Bruto Secondo (Alfieri, 1946)/Atto quarto

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Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Cassio, Cimbro.

Cimbro Quant’io ti dico, è certo: uscir fu visto

Bruto or dianzi di quí; turbato in volto,
pregni di pianto gli occhi, ei si avviava
ver le sue case. Oh! potrebbe egli mai
cangiarsi?...
Cassio   Ah! no. Bruto ama Roma; ed ama
la gloria, e il retto. A noi verrá tra breve,
come il promise. In lui, piú che in me stesso,
credo, e mi affido. Ogni suo detto, ed opra,
d’alto cor nasce; ei della patria sola
l’util pondera, e vede.
Cimbro   Eccolo appunto.
Cassio Non tel diss’io?


SCENA SECONDA

Bruto, Cassio, Cimbro.

Bruto   Che fia? voi soli trovo?

Cassio E siam noi pochi, ove tu a noi ti aggiungi?
Bruto Tullio manca...
Cimbro   Nol sai? precipitoso

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ei con molti altri senatori usciva

di Roma or dianzi.
Cassio   Il gel degli anni in lui
l’ardir suo prisco, e la virtude agghiaccia...
Bruto Ma non l’estingue. Ah! niun Romano ardisca
il gran Tullio spregiar. Per esso io ’l giuro,
che a miglior uopo, a pro di Roma, ei serba
e libertade e vita.
Cassio   Oh noi felici!
Noi certi almen, siam certi, o di venirne
a onorata laudevole vecchiezza,
liberi; o certi, di perir con Roma,
nel fior degli anni.
Bruto   Ah! sí; felici voi!...
Nol son io, no; cui riman scelta orrenda
fra il morir snaturato, o il viver servo.
Cassio Che dir vuoi tu?
Cimbro   Dal favellar tuo lungo
col dittator, che ne traesti?
Bruto   Io?... nulla
per Roma; orrore e dolor smisurato
per me; stupor per voi, misto fors’anco
di un giusto sprezzo.
Cimbro   E per chi mai?
Bruto   Per Bruto.
Cimbro Spregiarti noi?
Cassio   Tu, che di Roma sei,
e di noi, l’alma?...
Bruto   Io son,... chi ’l crederia?...
Misero me!... Finor tenuto io m’era
del divin Cato il genero, e il nipote;...
e del tiranno Cesare io son figlio.
Cimbro Che ascolto? Esser potrebbe?...
Cassio   E sia: non toglie,
che il piú fero nemico del tiranno
non sia Bruto pur sempre: ah! Cassio il giura.

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Bruto Orribil macchia inaspettata io trovo

nel mio sangue; a lavarla, io tutto il deggio
versar per Roma.
Cassio   O Bruto, di te stesso
figlio esser dei.
Cimbro   Ma pur, quai prove addusse
Cesare a te? Come a lui fede?...
Bruto   Ah! prove,
certe pur troppo, ei mi adducea. Qual padre
ei da pria mi parlava: a parte pormi
dell’esecrabil suo poter volea
per ora, e farmen poscia infame erede.
Dal tirannico ciglio umano pianto
scendea pur anco; e del suo guasto cuore,
senza arrossir, le piú riposte falde,
come a figlio, ei mi apriva. A farmi appieno
convinto in fine, un fatal foglio (oh cielo!)
legger mi fea. Servilia a lui vergollo
di proprio pugno. In quel funesto foglio,
scritto pria che si alzasse il crudel suono
della tromba farsalica, tremante
Servilia svela, e afferma, ch’io son frutto
dei loro amori; e in brevi e caldi detti,
ella scongiura Cesare a non farsi
trucidator del proprio figlio.
Cimbro   Oh fero,
funesto arcano! entro all’eterna notte
che non restasti?...
Cassio   E se qual figlio ei t’ama,
nel veder tanta in te virtú verace,
nell’ascoltar gli alti tuoi forti sensi,
come resister mai di un vero padre
potea pur l’alma? Indubitabil prova
ne riportasti omai, che nulla al mondo
Cesare può dal vil suo fango trarre.
Bruto Talvolta ancora il ver traluce all’ebbra

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mente sua, ma traluce in debil raggio.

Uso in campo a regnare or giá molti anni,
fero un error lo invesca; ei gloria somma
stima il sommo poter; quindi ei s’ostina
a voler regno, o morte.
Cimbro   E morte egli abbia
tal mostro dunque.
Cassio   Incorreggibil, fermo
tiranno egli è. Pensa omai dunque, o Bruto,
che un cittadin di Roma non ha padre...
Cimbro E che un tiranno non ha figli mai...
Bruto E che in cor mai non avrá Bruto pace. —
Sí, generosi amici, al nobil vostro
cospetto io ’l dico: a voi, che in cor sentite
sublimi e sacri di natura i moti;
a voi, che impulso da natura, e norma,
pigliate all’alta necessaria impresa,
ch’or per compiere stiamo; a voi, che solo
per far securi in grembo al padre i figli,
meco anelate or di troncar per sempre
la tirannia che parte e rompe e annulla
ogni vincol piú santo; a voi non temo
tutto mostrare il dolore, e l’orrore,
che a brani a brani il cuor squarciano a gara
di me figlio di Cesare e di Roma.
Nemico aspro, implacabil, del tiranno
io mi mostrava in faccia a lui; né un detto,
né un moto, né una lagrima appariva
di debolezza in me; ma, lunge io appena
dagli occhi suoi, di mille furie in preda
cadeami l’alma. Ai lari miei men corro:
ivi, sicuro sfogo, alto consiglio,
cor piú sublime assai del mio, mi è dato
di ritrovar: fra’ lari miei la illustre
Porzia di Cato figlia, a Cato pari,
moglie alberga di Bruto...

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Cassio   E d’ambo degna

è la gran donna.
Cimbro   Ah! cosí stata il fosse
anco Servilia!
Bruto   Ella, in sereno e forte
volto, bench’egra giaccia or da piú giorni,
me turbato raccoglie. Anzi ch’io parli,
dice ella a me: «Bruto, gran cose in petto
«da lungo tempo ascondi; ardir non ebbi
«di domandarten mai, fin che a feroce
«prova, ma certa, il mio coraggio appieno
«non ebbi io stessa conosciuto. Or, mira;
«donna non sono». E in cosí dir, cadersi
lascia del manto il lembo, e a me discuopre
larga orribile piaga a sommo il fianco.
Quindi soggiunge: «Questa immensa piaga,
«con questo stil, da questa mano, è fatta,
«or son piú giorni: a te taciuta sempre,
«e imperturbabilmente sopportata
«dal mio cor, benché infermo il corpo giaccia;
«degna al fin, s’io non erro, questa piaga
«fammi e d’udire, e di tacer, gli arcani
«di Bruto mio».
Cimbro   Qual donna!
Cassio   A lei qual puossi
uom pareggiare?
Bruto   A lei davante io quindi,
quasi a mio tutelar Genio sublime,
prostrato caddi, a una tal vista; e muto,
piangente, immoto, attonito, mi stava. —
Ripresa poscia la favella, io tutte
l’aspre tempeste del mio cor le narro.
Piange al mio pianger ella; ma il suo pianto
non è di donna, è di Romano. Il solo
fato avverso ella incolpa: e in darmi forse
lo abbraccio estremo, osa membrarmi ancora,

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ch’io di Roma son figlio, a Porzia sposo,

e ch’io Bruto mi appello. — Ah! né un istante
mai non diedi all’oblio tai nomi, mai:
e a giurarvelo, vengo. — Altro non volli,
che del mio stato orribile accennarvi
la minor parte; e d’amistá fu sfogo
quant’io finora dissi. — Or, so; voi primi
convincer deggio, che da Roma tormi,
né il può natura stessa... Ma, il dolore,
il disperato dolor mio torrammi
poscia, pur troppo! e per sempre, a me stesso.
Cimbro Romani siamo, è ver; ma siamo a un tempo
uomini; il non sentirne affetto alcuno,
ferocia in noi stupida fora... Oh Bruto!...
Il tuo parlar strappa a me pure il pianto.
Cassio Sentir dobbiam tutti gli umani affetti;
ma, innanzi a quello della patria oppressa,
strazíata, e morente, taccion tutti:
o, se pur parlan, l’ascoltargli a ogni uomo,
fuor che a Bruto, si dona.
Bruto   In reputarmi
piú forte e grande ch’io nol son, me grande
e forte fai, piú ch’io per me nol fora. —
Cassio, ecco omai rasciutto ho il ciglio appieno. —
Giá si appressan le tenebre: il gran giorno
doman sará. Tutto di nuovo io giuro,
quanto è fra noi giá risoluto. Io poso
del tutto in voi; posate in me: null’altro
chieggo da voi, fuor che aspettiate il cenno
da me soltanto.
Cassio   Ah! dei Romani il primo
davver sei tu. — Ma, chi mai vien?...
Cimbro   Che veggio?
Antonio!
Bruto   A me Cesare or certo il manda.
State; e ci udite.

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SCENA TERZA

Antonio, Cassio, Bruto, Cimbro.

Anton.   In traccia, o Bruto, io vengo

di te: parlar teco degg’io.
Bruto   Favella:
io t’ascolto.
Anton.   Ma, dato emmi l’incarco
dal dittatore...
Bruto   E sia ciò pure.
Anton.   Io debbo
favellare a te solo.
Bruto   Io quí son solo.
Cassio, di Giunia a me germana è sposo;
del gran Caton mio suocero, l’amico
era Cimbro, e il piú fido: amor di Roma,
sangue, amistá, fan che in tre corpi un’alma
sola siam noi. Nulla può dire a Bruto
Cesare mai, che nol ridica ei tosto
a Cassio, e a Cimbro.
Anton.   Hai tu comun con essi
anco il padre?
Bruto   Diviso han meco anch’essi
l’onta e il dolor del tristo nascer mio:
tutto ei sanno. Favella. — Io son ben certo,
che in se tornato Cesare, ei t’invia,
generoso, per tormi or la vergogna
d’esser io stato d’un tiranno il figlio.
Tutto esponi, su dunque: aver non puoi
del cangiarsi di Cesare sublime,
da re ch’egli era in cittadin, piú accetti
testimon mai, di questi. — Or via, ci svela
il suo novello amore alto per Roma;
le sue per me vere paterne mire;
ch’io benedica il dí, che di lui nacqui.

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Anton. — Di parlare a te solo m’imponeva

il dittatore. Ei, vero padre, e cieco
quanto infelice, lusingarsi ancora
pur vuol, che arrender ti potresti al grido
possente e sacro di natura.
Bruto   E in quale
guisa arrendermi debbo? a che piegarmi?...
Anton. A rispettare e amar chi a te diè vita:
ovver, se amar tuo ferreo cuor non puote,
a non tradire il tuo dover piú sacro;
a non mostrarti immemore ed indegno
dei ricevuti benefizj; in somma,
a mertar quei, ch’egli a te nuovi appresta. —
Troppo esser temi uman, se a ciò ti pieghi?
Bruto Queste, ch’or vuote ad arte a me tu dai,
parole son; stringi, e rispondi. È presto
Cesare, al dí novello, in pien senato,
a rinunziar la dittatura? è presto
senza esercito a starsi? a scior dal rio
comun terror tutti i Romani? a sciorne
e gli amici, e i nemici, e in un se stesso?
a render vita alle da lui sprezzate
battute e spente leggi sacrosante?
a sottoporsi ad esse sole ei primo? —
Questi son, questi, i benefizj espressi,
cui far può a Bruto il genitor suo vero.
Anton. Sta bene. — Altro hai che dirmi?
Bruto   Altro non dico
a chi udirmi non merta. — Al signor tuo
riedi tu dunque, e digli; che ancor spero,
anzi, ch’io credo, e certo son, che al nuovo
sole in senato utili cose ed alte,
per la salvezza e libertá di Roma,
ei proporrá: digli, che Bruto allora,
di Roma tutta in faccia, a’ piedi suoi
cadrá primier, qual cittadino e figlio;

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dove pur padre e cittadino ei sia.

E digli in fin, ch’ardo in mio core al paro
di far riviver per noi tutti Roma,
come di far rivivere per essa
Cesare...
Anton.   Intendo. — A lui dirò quant’io,
(pur troppo invan!) gran tempo è giá, gli dissi.
Bruto Maligno messo, ed infedel, ti estimo,
infra Cesare e Bruto: ma, s’ei pure
a ciò te scelse, a te risposta io diedi.
Anton. Se a me credesse, e all’utile di Roma,
Cesare omai, messo ei non altro a Bruto
dovria mandar, che coi littor le scuri.


SCENA QUARTA

Bruto, Cassio, Cimbro.

Cimbro Udiste?...

Cassio   Oh Bruto!... il Dio tu sei di Roma.
Cimbro Questo arrogante iniquo schiavo, anch’egli
punir si debbe...
Bruto   Ei di nostr’ira, parmi,
degno non fora. — Amici, ultima prova
domane io fo: se vana ell’è, promisi
io di dar cenno, e di aspettarlo voi:
v’affiderete in me?
Cassio   Tu a noi sei tutto. —
Usciam di quí: tempo è d’andarne ai pochi
che noi scegliemmo; e che a morir per Roma
doman con noi si apprestano.
Bruto   Si vada.