego, intermise questi ed ogni altri esercizi di temporale utilità, e tutto si diede a meditare l’ultima fine dell’uomo. Amava di star solo per darsi più libero e più raccolto alla divozione; e pretestando di volersi prendere un po’ di passatempo in far castelli in aria, come diceva, di cose matematiche, e dar licenza al suo cervello di andarsi dove gli piacesse, congedava i famigliari; e tosto inginocchiato dinanzi al suo crocefisso e tenendo in prospetto degli occhi un cranio umano, che ad uomo pensoso ricorda pensieri profondi, leggeva e meditava le Sante Scritture, e in silenzio innalzava a Dio le emozioni più pure e più sincere del cuore. E quando veniva sorpreso in quella posizione, tosto aveva pronto un qualche pretesto per celare la sua pietà.
Così passò i giorni fino al principiare dell’inverno. Allora il più lieve freddo gli divenne tormentoso, non trovava mezzo per scaldarsi, le mani e i piedi erano sempre come pezzi di ghiaccio; per mancanza di natural calore la digestione gli divenne difficile; inappetenza, indi nausea di tutti i cibi; benchè avesse tutti i suoi denti, masticava con difficoltà; già macro, divenne squallido e livido; si rattristì il colore del volto; gli occhi già pria così vivi divennero fosci, s’incavarono; curvo il dorso, l’andare pesante, a fatica faceva le scale, a fatica saliva scendeva dalla gondola; il breve tragitto di Merceria spesso non poteva farlo se non appoggiato col braccio a’ suoi frati; scarsi i sonni, interrotti; i sogni frequenti, non balzani, ma regolari e come di veglia; disgusto di ogni cosa, tranne delle matematiche che lo occupavano persino in sogno, e alle quali pensando diceva spesso: Quanti nodi e quante reti ho fabbricato nel cervello! Ogni altra cosa, financo le novità politiche di cui fu sempre curiosissimo, gli riusciva o noiosa o indifferente. Le quali singolari mutazioni nel suo uomo osservando, diceva che era un partirsi pian piano l’anima dal vincolo e commercio del corpo. Fu consigliato a rallentare le sue fatiche in servigio pubblico e darsi qualche vacanza; ma rispose: Mio uffizio è servire e non vivere, e ognuno muore nel suo mestiere.
Quel rapido decadere di forze, quel precipitare continuo verso la tomba, lo costringeva talvolta a confessare di sentirsi male; e veramente il languore si faceva sempre più manifesto, ma pure guardava la morte con indifferenza e giovialità e ne parlava con facezia. Muoiono i papi, diceva, e non morrò io frate? Dettogli che in Roma si farebbe gran chiasso della sua morte, rispose: Forse che essi non morranno? E che si direbbero gran cose degli ultimi suoi momenti: Se Dio mi farà la grazia, spero di smentirli. Essendogli parlato un giorno di un Capitolo che doveva presto convocarsi per eleggere il priore, rispose: Pensateci voi, che io non mi ci troverò. Quando imprendeva qualche cosa, soleva dire a’ suoi famigliari: Facciamo presto, che siamo al fine della giornata; e spesso conchiudeva le sue orazioni mentali col detto della Scrittura: Nunc dimittis servum tuum, Domine. Insomma la morte era da lui incontrata colla fiducia di una coscienza sicura, e come premio di una lunga e laboriosa vita.
Il giorno di Natale essendo entrato Frà Fulgenzio per augurargli il consueto ad multos annos, Pater, egli gravemente rispose che quello era l’ultimo della sua vita; e già pareva assai languido e scaduto.
(1623 6 genn.) Il dì dell’Epifania prese medicamento, ma chiamato al Palazzo e non volendo scusarsi, andò e tornò con manifesto peggioramento. Quello e il seguente giorno non potè prender cibo nè riposare la notte; ma costante nel suo modo di vivere, non volle mai confidarsi al letto. Alla Domenica (8 gennaio) si levò mattutino come al solito, celebrò la messa, mangiò in refettorio, e dopo il pranzo passeggiò lungamente con Luigi Secchini suo affezionato amico (figlio del già menzionato Domenico Secchini), il quale accortosi che era male andato, lo consigliò a coricarsi; il che fece al modo suo, sdraiandosi sopra una cassa, raccolto in una coperta.
(9 genn.) Il lunedì nel levarsi fu sorpreso da una estenuazione totale di forze; gli tremavano le gambe, non poteva più reggersi e nauseava il cibo, sì che dovette usare sforzi per inghiottire qualche cosa. Accorsero i frati, furono chiamati i medici, si ebbe sospetto di veleno; ma e’ non si lasciò scoraggire e volle mettersi alle usate occupazioni. Il giorno seguente (10 genn.) prese medicina; ma senza effetto; e benchè il male peggiorasse a vista d’occhio, il mercoledì (11 genn.) volle tuttavia levarsi, uscire di camera, pranzare nel refettorio; ma non potè attraversare i corridoi e le scale se non appoggiato e tutto tremante. Continuò ad ammettere le solite visite, a conservare il suo buono umore, a dir facezie, a ragionar di tutto, fuorchè del suo male. Se non che, andato a trovarlo il vecchio suo amico Pietro Asselineau, il Sarpi gli disse candidamente che quella era la sua ultima malattia.
(12 genn.) Il giovedì mattina, fatto chiamare il Padre Amante Buonvicino priore del convento, pregollo che lo raccomandasse alle orazioni de’ confratelli e gli portasse l’Eucaristia. Gli consegnò tutte le cose concesse a suo uso, e la chiavetta di un armadio dove stavano quei mille ducati cui serbava pel suo viaggio in Levante. Un altro armadio chiuso, dove stavano carte appartenenti allo Stato, volle che non fosse toccato. Si fece vestire, si confessò e passò il resto della mattina facendosi leggere da Frà Fulgenzio e da Frà Marco i Salmi e la Passione di Cristo narrata negli Evangeli, interrompendo tratto tratto per farvi pie riflessioni sopra. Indi il priore accompagnato processionalmente da tutti i frati, al mesto e monotono canto delle litanie, gli portò il sacro viatico, cui ricevè seduto sul letto, e con tanta divozione che a tutti cavò le lagrime.
(13 genn.) Il venerdì volle alzarsi di nuovo, ma così esinanito che non potè passare dall’una all’altra camera senza sostegno. Austero osservatore delle regole monastiche aveva sempre digiunato la quaresima sino all’anno 69 della sua età, nè mai per malattie o per altri accidenti volle pigliar cibi vietati dalla Chiesa, e convenne fargli forza perchè in quel giorno prendesse alcuni brodi, ond’egli facetamente rivolto al cuoco disse: Frà Cosimo, così trattate i vostri amici, facendo loro guastare i venerdì! Venuta la sera e messo a letto, sì che già pareva moribondo, fu deciso che tre almeno lo assistessero in camera; ma egli continuò tranquillamente a servirsi da sè stesso, e non fu mai udito lamento uscirgli di bocca.
(14 genn.) Il sabato, ultimo di sua vita, non potè più alzarsi: ricevette varie visite di persone distinte, e mostrò la stessa ilarità e presenza di spirito. Ai frati che gli stavano intorno e piangevano la prossima sua fine, disse scherzando: Io v’ho consolati quanto ho potuto, ora a voi toccherebbe di tenermi allegro. Frà Fulgenzio fu chiamato in Collegio e gli fu chiesto del Sarpi: — È agli estremi. — Gli fu chiesto ancora come stesse di mente: — È come sano. — Allora gli furono confidate tre domande da fargli intorno a negozio di grave importanza. Frà Paolo, due ore prima di notte, fece scrivere le risposte e le spedì al Collegio, e la sera medesima furono lette in Senato che deliberò secondo il parere del Consultore. Ei finiva come il guerriero, sulle sue armi. Passata quella bisogna, si fece leggere la Passione di Cristo nell’Evangelio di San Giovanni, ripetendo più volte con enfasi le parole di San Paolo: Quem proposuit Deus mediatorem per fidem in sanguine suo. Fu visitato dal medico, il quale gli annunciò restargli poche ore di vita; ed egli sorridendo: Sia beato Iddio, disse; mi piace ciò che a lui piace, col suo aiuto faremo bene anco quest’ultima azione. Il medico volle proporgli qualche ristorativo; ma Frà Paolo interrompendolo soggiunse: «Lasciamo questo e mi risolva invece due dubbi. Il primo, che io son certo e pienamente persuaso che tutto quello mi si presenta da prendere è cosa buona e con tale certezza la piglio in mano; e tosto che arriva alla becca, come si mi cangiasse in quello istante il cervello, mi si rende orribile e abbominevole. Il secondo...» Ma non potè finire che cadde in deliquio. Il medico ordinò di dargli verso le otto ore all’italiana qualche po’ di moscato che mandò di casa sua. Alle sei il Sarpi, sentendosi la lingua glutinosa, chiese una sua spatoletta per raschiarla. Frà Marco andò a cercarla al luogo indicato, e non la trovava. E’ cè, disse il Sarpi che ogni cosa assituava con ordine; guardate meglio, è cosa piccola. E fu infatti trovata, e si raschiò la lingua da sè; poi continuò a discorrere o a recitare a bassa voce orazioni, ripetendo spesse volte con soddisfazione: Orsù, andiamo dove Dio ci chiama. Poi caduto in una specie di torpore andò susurrando fra sè, e solo fu inteso a voce chiara: Andiamo a San Marco che è tardi... ho molto da fare. Ma si riebbe subito da questa momentanea astrazione, e sentendo suonare le otto, che corrispondono in quella stagione ad un’ora circa dopo la mezza notte, le contò ad una ad una e poi disse: Sono le otto, speditevi se volete darmi ciò che ha ordinato il medico. Era il moscato, il quale appena appressato alla bocca: Mi pare cosa violente, disse, e non ne volle altro. E sentendosi venir meno chiamò a sè Frà Fulgenzio, lo abbracciò, lo baciò, indi: «Orsù, non state più a vedermi in questo stato: non è dovere. Andate a dormire, ed io anderò a Dio donde siamo venuti». L’afflitto amico obbedì piangendo, ma tornò tosto cogli altri frati e col priore che tutti in corpo si adunarono intorno al letto del moribondo, e posti in ginocchio intuonarono le orazioni dei morti, cui egli accompagnò sotto voce; si raccomandò l’anima da sè stesso; e in quel funereo momento in cui l’uomo non ha più pensieri fuorchè per la eternità, ei n’ebbe ancora per la sua patria, e le ultime sue parole furono: Esto perpetua. E fatto uno sforzo per mettersi le braccia in croce, fissò gli occhi al crocefisso, poi gli socchiuse alquanto, chinò il capo e spirò.
Erano le tre ore circa del mattino del 15 gennaio 1622, secondo, il calendario veneto (che incominciava l’anno a marzo), e del 1623 secondo il computo comune.
Così si estinse quest’uno dei più grandi lumi che abbia mai prodotto l’Italia e forse il mondo; ed io mi sono disteso in tante minute particolarità onde smentire le impronte dicerie sparse da genio maligno, che morì empio e impenitente, fra convulsioni e spaventi e prodigi sopra natura: meschino conforto di coloro che pretendono d’inalzare la religione chiamando la menzogna in aiuto di lei.
Alla mattina il cavaliere Gerolamo Lando, Savio di Terra ferma (ministro dell’interno), accompagnato da un segretario del Senato andò a mettere i suggelli sulle carte del Sarpi di appartenenza pubblica, che a miglior comodo furono poi ritirate e deposte negli archivi. Indi fu aperto il convento e la cella ai curiosi che accorsero in gran folla a contemplare le ultime reliquie dell’uomo famoso; e vedendo il lutto de’ frati, e udendo i mesti racconti, e le compiante ricordate virtù, e la pietà sincera, e il sì lungo e penitente genere di vita, e il placido morire, meravigliavano come senza vergogna, da gente oziosa e grassa, potesse essere un tant’uomo sentenziato ipocrita ed empio.
La morte di Frà Paolo, accolta in Roma con festa, fu accompagnata in Venezia da un feriato di dolore. Il Collegio volle avere una particolare informazione degli ultimi suoi momenti, e il Senato come di lutto pubblico ne diede avviso col mezzo dei suoi ambasciatori alle corti di Roma, Vienna, Francia, Spagna, Inghilterra. Milano, Napoli e alle repubbliche degli Svizzeri e di Olanda. Magnifici furono i funerali; oltre ai Serviti che formavano due grossi conventi in Venezia, accompagnarono il feretro più di 200 altri frati, tra Domenicani, Francescani, Eremitani e Carmelitani, e concorso meraviglioso di popolo. Il governo supplì alle spese. Nè qui finirono gli onori. Frà Fulgenzio voleva a sue spese erigergli un monumento; il priore Amante, a nome del convento, voleva erigerne un altro; ma il Senato s’intromise e dichiarò che a lui si aspettava questo debito verso chi tanto fedelmente e in mezzo a tanti pericoli l’aveva servito, e decretò 200 ducati da spendersi in un busto di marmo da collocarsi con apposita iscrizione nella chiesa de’ Servi. Ma l’invidia che mai non muore, e plebea brama di vendetta vennero ad interrompere il lodevole pensiero. Morto nel luglio di quest’anno Gregorio XV, gli fu sostituito Urbano VIII, quel medesimo Barberini che in Francia disse, meritarsi la grazia di Dio chi Frà Paolo assassinasse; e non mutato pensieri per mutar di condizione, fece sapere alla Repubblica che avrebbe avuto pel massimo torto un monumento inalzato all’eretico Sarpi; e il Senato non volendo contendere per un affare inutile, fece ritirare il marmo dall’artefice (Gerolamo Campana), ben sapendo che restava monumento più durevole cui nè maledizioni di papi, nè malignità di prezzolati scrittori, nè fanatismo di pinzocheri, non potrebbe giammai distruggere. Ma la lunga ed onorevole inscrizione composta espressamente da Giovanni Antonio Venier patrizio veneto, e che doveva essere sottoposta al busto, ancora si legge: io la rimando in fine al libro.
Per la devozione mostrata verso il grand’uomo, il nunzio cominciò a dar molestia ai Serviti; ma il Senato, fatti chiamare i loro superiori, dichiarò con decreto pubblico essere il loro Ordine sotto l’immediata sua protezione; e a riconoscenza dei servigi di Frà Paolo volle di allora in poi che i suoi consultori teologi fossero cavati dall’Ordine de’ Servi, e così fu continuato fin quasi all’estinzione della Repubblica. Frà Fulgenzio Micanzio succedette nello incarico al suo maestro.
E poichè ho parlato più volte di Fulgenzio, è mio debito di satisfare il lettore di più ampie notizie. Nacque in Venezia nel 1570, 18 anni più giovane di Frà Paolo; ma lo dicevano di Passirano in quel di Brescia, perchè i suoi genitori erano di colà. Portato ancora fanciullo a Brescia, studiò fra i Serviti di cui prese l’abito. Mandato a Venezia nel 1590 a proseguirvi gli studi, conobbe il Sarpi e si formò tra loro un’amicizia che ha poche pari. Frà Paolo, conosciuta la buona indole di lui, lo instradava sulla via delle utili discipline, aiutandolo colle sue cognizioni e additando gli autori e i metodi da dover seguire. Nel 1597 passò a Mantova, nel 1600 a Roma, poi subito a Bologna professore di teologia scolastica; tornò a Roma un’altra volta nel 1603 per affari dell’Ordine e disputò con onore di teologia nel Capitolo generale tenuto nel mese di maggio. Nel 1606, richiamato dal Sarpi da Bologna a Venezia, perdette la sua piccola biblioteca e varie suppellettili sequestrategli dal governo papale. Fu uno dei sette teologi che sottoscrissero il Trattato dell’Interdetto. Il suo libro contro il P. Bovio, a difesa di altro libro di Frà Paolo, gli fruttò a’ 22 marzo 1607 una provvisione annua di 100 ducati, aumentata di altri 100 ai 23 del seguente aprile e di 200 ancora a’ 15 gennaio 1609. Fu l’intimo confidente e inseparabile amico di Frà Paolo per più di 30 anni, e lui morto, ne ricordò sempre con tenerezza il nome. Ne sbozzò anco una biografia, e gli succedette nell’ufficio di teologo consultore e di revisore delle Bolle di Roma, onde i suoi stipendi ancor più si accrebbero. Fu pure amico del Galileo, e carteggiò coi più dotti uomini del suo tempo, di cui si meritò la stima col suo sapere. Era sommo teologo, politico e giureconsulto; aveva fama tra i primi predicatori di quella età, ed era profondo ancora nella fisica e matematica. Ciò non lo fece esente da persecuzioni. Urbano VIII cercò di tirarlo a Roma colla solita esca degli onori, ma in verità per farlo impiccare; il Servita non si sentì voglia d’imitare il Francescano dello stesso suo nome; allora il Beatissimo Padre lo denunciò alla Repubblica per frate scandaloso, pubblico concubinario, che aveva bastardi e bastarde in gran numero, cosa manifesta, diceva il papa, a tutto il mondo. Ma simili accuse, addotte sempre senza provarle, in bocca delle persone ecclesiastiche sono così consuete che possono passare per una formalità. Certo è che in Venezia Frà Fulgenzio godette costantemente la stima di tutte le persone probe, e la piena confidenza del governo che non fece alcun caso della catilinaria di papa Urbano. Un’accusa la quale mi sembra alquanto più fondata è che non si curava gran fatto d’imitare la liberalità del suo amico e maestro; chè anzi si mostrava attaccato al denaro meglio che no: vizio ordinario ai frati che tanto più ambiscono per privazione quello che devono disprezzare per voto. Ma conviene avvertire che tale sua più parsimonia che avarizia, limitata a far marsupio de’ suoi onesti guadagni, non mai la estese a tradire il suo dovere, nel quale si mantenne fedelissimo ed incorrotto. Morì in Venezia ai 7 febbraio del 1654 di 83 anni. Ebbe magnifiche esequie e lapide sul suo sepolcro, nella quale il lapidografo fa spiccare il bisticchio del Sol Fulgens e Sydus Micans in allusione al nome e cognome di lui. Oltre alle opere accennate, abbiamo di lui varie lettere stampate, più altre inedite, per lo più su argomenti scientifici, e varii volumi pure inediti di consulti.
Tornando al Sarpi, era stato sepolto nella chiesa di Santa Maria dei Servi; ma i divoti che non poterono avere il gusto di arrostirlo vivo, vollero almeno soddisfarsi col metterlo in graticola dopo morto. Perciò tentarono ripetutamente il ratto del cadavere; ma i Serviti lo trassero dal sepolcro e lo occultarono di dietro all’altare dell’Addolorata. Nel 1722 nel rifabbricar esso altare fu scoperta la salma, e il popolo accorse a folla a venerare le reliquie di un uomo tenuto a Roma per eretico e a Venezia per santo. Chiuse in una cassa conveniente, con una iscrizione in pergamena, furono riposte al loro sito. Vent’anni dopo, nel rifarsi l’altare in pietra, che prima era di legno, furono levate di nuovo, indi riposte con nuova iscrizione in lamina di piombo.
Quando manca lo stimolo ad onorare i morti segno è che è mancata anco la virtù nei vivi. Dopo il 1740 quando la Santa Sede fu occupata da Benedetto XIV, che la tenne diciotto anni, la Repubblica non aveva più nulla a temere dalla corte di Roma; non perchè quel papa fosse meno papa degli altri, ma perchè conosceva il suo secolo, e fu il primo e probabilmente sarà anco l’ultimo fra i pontefici romani che abbia degnato di qualche elogio gli scritti di Frà Paolo e consigliatane la lettura, come Ganganelli consigliava un suo giovane allievo di leggere le Istorie di Pietro Giannone. Ma i Veneziani indifferenti alla memoria di un uomo che aggiunse tanto lustro alla patria loro, e il cui nome solo basterebbe a far superba una nazione intiera, non ne curavano più le reliquie; a tal che Grosley il quale visitò Venezia nel 1764 rimase attonito che cercando la tomba di Frà Paolo non trovò nè epitaffio nè indicazione.
Le sue ceneri giacquero ignote e direi quasi inonorate fino al 1828. Già da diciotto anni cogli altri frati erano stati soppressi anco i Serviti, e la loro chiesa fu convertita ad uso profano. Dovendosi infine demolire anco l’altare dell’Addolorata, le ossa del Sarpi furono levate a’ 2 giugno dell’anno suddetto e deposte nella Biblioteca di San Marco: a’ 15 novembre furono trasportate nella chiesa di S. Michele di Murano ed ivi sepolte entro un cassone di pietra d’Istria posto sotto il pavimento nel mezzo della chiesa tra la porta maggiore e l’ambulacro. Una lastra di bianco marmo greco fasciata di bardiglio porta scolpita la seguente epigrafe di Emanuele Cicogna:
ossa
PAVLI SARPII
theol. reip. venetae
ex aede servorum
huc translata
a. mdcccxxviii
decreto publico.
In quella occasione il professore Gaetano Ruggeri esaminando nel teschio se rimaneva ancora traccia della ferita riportata da Frà Paolo fino dal 5 ottobre 1607, fece le seguenti osserrazioni:
«Nell’osso parietale destro, vicinissima alla sutura per la quale si unisce quest’osso a quello della tempia, vedesi una fossetta irregolarmente triangolare, larga come un lupino, e cava poco più di quanto suol esserlo un buttero di vaiuolo; la quale è piena di una sostanza durissima, più lucente del resto, che non lascia conoscere tessitura fibrosa, nè laminosa. Da questo debbesi inferire che la fossetta sia il vestigio della ferita di stilo avventato alla testa, e la sostanza di cui venne riempiuta null’altro poter essere che il callo o condensamento della materia coagulativa qui deposto dalla natura per rifare la perdita dell’osso. Ma la ferita del parietale fu così vicina all’osso della tempia che l’orlo squamoso di questo vi venne un poco compreso, cosicchè ne fu screpolato in direzione perpendicolare, e ve ne manca un frustolo quanto sarebbe una paglia non più lunga di sette punti di linea, il quale non venne dal callo riparato, non permettendolo per avventura la troppa sottigliezza cui ha l’osso in quel sito. Ciò ancor più dimostra che il vestigio antidetto è proprio quello della pugnalata, e lo conferma maggiormente l’osservarsi che tutta la parte squamosa di quest’osso temporale che vi è contigua patì di infiammazione e divenne più grossa di quella del temporale sinistro; la quale infiammazione e fu l’effetto del male, e forse anco degli unguenti irritanti e delle teriache cui usarono quei medicanti che accorsero in frotta al letto di Frà Paolo, come le pecchie di Omero alle olle di latte».
Non potrei in buona regola chiudere la biografia di un frate celebre senza parlar di miracoli. Un miracolo è sempre una bella cosa, ed è la pietra di paragone con cui si conoscono i santi di buona lega.
I miracoli di Frà Paolo non sono come quelli di San Francesco Saverio che navigò dall’Indie al Giappone sul suo ferraiolo, o di Sant’Antonio che in pochi minuti corse da Lisbona a Padova volando per aria, o di San Simeone Stilita che ingravidò una sposa che aveva il marito impotente, o delle amorosissime luci della Madonna di Ancona che nel 1796 con inaudito portento si apersero alla vista di ottantamila testimoni oculari, siccome ne accerta l’abate Albertini, e le aperse anco alla presenza del general Bonaparte che non se ne accorse. Tai miracoli sono riservati a’ santi di un ordine superiore; ma Frà Paolo, fece anch’egli i suoi, e giova raccontarli.
Scoperte le sue ossa nel 1722, come già dissi, il popolo corse a folla, ruppe le sbarre che impedivano l’avvicinarsi all’altare, e chi col fazzoletto, chi coi guanti, chi con un lembo della veste, tutti vollero toccarlo e conservare la benedetta memoria. Credo che i frati non saranno stati pigri a mettere in mostra il bacile delle offerte; il vero è che in un momento corse voce di miracoli, e chi diceva di aver ricevuta la grazia, e chi d’averla veduta ricevere. Tra le altre una donnicciuola si vantò pubblicamente di essere stata guarita da una atrofia insanabile nella mano; il suo confessore attestava il miracolo, ella depose la verità in una carta consegnata ad perpetuam rei memoriam negli archivi del convento, e all’altare fu appeso il quadretto per grazia ricevuta. Il governo si compiaceva di queste innocenti superstizioni; e forse pensava che tanto vale credere ai miracoli dell’uno come a quelli dell’altro, quando tutti sono veri ad un modo; ma il nunzio papale, che vedeva in quale brutto imbroglio si sarebbe trovata la Sacra Congregazione dei Riti, mandò in giro i suoi emissari a screditare Santo Frà Paolo, fece levare di furto il quadretto dalla chiesa e adoperò ogni arte per carpire dalle mani del vicario patriarcale le carte che testificavano i miracoli. I quali a dispetto suo e della corte di Roma furono creduti e tramandati alla memoria dei posteri con una iscrizione; ed ha ragione il Padre Bergantini di dire, che se si fosse trattato di qualche altro santo o semi-santo c’era assai più che non è richiesto dall’uso per canonizzarlo, o beatificarlo almeno. Verbi grazia nel 1824 fu canonizzata un San Giuliano; e le prove della sua santità furono dedotte dal fatto seguente raccontato dal Diario di Roma. Ciò è che Giuliano entrando un venerdì in casa di un ghiottone che si mangiava delle allodole, il santo gli fece la bella burla di risuscitarle e farle volar fuori della finestra. Se meritano fede tali miracoli, e i miracoli ancora più bizzarri di Santa Filomena vergine e martire inventata nuovamente dai gesuiti, non so vedere perchè abbiasi a muovere difficoltà su quelli di Frà Paolo. Ma forse non sono egualmente ridicoli.